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Infrastrutture e miraggi
F ingere è il primo passo. Per cosa? Be’, per tutto. Per diventare ricchi ad esempio. È il consiglio (non richiesto) che mi arriva da un imprenditore abbronzato, uno di quei tizi che imperversano sui social network per vendere corsi su come fare i soldi, ma che qualche dritta sono disposti a darla gratis in reel che, nelle mie sessioni di scrolling, puntualmente spuntano contro la mia volontà (ma con, temo, la mia complicità: come tutti sono curioso verso ciò che mi ripugna e su quei reel finisco per soffermarmi un po’ troppo; l’algoritmo conosce questa mia debolezza e colpisce). A questo giro il trucco che il guru del business ha voglia di condividere è di non aspettare di aver fatto i soldi per vivere da ricco (lui dice “per upgradare la tua vita”): vola in prima classe, mangia in ristoranti stellati, vai a vivere dove vuoi senza badare all’affitto, in questo modo ingannerai il tuo cervello, lo “setterai” sulla ricchezza e lavorerà meglio per farti diventare ricco davvero. “Sembra più un trucco per diventare molto poveri”, scrive qualcuno di poca fede nei commenti. Facile fare ironia su questa filosofia cialtronesca da social, ma in fondo non è che una estremizzazione fino al ridicolo del sottotesto di tante storie di successo che ci piace sentir raccontare: prima di tutto c’è un sogno, una illusione da coltivare, poi arriva la realizzazione. Nel frattempo meglio rimuovere o tenere ai margini il pensiero di quanto potrebbe essere doloroso il risveglio. In alcuni contesti illudere sé stessi e gli altri pare essere il requisito necessario anche solo per sedersi al tavolo e provare a vincere qualcosa. In L’ultima acqua (2025) di Chiara Barzini c’è questo momento in cui l’autrice fa tappa a New York prima di andare a Los Angeles per cominciare una indagine per un libro – lo stesso che stiamo leggendo – intorno al sistema idrico della città. Va a cena con lo scrittore e leggenda del New journalism Guy Telese che per lei ha un solo consiglio su come fare ricerche in California: “Non affittare mai macchine di merda. Scegli sempre l’auto più costosa, soprattutto se non te la puoi permettere”. Il possibile successo futuro dipende dalla capacità di fingere un successo già presente. Soprattutto in California. Soprattutto a Los Angeles: città, chiosa Barzini, in cui per lavorare bene “bisogna vivere nel miraggio della grandezza, nell’illusione del controllo”. L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la rielaborazione personale di un proprio disincantamento, del lavoro che bisogna fare per ritrovare un equilibrio quando il miraggio svanisce. Il libro di Chiara Barzini, infatti, è un saggio pienamente letterario, e in quanto tale ha al suo centro l’indagine su un oggetto molto concreto e definito (l’acquedotto di Los Angeles, progettato da William Mulholland e inaugurato nel 1913, che trasformò la città degli angeli e le permise di prosperare), usato come perno intorno a cui si dispiega la libertà concessa dal genere dell’essai per muoversi in direzioni diverse. > L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una > riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su > illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la > rielaborazione personale di un proprio disincantamento. Sfruttando questa libertà l’autrice costruisce sostanzialmente tre livelli di discorso che si alternano e si integrano a vicenda. C’è un livello informativo: la storia dell’impresa di Mulholland e della sua vita, la spiegazione di come funziona l’acquedotto e soprattutto della sua importanza per l’esistenza della Los Angeles che conosciamo. Questa parte è innescata da un vecchio libro ricevuto in regalo – un dettagliato dossier sulla costruzione dell’acquedotto firmato dallo stesso Mulholland – e si sviluppa come la cronaca di un viaggio lungo l’immensa infrastruttura, con qualche deviazione in luoghi direttamente o anche solo tematicamente legati a essa, dove il libro spesso e volentieri prende l’andamento del reportage narrativo. C’è poi un livello puramente autobiografico: una sottotrama del libro riguarda il progetto di un film tratto da un romanzo dell’autrice e da lei stessa sceneggiato che dovrebbe venire diretto da un grande regista hollywoodiano (che nelle pagine del libro è chiamato semplicemente “il Regista”), ma sulla cui effettiva realizzazione iniziano ad allungarsi dei dubbi. Un terzo livello lo potremmo definire metaforico, perché è dove l’acqua di Los Angeles diventa simbolo di qualcosa di più grande: un’illusione di abbondanza illimitata che nasconde le contraddizioni su cui si fonda.  