L’ intero universo e tutti i suoi fenomeni fisici possono essere ricondotti a un
unico modello matematico? C’è stato un tempo in cui ci si illuse che fosse
possibile, quando a Stephen Hawking veniva assegnata la cattedra, che in epoca
moderna era stata di Isaac Newton, all’Università di Cambridge. Nel 1979,
insieme al suo gruppo di ricerca, Hawking lavorava alla teoria del tutto,
chiamata anche TOE (Theory Of Everything). Quello stesso anno, si scatenò una
tempesta improvvisa, che nessuna stazione meteorologica era stata in grado di
prevedere. Nonostante l’attivazione di imponenti operazioni di soccorso, lo
scrittore irlandese James Gordon Farrell perse la vita nella Baia di Bantry. Era
l’autore della cosiddetta Trilogia dell’Impero (1970-1978), una serie di romanzi
sulle conseguenze del colonialismo britannico nel mondo. Qualche mese prima,
Margaret Thatcher vinceva le elezioni e diventava primo ministro del Regno
Unito, incarico che ricoprì per undici anni consecutivi.
Come Hawking, anche Thatcher aveva una sua teoria totalizzante e un metodo per
dimostrarla, ma anche uno scopo ben preciso da raggiungere. La teoria implica
che il capitalismo sia l’unico sistema economico praticabile, al quale non è
possibile contrapporre un’alternativa, ed è sintetizzata nello slogan “There is
no alternative”, contratto in TINA. Il metodo prevede l’attuazione di misure
come le privatizzazioni e il monetarismo, e l’obiettivo era quello di cambiare
la psicologia dei suoi conterranei per portarli a rivivere i grandi fasti del
passato, quando il Regno Unito era la più grande potenza al mondo.
Thatcher intendeva condurre il suo Paese verso il futuro, tornando al passato, e
rafforzare l’orgoglio identitario nazionale attraverso la promozione di una
società atomizzata e individualista. Secondo la sua prospettiva, i cittadini
britannici avrebbero dovuto emanciparsi dall’assistenzialismo statale a partire
dalla questione abitativa: ognuno avrebbe dovuto possedere una casa di proprietà
e questo sarebbe stato possibile attraverso l’erogazione di mutui a tasso
variabile. Nella sua visione, il mondo intero si riconduceva a un unico modello
economico, sociale e politico, secondo i precetti del conservatorismo.
Prometteva di cambiare tutto senza cambiare niente, glorificando le tradizioni e
feticizzando ciò che la storia avrebbe lasciato in eredità al suo popolo.
> Nell’ultima docuserie realizzata per la BBC, Shifty, Curtis mixa filmati
> d’archivio come tracce di un set di musica elettronica, caotico e stordente,
> ripercorrendo gli ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo
> millennio.
Per il giornalista e regista inglese Adam Curtis, Hawking e Thatcher sono due
delle personalità principali connesse dal filo conduttore che percorre gli
ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo millennio. Nell’ultima
docuserie realizzata per la BBC, Curtis mixa filmati d’archivio come tracce di
un set di musica elettronica, caotico e stordente, adottando il tipo di
montaggio caratteristico dei suoi ultimi lavori prodotti per la medesima
emittente. Si intitola Shifty (2025) e condensa in cinque episodi da circa
un’ora molti dei temi cari all’autore, approfonditi in altre produzioni come
HyperNormalisation (2016), il documentario nel quale sostiene che, dagli anni
Settanta in poi, governi, finanzieri e imprenditori dell’industria hi-tech
abbiano progressivamente rinunciato ad affrontare le complessità del reale,
scegliendo di fabbricare un mondo artificiale, più semplice da gestire e
rassicurante da abitare. L’idea di fondo è che la reiterazione di questa
finzione collettiva finisca per trasformarsi in una nuova normalità: un universo
al quale tutti si adeguano, pur di evitare il confronto con il disordine del
presente.
Il concetto di reiterazione (inteso come prassi per rafforzare l’immaginario
egemonico della società dei consumi) è stato indagato anche da Lauren Berlant
nel saggio Cruel Optimism (2011). L’autrice interpreta il presente storico come
un tempo sospeso in cui il desiderio di una “vita buona”, una vita normale, è
paradossalmente condizionato dalla sua impossibilità strutturale di essere
esaudito. L’ottimismo crudele, cifra della condizione neoliberale, nasce proprio
da questo cortocircuito: l’adesione alla normatività e la fede nelle sue
promesse, mantengono i soggetti ancorati a un presente logorante, fatto di
rituali ripetitivi e di speranze differite, come traguardi irraggiungibili e
lontani. In questo senso, sotto la lente di Berlant si teorizza la tenuta del
modello economico capitalistico e la sua forza conservatrice, capace di
perpetuarsi attraverso la produzione di affetti e aspettative.
Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro,
mostrato in Shifty da Curtis. Quando si producono orizzonti immaginifici, si
manipola anche la realtà, nella sua accezione, più prettamente umana di Storia.
Non a caso, il primo episodio della docuserie è intitolato The land of make
believe, il mondo delle favole, e mette al centro l’illusione politica con la
quale ha incantato i suoi elettori per un decennio. L’episodio si apre con una
breve sequenza, estrapolata dal vastissimo archivio della BBC, che mostra la
Thatcher sull’uscio di una sala da pranzo mentre incoraggia un gruppo di bambini
a entrare nella stanza, assieme a una celebrity discutibile: Jimmy Savile.
> Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
> immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
> leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro.
Si trattava di un personaggio vicino alla leader dei conservatori, il quale
aveva percorso una parabola che dalle miniere di carbone lo aveva portato a
diventare DJ, conduttore radiofonico e televisivo molto famoso nel Regno Unito.
Solo dopo la sua morte, emersero delle accuse di stupro che intaccarono la sua
memoria. Per molti aspetti, Jimmy Savile incarnava la storia del suo Paese: le
miniere di carbone vennero dismesse a partire dagli anni Ottanta, così come le
fabbriche e le industrie, per essere sostituite da un altro modello economico,
regolato dai mercati finanziari, basato sulla vendita di servizi e sulla
speculazione immobiliare. Era lo stadio germinale del sistema tardocapitalista
nel quale oggi sprofonda l’Occidente, trascinando con sé il resto del mondo.
Curtis mostra agli spettatori il veloce declino politico della storia recente
del suo Paese, ma a differenza dei progetti precedenti, il commento del regista
alle riprese d’archivio non è in voice over, bensì sotto forma di didascalie
narrative. La tesi di fondo del regista è suggerita e mai davvero del tutto
approfondita: sfugge e si dissolve, esattamente come il sistema sociale che
racconta. Ne risulta un vortice caleidoscopico e stordente, accentuato da un
accompagnamento sonoro che va dai Joy Division a Gigi D’Agostino, passando dalla
guerra delle Falkland agli scontri con l’IRA e alla censura della BBC di Relax
(1984) dei Frankie Goes to Hollywood. I cinque episodi di Shifty tengono insieme
house party e storia economica, cultura pop e guerre imperialiste; accennano a
cospirazioni e segreti, massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false
promesse, come quelle di Thatcher ai suoi elettori, ma anche di Tony Blair e
Gordon Brown. Si allude anche alla “Stalker Inquiry”, la commissione
parlamentare istituita per indagare sugli abusi delle forze di polizia
britanniche in Irlanda del Nord, immediatamente archiviata. Dalla visione
dell’intera serie, si potrebbe dedurre che Curtis volesse trasferire al suo
pubblico il comune sentire di quelle due decadi di fine Novecento, sospese verso
un futuro inconsistente, vuoto come le ragioni che spinsero all’edificazione del
Millennium Dome, l’arena polifunzionale che fu costruita a Londra per ospitare
una grande esposizione celebrativa del terzo millennio.
