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Infrastrutture e miraggi
F ingere è il primo passo. Per cosa? Be’, per tutto. Per diventare ricchi ad esempio. È il consiglio (non richiesto) che mi arriva da un imprenditore abbronzato, uno di quei tizi che imperversano sui social network per vendere corsi su come fare i soldi, ma che qualche dritta sono disposti a darla gratis in reel che, nelle mie sessioni di scrolling, puntualmente spuntano contro la mia volontà (ma con, temo, la mia complicità: come tutti sono curioso verso ciò che mi ripugna e su quei reel finisco per soffermarmi un po’ troppo; l’algoritmo conosce questa mia debolezza e colpisce). A questo giro il trucco che il guru del business ha voglia di condividere è di non aspettare di aver fatto i soldi per vivere da ricco (lui dice “per upgradare la tua vita”): vola in prima classe, mangia in ristoranti stellati, vai a vivere dove vuoi senza badare all’affitto, in questo modo ingannerai il tuo cervello, lo “setterai” sulla ricchezza e lavorerà meglio per farti diventare ricco davvero. “Sembra più un trucco per diventare molto poveri”, scrive qualcuno di poca fede nei commenti. Facile fare ironia su questa filosofia cialtronesca da social, ma in fondo non è che una estremizzazione fino al ridicolo del sottotesto di tante storie di successo che ci piace sentir raccontare: prima di tutto c’è un sogno, una illusione da coltivare, poi arriva la realizzazione. Nel frattempo meglio rimuovere o tenere ai margini il pensiero di quanto potrebbe essere doloroso il risveglio. In alcuni contesti illudere sé stessi e gli altri pare essere il requisito necessario anche solo per sedersi al tavolo e provare a vincere qualcosa. In L’ultima acqua (2025) di Chiara Barzini c’è questo momento in cui l’autrice fa tappa a New York prima di andare a Los Angeles per cominciare una indagine per un libro – lo stesso che stiamo leggendo – intorno al sistema idrico della città. Va a cena con lo scrittore e leggenda del New journalism Guy Telese che per lei ha un solo consiglio su come fare ricerche in California: “Non affittare mai macchine di merda. Scegli sempre l’auto più costosa, soprattutto se non te la puoi permettere”. Il possibile successo futuro dipende dalla capacità di fingere un successo già presente. Soprattutto in California. Soprattutto a Los Angeles: città, chiosa Barzini, in cui per lavorare bene “bisogna vivere nel miraggio della grandezza, nell’illusione del controllo”. L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la rielaborazione personale di un proprio disincantamento, del lavoro che bisogna fare per ritrovare un equilibrio quando il miraggio svanisce. Il libro di Chiara Barzini, infatti, è un saggio pienamente letterario, e in quanto tale ha al suo centro l’indagine su un oggetto molto concreto e definito (l’acquedotto di Los Angeles, progettato da William Mulholland e inaugurato nel 1913, che trasformò la città degli angeli e le permise di prosperare), usato come perno intorno a cui si dispiega la libertà concessa dal genere dell’essai per muoversi in direzioni diverse. > L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una > riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su > illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la > rielaborazione personale di un proprio disincantamento. Sfruttando questa libertà l’autrice costruisce sostanzialmente tre livelli di discorso che si alternano e si integrano a vicenda. C’è un livello informativo: la storia dell’impresa di Mulholland e della sua vita, la spiegazione di come funziona l’acquedotto e soprattutto della sua importanza per l’esistenza della Los Angeles che conosciamo. Questa parte è innescata da un vecchio libro ricevuto in regalo – un dettagliato dossier sulla costruzione dell’acquedotto firmato dallo stesso Mulholland – e si sviluppa come la cronaca di un viaggio lungo l’immensa infrastruttura, con qualche deviazione in luoghi direttamente o anche solo tematicamente legati a essa, dove il libro spesso e volentieri prende l’andamento del reportage narrativo. C’è poi un livello puramente autobiografico: una sottotrama del libro riguarda il progetto di un film tratto da un romanzo dell’autrice e da lei stessa sceneggiato che dovrebbe venire diretto da un grande regista hollywoodiano (che nelle pagine del libro è chiamato semplicemente “il Regista”), ma sulla cui effettiva realizzazione iniziano ad allungarsi dei dubbi. Un terzo livello lo potremmo definire metaforico, perché è dove l’acqua di Los Angeles diventa simbolo di qualcosa di più grande: un’illusione di abbondanza illimitata che nasconde le contraddizioni su cui si fonda.  