In una catena di sineddochi, si parla dell’acquedotto di Mulholland per parlare di Los Angeles, per parlare degli Stati Uniti, per parlare di un Occidente che fa sempre più fatica a procrastinare il momento in cui dovrà fare i conti con il venir meno dei miraggi su cui per decenni ha fondato la propria tranquillità (la presa di coscienza di una “Era delle grandi speranze” che si capovolge in una “Era dei grandi limiti” – citando lo scrittore e ambientalista Marc Reisner – è uno dei refrain del libro). Ma finché si constata che un saggio letterario è composto da materiali e discorsi eterogenei, si resta nell’ovvio. La vera arte saggistica sta tutta nel come si combinano e si mescolano insieme i livelli diversi, andando a creare una coerenza e una unità che, per quanto sia arbitraria nei fatti (si può parlare dell’acquedotto di Los Angeles senza accompagnare riflessioni sui miraggi dell’Occidente, e certamente senza fare autobiografia), appare necessaria nell’ecosistema costruito dal saggio. Barzini si dimostra molto abile nel padroneggiare questo gioco di prestigio che è il cuore della scrittura saggistica. Interessante, quindi, è provare ad analizzare come il gioco funziona in L’ultima acqua, con quali strategie i diversi livelli che dicevamo vengono fatti collidere e sovrapporre fino a diventare inseparabili. > In una catena di sineddochi, si parla dell’acquedotto di Mulholland per > parlare di Los Angeles, per parlare degli Stati Uniti, per parlare di un > Occidente che fa sempre più fatica a procrastinare il momento in cui dovrà > fare i conti con il venir meno dei miraggi su cui ha fondato la propria > tranquillità. Poco fa parlavamo della sineddoche come una delle modalità che lega insieme diversi piani del libro. Ora, la sineddoche è una figura di pensiero molto efficace nell’ottica di un saggio, ma anche pericolosa da maneggiare, perché sempre sospettabile di eccessiva arbitrarietà: come mai parlare proprio di quella parte per parlare di quel tutto? Come mai parlare proprio di Los Angeles per parlare delle illusioni di un’intera civiltà? La risposta è tanto più convincente in quanto non è mai data esplicitamente, ma lasciata solo affiorare. Intanto perché Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di illusioni a uso e consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si rivela il vero tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che c’è dietro il miraggio. Perché Hollywood non è solo la “fabbrica dei sogni”, ma anche – come scrive Jerry Stahl – la “manifattura della frustrazione”. Il mondo del cinema crea attorno a sé anche una distesa di aspirazioni fallimentari: dietro ai sogni abbaglianti venduti da chi ce l’ha fatta c’è l’interminabile striscia di sconfitte e amarezze di chi da quelle fantasie è stato sedotto ma non è riuscito a realizzarle. Non per nulla la parabola di speranza e disincanto della parte autobiografica del libro ruota intorno a un film che forse non si farà. Ma Los Angeles è per eccellenza una città fondata sui miraggi anche e soprattutto per la sua paradossale natura di metropoli in mezzo al deserto. L’autrice se ne rende conto durante l’adolescenza (e torniamo di nuovo al livello autobiografico) trascorsa appunto a Los Angeles: > “Deserto” era la parola che usava mio padre per spiegare perché le bollette > della luce erano così alte, perché la pelle ci diventava così secca, perché > faceva caldo di giorno e freddo di notte, perché gli irrigatori si attivavano > in continuazione. Il deserto era una condizione preesistente, qualcosa che non > sarebbe mai andato via. Il deserto era un dato di fatto. Ti faceva svenire, ti > rendeva debole, era il rumore implacabile di uno spazio vuoto che era stato > erroneamente riempito di mille cose fuori luogo. Il deserto è la realtà, il dato “preesistente” che la città con le sue “mille cose fuori luogo” e le sue illusioni tende a rimuovere, a seppellire, a spingere ad un livello subliminale. E che pure resta lì e continua a segnalare la sua irriducibile esistenza nelle bollette, negli svenimenti, negli irrigatori che non si possono fermare altrimenti il miraggio non potrebbe durare. > Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di illusioni a uso e > consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si rivela il vero > tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che c’è dietro il > miraggio. Sì, perché la forza magica che alimenta l’illusione che quel deserto sia un luogo abitabile e addirittura confortevole per milioni di persone è l’acqua, l’abbondanza d’acqua resa disponibile dall’acquedotto progettato William Mulholland. Per come è raccontata nel libro l’impresa di Mulholland, l’acquedotto lungo 360 chilometri che trasporta l’acqua dalla Owens Valley nella Sierra Nevada fino a Los Angeles, è un capolavoro ingegneristico ma anche un incantesimo. Un miracolo che Mulholland (come rivela il manuale sulla costruzione dell’acquedotto ricevuto in regalo dall’autrice) rende possibile soprattutto grazie alla fede nel suo sogno, pensando a quell’acqua che doveva essere portata come se ci fosse già (“A pagina 20 si parlava dell’arrivo dell’acqua a Los Angeles come se fosse già accaduto”), e che realizzandolo trasmette quel modo di pensare e di desiderare a tutta la città: > Il sistema di trasporto idrico più lungo del mondo è completo. Scompare > l’inquietudine, scompare la povertà, scompare il deserto. Una soprano intona > un’ode Hail the Water, e Los Angeles cade in un maestoso incantesimo che si > protrae per