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L’evoluzionista riluttante di David Quammen
S colaresche ciarliere, turisti provenienti da tutto il mondo, bambine e bambini che sfuggono dalle mani dei genitori, impazienti di ciò che li attenderà. Nonostante il caos, l’ingresso del Natural History Museum di Londra mantiene la sua solennità, in un’atmosfera che si manifesta appieno quando la visitatrice o il visitatore alza lo sguardo al di sopra della scalinata, lì dove sorge la statua di Charles Darwin. Terminato dallo scultore Joseph Edgar Boehm nel 1885, tre anni dopo la morte dello studioso, questo monumento celebra “uno di quei rari ministri e interpreti della natura i cui nomi segnano epoche nel progresso della conoscenza naturale”, come lo descriveva Thomas Huxley, a quel tempo presidente della Royal Society, che forse ricordava ancora il peso del feretro sorretto durante i funerali. Le emozioni evocate dal marmo candido e dalla cifra neoclassica dell’opera si diradano man mano che ci si avvicina alla scultura. Le gambe incrociate, una mano che stringe le dita dell’altra, gli occhi che guardano altrove. Si coglie una particolare inquietudine, la stessa rivelata nelle pagine di L’evoluzionista riluttante. Il ritratto privato di Charles Darwin e la nascita della teoria dell’evoluzione dello scrittore e divulgatore scientifico David Quammen, libro apparso per la prima volta nel 2008 e ripubblicato nel 2025 con un’introduzione di Telmo Pievani. > Quammen lascia da parte le peripezie di Darwin in viaggio sul Beagle, per > condurci attraverso un’avventura meno nota e più privata: la lunga e > tormentata elaborazione della sua teoria e del volume che la portò nel mondo. Quammen racconta di essere stato inizialmente poco convinto della necessità di imbarcarsi nella scrittura di una nuova biografia su Charles Darwin: chi lo aveva preceduto ‒ tra cui Janet Browne con i suoi due tomi Charles Darwin: Voyaging e Charles Darwin: The Power of Place, e Adrian Desmond e James Moore con Darwin: The Life of a Tormented Evolutionist ‒, aveva già ampiamente trattato la vita e le opere del padre della teoria dell’evoluzione. L’editore James Atlas fugò i dubbi dello scrittore replicando che le biografie precedenti avrebbero dovuto essere la sua fonte e non i suoi potenziali concorrenti. Ciò che gli chiedeva era un saggio conciso e letterario, più che didattico. Atlas ebbe una buona intuizione. L’evoluzionista riluttante lascia da parte le peripezie di Darwin in viaggio sul Beagle, per condurci attraverso un’altra avventura: l’elaborazione della sua teoria e la scrittura e pubblicazione di L’origine delle specie, la cui prima edizione vide la luce nel 1859. L’autore non ci trascina in una serie di date, luoghi ed eventi: ci accompagna in un’indagine interiore basata su numerose fonti, tra cui i corposi scambi epistolari e gli scritti personali. Il libro è suddiviso per intervalli temporali: parte dal 1837, poco dopo il ritorno a Londra dalla spedizione nell’Oceano Pacifico, quando Darwin era ancora un giovanotto “ambizioso, intellettualmente ridestatosi da una post-adolescenza sonnolenta e animato da grandi aspettative”, per arrivare all’anno della sua morte, il 1882, con una moglie, dieci figli, una logorante stanchezza e sei edizioni del libro che cambiò per sempre la nostra conoscenza e percezione della vita sulla Terra. A differenza del monumento di cui sopra, il Charles Darwin svelato dalla penna di David Quammen è tutt’altro che solido e forte, ma al pari di una statua ‒ e di qualsiasi essere umano ‒ mostra luci e ombre. > L’idea che Darwin covava non era solo rivoluzionaria, per l’epoca, era anche > pericolosa: non esisteva alcun disegno superiore, l’universo era governato da > leggi, non dal capriccio divino, e la trasmutazione delle specie per selezione > naturale è una di queste. Tra le parole dell’opera scorgiamo un uomo ambizioso in preda a insicurezze e ansie, generoso e calcolatore, razionale ma pronto a