In una catena di sineddochi, si parla dell’acquedotto di Mulholland per parlare di Los Angeles, per parlare degli Stati Uniti, per parlare di un Occidente che fa sempre più fatica a procrastinare il momento in cui dovrà fare i conti con il venir meno dei miraggi su cui per decenni ha fondato la propria tranquillità (la presa di coscienza di una “Era delle grandi speranze” che si capovolge in una “Era dei grandi limiti” – citando lo scrittore e ambientalista Marc Reisner – è uno dei refrain del libro). Ma finché si constata che un saggio letterario è composto da materiali e discorsi eterogenei, si resta nell’ovvio. La vera arte saggistica sta tutta nel come si combinano e si mescolano insieme i livelli diversi, andando a creare una coerenza e una unità che, per quanto sia arbitraria nei fatti (si può parlare dell’acquedotto di Los Angeles senza accompagnare riflessioni sui miraggi dell’Occidente, e certamente senza fare autobiografia), appare necessaria nell’ecosistema costruito dal saggio. Barzini si dimostra molto abile nel padroneggiare questo gioco di prestigio che è il cuore della scrittura saggistica. Interessante, quindi, è provare ad analizzare come il gioco funziona in L’ultima acqua, con quali strategie i diversi livelli che dicevamo vengono fatti collidere e sovrapporre fino a diventare inseparabili. > In una catena di sineddochi, si parla dell’acquedotto di Mulholland per > parlare di Los Angeles, per parlare degli Stati Uniti, per parlare di un > Occidente che fa sempre più fatica a procrastinare il momento in cui dovrà > fare i conti con il venir meno dei miraggi su cui ha fondato la propria > tranquillità. Poco fa parlavamo della sineddoche come una delle modalità che lega insieme diversi piani del libro. Ora, la sineddoche è una figura di pensiero molto efficace nell’ottica di un saggio, ma anche pericolosa da maneggiare, perché sempre sospettabile di eccessiva arbitrarietà: come mai parlare proprio di quella parte per parlare di quel tutto? Come mai parlare proprio di Los Angeles per parlare delle illusioni di un’intera civiltà? La risposta è tanto più convincente in quanto non è mai data esplicitamente, ma lasciata solo affiorare. Intanto perché Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di illusioni a uso e consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si rivela il vero tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che c’è dietro il miraggio. Perché Hollywood non è solo la “fabbrica dei sogni”, ma anche – come scrive Jerry Stahl – la “manifattura della frustrazione”. Il mondo del cinema crea attorno a sé anche una distesa di aspirazioni fallimentari: dietro ai sogni abbaglianti venduti da chi ce l’ha fatta c’è l’interminabile striscia di sconfitte e amarezze di chi da quelle fantasie è stato sedotto ma non è riuscito a realizzarle. Non per nulla la parabola di speranza e disincanto della parte autobiografica del libro ruota intorno a un film che forse non si farà. Ma Los Angeles è per eccellenza una città fondata sui miraggi anche e soprattutto per la sua paradossale natura di metropoli in mezzo al deserto. L’autrice se ne rende conto durante l’adolescenza (e torniamo di nuovo al livello autobiografico) trascorsa appunto a Los Angeles: > “Deserto” era la parola che usava mio padre per spiegare perché le bollette > della luce erano così alte, perché la pelle ci diventava così secca, perché > faceva caldo di giorno e freddo di notte, perché gli irrigatori si attivavano > in continuazione. Il deserto era una condizione preesistente, qualcosa che non > sarebbe mai andato via. Il deserto era un dato di fatto. Ti faceva svenire, ti > rendeva debole, era il rumore implacabile di uno spazio vuoto che era stato > erroneamente riempito di mille cose fuori luogo. Il deserto è la realtà, il dato “preesistente” che la città con le sue “mille cose fuori luogo” e le sue illusioni tende a rimuovere, a seppellire, a spingere ad un livello subliminale. E che pure resta lì e continua a segnalare la sua irriducibile esistenza nelle bollette, negli svenimenti, negli irrigatori che non si possono fermare altrimenti il miraggio non potrebbe