decenni. Mullholland, con il volto scavato e gli occhi spiritati, > è riuscito a creare l’illusione più grande e potente di tutte. Ecco a tutti > una città magica in cui si può far apparire tutto ciò che si desidera. > L’incantesimo è un clic di tastiera ante litteram, il germe seduttivo del > capitalismo più sfrenato. Ma le illusioni, dicevamo, hanno sempre un negativo. Se l’opera di Mulholland da un lato è un miracolo, dall’altro non può che essere un patto col diavolo, con tutte le clausole nascoste del caso: > Pronunciando il suo incantesimo, ha stretto un patto pericoloso. Qualcosa di > diabolico si stava insinuando nella città degli angeli. La terra arida stava > per essere fecondata da un seme che l’avrebbe trasformata per sempre. Di lì a > poco sarebbe nato un bambino meticcio, un po’ angelo, un po’ diavolo. Il > “magnifico specchio d’acqua” che aveva inondato la piattaforma di Mulholland > era lo stesso che sarebbe stato sacrificato ai posteri. Da quel giorno ci > sarebbero stati sogni, ma anche la distruzione dei sogni, miracoli ma anche > miserie. L’unità tra popoli avrebbe convissuto con la segregazione, la magia > con la realtà brutale, la ricchezza coi debiti, la determinazione a > sopravvivere con la volontà di morire. Ma la magia è frutto anche di una volontaria ignoranza. Così come il miraggio delle “mille cose fuori luogo” fa apparentemente sparire il deserto, l’illusione che l’acqua sia semplicemente lì, abbondante e disponibile, come se apparisse dal nulla (quello stesso abbaglio per cui le cose possano esserci e basta, ignorando i processi e le esternalità implicate, che sta alla base di tutto il consumismo capitalista), occulta come e da dove concretamente l’acqua arriva. A svelare il miraggio come tale, dunque, può essere solo la conoscenza dell’infrastruttura che lo rende possibile. Pensare alle infrastrutture è il vaccino alle illusioni. Una grande capacità di cogliere le infrastrutture delle cose (persino delle relazioni ed emozioni umane) era propria di uno dei numi letterari di questo libro: Joan Didion. L’atteggiamento anti-miraggio è quello perfettamente descritto da Didion nelle prime righe di Acqua santa, un breve saggio dedicato proprio all’acquedotto di Los Angeles: > L’acqua che farò scorrere domani dal mio rubinetto a Malibu oggi sta > attraversando il deserto del Mojave dal fiume Colorado. L’acqua che berrò > stasera in un ristorante di Hollywood, a questo punto è già scesa > nell’acquedotto di Los Angeles, e penso dov’è esattamente anche quell’acqua: > in particolare mi piace immaginarla mentre scende a cascata sui gradini di > pietra a 45 gradi che arieggiano l’acqua dell’Owens dopo il suo passaggio > asfittico attraverso i tubi e i sifoni della montagna. È chiaro che nulla guarisce dalla convinzione che l’acqua sia lì e basta o appaia magicamente quanto pensare a dove fisicamente stia l’acqua, al percorso che farà o sta facendo quella che berrò domani o stasera. Per farlo, ovviamente, bisogna conoscere precisamente “i tubi e i sifoni” che ce la portano. È grazie a questo atteggiamento – che è conoscitivo ma anche etico – che Didion, annota Barzini, “è sempre riuscita a non farsi bruciare dai sogni”. E così per l’autrice, se un’immagine della spensieratezza giovanile e probabilmente di un quieto abbandono all’illusione è il ricordo delle visite con le amiche ai “bagni olistici di Kiva”, dove galleggiare in vasche di acqua calda senza farsi domande (“Non ci siamo mai chieste da dove venissero quelle acque o dove andassero a finire”), la presa di consapevolezza matura che può salvare dal rimanere troppo invischiati nei sogni – oltretutto proprio alla vigilia di quello che potrebbe essere un doloroso risveglio: l’incontro con il Regista che stabilirà definitivamente se il film si farà o meno – è un viaggio (in compagnia di quelle stesse amiche, peraltro) per vedere i tubi e sifoni su cui meditava Didion, andare a toccare le infrastrutture da cui sgorgano i miraggi. La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso discorso sul negativo delle illusioni. Prima del viaggio vero e proprio, ad esempio, c’è una lunga parentesi sul Salton Sea, un immenso lago salato endoreico (cioè senza emissari) nato all’inizio del Novecento in seguito a una inondazione del Colorado. Dopo un periodo come località turistica alla moda tra gli anni Cinquanta e Settanta, il lago ha iniziato a ritirarsi gettando tutta l’area intorno in uno stato di penosa decadenza. Altra deviazione è a California City, una città che “venne acquistata ancora prima di esistere”. Progettata negli anni Cinquanta dal visionario sociologo Nat Mendelsohn, si risolse in una colossale truffa immobiliare: la città, proprio per colpa della mancanza d’acqua, non sorse mai e tutto ciò che rimane è poco più di uno scheletro di strade che dividono lotti di terreno mai edificati. > La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono > direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso > discorso sul negativo delle illusioni. Si arriva poi, effettivamente, ai luoghi che riguardano direttamente l’acquedotto di