credere alla pseudomedicina, riservato e al contempo in cerca di gloria. Una tempesta interiore che lo consumerà a fondo per oltre quarant’anni, tanto che fino alla fine dei suoi giorni soffrirà di tachicardia, nausea, accessi di vomito, mal di testa e di “una flatulenza fuori dalla norma”. La sua carriera cominciò nel 1837, prima come geologo e scrittore, poi allargandosi alle scienze naturali. Durante questi anni, in cui gli vennero tributati i primi riconoscimenti da parte della comunità scientifica e che trascorse all’insegna di una certa mondanità (che abbandonò piuttosto presto), covò segretamente un’idea pericolosa e rivoluzionaria. Davanti all’estrema varietà di animali che aveva osservato e che stava studiando, non poté più mentire a sé stesso. Non c’era nessun “orologiaio”, come supposto dalla teologia naturale di William Paley, nessun architetto aveva progettato gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta. Già altri avevano ipotizzato che le specie non fossero immutabili, in questo caso, però, si trattava di compiere un passo ulteriore. Come scrive Quammen: “L’idea che Darwin stava suggerendo andava oltre la selezione naturale: l’universo è governato da leggi, non dal capriccio divino, e la trasmutazione delle specie per selezione naturale altro non è che una di queste leggi”. Lo stesso Darwin confidò al botanico Joseph Dalton Hooker, suo amico e collaboratore, che affermare che le specie mutassero nel tempo sarebbe equivalso a confessare di avere commesso un assassinio. Aveva ragione: in questo modo stava uccidendo Dio e, soprattutto, quell’afflato divino che separa l’essere umano dagli altri animali. È questo il motivo per cui Charles Darwin impiegò più di vent’anni per condividere le sue scoperte? > Darwin sapeva che affermare che le specie mutassero nel tempo equivaleva a > confessare un assassinio: quello di Dio, e dell’afflato divino che a lungo > aveva separato l’essere umano dagli altri animali. Quammen vaglia le diverse ipotesi e lo fa osservando da vicino la vita del naturalista inglese. L’autore ci mostra Darwin mentre annota le proprie idee sui piccoli taccuini che nasconde nella giacca, oppure durante le attività quotidiane, impegnato a inviare lettere a colleghi, conoscenti e perfetti sconosciuti per raccogliere campioni e informazioni provenienti da tutto il mondo. Per pagine e pagine ci troviamo a seguire il protagonista lungo gli anni di attenta ed estenuante classificazione dei cirripedi, una sottoclasse di Crostacei tra cui ci sono i più conosciuti balani. Quello che poteva sembrare un lavoro noioso e di poca rilevanza, è stato in realtà un allenamento fondamentale per imparare a osservare le innumerevoli variazioni tra popolazioni di questi strani animali e capire quanto la tassonomia fosse una questione di genealogia e non di metafisica; inoltre contribuì ad accrescere l’autorevolezza dell’autore, cosa fondamentale quando si è sul punto di proporre una teoria rivoluzionaria. Ma Quammen non si limita a raccontare uno scienziato: Charles Darwin è anche un marito innamorato che non vuole ferire con il proprio materialismo la cattolicissima moglie, e cugina, Emma Wedgwood; è un padre addolorato che perde Annie, la figlia prediletta, a soli dieci anni; è un uomo curioso che ama le piccole cose, come la quotidianità in campagna, la routine e una manciata di tabacco da fiuto. > Se il Darwin naturalista aveva una motivazione scientifica per non credere in > un dio, il Darwin uomo covava una convinzione più intima: un essere divino non > potrebbe permettere che una bambina di dieci anni muoia tra atroci sofferenze, > come era successo alla sua Annie. In un gioco di incastri, cause ed effetti, l’autore mostra come le scelte professionali di Darwin debbano molto alle sue vicissitudini e al suo temperamento. La sua riluttanza era alimentata dall’insicurezza, dal desiderio di tranquillità, dal timore di mandare in frantumi un confortevole status quo. Finché la paura di perdere