L’ultima follia dei miliardari? Fare figli in grande quantità. A lanciare, se
così si può dire, l’assurda tendenza fu Elon Musk, ma ora a salire alla ribalta
è invece un altro “paperone” mondiale. La vicenda è raccontata dal Wall Street
Journal e si trova al centro dell’attenzione delle autorità giudiziarie di Los
Angeles: quella di Xu Bo, miliardario cinese dell’industria dei videogiochi,
accusato di aver creato negli Stati Uniti un vero e proprio programma di
gravidanze surrogate per generare i propri eredi. La storia è venuta alla luce
quando Amy Pellman, giudice del tribunale della famiglia di Los Angeles, ha
sospeso una serie di pratiche di riconoscimento di paternità tutte riconducibili
allo stesso nome. Il numero anomalo di richieste ha spinto il tribunale ad
approfondire, facendo emergere un sistema che, secondo il quotidiano economico
americano, sarebbe attivo da anni e reso possibile dalla legislazione
statunitense, che in diversi Stati consente la gestazione per altri con
procedure relativamente snelle.
Xu Bo, nato nel 1977 a Wuhan, la città della Cina centro-orientale celebre per
essere stata l’epicentro della pandemia di Covid-19, è diventato miliardario
grazie ai giochi online di ambientazione fantasy sviluppati dalla sua azienda,
la Duoyi Network. Contattato dal Wall Street Journal, un portavoce della società
ha smentito in modo netto le ricostruzioni, definendo l’intera vicenda “pura
fantasia”. Nessuna conferma ufficiale, dunque, dell’esistenza di un programma
strutturato di surrogazione. Tuttavia, sempre secondo il Wsj, ricerche e fonti
reperibili online in Cina offrirebbero una narrazione opposta: Xu Bo sarebbe già
padre di almeno cento bambini, tutti maschi, attualmente affidati a balie e
levatrici nella zona di Irvine, in California. I minori si troverebbero in una
situazione giuridica sospesa, proprio a causa del blocco imposto dal tribunale
di Los Angeles sul loro riconoscimento legale. Lo stesso Xu, riferisce il
giornale, non avrebbe mai incontrato personalmente questi bambini.
Le stesse fonti parlano addirittura di circa trecento altri figli in Cina:
alcuni nati tramite maternità surrogata, altri da relazioni consensuali con
donne non sposate. Ufficialmente, Xu Bo avrebbe riconosciuto dodici figli avuti
da sei donne diverse, nessuna delle quali è mai diventata sua moglie. In una
dichiarazione riportata in passato, il miliardario avrebbe spiegato così la sua
posizione: “Io non credo nel matrimonio, perché spesso le coppie divorziano e le
donne pagano il prezzo più alto. Ritengo che se un uomo e una donna si uniscono
senza ufficialità, in caso di litigio è tutto più semplice”.
Una visione che ha suscitato molte critiche, anche perché inserita in un
contesto culturale più ampio. In Cina, racconta il Wall Street Journal, Xu Bo è
spesso descritto come una figura controversa, segnata da un’infanzia difficile:
un padre violento e l’abbandono della madre. La sua storia personale si
intreccia con un fenomeno sempre più diffuso tra le élite economiche cinesi, che
vedono nella surrogazione uno strumento per assicurarsi un numero elevato di
eredi e, in prospettiva, selezionare il successore più adatto, ricalcando
dinamiche tipiche delle antiche dinastie. Secondo il quotidiano americano, in
Cina sono nate vere e proprie agenzie specializzate in questo tipo di servizi.
Un altro caso citato è quello di Wang Huiwu, manager di alto profilo, che
avrebbe pagato modelle statunitensi e altre donne considerate “superiori” per
ottenere ovuli con cui far nascere dieci bambine. L’obiettivo, sempre secondo il
Wall Street Journal, sarebbe stato quello di destinarle in futuro a matrimoni
strategici con uomini potenti, così da creare alleanze familiari, come avveniva
nella Cina imperiale.