Los Angeles, a partire dalla Owens Valley: la principale vittima dell’impresa di Mulholland, ormai quasi completamente svuotata dalle sue acque e funestata da siccità e polveri tossiche. Infine, il viaggio si conclude nel canyon di San Francisquito, dove si consumò il più catastrofico fallimento di Mulholland: per creare un nuovo bacino idrico per Los Angeles fece costruire nel 1925 una immensa diga destinata a crollare pochi anni dopo. Un disastro che spazzò via paesi e causò, si stima, circa 600 morti. L’episodio segnò anche la fine della carriera di Mulholland, la cui vita, che all’apice era stata il paradigma della storia di successo da film hollywoodiano (l’outsider ambizioso che credendoci fino in fondo realizza il suo sogno impossibile), verso la fine si ribalta in una parabola di hybris punita. Ciascuna delle tappe rappresenta un lato nascosto delle illusioni: Salton Sea è ciò che rimane dopo che il miraggio svanisce; California City è dove le promesse illusorie non sono mai state mantenute; la Owens Valley è dove il prezzo del miraggio viene pagato; infine, il canyon di San Francisquito è l’esito catastrofico che può accadere quando, per tenere in vita le illusioni, si tira troppo la corda. Tutti risvolti che vengono accuratamente rimossi o tenuti ai margini della coscienza per permettere al sogno di continuare. Il caso più emblematico, da questo punto di vista, è il crollo della diga di San Francis: “la seconda catastrofe naturale più grande della storia della California dopo il terremoto di San Francisco nel 1906 e uno dei più grandi disastri di ingegneria civile del XX secolo”, di cui nessuno parla più, come se fosse stata dimenticata o cancellata dalla storia. Ma fino a quando può durare la rimozione? Questo libro sull’acqua si apre con una introduzione che parla del fuoco, ovvero degli ultimi devastanti incendi che hanno devastato Los Angeles all’inizio di quest’anno. Frutto della siccità, gli incendi sono un’altra manifestazione di quel negativo rimosso che circonda l’illusione di abbondanza senza fine. Un rimosso che è sempre più difficile da ignorare, che riemerge mettendo sotto assedio la città e le sue pretese di continuare a sognare. L'articolo Infrastrutture e miraggi proviene da Il Tascabile.
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L a geopolitica dell’acqua oggi ha di certo meno visibilità rispetto alla corsa all’intelligenza artificiale o alla competizione tecnologica globale, ma resta un nervo scoperto nelle dinamiche di potere contemporanee. Ce lo ricordano le recenti tensioni tra India e Pakistan: dopo un attentato, Nuova Delhi ha sospeso il Trattato delle acque dell’Indo, minacciando di ridurre del 25% il flusso verso il Pakistan. In un’area dove l’agricoltura dipende in larga parte da quei fiumi condivisi, l’acqua torna a essere leva di pressione e possibile miccia di conflitto. A rendere ancora più instabile il quadro è l’impatto della crisi climatica, che accentua la vulnerabilità delle risorse idriche in tutto il mondo. L’aumento delle temperature, l’alterazione dei regimi delle piogge e la maggiore frequenza di eventi estremi compromettono la disponibilità e la prevedibilità dell’acqua, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e migrazioni. Anche regioni un tempo considerate relativamente sicure stanno affrontando scenari di scarsità. Negli Stati Uniti, nel 2023, sette Stati del sud-ovest hanno siglato un accordo per ridurre i prelievi dal fiume Colorado, evitando il collasso di metropoli come Los Angeles e Phoenix. Ma la portata del fiume continua a calare, ponendo interrogativi sempre più urgenti sulla sostenibilità di lungo periodo. > La crisi climatica sta accentuando la vulnerabilità delle risorse idriche in > tutto il mondo, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e > migrazioni. Sempre negli Stati Uniti, l’acqua è oggi al centro di dispute ben più grottesche. Nell’aprile 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per annullare i limiti ambientali sulla pressione delle docce, lamentando che le regolazioni volute da Obama e Biden non gli consentivano di lavarsi bene i capelli. A inizio del suo secondo mandato e in un modo decisamente più preoccupante, rispolverando nostalgie imperiali, Trump ha evocato pubblicamente la necessità di “riprendere” il controllo del Canale di Panama, denunciando le tariffe panamensi come ingiuste e ventilando persino l’ipotesi di un’azione militare. In Africa, intanto, la Grand Ethiopian renaissance dam (GERD) continua a essere motivo di scontro diplomatico tra Etiopia, Egitto e Sudan, preoccupati per il controllo delle acque del Nilo Azzurro. Il progetto, ormai pienamente operativo, è destinato a ridisegnare i rapporti di forza nel Corno d’Africa. Il secolo delle acque forzate Queste dinamiche contemporanee trovano radici profonde nel modo in cui, durante il Novecento, si è concepita l’idrosfera: come spazio da dominare, modellare e sfruttare a fini economici, politici e simbolici. Winston Churchill, fermandosi nel 1908 a osservare il Nilo presso il lago Vittoria, scrisse che “una simile