la pace non si trasformò nel terrore di essere superato, quando Alfred Russell Wallace, commerciante di animali di umili origini e fondatore della biogeografia, mostrò di essere quasi giunto alle sue stesse conclusioni. E se il Darwin naturalista aveva una motivazione scientifica per non credere in un dio, il Darwin uomo covava una convinzione più intima: un essere divino non potrebbe permettere che una dolce bambina muoia soffrendo, come era accaduto ad Annie. Darwin confermerà questa sua riflessione anche nella lettera del 1860 indirizzata al botanico Asa Gray: > Io non riesco a vedere, con la stessa semplicità di altri, le prove del > disegno e della benevolenza divini tutt’attorno a noi. Mi sembra che nel mondo > vi sia troppa miseria. Non riesco a persuadermi del fatto che un Dio benevolo > e onnipotente abbia creato di proposito gli Ichneumonidae con la precisa > intenzione che si nutrissero del corpo dei bruchi ancora vivi, divorandolo > dall’interno, o che un gatto dovesse giocare con i topi. Se siamo qui ancora oggi a parlare di Charles Darwin è anche perché, come ricorda David Quammen, c’è ancora molta strada da fare nella comprensione pubblica dell’evoluzione. Raccontare Darwin non significa solo esercitare la memoria storica, ma è un modo efficace per rendere accessibili i meccanismi dell’evoluzione a chi ancora non li conosce o non li accetta pienamente. Se diamo uno sguardo ai sondaggi aggiornati al 2024 dell’organizzazione statunitense GallUp, una parte consistente degli americani intervistati non crede nella teoria dell’evoluzione: il gruppo più ampio, che si attesta al 37% dei partecipanti, è quello dei “creazionisti puri”, convinti che Dio abbia creato gli esseri umani nella forma attuale negli ultimi 10.000 anni, il 34% crede che l’evoluzione sia stata guidata dalla divinità e il 24% accetta che gli esseri umani si siano evoluti da altre forme di vita nel corso di milioni di anni, senza il coinvolgimento divino. In Europa la situazione è differente, con il 74% dei partecipanti a una ricerca della BBVA Foundation secondo cui gli esseri umani si sono evoluti a partire da specie animali precedenti e il rimanente 26% che afferma che siamo stati creati da Dio più o meno nella forma odierna. > Leggere la storia di Charles Darwin oggi non significa solo esercitare la > memoria storica, è anche un modo efficace per rendere accessibili i meccanismi > dell’evoluzione a chi ancora non li conosce, o non li accetta pienamente. Eppure, leggendo L’evoluzionista riluttante, diventa chiaro che l’importanza della storia di Charles Darwin risiede proprio, come evidenzia Telmo Pievani nella sua introduzione, in quella coralità presa in prestito dallo scrittore e drammaturgo William Faulkner, che rende ai nostri occhi evidente l’impresa scientifica come opera umana e collettiva. È il procedere per prove ed errori, il confronto, il vaglio della comunità scientifica, la curiosità, l’ambizione, il progresso che modifica e amplia le conoscenze tanto faticosamente conquistate. “Nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes”, siamo come nani sulle spalle dei giganti, sosteneva nel Medioevo Bernardo di Chartres (ripreso da Isaac Newton secoli dopo). Tornando con la mente alle sale del Natural History Museum di Londra e immaginando di dare le spalle alla statua di Darwin, la vastità e la varietà delle collezioni e il numero delle persone che quotidianamente le visitano rendono palpabile questa eredità comune. Da questa prospettiva risuonano le parole che chiudono L’origine delle specie: > Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue molte > capacità, che inizialmente fu data a poche forme o ad una sola e che, mentre > il pianeta seguita a girare secondo la legge immutabile della gravità, si è > evoluta e si evolve, partendo da inizi così semplici, fino a creare infinite > forme estremamente belle e meravigliose. L'articolo L’evoluzionista riluttante di David Quammen proviene da Il Tascabile.