durare. > Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di illusioni a uso e > consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si rivela il vero > tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che c’è dietro il > miraggio. Sì, perché la forza magica che alimenta l’illusione che quel deserto sia un luogo abitabile e addirittura confortevole per milioni di persone è l’acqua, l’abbondanza d’acqua resa disponibile dall’acquedotto progettato William Mulholland. Per come è raccontata nel libro l’impresa di Mulholland, l’acquedotto lungo 360 chilometri che trasporta l’acqua dalla Owens Valley nella Sierra Nevada fino a Los Angeles, è un capolavoro ingegneristico ma anche un incantesimo. Un miracolo che Mulholland (come rivela il manuale sulla costruzione dell’acquedotto ricevuto in regalo dall’autrice) rende possibile soprattutto grazie alla fede nel suo sogno, pensando a quell’acqua che doveva essere portata come se ci fosse già (“A pagina 20 si parlava dell’arrivo dell’acqua a Los Angeles come se fosse già accaduto”), e che realizzandolo trasmette quel modo di pensare e di desiderare a tutta la città: > Il sistema di trasporto idrico più lungo del mondo è completo. Scompare > l’inquietudine, scompare la povertà, scompare il deserto. Una soprano intona > un’ode Hail the Water, e Los Angeles cade in un maestoso incantesimo che si > protrae per decenni. Mullholland, con il volto scavato e gli occhi spiritati, > è riuscito a creare l’illusione più grande e potente di tutte. Ecco a tutti > una città magica in cui si può far apparire tutto ciò che si desidera. > L’incantesimo è un clic di tastiera ante litteram, il germe seduttivo del > capitalismo più sfrenato. Ma le illusioni, dicevamo, hanno sempre un negativo. Se l’opera di Mulholland da un lato è un miracolo, dall’altro non può che essere un patto col diavolo, con tutte le clausole nascoste del caso: > Pronunciando il suo incantesimo, ha stretto un patto pericoloso. Qualcosa di > diabolico si stava insinuando nella città degli angeli. La terra arida stava > per essere fecondata da un seme che l’avrebbe trasformata per sempre. Di lì a > poco sarebbe nato un bambino meticcio, un po’ angelo, un po’ diavolo. Il > “magnifico specchio d’acqua” che aveva inondato la piattaforma di Mulholland > era lo stesso che sarebbe stato sacrificato ai posteri. Da quel giorno ci > sarebbero stati sogni, ma anche la distruzione dei sogni, miracoli ma anche > miserie. L’unità tra popoli avrebbe convissuto con la segregazione, la magia > con la realtà brutale, la ricchezza coi debiti, la determinazione a > sopravvivere con la volontà di morire. Ma la magia è frutto anche di una volontaria ignoranza. Così come il miraggio delle “mille cose fuori luogo” fa apparentemente sparire il deserto, l’illusione che l’acqua sia semplicemente lì, abbondante e disponibile, come se apparisse dal nulla (quello stesso abbaglio per cui le cose possano esserci e basta, ignorando i processi e le esternalità implicate, che sta alla base di tutto il consumismo capitalista), occulta come e da dove concretamente l’acqua arriva. A svelare il miraggio come tale, dunque, può essere solo la conoscenza dell’infrastruttura che lo rende possibile. Pensare alle infrastrutture è il vaccino alle illusioni. Una grande capacità di cogliere le infrastrutture delle cose (persino delle relazioni ed emozioni umane) era propria di uno dei numi letterari di questo libro: Joan Didion. L’atteggiamento anti-miraggio è quello perfettamente descritto da Didion nelle prime righe di Acqua santa, un breve saggio dedicato proprio all’acquedotto di Los Angeles: > L’acqua che farò scorrere domani dal mio rubinetto a Malibu oggi sta > attraversando il deserto del Mojave dal fiume Colorado. L’acqua che berrò > stasera in un ristorante di Hollywood, a questo punto è già scesa > nell’acquedotto di Los Angeles, e penso dov’è esattamente anche quell’acqua: > in particolare mi piace immaginarla mentre scende a cascata sui gradini di > pietra a 45 gradi che arieggiano l’acqua dell’Owens dopo il suo passaggio > asfittico attraverso i tubi e i sifoni della montagna. È chiaro che nulla guarisce dalla convinzione che l’acqua sia lì e basta o appaia magicamente quanto pensare a dove fisicamente stia l’acqua, al percorso che farà o sta facendo quella che berrò domani o stasera. Per farlo, ovviamente, bisogna conoscere precisamente “i