leva per controllare le forze naturali dell’Africa che nessuno impugna, può soltanto intrigare e stimolare l’immaginazione”. Negli anni successivi, la costruzione di dighe e sistemi idraulici divenne una pratica globale: Stati Uniti, Unione Sovietica, India e Cina investirono massicciamente in progetti di deviazione dei fiumi e costruzione di bacini, vedendo in essi strumenti di modernizzazione e legittimazione politica. Le dighe non solo fornivano irrigazione ed energia elettrica, esprimevano anche la capacità eroica dello Stato di dominare la natura per il bene collettivo. Due casi emblematici mostrano il costo di questa visione: in India, l’Inghilterra coloniale sfruttò l’Indo per consolidare il proprio dominio agricolo, mentre in Asia centrale l’Unione Sovietica progettò imponenti sistemi irrigui per sostenere la monocultura del cotone. L’ambizione sovietica portò alla ben nota vicenda del prosciugamento del lago d’Aral, con conseguenze disastrose: desertificazione, salinizzazione dei suoli, crollo dell’attività ittica, crisi sanitaria ed economica. > Prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita > nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in > invasi. Negli anni Duemila tornò a circolare ‒ in forma speculativa e mai ufficialmente stipulata in accordi ‒ l’ipotesi di rilanciare un antico progetto sovietico: deviare parte delle acque dei grandi fiumi siberiani verso la Cina nord-occidentale. Si parlava di piegare l’Irtyš, l’Ob, forse persino l’Enisej verso sud-est, oltre la frontiera, fino alle regioni del Xinjiang e del Gansu ‒ terre assetate, industrializzate, in piena espansione. Un canale artificiale lungo oltre mille chilometri: una ferita nella taiga da coprire con una promessa di prosperità. L’idea, più volte evocata da funzionari russi e cinesi, fu rilanciata nel 2002 dal sindaco di Mosca Yuri Luzhkov e rientrava, almeno idealmente, nelle prospettive di cooperazione idrica tra i due Paesi. Nulla di nuovo, in fondo: già negli anni Sessanta l’Unione Sovietica aveva concepito piani dettagliati per rovesciare il corso dei fiumi artici e trasferire enormi volumi d’acqua verso sud, con l’obiettivo di irrigare le steppe dell’Asia centrale e sostenere la produzione agricola. Ma il progetto ‒ noto come Northern river reversal ‒ venne abbandonato nel 1986, sotto le pressioni del mondo scientifico, per l’impatto ambientale potenzialmente devastante. Quel progetto mai realizzato, ma ciclicamente evocato, è forse il più recente fantasma di una lunga ossessione imperiale, moderna, nazionalista che nell’ex Unione Sovietica si è manifestata in modo particolarmente imponente: l’acqua come vettore di potere, oggetto di controllo tecnico e politico. Ma prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in invasi. C’è un caso, all’apparenza periferico, che racconta meglio di altri questa tensione. In un altopiano del Caucaso meridionale, un lago è stato trasformato in strumento di modernizzazione forzata, banco di prova per ingegneri, politici e ideologi. Una microstoria che rivela l’ambizione ‒ tipicamente novecentesca ‒ di rifare la geografia, riscrivere l’ecologia, disciplinare il paesaggio. Storia di un equilibrio fragile Arrivando dal Nord dell’Armenia, lungo le strade che scendono dal Parco nazionale di Dilijan ‒ detto anche Piccola Svizzera d’Armenia per i suoi paesaggi montuosi, le foreste dense e le sorgenti minerali curative – il lago di Sevan apre il paesaggio seguendo l’estensione del grande altopiano che lo contiene. L’altitudine si abbassa di poco, ma la vegetazione dirada e poi scompare, gli spazi si allargano. Con oltre mille chilometri quadrati a quasi duemila metri sul livello del mare, Sevan è la principale riserva d’acqua dolce del Caucaso meridionale e uno degli spazi simbolici più importanti dell’Armenia. > La storia del lago Sevan mostra come anche un bacino apparentemente periferico > possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali > e progetti di disciplinamento territoriale. Le sue rive sono abitate sin dall’antichità: ce lo dicono i ritrovamenti archeologici, come quelli di Lchashen, dove è stato rinvenuto il celebre carro dell’età del bronzo, o il cimitero medievale di Noraduz, con le tradizionali khachkar, le croci di pietra, conservate e tuttora prodotte in loco da piccoli laboratori artigiani. Croci di pietra, Sevan, 2024; fot. Giulio Burroni. Nonostante le pressioni ambientali e la crescita edilizia, Sevan è ancora oggi meta di turismo interno, frequentata per le spiagge, le escursioni in barca, la pesca, i monasteri sulle rive. Il più noto si trova su quella che un tempo era un’isola ‒ Sevanavank ‒ e che oggi è una penisola. Non è un dettaglio paesaggistico: è la traccia visibile di un abbassamento artificiale iniziato negli anni Trenta, quando il livello del lago venne ridotto per scopi irrigui ed energetici. Già negli anni Venti, l’ingegnere armeno Soukias Manasserian aveva proposto di abbassare Sevan di 45 metri per ridurre l’evaporazione e usare l’acqua a fini produttivi. La proposta, ripresa con entusiasmo nel Primo piano quinquennale, portò nel 1933 all’avvio della costruzione di un tunnel lungo quasi 40 chilometri, destinato a convogliare l’acqua verso sud, lungo il fiume Hrazdan. Completato nel 1949, il tunnel diede avvio al progressivo svuotamento del lago. Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, il livello si abbassò di quasi venti metri, con una perdita di volume stimata attorno al 40%. Le conseguenze furono gravi: perdita di biodiversità, prosciugamento delle coste, salinizzazione del suolo, alterazione del microclima. Alcuni scienziati armeni sollevarono l’allarme già negli anni Sessanta, ma le loro voci rimasero marginali. Solo nel 1978 si autorizzò la costruzione di un tunnel di reintegro (Arpa-Sevan), completato nel 1981. Un secondo tunnel, il Vorotan-Sevan, entrò in funzione nel 2004. > L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi > significava piegare la natura alla volontà dello Stato. Il lago ha recuperato alcuni metri, ma resta ecologicamente fragile, oggi minacciato da eutrofizzazione, inquinamento e gestione politica incerta. La sua storia, poco nota fuori dal Caucaso, mostra come anche un bacino apparentemente periferico possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali e progetti di disciplinamento territoriale. Una microstoria che racconta, in scala ridotta, le stesse logiche che hanno condotto al prosciugamento del lago d’Aral. Deviare fiumi, nutrire anime Sevan fu, in un certo senso, un prototipo. A partire dagli anni Cinquanta, la pianificazione sovietica riprodusse lo stesso schema in Asia Centrale, deviando i fiumi Amu Darya e Syr Darya per l’irrigazione intensiva del cotone: nacque così il ben noto disastro del Lago d’Aral, che in pochi decenni si ritirò lasciando dietro di sé deserti salati e relitti navali. Negli anni Ottanta fu la volta del Kara-Bogaz, golfo poco profondo del Mar Caspio, chiuso artificialmente e trasformato in un bacino sterile. L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello Stato. Come spiega Frank Westerman nel suo reportage e saggio del 2020 Ingegneri di anime l’Unione Sovietica mise in scena una titanica alleanza tra ingegneri e scrittori, impegnati nella costruzione di un nuovo spazio fisico e ideologico. La tesi di Westerman è che il concetto di “dispotismo idraulico”, formulato da Karl Wittfogel, trovi la sua massima espressione in Unione Sovietica: lo Stato totalitario si legittima attraverso il controllo delle acque, imponendo su di esse una centralità politica, simbolica e produttiva che trascende la razionalità ecologica. > Oltre all’Unione Sovietica, anche i regimi autoritari europei del primo > Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica. La fede sovietica nella trasformazione della natura affonda le radici nel modernismo industriale. Lenin sintetizzava l’essenza del comunismo come “potere sovietico più elettrificazione del Paese”. Stalin ne radicalizzò la visione: fiumi da deviare, laghi da prosciugare, dighe da costruire. La tecnica, asservita al piano quinquennale, diventava quindi narrazione, epopea, mito. Nel cuore di questo racconto si collocano gli scrittori del realismo socialista. Alla cena organizzata da Maksim Gor´kij nel 1932, Stalin proclamò: > I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono > di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di > quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non > possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro Paese. > L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione > della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo > brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime. Nasce così la letteratura idraulica: un sottogenere del romanzo sovietico calato dall’alto del regime (e sempre sottoposto ai raggi X della Glavlit, la Direzione generale per gli affari della letteratura e dell’editoria) che esalta l’opera pubblica come fondamento della nuova civiltà socialista e che funzionerà, da qui in avanti, come un dispositivo ideologico per mascherare le contraddizioni della modernità. Una su tutte: la realizzazione di queste opere fu davvero possibile solo grazie allo sfruttamento della manodopera di milioni di condannati ai lavori forzati. Terraformare l’Europa L’idea che la trasformazione dell’ambiente potesse diventare una leva narrativa e simbolica non fu esclusiva dell’Unione Sovietica. Anche i regimi autoritari europei del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica: agire sulla natura significava dimostrare ordine, efficienza, potere. In Italia, il fascismo fece della bonifica integrale uno dei suoi principali dispositivi simbolici. Nonostante la portata di questi interventi fosse in realtà marginale, la redenzione delle paludi malariche, la trasformazione dell’Agro Pontino in insediamenti agricoli moderni e l’epopea dei pionieri della terra nuova divennero elementi centrali della propaganda. Cinegiornali, plastici, architetture monumentali e retoriche del lavoro contribuirono a costruire l’immagine di una natura domata e redenta, conferma tangibile della capacità del regime di instaurare