L'articolo “Ha oltre 300 figli in Cina e altri 100 in California, ma potrebbero
essere molti di più. Sono tutti maschi e non ne ha mai incontrato uno: ecco il
suo piano dietro le nascite”: l’inchiesta del Wsj sul miliardario Xu Bo proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Los Angeles
F ingere è il primo passo. Per cosa? Be’, per tutto. Per diventare ricchi ad
esempio. È il consiglio (non richiesto) che mi arriva da un imprenditore
abbronzato, uno di quei tizi che imperversano sui social network per vendere
corsi su come fare i soldi, ma che qualche dritta sono disposti a darla gratis
in reel che, nelle mie sessioni di scrolling, puntualmente spuntano contro la
mia volontà (ma con, temo, la mia complicità: come tutti sono curioso verso ciò
che mi ripugna e su quei reel finisco per soffermarmi un po’ troppo; l’algoritmo
conosce questa mia debolezza e colpisce). A questo giro il trucco che il guru
del business ha voglia di condividere è di non aspettare di aver fatto i soldi
per vivere da ricco (lui dice “per upgradare la tua vita”): vola in prima
classe, mangia in ristoranti stellati, vai a vivere dove vuoi senza badare
all’affitto, in questo modo ingannerai il tuo cervello, lo “setterai” sulla
ricchezza e lavorerà meglio per farti diventare ricco davvero. “Sembra più un
trucco per diventare molto poveri”, scrive qualcuno di poca fede nei commenti.
Facile fare ironia su questa filosofia cialtronesca da social, ma in fondo non è
che una estremizzazione fino al ridicolo del sottotesto di tante storie di
successo che ci piace sentir raccontare: prima di tutto c’è un sogno, una
illusione da coltivare, poi arriva la realizzazione. Nel frattempo meglio
rimuovere o tenere ai margini il pensiero di quanto potrebbe essere doloroso il
risveglio. In alcuni contesti illudere sé stessi e gli altri pare essere il
requisito necessario anche solo per sedersi al tavolo e provare a vincere
qualcosa. In L’ultima acqua (2025) di Chiara Barzini c’è questo momento in cui
l’autrice fa tappa a New York prima di andare a Los Angeles per cominciare una
indagine per un libro – lo stesso che stiamo leggendo – intorno al sistema
idrico della città. Va a cena con lo scrittore e leggenda del New journalism Guy
Telese che per lei ha un solo consiglio su come fare ricerche in California:
“Non affittare mai macchine di merda. Scegli sempre l’auto più costosa,
soprattutto se non te la puoi permettere”. Il possibile successo futuro dipende
dalla capacità di fingere un successo già presente. Soprattutto in California.
Soprattutto a Los Angeles: città, chiosa Barzini, in cui per lavorare bene
“bisogna vivere nel miraggio della grandezza, nell’illusione del controllo”.
L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una
riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su
illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la rielaborazione
personale di un proprio disincantamento, del lavoro che bisogna fare per
ritrovare un equilibrio quando il miraggio svanisce. Il libro di Chiara Barzini,
infatti, è un saggio pienamente letterario, e in quanto tale ha al suo centro
l’indagine su un oggetto molto concreto e definito (l’acquedotto di Los Angeles,
progettato da William Mulholland e inaugurato nel 1913, che trasformò la città
degli angeli e le permise di prosperare), usato come perno intorno a cui si
dispiega la libertà concessa dal genere dell’essai per muoversi in direzioni
diverse.
> L’ultima acqua è un libro su Los Angeles e sulla California, ma è anche una
> riflessione su quanto nelle nostre vite e nella nostra società si fonda su
> illusioni sempre più difficili da tenere in piedi, ed è anche la
> rielaborazione personale di un proprio disincantamento.
Sfruttando questa libertà l’autrice costruisce sostanzialmente tre livelli di
discorso che si alternano e si integrano a vicenda. C’è un livello informativo:
la storia dell’impresa di Mulholland e della sua vita, la spiegazione di come
funziona l’acquedotto e soprattutto della sua importanza per l’esistenza della
Los Angeles che conosciamo. Questa parte è innescata da un vecchio libro
ricevuto in regalo – un dettagliato dossier sulla costruzione dell’acquedotto
firmato dallo stesso Mulholland – e si sviluppa come la cronaca di un viaggio
lungo l’immensa infrastruttura, con qualche deviazione in luoghi direttamente o
anche solo tematicamente legati a essa, dove il libro spesso e volentieri prende
l’andamento del reportage narrativo.
C’è poi un livello puramente autobiografico: una sottotrama del libro riguarda
il progetto di un film tratto da un romanzo dell’autrice e da lei stessa
sceneggiato che dovrebbe venire diretto da un grande regista hollywoodiano (che
nelle pagine del libro è chiamato semplicemente “il Regista”), ma sulla cui
effettiva realizzazione iniziano ad allungarsi dei dubbi. Un terzo livello lo
potremmo definire metaforico, perché è dove l’acqua di Los Angeles diventa
simbolo di qualcosa di più grande: un’illusione di abbondanza illimitata che
nasconde le contraddizioni su cui si fonda. In una catena di sineddochi, si
parla dell’acquedotto di Mulholland per parlare di Los Angeles, per parlare
degli Stati Uniti, per parlare di un Occidente che fa sempre più fatica a
procrastinare il momento in cui dovrà fare i conti con il venir meno dei miraggi
su cui per decenni ha fondato la propria tranquillità (la presa di coscienza di
una “Era delle grandi speranze” che si capovolge in una “Era dei grandi limiti”
– citando lo scrittore e ambientalista Marc Reisner – è uno dei refrain del
libro).