> I cinque episodi di Shifty tengono insieme house party e storia economica,
> cultura pop e guerre imperialiste; accennano a cospirazioni e segreti,
> massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false promesse.
La docuserie è costellata di personalità ambigue, oggetto di scandali, come
Geoffrey Prime, un’ex spia britannica, condannato per abusi sessuali su minori e
per aver rivelato informazioni riservate all’Unione Sovietica. Curtis si
sofferma anche su Cecil Parkinson, segretario di Stato sotto il primo governo
Thatcher, costretto a dimettersi dall’incarico quando la sua relazione
extraconiugale venne a galla. Poi, la corruzione di alcuni esponenti dei Tory,
uno fra tutti Ian Greer, coinvolto in prima persona nel “cash-for-questions
affair” insieme all’imprenditore egiziano Mohamed Al-Fayed, che aveva rilevato
il famoso centro commerciale di lusso Harrods. Curtis si sofferma su Al-Fayed in
diversi episodi di Shifty e nell’ultimo monta un estratto di un’intervista
durante la quale l’imprenditore afferma, senza alcun rimpianto, di aver fatto
affari con Greer semplicemente perché voleva fare soldi. Infine, si autoassolve
e dichiara, con parecchio sdegno, che un grande paese come il Regno Unito si era
ridotto a essere amministrato da un gruppo di delinquenti senza morale né etica.
Oltre agli scandali, le clip selezionate da Curtis raccontano anche i grandi
eventi cardine del suo Paese alla fine del Novecento, come il Big Bang: il boom
dei consumi fondato sul debito e destinato a provocare molto presto l’ennesima
crisi delle borse britanniche. Un’altra tempesta violenta e improvvisa si
scatena sui cieli del Regno Unito, proprio quando la bolla esplode e arriva al
culmine con il Black Monday, uno dei crash finanziari più drammatici del
ventesimo secolo. La transizione verso i nuovi assetti economici e produttivi
non comporta una rivoluzione reale nelle configurazioni del potere, che resta
nelle mani di quelli che lo hanno sempre detenuto. Eppure, rispetto ai rapporti
di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è la cultura ad
allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte dell’industria del
tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. L’arte diventa merce e le
fabbriche sono trasformate in loft dagli imprenditori del mercato immobiliare.
Si gentrifica il sapere così come i quartieri, demolendo ricordi personali e
memoria collettiva per fare spazio alle catene della grande distribuzione
organizzata, come Netto e Tesco.
> Rispetto ai rapporti di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è
> la cultura ad allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte
> dell’industria del tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. Si
> gentrifica il sapere così come i quartieri.
Rispetto al ruolo dell’arte e della cultura, sia indipendente sia mainstream,
Curtis aveva esplorato tematiche affini nella docuserie Can’t Get You Out Of My
Head (2021), in cui l’attenzione si spostava sull’individuo occidentale odierno,
immerso in un mondo privo di grandi narrazioni collettive. L’emancipazione dai
miti, che in passato orientavano il senso di appartenenza al sistema sociale
egemonico, istiga i singoli individui a generare autonarrazioni proprie per
interpretare e condizionare la realtà. Tuttavia, queste storie personali non
sono mai totalmente originali; al contrario, restano intrecciate alle strutture
di potere e ai modelli del passato, mostrando come il soggetto atomizzato
continui a operare entro i limiti dei sistemi che lo trascendono.
Anche in questa docuserie, l’analisi di Curtis si muove a partire da una visione
materialista della storia: le trasformazioni dei rapporti di produzione e delle
dinamiche di potere globali costituiscono lo sfondo su cui si regge l’intero
racconto, articolato in otto ore di filmati d’archivio. Allo stesso tempo, il
regista non riduce la complessità degli ultimi decenni a un’etichetta unica come
“neoliberalismo”, preferendo argomentare come l’intera classe politica abbia
delegato progressivamente all’apparato finanziario il governo della società,
trasformando il denaro nell’unica misura possibile della realtà, anche in campo
artistico e culturale. In questo scenario, gli individui, pur credendo di essere
liberi, sono intrappolati in una gabbia entro la quale tutto è quantificato e
strumentalizzato secondo criteri economici e di utilità.
Dalla fine del Novecento a oggi, molte cose sono cambiate e la gabbia ha
cominciato a farsi sempre più stretta, inadatta a contenere la complessità della
realtà odierna, ossia quella di un mondo globalizzato e iperconnesso. La
frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata nel quarto episodio
di Shifty anche attraverso la messa in discussione della Teoria del tutto
elaborata da Hawking, superata da quella del multiverso. Secondo Curtis si può
evidenziare una corrispondenza dinamica fra le scoperte scientifiche e i sistemi
sociali che le generano: associa la rivoluzione scientifica a quella
industriale, la Theory of everything all’individualismo estremo della
massificazione dei costumi di fine Novecento, mentre la teoria del multiverso
riflette la complessità e la frammentazione del mondo contemporaneo segnato
dall’avvento di Internet.
> La frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata anche attraverso
> la messa in discussione della Teoria del tutto elaborata da Hawking, superata
> da quella del multiverso, in una corrispondenza dinamica fra scoperte
> scientifiche e sistemi sociali.
L’ultimo episodio della serie termina con un estratto di un’intervista a David
Bowie, il quale sosteneva come almeno fino alla metà degli anni Settanta, la
percezione comune fosse quella di essere sotto l’egida di una società modellata
da una cultura di massa, monolitica e univoca. Verso gli anni Novanta, il
paradigma dominante iniziò a sgretolarsi in molteplici narrazioni. Rispetto a
Internet e alla sua diffusione, Bowie lo definì come una “forma di vita aliena”
dal potenziale “inimmaginabile, esaltante e terrificante” allo stesso tempo. Le
parole del Duca bianco si perdono nelle note di Absolute Beginners. La docuserie
termina con una successione di commenti scritti, nella forma di intertitoli, con
i quali il regista si domanda se l’individualismo nel quale la società
occidentale è stata catapultata sarà mai rovesciato dalle persone che
scopriranno un nuovo senso di unità; oppure se aspirare alla rivoluzione possa
essere solamente un retaggio nostalgico, innescato dal loop storico nel quale
oggi si trova l’umanità.
Nonostante l’ampia risonanza ottenuta, una parte della critica britannica ha
espresso giudizi più cauti su Shifty, ritenendola meno originale rispetto ai
lavori precedenti di Curtis. Alcuni hanno osservato che la docuserie non apporta
nuove prospettive, limitandosi a reiterare temi già esplorati. In alcuni
passaggi, la narrazione è risultata persino ingenua, specialmente quando il
regista si lascia andare ad affermazioni improbabili, come quando sentenzia che
le privatizzazioni sono state inventate dai nazisti. Altri interventi critici
più equilibrati hanno riconosciuto il valore estetico e simbolico della serie,
sottolineando la sua capacità di costruire suggestioni visive e sonore, ma ne
hanno comunque evidenziato la difficoltà nel produrre un discorso inedito
rispetto al corpus complessivo delle produzioni precedenti.
L’impressione generale è che Shifty riproponga un universo concettuale già noto
agli spettatori più avvezzi alle sue opere, senza offrire una vera e propria
evoluzione concettuale o teorica. Se non altro, l’ultima docuserie di Curtis ha
il merito di accendere l’attenzione su un tema: il capitalismo non è affatto il
sistema migliore possibile, da auspicare quasi come se fosse una conseguenza
necessaria nella progressione dei fatti storici. Credere che sia il modello più
efficace è semplicemente una credenza, un mito. Per certi aspetti, è esattamente
ciò che sosteneva Mark Fisher quando definiva il capitalismo come una forma di
dominio ideologico, capace di colonizzare ogni aspetto della vita.