tubi e i sifoni” che ce la portano. È grazie a questo atteggiamento – che è conoscitivo ma anche etico – che Didion, annota Barzini, “è sempre riuscita a non farsi bruciare dai sogni”. E così per l’autrice, se un’immagine della spensieratezza giovanile e probabilmente di un quieto abbandono all’illusione è il ricordo delle visite con le amiche ai “bagni olistici di Kiva”, dove galleggiare in vasche di acqua calda senza farsi domande (“Non ci siamo mai chieste da dove venissero quelle acque o dove andassero a finire”), la presa di consapevolezza matura che può salvare dal rimanere troppo invischiati nei sogni – oltretutto proprio alla vigilia di quello che potrebbe essere un doloroso risveglio: l’incontro con il Regista che stabilirà definitivamente se il film si farà o meno – è un viaggio (in compagnia di quelle stesse amiche, peraltro) per vedere i tubi e sifoni su cui meditava Didion, andare a toccare le infrastrutture da cui sgorgano i miraggi. La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso discorso sul negativo delle illusioni. Prima del viaggio vero e proprio, ad esempio, c’è una lunga parentesi sul Salton Sea, un immenso lago salato endoreico (cioè senza emissari) nato all’inizio del Novecento in seguito a una inondazione del Colorado. Dopo un periodo come località turistica alla moda tra gli anni Cinquanta e Settanta, il lago ha iniziato a ritirarsi gettando tutta l’area intorno in uno stato di penosa decadenza. Altra deviazione è a California City, una città che “venne acquistata ancora prima di esistere”. Progettata negli anni Cinquanta dal visionario sociologo Nat Mendelsohn, si risolse in una colossale truffa immobiliare: la città, proprio per colpa della mancanza d’acqua, non sorse mai e tutto ciò che rimane è poco più di uno scheletro di strade che dividono lotti di terreno mai edificati. > La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono > direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso > discorso sul negativo delle illusioni. Si arriva poi, effettivamente, ai luoghi che riguardano direttamente l’acquedotto di Los Angeles, a partire dalla Owens Valley: la principale vittima dell’impresa di Mulholland, ormai quasi completamente svuotata dalle sue acque e funestata da siccità e polveri tossiche. Infine, il viaggio si conclude nel canyon di San Francisquito, dove si consumò il più catastrofico fallimento di Mulholland: per creare un nuovo bacino idrico per Los Angeles fece costruire nel 1925 una immensa diga destinata a crollare pochi anni dopo. Un disastro che spazzò via paesi e causò, si stima, circa 600 morti. L’episodio segnò anche la fine della carriera di Mulholland, la cui vita, che all’apice era stata il paradigma della storia di successo da film hollywoodiano (l’outsider ambizioso che credendoci fino in fondo realizza il suo sogno impossibile), verso la fine si ribalta in una parabola di hybris punita. Ciascuna delle tappe rappresenta un lato nascosto delle illusioni: Salton Sea è ciò che rimane dopo che il miraggio svanisce; California City è dove le promesse illusorie non sono mai state mantenute; la Owens Valley è dove il prezzo del miraggio viene pagato; infine, il canyon di San Francisquito è l’esito catastrofico che può accadere quando, per tenere in vita le illusioni, si tira troppo la corda. Tutti risvolti che vengono accuratamente rimossi o tenuti ai margini della coscienza per permettere al sogno di continuare. Il caso più emblematico, da questo punto di vista, è il crollo della diga di San Francis: “la seconda catastrofe naturale più grande della storia della California dopo il terremoto di San Francisco nel 1906 e uno dei più grandi disastri di ingegneria civile del XX secolo”, di cui nessuno parla più, come se fosse stata dimenticata o cancellata dalla storia. Ma fino a quando può durare la rimozione? Questo libro sull’acqua si apre con una introduzione che parla del fuoco, ovvero degli ultimi devastanti incendi che hanno devastato Los Angeles all’inizio di quest’anno. Frutto della siccità, gli incendi sono un’altra manifestazione di quel negativo rimosso che circonda l’illusione di abbondanza senza fine. Un rimosso che è sempre più difficile da ignorare, che riemerge mettendo sotto assedio la città e le sue pretese di continuare a sognare. L'articolo Infrastrutture e miraggi proviene da Il Tascabile.
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