Ma finché si constata che un saggio letterario è composto da materiali e
discorsi eterogenei, si resta nell’ovvio. La vera arte saggistica sta tutta nel
come si combinano e si mescolano insieme i livelli diversi, andando a creare una
coerenza e una unità che, per quanto sia arbitraria nei fatti (si può parlare
dell’acquedotto di Los Angeles senza accompagnare riflessioni sui miraggi
dell’Occidente, e certamente senza fare autobiografia), appare necessaria
nell’ecosistema costruito dal saggio. Barzini si dimostra molto abile nel
padroneggiare questo gioco di prestigio che è il cuore della scrittura
saggistica. Interessante, quindi, è provare ad analizzare come il gioco funziona
in L’ultima acqua, con quali strategie i diversi livelli che dicevamo vengono
fatti collidere e sovrapporre fino a diventare inseparabili.
> In una catena di sineddochi, si parla dell’acquedotto di Mulholland per
> parlare di Los Angeles, per parlare degli Stati Uniti, per parlare di un
> Occidente che fa sempre più fatica a procrastinare il momento in cui dovrà
> fare i conti con il venir meno dei miraggi su cui ha fondato la propria
> tranquillità.
Poco fa parlavamo della sineddoche come una delle modalità che lega insieme
diversi piani del libro. Ora, la sineddoche è una figura di pensiero molto
efficace nell’ottica di un saggio, ma anche pericolosa da maneggiare, perché
sempre sospettabile di eccessiva arbitrarietà: come mai parlare proprio di
quella parte per parlare di quel tutto? Come mai parlare proprio di Los Angeles
per parlare delle illusioni di un’intera civiltà? La risposta è tanto più
convincente in quanto non è mai data esplicitamente, ma lasciata solo affiorare.
Intanto perché Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di
illusioni a uso e consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si
rivela il vero tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che
c’è dietro il miraggio. Perché Hollywood non è solo la “fabbrica dei sogni”, ma
anche – come scrive Jerry Stahl – la “manifattura della frustrazione”. Il mondo
del cinema crea attorno a sé anche una distesa di aspirazioni fallimentari:
dietro ai sogni abbaglianti venduti da chi ce l’ha fatta c’è l’interminabile
striscia di sconfitte e amarezze di chi da quelle fantasie è stato sedotto ma
non è riuscito a realizzarle. Non per nulla la parabola di speranza e disincanto
della parte autobiografica del libro ruota intorno a un film che forse non si
farà.
Ma Los Angeles è per eccellenza una città fondata sui miraggi anche e
soprattutto per la sua paradossale natura di metropoli in mezzo al deserto.
L’autrice se ne rende conto durante l’adolescenza (e torniamo di nuovo al
livello autobiografico) trascorsa appunto a Los Angeles:
> “Deserto” era la parola che usava mio padre per spiegare perché le bollette
> della luce erano così alte, perché la pelle ci diventava così secca, perché
> faceva caldo di giorno e freddo di notte, perché gli irrigatori si attivavano
> in continuazione. Il deserto era una condizione preesistente, qualcosa che non
> sarebbe mai andato via. Il deserto era un dato di fatto. Ti faceva svenire, ti
> rendeva debole, era il rumore implacabile di uno spazio vuoto che era stato
> erroneamente riempito di mille cose fuori luogo.
Il deserto è la realtà, il dato “preesistente” che la città con le sue “mille
cose fuori luogo” e le sue illusioni tende a rimuovere, a seppellire, a spingere
ad un livello subliminale. E che pure resta lì e continua a segnalare la sua
irriducibile esistenza nelle bollette, negli svenimenti, negli irrigatori che
non si possono fermare altrimenti il miraggio non potrebbe durare.
> Los Angeles è anche Hollywood, la più grande fabbrica di illusioni a uso e
> consumo del mondo occidentale. Ed è anche il luogo in cui si rivela il vero
> tema del libro, cioè il negativo delle illusioni, l’aridità che c’è dietro il
> miraggio.