> La docuserie di Curtis ha il merito di accendere l’attenzione su un tema: il
> capitalismo non è affatto il sistema migliore possibile, da auspicare quasi
> come se fosse una conseguenza necessaria nella progressione dei fatti storici.
E se persino la storiografia e l’analisi dei fatti storici fosse stata
colonizzata dal pensiero egemonico capitalista? L’antropologo David Graeber e
l’archeologo David Wengrow, autori di L’alba di tutto. Una nuova storia
dell’umanità (2021), riprendono la tesi dello storico delle religioni Mircea
Eliade secondo la quale la concezione lineare del tempo è un’invenzione
relativamente recente, che può essere ricondotta principalmente a due fattori
interconnessi: il pensiero escatologico delle religioni abramitiche residuale
nella concezione evoluzionistica della storia umana di derivazione positivista.
Parafrasando Eliade, Graeber e Wengrow sostengono che la prospettiva temporale
progressiva ha spodestato quella ciclica della filosofia greca antica e delle
“società tradizionali”, con “catastrofiche conseguenze sociali e psicologiche”.
Nella concezione lineare del tempo i fatti storici accadono come rivoluzioni che
irrompono e cambiano il corso degli eventi, come in un dipanarsi di “sequenze
cumulative” necessarie all’evoluzione della civiltà umana: si pensi alla
rivoluzione agricola del Neolitico, a quella scientifica in epoca illuminista o
a quella industriale di fine Ottocento. Descrivere la storia come un susseguirsi
di accadimenti radicali improvvisi ha delle conseguenze. La tesi di Graeber e
Wengrow è che questo tipo di approccio storiografico sia ideologico, per non
dire mitologico, e che abbia delle implicazioni politiche, rendendo l’umanità
meno capace di “affrontare le traversie della guerra, dell’ingiustizia e della
sfortuna, gettandoci invece in un’età di ansia senza precedenti e, a lungo
andare, di nichilismo”. Accettare la logica del dominio e considerare
inevitabile che la civiltà umana tenda verso l’accumulo di ricchezze significa
raccontare la specie umana come “molto meno premurosa, creativa e libera” di
quanto non lo sia.
L’ultimo capitolo del saggio L’alba di tutto si conclude con una serie di
considerazioni a proposito del nichilismo insito nella concezione lineare del
tempo, teso verso un progresso inesauribile. Una tale concezione inibisce la
possibilità di considerare la storia come l’insieme di scelte collettive, lente
e stratificate, attraverso le quali le comunità hanno deciso quali pratiche
adottare nella vita quotidiana e quali confinare alla sperimentazione o al rito.
Ciò che vale per la creatività tecnologica vale, naturalmente, ancora più per la
creatività sociale. Il dominio dell’uomo sulla natura, le società gerarchiche e
l’accumulo di ricchezze o la logica del profitto non erano inevitabili. Non è
affatto corretto sostenere che non esista un’alternativa; semmai, per dirla con
Graeber e Wengrow: “Se qualcosa è andato storto nella storia dell’umanità […]
forse prese a farlo proprio quando gli uomini persero la libertà di immaginare e
di attuare altre forme di esistenza sociale […] al punto che ora alcuni
ritengono che questo particolare tipo di libertà non ci sia mai stato, o non sia
mai stato esercitato, per quasi tutta la storia dell’umanità.”
> Descrivere la storia come un susseguirsi di accadimenti radicali improvvisi ha
> delle conseguenze. La tesi di Graeber e Wengrow è che questo tipo di approccio
> storiografico sia ideologico, per non dire mitologico, e che abbia delle
> implicazioni politiche.
Lo stesso sistema neoliberista che incita al pensiero “out of the box”, che
invita a essere non convenzionali (“Stay hungry, stay foolish”), paradossalmente
impone una reductio ad unum, all’omologazione: “siate diversi tutti allo stesso
modo” è il vero slogan di questi tempi. Ancora, si tratta dello stesso sistema
che continua a ignorare proposte realmente alternative a quelle della narrazione
dominante, come il pensiero tentacolare, lo Chthulucene di Donna Haraway, e che
torna indietro invocando valori reazionari e antiscientifici.
Per uscire dal loop è necessario esercitare la libertà, a partire
dall’immaginazione. La vera domanda è se l’umanità possiede ancora le capacità
per farlo.
L'articolo Shifty. Cos’è andato storto? proviene da Il Tascabile.
Tag - società
S e si ascolta musica con abbastanza ossessione e compulsività, può avvenire una
metamorfosi della fruizione. Non basta più solo ascoltarla, ma se ne vuole
comprendere il significato. Questa esigenza viene da un sospetto: la sensazione
che dietro ai suoni ci sia qualcosa di molto più grande, come fossero un istmo
in cui si stringe la maestà di un oceano. Allora, il fruitore scopre la critica
musicale.
Il rock criticism – per intendersi, la critica musicale rivolta alla musica pop
– è un canone di testi soprattutto anglofoni che si è sviluppato a partire dalla
nascita del rock’n’roll in America. Chi ci si immerge incontra presto un
proverbio di dubbia attribuzione che vorrebbe affossare il canone stesso:
“Writing about music is like dancing about architecture”. Oltre al fatto che un
balletto classico ispirato alla Reggia di Versailles, o una coreografia hip-hop
che imiti i volumi del MOPOP, il Museum of pop culture di Seattle, sarebbero
quantomeno una cosa interessante a cui assistere, il proverbio non considera che
questo canone vive proprio dell’impossibilità titanica di afferrare l’ineffabile
che sta tra una forma così sfuggente come la musica e una così articolata come
il linguaggio scritto.
A partire dalla fine degli anni Settanta una particolare stagione della critica
rock inizia a prendere di petto quell’impossibilità. Firme come Paul Morley, Ian
Penman, Barney Hoyskyns, poi David Stubbs, Jon Savage e il più acclamato Simon
Reynolds, si armano di apparati filosofici, sociologici, semiotici per guardare
la musica pop come un oggetto culturale complesso, che è un condensato di
circostanze storiche, umane, tecniche. L’idea è che l’oceano intravisto
riverberarsi nella goccia di una canzone sia nientemeno che il suono di un’epoca
intera.
Valerio Mattioli è tra gli autori che in Italia hanno più coltivato questo
approccio interpretativo, per cui scrivere attorno alla musica pop può diventare
un’impresa letteraria a sé stante, con una sua dignità artistica (per quanto
parassitaria rispetto all’arte di riferimento). In questa intervista traccia le
connessioni esistenti tra suoni, contesti socioeconomici, sviluppi tecnologici,
sottoculture giovanili. Il tutto seguendo le trame dei suoi libri: Superonda
(2016), una storia musicale dell’Italia fra gli anni Sessanta e i Settanta;
Remoria (2019), ritratto espressionista-surrealista delle periferie romane;
Exmachina (2022), colonna sonora della trasformazione antropologica mediante cui
l’umano si ibrida con l’agente informatico-cibernetico, e ne viene poi
fagocitato; l’ultimo Novanta (2025), resoconto della frenesia di politica e
musica passata dai centri sociali italiani nel decennio precedente all’11
settembre.