un ordine anche ambientale. > Anche nel fascismo la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un > disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi. Frank Snowden, storico dell’Università di Yale, ha mostrato nel suo libro La conquista della malaria (2008) come questa modernizzazione comportò un costo umano elevatissimo: sradicamento di comunità rurali, imposizione di nuovi modelli di vita e aumento della mortalità tra i lavoratori delle opere di risanamento. Ma la politica ambientale del fascismo non si limitò alla pianura: anche in montagna, il regime promosse una vasta opera di elettrificazione alpina, costruendo dighe e bacini idroelettrici dalla Valtellina alla Val d’Aosta. La montagna domata, l’acqua incanalata e sublimata in energia, diventavano metafore dell’autarchia e dell’identità nazionale. Anche qui, come nella bonifica, la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi. Il nazionalsocialismo tedesco portò questo paradigma a un’estremizzazione ideologica. La dottrina Blut und Boden (sangue e suolo), elaborata dal ministro Richard Walther Darré, legava l’identità razziale alla terra, sostenendo che la sopravvivenza dell’ariano dipendesse dalla sua connessione ancestrale con il territorio tedesco. L’organizzazione del Reichsarbeitsdienst mobilitava migliaia di giovani in lavori pubblici, trasformando il paesaggio in un rituale collettivo di disciplina e appartenenza. In entrambi i casi, l’ambiente trasformato diventava un set politico e pedagogico, costruito attraverso propaganda, architettura e narrazione. L’acqua ‒ bonificata, deviata, trattenuta ‒ fu uno degli elementi privilegiati di queste operazioni ideologiche. Dispotismo idraulico e modernità socialista Il fascismo, il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico agirono, con gradi e strumenti diversi, all’interno di uno stesso orizzonte modernista: l’idea che la tecnica potesse dominare la natura, ordinarla, piegarla a fini produttivi, simbolici e politici. Anche il fascismo terraformò su larga scala, non solo nelle aree di bonifica ma anche attraverso la grande opera di elettrificazione delle Alpi, che comportò la costruzione di dighe, serbatoi artificiali, canali forzati e centrali idroelettriche. L’acqua montana venne incanalata e messa al lavoro per produrre energia, autosufficienza e immaginario patriottico. L’intervento non fu solo simbolico, ma modificò concretamente gli equilibri ambientali delle valli alpine e ne riscrisse la geografia. > Il fascismo spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio, ma > nessuno ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così > rapidi come l’Unione Sovietica. La differenza rispetto al caso sovietico sta, forse, meno in una contrapposizione di intenti e più in una diversa magnitudo e organizzazione del progetto. Il fascismo mise in scena la potenza trasformativa della tecnica, ma spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio: la natura, pur disciplinata, continuava a funzionare come sfondo identitario e risorsa simbolica. L’URSS, invece, si spinse verso una visione più sistemica, in cui la natura ‒ e l’acqua in particolare ‒ veniva trattata come componente pienamente integrata nel meccanismo della produzione pianificata. Non solo da domare, ma da rimodellare funzionalmente. Come sottolinea John R. McNeill nella sua storia ambientale del Ventesimo secolo, nessun altro Stato ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così rapidi come l’Unione Sovietica, animata da una miscela di ideologia, urgenza industriale e fede tecnocratica. Il concetto di “dispotismo idraulico” di Wittfogel voleva descrivere forme antiche di potere che fondavano la loro autorità sul controllo delle risorse idriche. Ma fu proprio nell’Unione Sovietica, secondo Westerman, che quel modello trovò un’espressione moderna, tecnologicamente aggiornata e ideologicamente giustificata. Il dominio sull’acqua genera inevitabilmente centralizzazione politica, burocrazia espansiva e gerarchie verticali: condizioni che trovano piena corrispondenza nell’organizzazione dell’economia pianificata sovietica, sostiene Westerman. A differenza dei regimi autoritari coevi in Europa, il socialismo reale non si limitò a rappresentare la natura come spazio da redimere: tentò di riorganizzarla integralmente secondo principi razionali e quantitativi su larghissima scala. L’acqua veniva misurata, deviata, redistribuita; i bacini, svuotati o riempiti a seconda delle esigenze della produzione agricola e industriale. Questa visione trovò la sua massima espressione nei piani idraulici dell’Asia centrale: milioni di ettari irrigati, chilometri di canali, prosciugamenti artificiali. > L’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero > marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi > della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura. Il filosofo giapponese Kohei Saito ha sviluppato una critica radicale al modello estrattivista capitalistico, rileggendo Marx da una prospettiva ecologica: ma, sebbene in misura largamente minoritaria, nel suo Capitale