Sì, perché la forza magica che alimenta l’illusione che quel deserto sia un
luogo abitabile e addirittura confortevole per milioni di persone è l’acqua,
l’abbondanza d’acqua resa disponibile dall’acquedotto progettato William
Mulholland. Per come è raccontata nel libro l’impresa di Mulholland,
l’acquedotto lungo 360 chilometri che trasporta l’acqua dalla Owens Valley nella
Sierra Nevada fino a Los Angeles, è un capolavoro ingegneristico ma anche un
incantesimo. Un miracolo che Mulholland (come rivela il manuale sulla
costruzione dell’acquedotto ricevuto in regalo dall’autrice) rende possibile
soprattutto grazie alla fede nel suo sogno, pensando a quell’acqua che doveva
essere portata come se ci fosse già (“A pagina 20 si parlava dell’arrivo
dell’acqua a Los Angeles come se fosse già accaduto”), e che realizzandolo
trasmette quel modo di pensare e di desiderare a tutta la città:
> Il sistema di trasporto idrico più lungo del mondo è completo. Scompare
> l’inquietudine, scompare la povertà, scompare il deserto. Una soprano intona
> un’ode Hail the Water, e Los Angeles cade in un maestoso incantesimo che si
> protrae per decenni. Mullholland, con il volto scavato e gli occhi spiritati,
> è riuscito a creare l’illusione più grande e potente di tutte. Ecco a tutti
> una città magica in cui si può far apparire tutto ciò che si desidera.
> L’incantesimo è un clic di tastiera ante litteram, il germe seduttivo del
> capitalismo più sfrenato.
Ma le illusioni, dicevamo, hanno sempre un negativo. Se l’opera di Mulholland da
un lato è un miracolo, dall’altro non può che essere un patto col diavolo, con
tutte le clausole nascoste del caso:
> Pronunciando il suo incantesimo, ha stretto un patto pericoloso. Qualcosa di
> diabolico si stava insinuando nella città degli angeli. La terra arida stava
> per essere fecondata da un seme che l’avrebbe trasformata per sempre. Di lì a
> poco sarebbe nato un bambino meticcio, un po’ angelo, un po’ diavolo. Il
> “magnifico specchio d’acqua” che aveva inondato la piattaforma di Mulholland
> era lo stesso che sarebbe stato sacrificato ai posteri. Da quel giorno ci
> sarebbero stati sogni, ma anche la distruzione dei sogni, miracoli ma anche
> miserie. L’unità tra popoli avrebbe convissuto con la segregazione, la magia
> con la realtà brutale, la ricchezza coi debiti, la determinazione a
> sopravvivere con la volontà di morire.
Ma la magia è frutto anche di una volontaria ignoranza. Così come il miraggio
delle “mille cose fuori luogo” fa apparentemente sparire il deserto, l’illusione
che l’acqua sia semplicemente lì, abbondante e disponibile, come se apparisse
dal nulla (quello stesso abbaglio per cui le cose possano esserci e basta,
ignorando i processi e le esternalità implicate, che sta alla base di tutto il
consumismo capitalista), occulta come e da dove concretamente l’acqua arriva. A
svelare il miraggio come tale, dunque, può essere solo la conoscenza
dell’infrastruttura che lo rende possibile.
Pensare alle infrastrutture è il vaccino alle illusioni. Una grande capacità di
cogliere le infrastrutture delle cose (persino delle relazioni ed emozioni
umane) era propria di uno dei numi letterari di questo libro: Joan Didion.
L’atteggiamento anti-miraggio è quello perfettamente descritto da Didion nelle
prime righe di Acqua santa, un breve saggio dedicato proprio all’acquedotto di
Los Angeles:
> L’acqua che farò scorrere domani dal mio rubinetto a Malibu oggi sta
> attraversando il deserto del Mojave dal fiume Colorado. L’acqua che berrò
> stasera in un ristorante di Hollywood, a questo punto è già scesa
> nell’acquedotto di Los Angeles, e penso dov’è esattamente anche quell’acqua:
> in particolare mi piace immaginarla mentre scende a cascata sui gradini di
> pietra a 45 gradi che arieggiano l’acqua dell’Owens dopo il suo passaggio
> asfittico attraverso i tubi e i sifoni della montagna.
È chiaro che nulla guarisce dalla convinzione che l’acqua sia lì e basta o
appaia magicamente quanto pensare a dove fisicamente stia l’acqua, al percorso
che farà o sta facendo quella che berrò domani o stasera. Per farlo, ovviamente,
bisogna conoscere precisamente “i tubi e i sifoni” che ce la portano. È grazie a
questo atteggiamento – che è conoscitivo ma anche etico – che Didion, annota
Barzini, “è sempre riuscita a non farsi bruciare dai sogni”.