PARTIAMO DA NOVANTA. VORREI METTERLO IN PROSPETTIVA CON ALTRI LIBRI CHE HAI
SCRITTO IN CUI SI PARLA DI MUSICA. IN NOVANTA SI PARLA TANTO DI MUSICA, CI SONO
SEI CAPITOLI SU SEDICI IN CUI È PROTAGONISTA ASSOLUTA. IL TUO PRIMO LAVORO
UNITARIO DI RICERCA È STATO SUPERONDA, CHE HA UN APPROCCIO STORICO, DI STORIA
DELLA CULTURA MUSICALE. POI EXMACHINA, CHE È UNA COSA MOLTO DIVERSA. LÌ IL SUONO
È LO SFONDO, L’AMBIENTAZIONE A CUI GUARDARE PER CAPIRE UN PEZZO DI STORIA
DELL’UMANITÀ. IN NOVANTA INVECE TORNI DI NUOVO SULL’APPROCCIO STORICO, UNA
STORIA DEI MOVIMENTI E DELLE SOTTOCULTURE, IN CUI LA MUSICA È UN PERSONAGGIO –
NON PIÙ L’AMBIENTAZIONE – SEPPURE MOLTO INGOMBRANTE, CHE PERÒ VIVE ANCHE DELLE
RELAZIONI CON ALTRI PROTAGONISTI: LINGUAGGI, IMMAGINARI, MOVIMENTI POLITICI. SE
IN EXMACHINA I SUONI RACCONTANO UN’EPOCA, IN NOVANTA INVECE I SUONI STANNO
DENTRO UN’EPOCA, E INTERAGISCONO CON MOLTI ALTRI FENOMENI CULTURALI NEL CREARNE
L’AFFRESCO. LA COSA CHE AVVICINA QUESTI DUE LAVORI È CHE IN ENTRAMBI I CASI LA
MUSICA È UN PUNTO DI VISTA PRIVILEGIATO PER COMPRENDERE UNA TEMPERIE. PERCHÉ LA
MUSICA E I MODI ESPRESSIVI CHE LE GIRANO INTORNO – VESTITI, ARTI VISIVE,
ATTEGGIAMENTI, GESTI, IN SINTESI, LE CULTURE SONORE – SONO UN PUNTO DI VISTA
COSÌ PRIVILEGIATO PER COGLIERE LO SPIRITO DEL TEMPO?
La musica pop, nel senso più ampio del termine, intesa come musica non colta –
un cappello in cui ci puoi mettere tanto Taylor Swift quanto, che ne so, un
qualche rumorista giapponese che fa noise assassino – è un sensore. E anche un
laboratorio storico della modernità. Questo l’aveva già messo nero su bianco
Jacques Attali negli anni Settanta, nel suo libro che si chiamava Rumori, se non
sbaglio…
La musica lo è da tanti punti di vista. Innanzitutto per il ruolo che ha avuto
nel dopoguerra all’interno del mondo giovanile, e per via del ruolo che il mondo
giovanile ha avuto nella definizione dei meccanismi valoriali, comportamentali,
anche economici, dell’Occidente. Ovviamente stiamo parlando della sfera
occidentale. Quindi c’è questo doppio passaggio che pone la musica come
linguaggio preferenziale per capire i mutamenti del mondo in atto in Occidente
dal dopoguerra in poi. Lo è per… come dire, la sua economia politica.
Poi lo è per il fatto di assumere un linguaggio molto immediato, istintivo.
Cioè: la musica pop per lo più è il prodotto di generazioni giovani che si
mettono a fare la loro cosa senza filtri, senza dover passare per le trafile e
gli ostacoli che sovradeterminano altre forme espressive. Anche la scrittura è
un linguaggio molto istintivo, prendi e ti metti a scrivere. Ma la scrittura è,
innanzitutto, solitaria come attività, mentre la musica pop vive in un punto
strano che sta tra l’autorialità delle persone che questa musica la fanno, e il
pubblico che la riceve. La musica pop vive in questo interstizio, che è già di
per sé una posizione strana. La scrittura è solitaria e poi è descrittiva per
sua natura, mentre la musica, in qualche modo, riesce a incorporare proprio
nelle sue stesse forme il tempo presente, e lo fa in maniera non mediata. E
anche completa, perché è la forma espressiva che più di tutte si confronta con,
per esempio, i cambiamenti tecnologici.
PERCHÉ LI USA.
Sì, perché fanno proprio parte del suo armamentario, e questo è un altro punto.
Dopodiché la musica, come fatto sociale, visto il ruolo che ha sempre avuto
all’interno delle culture giovanili, riesce a coagulare attorno a sé dei
fenomeni che sono più genericamente sociali, che sono poi le varie culture e
sottoculture che vedono nella musica un perno, un punto di partenza. Poi da
questo punto di partenza si allargano per contemplare un discorso di tipo
comportamentale, attitudinale, estetico, e persino filosofico… a volte anche in
senso molto stretto. Ci sono delle culture musicali che hanno dato il la a delle
piccole filosofie, delle teorie, quasi, molto ben definite.
E poi, se prendiamo gli ultimi venticinque anni, guarda caso, proprio la musica
è stata sempre il campo di sperimentazione di tutti i grandi sconvolgimenti a
cui abbiamo assistito con il dilagare dell’era informazionale. Dalle nuove
tecnologie, al file sharing, alle piattaforme, allo streaming, è sempre la
musica il banco di prova. Infatti a me che lavoro con i libri fa sempre un po’
ridere e mi cascano un po’ le braccia a vedere quanto il mondo editoriale è
sempre indietro…
GLI ARRIVANO PER ULTIMO QUESTE TRANSIZIONI?
Non solo gli arrivano per ultimo, è proprio che, essendo un mondo molto chiuso,
molto ignorante a volte, all’editore raramente gli viene in mente… come dire, il
mondo editoriale vive sempre di queste crisi, è sempre in crisi continua. “E non
si vendono i libri, e la lettura non esiste più…” ma non gli viene mai da dire:
“vediamo un po’ che è successo nel mondo della musica cinque anni fa”. Perché
quello che è successo nella musica cinque anni fa, capiterà anche a te. Ma
sicuro capita. Quindi la musica è un sensore, è un ambito che vale la pena
studiare anche per capire quali sono le forme del presente, le forme che si
stanno sperimentando sul momento e che dopo diventeranno lingua comune.
HAI USATO LA PAROLA SENSORE… È UNA PAROLA CHE HO LETTO IN NOVANTA: A UN CERTO
PUNTO, MOLTO RAPIDAMENTE, CITI QUESTA “TEORIA DEL SENSORE STORICO” DI PRIMO
MORONI, BALLERINO, STUDIOSO, SCRITTORE, LIBRAIO, AGITATORE CULTURALE, UN
PERSONAGGIO CHE POI APPROFONDISCI PIÙ AVANTI. MI È SEMBRATO CHE, DOPO AVERLA
MENZIONATA, ACCANTONASSI QUELLA TEORIA; INVECE LA TENEVI COME PRINCIPIO
ORGANIZZATIVO DEL LIBRO. NEL BELLISSIMO PASSAGGIO IN CUI INTRODUCI MILITANT A,
IL PRIMO A INCIDERE UN PEZZO RAP IN ITALIANO, SCRIVI CHE LA SUA “È LA STORIA DI
UN CATALIZZATORE – INVOLONTARIO, FORTUITO, ACCIDENTALE – LE CUI GESTA
RIUSCIRANNO NIENTEMENO A CAMBIARE L’INTERO CORSO DEGLI EVENTI”. POI CONTINUI:
“VA BENE, VA BENE: GLI EVENTI SAREBBERO CAMBIATI ANCHE SENZA DI LUI. MA, A
VOLTE, È COME SE LA STORIA AVESSE BISOGNO DI PICCOLE, SINGOLE ANTENNE CHE CON LE
LORO SEMPLICI AZIONI IMPRIMONO SVOLTE DAGLI ESITI IMPREVISTI”.
Per Primo Moroni il sensore era il Leoncavallo a Milano. Tu osservando quello
che succedeva al Leoncavallo, in teoria, secondo Moroni, potevi farti un’idea di
quale sarebbe stata la situazione complessiva nell’ambito dei movimenti. Per
quanto riguarda il discorso delle singole antenne… sai, in realtà, nonostante
possa sembrare in contraddizione con quello che hai appena letto, non sono di
mio una persona particolarmente interessata alla mitologia personale, al
personalismo che individua nella personalità X una specie di figura cristologica
che da sola cambia il percorso degli eventi. Per esempio è una figura retorica
che si usa molto spesso in buona parte della critica musicale.