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Donnaregina di Teresa Ciabatti
L’ Italia ha trasformato radicalmente negli ultimi trent’anni il proprio rapporto con il crimine organizzato. Si è infatti passati da una forma di totale rimozione, di omertà, a una forma di narrazione estesa, frutto certamente del coraggio di chi ha saputo raccontare la mafia andando oltre la stretta cronaca, definendone i confini sociali e antropologici, ma anche dei mutamenti generati dalle stragi di Capaci e di Via d’Amelio a Palermo. Quelle stragi, figlie di una strategia inedita da parte della mafia, hanno prodotto una reazione civile, ma soprattutto un mutamento emotivo nella società. La mafia, la camorra e il crimine organizzato in generale riflettono infatti un carattere più ampio da cui nessuno si può sentire realmente escluso. Non si tratta più solo del fare crimine, ma di una visione della società e di una cultura nazionale da cui nessun camorrista o mafioso è estraneo, ma di cui anzi è parte fondante nel concepire la propria struttura gerarchica, la propria famiglia, ma anche nell’essere parte dell’elaborazione di quella idea di società civile che coinvolge evidentemente ogni cittadino. > In Donnaregina la pratica è quella di una poetica romanzesca con cui Ciabatti > scioglie una biografia in un’autobiografia, esaltando le contraddizioni del > criminale e affiancandole alla complessità narcisistica e tormentata > dell’autrice. Il crimine organizzato non è una struttura separata e autarchica, ma è una ramificazione che arriva idealmente a toccare ognuno di noi stringendoci in un legame di comune ‒ per quanto rada e ovviamente riluttante ‒appartenenza. Ed è tentando di coniugare un’idea di scrittura con un’idea di sé stessa che Teresa Ciabatti accetta di raccontare la vita di uno dei più temibili boss della camorra napoletana, Giuseppe Misso e lo fa costruendo una vera e propria inchiesta giornalistica fatta di continui colloqui con il boss e di ricerche sul passato, a partire da una scoperta di Napoli da lei mai visitata prima. Questa almeno è l’apparenza con cui si presenta il romanzo Donnaregina (2025), in realtà la pratica è quella di una poetica romanzesca con cui Teresa Ciabatti, come pochi, scioglie una biografia in un’autobiografia, esaltando le contraddizioni del criminale e affiancandole alla complessità narcisistica e tormentata dell’autrice. “Che senso ha ricostruire un’epopea attraverso un unico sguardo? Cosa ne esce se non una contraffazione di seconda mano? Va bene ‒ rifletto ‒ fra noi si è ingaggiata una lotta di rappresentazione, io che tento di portare Misso a me, Misso che pretende di essere raccontato a modo suo, io che forzo da una parte, lui dall’altra. Il ritratto finale sarà il risultato delle due spinte”. In realtà non c’è mai partita, perché le due spinte sono afferenti entrambe alla medesima visione di Ciabatti. Ogni tentativo di Misso di riportare il discorso all’interno anche di una ‒ per quanto critica ‒ mitologia criminale, decade di fronte allo sguardo dell’autrice la cui forza immaginativa è potentemente superiore e in grado di assorbire anche l’eccezionalità tragica e violenta di cui è fatta la vita del boss napoletano. La lotta, per Teresa Ciabatti, è sempre tra sé e sé, tra la propria volontà e l’accettazione della medesima. La domanda che sottende tutto il romanzo è dunque: “Sarò in grado?”. Una messa in discussione di sé continua e ossessiva che porta il lettore all’interno di una doppia narrazione, in cui la vita del camorrista diviene strumentale: all’esperienza del raccontarla, al corpo di una scrittrice e di una madre in crisi, e dunque sull’orlo di un fallimento eclatante, come di una salvezza però sempre resa possibile pagina dopo pagina. Teresa Ciabatti muove la propria narrazione con frenetica inquietudine, ma più offre incertezza, più riesce a convincere il lettore proiettandolo all’interno di una vicenda che assume con straordinaria leggerezza i toni della commedia come della tragedia. Donnaregina ha la sua forza nell’opporre a una vita da raccontare che si presume violenta ed eccezionale, seducente e criminale, una vita nel suo svolgersi che