E così per l’autrice, se un’immagine della spensieratezza giovanile e
probabilmente di un quieto abbandono all’illusione è il ricordo delle visite con
le amiche ai “bagni olistici di Kiva”, dove galleggiare in vasche di acqua calda
senza farsi domande (“Non ci siamo mai chieste da dove venissero quelle acque o
dove andassero a finire”), la presa di consapevolezza matura che può salvare dal
rimanere troppo invischiati nei sogni – oltretutto proprio alla vigilia di
quello che potrebbe essere un doloroso risveglio: l’incontro con il Regista che
stabilirà definitivamente se il film si farà o meno – è un viaggio (in compagnia
di quelle stesse amiche, peraltro) per vedere i tubi e sifoni su cui meditava
Didion, andare a toccare le infrastrutture da cui sgorgano i miraggi.
La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono
direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso
discorso sul negativo delle illusioni. Prima del viaggio vero e proprio, ad
esempio, c’è una lunga parentesi sul Salton Sea, un immenso lago salato
endoreico (cioè senza emissari) nato all’inizio del Novecento in seguito a una
inondazione del Colorado. Dopo un periodo come località turistica alla moda tra
gli anni Cinquanta e Settanta, il lago ha iniziato a ritirarsi gettando tutta
l’area intorno in uno stato di penosa decadenza. Altra deviazione è a California
City, una città che “venne acquistata ancora prima di esistere”. Progettata
negli anni Cinquanta dal visionario sociologo Nat Mendelsohn, si risolse in una
colossale truffa immobiliare: la città, proprio per colpa della mancanza
d’acqua, non sorse mai e tutto ciò che rimane è poco più di uno scheletro di
strade che dividono lotti di terreno mai edificati.
> La parte on the road del libro va a toccare anche luoghi che non sono
> direttamente legati all’acquedotto di Los Angeles, ma partecipano allo stesso
> discorso sul negativo delle illusioni.
Si arriva poi, effettivamente, ai luoghi che riguardano direttamente
l’acquedotto di Los Angeles, a partire dalla Owens Valley: la principale vittima
dell’impresa di Mulholland, ormai quasi completamente svuotata dalle sue acque e
funestata da siccità e polveri tossiche. Infine, il viaggio si conclude nel
canyon di San Francisquito, dove si consumò il più catastrofico fallimento di
Mulholland: per creare un nuovo bacino idrico per Los Angeles fece costruire nel
1925 una immensa diga destinata a crollare pochi anni dopo. Un disastro che
spazzò via paesi e causò, si stima, circa 600 morti. L’episodio segnò anche la
fine della carriera di Mulholland, la cui vita, che all’apice era stata il
paradigma della storia di successo da film hollywoodiano (l’outsider ambizioso
che credendoci fino in fondo realizza il suo sogno impossibile), verso la fine
si ribalta in una parabola di hybris punita.
Ciascuna delle tappe rappresenta un lato nascosto delle illusioni: Salton Sea è
ciò che rimane dopo che il miraggio svanisce; California City è dove le promesse
illusorie non sono mai state mantenute; la Owens Valley è dove il prezzo del
miraggio viene pagato; infine, il canyon di San Francisquito è l’esito
catastrofico che può accadere quando, per tenere in vita le illusioni, si tira
troppo la corda. Tutti risvolti che vengono accuratamente rimossi o tenuti ai
margini della coscienza per permettere al sogno di continuare. Il caso più
emblematico, da questo punto di vista, è il crollo della diga di San Francis:
“la seconda catastrofe naturale più grande della storia della California dopo il
terremoto di San Francisco nel 1906 e uno dei più grandi disastri di ingegneria
civile del XX secolo”, di cui nessuno parla più, come se fosse stata dimenticata
o cancellata dalla storia.
Ma fino a quando può durare la rimozione? Questo libro sull’acqua si apre con
una introduzione che parla del fuoco, ovvero degli ultimi devastanti incendi che
hanno devastato Los Angeles all’inizio di quest’anno. Frutto della siccità, gli
incendi sono un’altra manifestazione di quel negativo rimosso che circonda
l’illusione di abbondanza senza fine. Un rimosso che è sempre più difficile da
ignorare, che riemerge mettendo sotto assedio la città e le sue pretese di
continuare a sognare.
L'articolo Infrastrutture e miraggi proviene da Il Tascabile.