TIPO JON LANDAU CON “HO VISTO IL FUTURO DEL ROCK’N’ROLL E IL SUO NOME È BRUCE
SPRINGSTEEN”.
Per esempio, certo. Hai tutta questa mitologia che ti prende Bob Dylan, Bruce
Springsteen, questi nomi “che da soli incarnano”… a me quella roba non
interessa. Penso sia una roba noiosa, che serve ad alimentare una mitologia
interna. Oltretutto è stata drammaticamente smentita proprio dalla storia: non
ti aiuta in realtà a leggere i fenomeni e gli eventi. Invece è più interessante
leggere l’evento musicale nel suo complesso, depersonalizzandolo e capendo quali
sono gli effetti che ha questo fenomeno musicale sul mondo, come si intreccia
con le forme e le lingue che il mondo sta sperimentando in quel dato momento in
cui quella forma musicale emerge. Detto ciò, questo contraddice quello che dico
a proposito di Militant A o quello che, qualche capitolo prima, dico a proposito
di Angela Valcavi, la fondatrice della fanzine dark e goth Amen negli anni
Ottanta. Un giorno entra al Leoncavallo e chiede se possono organizzare un
concerto lì dentro ed è da quel primo contatto che il Leoncavallo, che fino a
quel momento – metà degli anni Ottanta – era un posto di reduci sconfitti dalla
storia, ridiventa il centro del radicalismo estetico-politico milanese. Quindi,
se non fosse stata Angela Valcavi, probabilmente sarebbe stata qualcun’altra, o
qualcun altro. Non fosse stato Militant A a fare Batti il tuo tempo, sarebbe
stato qualcun’altra, qualcun altro. Non voglio personalizzare, però quegli
esempi, in qualche modo, sono dei piccoli glitch. Quello che mi interessa semmai
è come un semplice, piccolo gesto provochi il famoso effetto farfalla. La
lezione che mi piace prendere da cose del genere, è che a volte basta solo un
piccolo passetto oltre, per poi produrre delle conseguenze che sulle prime non
ci si aspetta.
IL TUO STILE DI SCRITTURA E DI PENSIERO, QUESTO MODO DI STUDIARE LE MUSICHE E LE
CULTURE SONORE, GUARDANDO A COME PARLANO CON IL MONDO FONDENDO STORIA,
FILOSOFIA, RIFLESSIONE PERSONALE, CON NEL TUO CASO – PENSO A EXMACHINA – ANCHE
UNA COMPONENTE ROMANZESCA DI ALLUCINAZIONI IMMAGINIFICHE UN PO’ OSCURE… È UNO
STILE CHE DEVE MOLTO A TUTTO UN FILONE DI GIORNALISTI-TEORICI, OVVIAMENTE
REYNOLDS, MA ANCHE TUTTO IL GRUPPO CHE CON LUI HA INVASO LA RIVISTA NEW MUSICAL
EXPRESS TRA FINE ANNI SETTANTA E INIZIO OTTANTA: STUBBS, PRIMA ANCORA PAUL
MORLEY, IAN PENNIMAN, BARNEY HOSKYNS. QUESTI AUTORI HANNO CREATO UNA VISIONE
SPECIFICA DELLA CRITICA MUSICALE, IL CUI CREDO SUONA PIÙ O MENO COME: LA CRITICA
MUSICALE SCONFINA E STRABORDA PER FORZA NELL’ANALISI E NELLA CRITICA CULTURALE A
TUTTO TONDO, NEL MOMENTO IN CUI SI RENDE CONTO CHE LA MUSICA POP È TALMENTE
INVISCHIATA NEL RIBOLLIRE DEL MONDO CHE VA STUDIATA PER FORZA INSIEME AL MONDO.
CIOÈ SE PARLI DI MUSICA, DEVI PER FORZA PARLARE DI TUTTO IL MONDO. SECONDO ME
QUESTO È PROPRIO UN GENERE LETTERARIO A SÉ STANTE CHE DÀ UNA CERTA COMPRENSIONE
DEL MONDO. ANCHE TU ALLA FINE PARLI DEL MONDO: IN EXMACHINA I CAPITOLI SONO
DEDICATI A APHEX TWIN, AUTECHRE E BOARDS OF CANADA, MA IL TEMA VERO È LA
RIVOLUZIONE INFORMATICA. PERÒ NE PARLI IN MODO DIVERSO DA QUELLO CHE FA UN LIBRO
DI STORIA NORMALE. SECONDO ME, QUESTO GENERE LETTERARIO DÀ UN MODO DI
COMPRENDERE LE COSE ECCEZIONALE, PERÒ MOLTO OBLIQUO, UN PO’ INIZIATICO, PERCHÉ
NOI – NOI CON LA NOSTRA FORMAZIONE SCIENTIFICA – NON SIAMO ABITUATI A RAGIONARE
COSÌ. SE PENSO “VOGLIO COMPRENDERE ‒ CHE NE SO ‒ LA RIVOLUZIONE INFORMATICA,
DEVO STUDIARE DEI DATI, DEI FATTI FISICI ED ECONOMICI, MAGARI. CI SEMBRA STRANO
DI POTERNE CARPIRE DEGLI ASPETTI IMPORTANTI A PARTIRE DALLA DESCRIZIONE DEI
SUONI NEI DISCHI PUBBLICATI IN QUEL PERIODO. UNA DESCRIZIONE SPESSO FANTASIOSA E
PERSONALE. PERDONAMI SE È UNO SVARIONE, MA MI FA PENSARE A QUELLO CHE DARIO
FABBRI – NON SO SE SEI FAN…
Per niente!
BENE. MA, DICEVO, MI RICORDA QUELLO CHE LUI, NEL SUO AMBITO, DICE DI FARE CON LA
“GEOPOLITICA UMANA”; LUI DICE CHE QUELLO CHE GLI INTERESSA NON È SPIEGARE GLI
SCENARI INTERNAZIONALI A PARTIRE DAI RAPPORTI ECONOMICI TRA GLI STATI, GLI
ARSENALI MILITARI, MA A PARTIRE DAL SENTIRE COMUNE DELLE POPOLAZIONI, DAI LORO
APPETITI, LE LORO PAURE… È UNA COSA CHE A LIVELLO DI RIGORE SCIENTIFICO È MOLTO
LABILE.
È “molto zero”, direi, più che labile. Ma non è solo un discorso di rigore
scientifico. Ad esempio lui oggettifica determinate sensazioni, traslandole in
un piano deterministico, si può dire.
ESATTO. PERÒ IL PARAGONE LO FACEVO PERCHÉ MI SEMBRA CHE IN QUESTA DECLINAZIONE
MOLTO AMBIZIOSA DELLA CRITICA MUSICALE LA SCOMMESSA È PRENDERE PROPRIO DELLE
SENSAZIONI, QUELLE LEGATE AI SUONI – CHE OVVIAMENTE NON SONO SOLO SENSAZIONI
SOGGETTIVE PERCHÉ SONO INSERITE IN DEI CODICI E ANCHE IN DELLE CONDIZIONI
MATERIALI – E, SÌ, OGGETTIFICARLE IN UNA CERTA MISURA.
Allora, innanzitutto, c’è da fare un distinguo tra i miei libri di cui stiamo
parlando. Superonda che era, diciamo, una storia degli anni Sessanta e Settanta
in Italia proprio a partire dalle musiche, è il libro che è più parente di
quest’ultimo, Novanta. Sono i miei due saggi, ecco, saggi di… boh, storia
culturale, senza voler sembrare troppo roboante. Mentre Exmachina, come il
precedente Remoria, per me sono due romanzi.