nell’Antropocene (2024) Saito non tralascia di sostenere che l’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura. Per Marx, questa frattura ‒ causata dall’estrazione intensiva di risorse e dalla disconnessione tra produzione e riproduzione ecologica ‒ non era sanabile con il semplice superamento del capitalismo di mercato. Occorreva ristabilire un equilibrio tra i cicli della natura e le forme sociali. Il socialismo sovietico, invece, adottò un paradigma iperproduttivista, trasferendo le logiche del dominio ambientale dalla proprietà privata alla pianificazione centralizzata. La natura venne trattata come un deposito da svuotare, un ostacolo da regolare, una risorsa da calcolare. Seguendo Saito, quindi, la pianificazione sovietica non solo non colmò la frattura metabolica: la istituzionalizzò, trasformandola in uno squilibrio strutturale tra l’apparato statale e l’ambiente. L’acqua, da fattore di equilibrio, divenne leva di controllo. Decisamente più radicale la lettura ormai datata di Murray Feshbach e Alfred Friendly Jr. nel loro libro Ecocide in the USSR: Health and Nature Under Siege ‒ opera che a ridosso del crollo del 1992 segnò l’opinione pubblica occidentale con toni volutamente drammatici e generalizzanti: l’Unione Sovietica avrebbe trasformato l’intero continente eurasiatico in una zona di sacrificio ambientale, compromettendo irrimediabilmente ecosistemi, risorse idriche e salute pubblica, in nome della produzione e della segretezza di Stato. Secondo gli autori, l’ecocidio non era un incidente del sistema sovietico, ma una sua componente strutturale, favorita dall’opacità del potere e dalla logica pianificatrice che vedeva la natura solo come materia da sfruttare. In questo quadro, il lago Sevan può essere considerato un laboratorio preliminare, un esperimento su scala minore rispetto alle trasformazioni idrauliche realizzate in Asia Centrale, ma già pienamente paradigmatico. La deviazione del suo corso naturale, l’abbassamento controllato del livello, la trasformazione di un’isola in penisola, l’alterazione degli equilibri ecologici ed economici locali: tutto anticipava, per logica e metodo, quanto sarebbe accaduto vent’anni dopo con il disastro del lago d’Aral. La Casa degli scrittori di Sevan, 2024, fot. Giulio Burroni. Costruita negli anni Trenta in stile modernista, sorge su una penisola rocciosa del lago Sevan. Progettata come residenza estiva per l’élite letteraria sovietica, univa rigore funzionale e slancio avanguardista. Oggi, semidiroccata, ospita un ostello estivo e attira visitatori curiosi della sua storia. L’acqua è ancora infrastruttura del potere Oggi il controllo delle acque non è più dominio esclusivo dei regimi autoritari. Anche nelle democrazie neoliberali, l’acqua è al centro di nuovi conflitti: come risorsa scarsa, come leva geopolitica, come strumento di influenza economica. Durante l’amministrazione Trump, il paradigma si è aggiornato: dal rilancio delle grandi opere idrauliche alla sistematica deregulation ambientale, dalla riduzione dei vincoli federali sulle risorse idriche al disimpegno dai trattati sul clima e sulla cooperazione transfrontaliera. Il linguaggio si è fatto più pragmatico, orientato al mercato, epurato della grammatica della sostenibilità. > Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire > alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da > governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. Nella riconfigurazione attuale dei rapporti tra natura e politica, l’acqua continua a essere un’infrastruttura strategica, al pari di un gasdotto o di una piattaforma logistica. Il caso del Canale di Panama, con la sua gestione contesa e le periodiche crisi idriche che ne minacciano l’operatività, dimostra quanto la disponibilità e il controllo dell’acqua siano tornati a essere nodi centrali nelle reti globali del potere. Allo stesso modo, la sospensione del Trattato delle acque dell’Indo da parte dell’India dopo l’attentato del 2025 ci dice come il flusso idrico possa essere impiegato come strumento di pressione internazionale, mettendo a rischio la sicurezza alimentare e sociale del vicino Pakistan. Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. I progetti mai realizzati di deviazione dei fiumi siberiani non sono oggi interessanti per la loro fattibilità, ma per la logica che incarnano: la tentazione ricorrente di piegare l’idrosfera a un disegno politico, economico, ideologico. Da questo punto di vista, la vicenda del lago Sevan ‒ apparentemente marginale nella geografia dei grandi bacini ‒ si rivela paradigmatica. Lontana dalle megalopoli e dalle rotte globali, eppure profondamente inserita nella storia del dominio tecnico sulla natura, racconta con chiarezza come il controllo dell’acqua sia sempre anche controllo del territorio, dei corpi, dei futuri possibili. È in questi spazi periferici che si manifesta con maggiore nitidezza la persistenza ‒ e l’adattabilità ‒ del potere idraulico. L'articolo Acque sovrane, di guerra e propaganda proviene da Il Tascabile.
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