coinvolge la narratrice e le sue amiche e in particolare sua figlia, una giovane adolescente in crisi. L’autrice è così combattuta tra l’incapacità di saper scrivere di camorra e l’incapacità di essere una buona madre, oltre al sempre eterno complesso (di un’intera generazione) di essere una figlia incapace. Quest’ultimo punto di crisi vede l’autrice in perenne conflitto con il fratello per la casa di famiglia di Orbetello, ormai disabitata e dai costi di gestione insostenibili per entrambi: “Malgrado lui taccia, immagino i pensieri, o comunque gli attribuisco dei pensieri precisi: mio marito e mia figlia non mi sopportano, mio marito appena può parte, mia figlia…”. > Ciabatti muove la propria narrazione con frenetica inquietudine, ma più offre > incertezza, più riesce a convincere il lettore proiettandolo all’interno di > una vicenda che assume con straordinaria leggerezza i toni della commedia come > della tragedia. Ciabatti utilizza questo caos emotivo che scivola e s’intreccia per offrire ai lettori una drammaturgia del contemporaneo efficacissima in cui anche un boss di camorra appare destrutturato e privo di quell’aura criminale e di quella solidità che la categoria sociale di boss dovrebbe garantirgli. Quella di Ciabatti è una vera e propria traversata del deserto da cui non si punta a uscire migliori di prima, ma più semplicemente ancora vivi e soprattutto ancora capaci di fidarsi di sé e delle proprie scelte. Attorno è vivida la figura di M (presumibilmente Michela Murgia) che consiglia da una distanza emotiva rassicurante e al tempo stesso trasgressiva, invitando l’autrice a osare, fidandosi finalmente e subito dei propri desideri. Donnaregina in poco più di duecento pagine è effettivamente la biografia del boss Giuseppe Misso e del rapporto con il figlio omosessuale, dato che contiene una doppia trasgressione all’interno delle regole dei clan criminali (e non), ma è anche soprattutto la storia di una scrittrice e del suo senso d’inadeguatezza. Un sentimento che può essere annichilente, ma che Ciabatti utilizza per esplorare ogni aspetto della propria vita, a partire dalla relazione con la figlia, ma anche quella con il marito, il fratello e dunque con il padre e la madre. Ciabatti prende in mano queste pietre sparse lucidandole una a una, fino a ritrovarne quel valore per lei inestimabile. Un romanzo e una biografia, che contiene anche un saggio di scrittura, che diviene inevitabilmente il racconto di una rinascita: quello di una figlia e di una madre che decide finalmente di fare come crede e come testa comanda: “Il padre mi ripassa il telefono, ci salutiamo, buonanotte, cerca di dormire ‒ siamo ossessionati dal sonno di nostra figlia, quando dorme non può succedere niente. In questo tempo di attesa non scrivo. Lo chiamo tempo di attesa, mai di dolore”. Uno spazio necessario alla rivoluzione, a un pensiero che si fa pratica e dunque liberazione. > Ciabatti offre ai lettori una drammaturgia del contemporaneo efficacissima in > cui anche un boss di camorra appare destrutturato e privo di quell’aura > criminale e di quella solidità che la categoria sociale di boss dovrebbe > garantirgli. Donnaregina corre pagina dopo pagina, denso di una leggerezza davvero calviniana perché estremamente precisa, esatta e pulita. Una narrazione che offre una facilità di lettura, ma senza nasconderne la complessità, che anzi è discussa nelle medesime pagine. Scrivere e vivere, vivere e morire, uccidere e tornare a vivere. Ciabatti affronta evidentemente nodi cruciali, ma lo fa senza scegliere le scorciatoie di un genere o di un testo che sfugga a una sincera appartenenza. L’autrice mette a fuoco ogni cosa, sia nel senso di bruciare tutto quanto le finisce tra le mani, sia nel senso di focalizzare con precisione paura e coraggio. Perché di questo infine racconta il romanzo, non tanto di chi vorremmo essere e di come si è tragicamente lontani dall’esserlo, ma di chi si è e della paura che fa saperlo, così come del coraggio che serve ogni giorno per essere sé stessi fino in fondo. L'articolo Donnaregina di Teresa Ciabatti proviene da Il Tascabile.
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