REMORIA NON L’HO CITATO PROPRIO PERCHÉ LO CONSIDERAVO UN CASO A PARTE INFATTI,
NARRATIVA PURA.
Remoria è un romanzo fantasy, Exmachina è un romanzo di fantascienza. Poi
purtroppo l’editore… ho provato a insistere con Minimum Fax, a dire “mettiamoli
tra i romanzi!”, però capisco che la forma e il fatto che si agganciassero a
delle cose reali, troppo reali, li hanno condannati alla saggistica, e vabbè.
Però, di fatto, si tratta di due libri molto allucinatori. Da un punto di vista
scientifico sono smontabili in due minuti, entrambi i libri. Nell’ambito
mitopoietico, magari no. Quello che mi interessava era più un discorso di tipo
mitopoietico rispetto sia al tema di Remoria, che era la periferia romana, sia
al tema dell’Intelligenza artificiale, che in realtà era il tema per me alla
base di Exmachina. In Exmachina però c’è anche un dato storico, reale, concreto
e molto dimostrabile, cioè il ruolo che un certo tipo di musica elettronica ha
avuto nella definizione dell’immaginario e dello sguardo sul mondo della Silicon
Valley, banalmente.
SÌ, INFATTI, SI AGGANCIA ANCHE A DEI RAPPORTI ESISTITI TRA PERSONE.
È un legame che secondo me andava indagato. È stato indagato già all’epoca.
Prendi dei testi cruciali degli anni Novanta, per esempio Techgnosis di Erik
Davis, che abbiamo ristampato nel 2023 con Nero: è fondamentale lo sguardo che
Davis ha nel capire la preoccupante ideologia che stava prendendo forma nella
Silicon Valley proprio negli anni Novanta, e l’analisi di Davis delle musiche
elettroniche che costituiscono l’ambiente umorale immersivo dell’epoca. O se
prendi degli autori stracitati adesso, Mark Fisher, tutto il giro CCRU –
Cybernetic Culture Research Unit – ancora negli anni Novanta, nomi che hanno
analizzato in grandissima profondità l’impatto delle tecnologie informatiche dal
loro apparire fino a oggi… Di quelli, chi è sopravvissuto continua a indagare
quell’ambito là, a volte su posizioni preoccupanti, come Nick Land che è
diventato, come sappiamo, un filosofo di estrema destra.
Se tu ti guardi i loro materiali, di quando nacque la CCRU, l’unità di ricerca
sulla cultura cibernetica nata a Warwick in Inghilterra, praticamente tre quarti
dei materiali su cui loro lavorano sono le musiche della cultura elettronica del
periodo, la jungle, la techno e così via. Quindi effettivamente c’è un legame
molto stretto, per quanto Exmachina sia un romanzo di fantascienza. Studiando
l’evoluzione di quel suono, puoi trarre delle indicazioni su cosa, diciamo, la
civiltà delle macchine cela dietro di sé, o quantomeno di qual è l’ideologia che
la muove. Per me è molto importante in Exmachina la parte in cui io prendo gli
Autechre come esempio – e altri avrebbero potuto prendere altri musicisti – ma
tramite loro parlo dell’idea che le macchine abbiano una loro agentività e che
siano delle entità… non è giusto dire entità senzienti, perché appunto sarebbe
ricondurle a una visione antropocentrica. Diciamo, esce fuori l’idea che la
logica generativa che sta dietro la Macchina è destinata a ingigantirsi sempre
più fino a soverchiare, a prendere il sopravvento sull’elemento umano. Questa è
una cosa che tu hai già in quelle musiche là, e che adesso ti ritrovi a
dibattere nei post, su Instagram, di questo problema dell’Intelligenza
artificiale di queste cagate che ci troviamo davanti.
Il dibattito attorno a questi temi adesso è veramente indietro rispetto a quello
che già era stato instillato in maniera poetica, visionaria dai musicisti
elettronici che per primi si interfacciarono al linguaggio della Macchina e che
lo presero sul serio. Questa roba l’aveva intuita bene proprio tutto il giro di
CCRU, per esempio una figura come Kodwo Eshun, il cui Più brillante del sole
abbiamo ripubblicato sempre con Nero nel 2021. Era una roba che nella critica
musicale dell’epoca già era molto presente. Adesso sono passati trent’anni e
probabilmente se uno riprendesse alcune di quelle fonti capirebbe qualcosa di
più. Ti dico, il mio grande dispiacere ‒ a cui però sapevo che sarei andato
incontro ‒ è che Exmachina per me era un libro sull’Intelligenza artificiale,
quindi alla gente che conosco che si occupa di questi temi dico, “Ma sai che ho
scritto un libro su questo? Leggitelo!”; ma chiaramente essendo un libro che
parte dalla musica è stato considerato solo da quelli che seguono la musica.
Questo è lo scotto che devi pagare quando parli di musica. La musica è un
linguaggio sempre un po’ guardato con sufficienza dagli altri ambiti culturali.
Non da tutti, però per esempio nel mondo delle lettere c’è una presunzione di
partenza che è nei libri che tu trovi il cuore, la verità… ecco, la riflessione.
PERCHÉ CI SONO LE PAROLE CHE SONO IL CONCETTO, INVECE IL SUONO È UNA COSA
AMORFA.
È amorfa, però al tempo stesso il suono ha questa capacità di essere totalmente
immateriale ed estremamente materiale, cioè definisce e costruisce un ambiente
all’interno del quale tu ti ritrovi immerso. Questo potere è strano se ci pensi.
Non puoi toccare il suono, però se io adesso accendo quella cassa e metto una
musica a palla, noi siamo dentro un ambiente, siamo intrappolati dentro una
quinta, definita da questo banale spostamento.
COME DICEVI È IMMEDIATO, DICIAMO, NON C’È UN DISTACCO, NON C’È UN FILTRO, NON
PUOI DIRE “IO SONO IO E CAPISCO QUESTA COSA CHE STA FUORI DI ME”.
Esatto, arriva contemporaneamente al corpo, alle membra, e poi al cervello. In
alcuni casi anche allo sguardo, c’è una qualità sinestetica della musica che a
volte è indagata, a volte sottovalutata, però è un’altra delle sue qualità.
SULLA SOTTOVALUTAZIONE DELLA MUSICA NEGLI AMBITI CULTURALI, C’È UN LIBRO DI CUI
VOI AVETE SCRITTO SU NOT, DIALECTIC OF POP DI AGNÈS GAYRAUD. LÌ LEI, CONTRO
ADORNO, PROPONE UNA DIFESA DEL POP COME LINGUAGGIO ESTETICO UNIVERSALE, CAPACE
DI ARTICOLARE UNA RIFLESSIONE SUL MONDO TECNOLOGICO E SULLE FORME DELLA VITA
CONTEMPORANEA – NON SOLO COME PRODOTTO STANDARDIZZATO DELL’INDUSTRIA CULTURALE,
MA COME LUOGO IN CUI SI MANIFESTANO UNA SERIE DI TENSIONI: TRA INDIVIDUO E
COLLETTIVITÀ, TECNICA E SENSIBILITÀ, MATERIA E FORMA… PER LEI IL POP NON È
L’OPPOSTO DELLA TEORIA, MA È GIÀ UNA TEORIA IN ATTO, È FILOSOFIA CHE PASSA
ATTRAVERSO IL SUONO E IL CORPO. IN EXMACHINA, IN MODO SIMILE, TRATTI L’IDM
(INTELLIGENT DANCE MUSIC) COME UN PENSIERO INCARNATO, UNA FILOSOFIA DELLE
MACCHINE. PENSI CHE IN ITALIA ESISTA UN PREGIUDIZIO ADORNIANO CONTRO LA
RILEVANZA CULTURALE E POLITICA DEL POP? HO L’IMPRESSIONE CHE ALTROVE, IN AMBITO
ANGLOFONO AD ESEMPIO, I POPULAR MUSIC STUDIES ABBIANO CONQUISTATO SPAZIO E
DIGNITÀ ACCADEMICA, MENTRE QUI IL POP SEMBRA RESTARE CONFINATO A UN IMMAGINARIO
DI CONSUMO O DI COSTUME.
È chiaro che nel mondo anglofono il pop ha una sua rilevanza perché l’hanno
inventata loro la cultura pop come la conosciamo oggi… ma non ti pensare, nel
senso che se senti lo stesso Simon Reynolds, ti direbbe anche lui che, trattando
di musica, è considerato un autore di serie B. Però è vero che senz’altro nel
mondo anglofono l’attenzione è maggiore, ma anche in Francia, ma anche nella
stessa Spagna. L’Italia è veramente…
NON ERA PER FARE GLI ESTEROFILI COSÌ GRATIS EH, È UN’OSSERVAZIONE.
No, no, senz’altro in Italia più che un pregiudizio c’è una certa… arretratezza.
Poi pare che stai a fare la cantilena “l’Italia rimane sempre indietro”, ma è
vero. C’è un discorso a monte su come è strutturata la cultura italiana, con
l’imprinting classico idealista. E un discorso su come poi questo è stato messo
in discussione da tutta una serie di nomi: il più famoso è Umberto Eco, che
invece prende e ti analizza anche i fumetti. Ma anche Eco muove da una posizione
che distingue i famosi “alto” e “basso”. Non è che ci si deve mettere a litigare
con una figura come Eco, un gigante del Novecento, ma al tempo stesso anche Eco
si muove all’interno di un panorama culturale ancora segnato da
quell’imprinting.
Su Adorno, in realtà, non so quanto ci sia di adorniano nella diffidenza
italiana verso il pop. Anzi, recuperiamolo un po’. Adorno prese senz’altro delle
cantonate micidiali, cioè le sue pagine sul jazz sono comiche sostanzialmente,
perché ti fanno vedere quanto veramente lui non avesse colto, non capisse di
cosa stava parlando. Al tempo stesso Adorno diceva una cosa non sbagliata, cioè
che le musiche popular sono parte di un’economia capitalistica che è fondata
sulla merce e quindi sono anche merce. Questa merce ha anche un valore
filosofico, come dice Dialectics of Pop, ma ce l’ha proprio perché è interna al
meccanismo merce, non si chiama fuori da quel contesto. Recupererei una briciola
adorniana.
In Superonda, si parla un po’ di questo: l’Italia è un Paese strano, perché uno
dei maggiori eventi socialmediatici, sociologici, che arrivano ogni anno, è il
Festival di Sanremo, basato sulla musica, sulle canzonette. Eppure proprio il
modo in cui viene interpretata la presenza della canzonetta in Italia è sempre
qualcosa a metà tra l’epifenomeno e il guizzo folcloristico, cioè non vale mai
la pena prenderla troppo sul serio.
CHE INTENDI PER EPIFENOMENO?
Un fenomeno secondario, un’espressione secondaria di una cultura. E questo poi
si riflette anche nel modo in cui la canzone italiana viene concepita, cioè ha
delle regole molto ferree, molto rigide, un melodismo esasperato, le produzioni.
Sì, l’Italia non è il caso di scuola.
NEL CAPITOLO DI NOVANTA INTITOLATO UNDERGROUND, OVERGROUND, MAINSTREAM, PARLANDO
DI QUELLO CHE ALL’EPOCA NEL ROCK ITALIANO SI CHIAMAVA “CROSSOVER”, CIOÈ BAND
COME BLUVERTIGO E SUBSONICA, SCRIVI CHE QUEI GRUPPI SAREBBERO STATI
INCONCEPIBILI SENZA IL LAVORO PREPARATORIO DEI CENTRI SOCIALI, E IL FATTO CHE
SIANO ARRIVATI DA LÌ A SANREMO “MOSTRA LA FACILITÀ CON CUI IL SISTEMA SAPEVA
ASSORBIRE QUALSIASI SPINTA PROPULSIVA DAL BASSO PER TRASFORMARLA IN MERA MERCE
STERILIZZATA”, E CHE QUINDI “IL CROSSOVER ERA UN MODO COME UN ALTRO DA PARTE
DELL’INDUSTRIA DI COPRIRE UNA FETTA NUOVA DI MERCATO VENENDO INCONTRO AI GUSTI
DI UN PUBBLICO ‘MIDBROW’, TROPPO GIOVANE PER ACCONTENTARSI, MA TROPPO TIMOROSO
PER SPINGERSI DOVE LA RIVOLUZIONE COLAVA DAVVERO”. ALLA LUCE DEL FATTO CHE
ESISTONO QUESTI MECCANISMI TRAMITE CUI IL MERCATO VAMPIRIZZA I SUOI POTENZIALI
NEMICI UNDERGROUND E LI ASSORBE, SECONDO TE È POSSIBILE UNA CONTROCULTURA OGGI?
IN REALTÀ TI HO SENTITO DIRE CHE PREFERISCI USARE IL TERMINE SOTTOCULTURA,
MAGARI MI SPIEGHERAI PERCHÉ. IN QUESTO CASO LA DOMANDA DIVENTA: È POSSIBILE UNA
SOTTOCULTURA CON UNA CARICA ANTAGONISTICA? SECONDO ME QUELLO CHE ACCADE CON I
SOCIAL MEDIA E GLI ALGORITMI È CHE LE SOTTOCULTURE CHE UN TEMPO, FINO AGLI ANNI
NOVANTA, ERANO MOVIMENTI FONDATI SU DEI VALORI, INTERESSI CONDIVISI E DELLE
COMUNITÀ CONCRETE, SOLIDE E CEMENTATE, INVECE ADESSO SEMBRANO INNANZITUTTO
RIDOTTE AL LORO ASPETTO ESTETICO; IN PIÙ SONO DELLE ESTETICHE EFFIMERE E
DECORATIVE, TANT’È CHE SPESSO VENGONO PRESE DI PESO E USATE A FINI DI MARKETING.
NON È RARO VEDERE UN TIPO DI ESTETICA SOTTOCULTURALE CHE DIVENTA LA MOODBOARD DI
UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA, O PROPRIO DI UN PRODOTTO. POI C’È UN ALTRO ASPETTO:
UN ANTROPOLOGO CHE SI CHIAMA TED POLHEMUS SOSTIENE CHE I GIOVANI NON CREANO PIÙ
SOTTOCULTURE, MA SI MUOVONO COME IN UN SUPERMERCATO, ARRAFFANDO E MESCOLANDO
STILI E SIMBOLI PRESI DA SOTTOCULTURE DIVERSE, PASSATE E PRESENTI, SENZA LEGAMI,
RIDUCENDO LE COMUNITÀ A UN INSIEME DI ELEMENTI VISIVI PRIVI DI IDEOLOGIA
CONDIVISA. ALTRI INVECE, COME TIM STOCK, OSSERVANO LA NASCITA DI NUOVE
MICROSOTTOCULTURE ONLINE, MENO LEGATE A ESTETICHE E PIÙ A DETERMINATE NARRAZIONI
O OPINIONI CONDIVISE… TU COME LA PENSI?
Non conosco Ted Polhemus, è importante?
NON LO SO SE È IMPORTANTE, L’HO TROVATO SU INTERNET COME QUALSIASI COSA.
“Ted Polhemus, antropologo americano…” c’è anche la pagina Wikipedia, è del
1947, insomma… In realtà, quello che dici tu, mettendolo in bocca Ted Polhemus,
ricorda molto quello che dice Hiroki Azuma, un teorico giapponese, di cui Nero
ha pubblicato nel 2024 un altro testo dei primi anni Duemila, Otaku. Tu sai
cos’è un otaku?
NO, E NON CONOSCO AZUMA.
Beh, gli otaku di base… Ma che è ’sta foto qua… di Ted Polhemus dico. No, perché
sembra una rock star…
È LUI DA GIOVANE, FORSE? UN MEZZO HIPPIE.
Sì… comunque, in Giappone gli otaku vengono descritti come giovani ragazzi,
perlopiù maschi, appassionati in maniera maniacale di anime, manga e
videogiochi. Costruiscono la loro totale identità sulla passione maniacale per
questi linguaggi della cultura pop. Azuma notava come gli otaku non fossero
soltanto dei ricettori passivi di questi prodotti, ma adottassero uno spirito
che trasformava questi prodotti culturali in data base, cioè degli archivi dove
ci sono diverse tipologie di personaggi, di storie, di estetiche, che poi
venivano assemblati e riutilizzati dagli otaku stessi, secondo una logica che
Azuma chiama di “accumuladati”. Questo effettivamente è l’approccio che trovi
nelle sottoculture online contemporanee che descrivi anche tu, dove c’è questo
prendere di qua e di là per costruire… e non è una logica passiva. In questo
senso l’elemento sottoculturale c’è, è il patchwork… ed è una pratica attiva,
non la svilirei.
Io preferisco il termine sottocultura a controcultura perché l’unico periodo
storico in cui probabilmente ha senso parlare di controcultura, con la C
maiuscola, è quello in cui proprio la stessa controcultura è nata, cioè negli
anni Sessanta e Settanta, in cui, appunto, la cultura giovanile ha preso delle
strade, e dei linguaggi, la musica rock di allora su tutti, interfacciandosi con
l’epoca delle contestazioni giovanili… La controcultura lì si configurava – come
il nome stesso dice – come una cultura contro e alternativa a quella ufficiale.
La guardava da pari a pari, proponendosi come avversaria alla stessa, quindi con
una funzione dialettica rispetto alla cultura ufficiale, alla quale però,
evidentemente, riconosceva uno statuto ineludibile di interlocuzione. Il
paradosso della controcultura, se vogliamo, è che definendosi come cultura
alternativa a quella ufficiale, finiva per ribadire lo statuto della cultura
ufficiale. In quel momento il mondo giovanile contestatario era talmente forte
che poteva effettivamente proporsi come polo alternativo, polo opposto. Di là ci
siete voi, i vecchi, la cultura ufficiale; di qua ci siamo noi, i giovani, con
la cultura nuova basata su valori alternativi e differenti da quelli che ci
propinate voi.
E questo è un discorso che si esaurisce già con lo spegnersi di quella stagione.
Già il punk, per esempio, è una storia diversa, e tutto quello che è emerso
dagli anni Ottanta in poi difficilmente acquisisce quei crismi così
onnicomprensivi della controcultura degli anni Sessanta e dei primi Settanta. La
sottocultura è diversa perché ragiona soprattutto per logiche tribali, cioè: noi
siamo un gruppo piccolo, medio, grande, ma comunque un gruppo che lavora sotto…
ecco, mi piace prendere l’espressione sotto-culturale in termini non svilenti,
ma concentrandoci su quel “sotto”. Non come subcultura, quindi cultura derivata,
ma cultura che opera sotto quella ufficiale, in maniera totalmente slegata: la
cultura ufficiale può avere i suoi valori, a noi non ce ne frega niente, noi
abbiamo i nostri, siamo totalmente autosufficienti e dobbiamo rispondere solo
alle altre persone che condividono questi codici assieme a noi, quindi agli
altri membri interni della tribù. In questo senso il punk era molto più una
sottocultura che una controcultura. Poi le sottoculture, dal punto di vista –
per così dire – ideologico, naturalmente sono molto più ambigue che la
controcultura, la nobile controcultura di un tempo. Ci sono delle sottoculture
che sono profondamente, apertamente reazionarie. Ce ne sono altre, invece, più
ambigue, in cui magari esteriormente le forme sono reazionarie, conservatrici,
preoccupanti, predatorie, ma poi se vai a vedere i codici interni tutto diventa
più scivoloso e complesso.
Per esempio in Remoria io mi concentravo molto sui coatti come sottocultura,
perché da una parte sono questa specie di esaltazione iperviolenta, machista
della vita di borgata, dall’altra se vai a vedere dentro i comportamenti delle
stesse tribù di coatti, scopri un mondo molto più ambiguo, in termini di
relazioni tra sessi per esempio, in termini di come veniva esplicitata la
mascolinità. L’apparenza esteriore celava un rapporto maschio-femmina molto più
articolato di quello che poteva sembrare a uno sguardo esterno. E poi ci sono le
sottoculture che, a partire dalla logica tribale, si impossessano anche di una
critica radicale all’esistente, e là assomigliano più alla controcultura. Anche
negli anni Novanta possiamo parlare di controcultura in questo senso qua. Poi
negli anni Novanta anche in Italia c’era chi continuamente gettava il ponte tra
gli anni Sessanta degli hippie e gli anni Novanta degli hacker cyberpunk. Io,
nel libro penso sia chiaro, trovo poco precisa questa lettura.
Però perché siamo arrivati a parlare di questo? Parlando dell’oggi, senz’altro
ci sono sottoculture. Fino a tempi recentissimi quella memetica era una
sottocultura. Dico fino a tempi recentissimi perché ormai c’è fior fiore di
critica interna alla sottocultura memer stessa su cosa è diventata da qualche
tempo a questa parte, sul fatto che ormai è pura maniera, è tutto troppo
codificato… però se ci pensi quella dei memer è stata una sottocultura che in
alcuni ambiti ha avuto anche, sia da un lato che dall’altro, delle svolte
radicali. C’è stata la cultura memer di destra, che ha definito tutti gli
immaginari dell’alt-right. Però c’è stato anche il suo contraltare. Non lo so, è
strano, perché quello che definiva una sottocultura tribale fino a non molto
tempo fa era anche l’aspetto molto fisico di condivisione degli spazi, dei
corpi. Naturalmente l’online smaterializza tutto e quindi si diluisce anche il
recinto che definisce. Puoi scivolare da un recinto all’altro senza farlo sapere
agli altri. Le sottoculture aiutavano molto anche a definire l’individuo tra sé
e sé, erano uno strumento di empowerment, adesso invece l’identità è sfumata…
però non so dove si può arrivare con questo discorso. Non mi starei a
preoccupare. Ogni stagione ha bisogno dei propri linguaggi.
UN’ULTIMA DOMANDA, SEMPRE SULLE PROSPETTIVE FUTURE, MA IN QUESTO CASO DELLA
MUSICA. IN FUTUROMANIA, SIMON REYNOLDS PERCORRE TUTTI I SUONI CHE HANNO VISTO
LONTANO, LE MUSICHE DEL PASSATO E DEL PRESENTE CHE HANNO EVOCATO IL FUTURO.
NELLA CONTEMPORANEITÀ, AD ESEMPIO, INDIVIDUA ALCUNI ARTISTI DELLA TRAP AMERICANA
ESEMPI ANCORA FUNZIONANTI DI QUESTA SPINTA INNOVATIVA. IL LIBRO SI PONE COME
CONTROCANTO A RETROMANIA, CHE INVECE MOSTRAVA LA TENDENZA DELLA MUSICA POP A
GUARDARE OSSESSIVAMENTE AL SUO PASSATO – E ALLA HAUNTOLOGY DI FISCHER, CHE
DESCRIVE COME CERTI GENERI MUSICALI SIANO PERSEGUITATI DA FANTASMI DEL PASSATO O
DALLA NOSTALGIA PER UN FUTURO NEGATO. SECONDO TE, QUALI SONO OGGI I SUONI DEL
FUTURO? LA MUSICA CONTEMPORANEA RIESCE ANCORA A PROIETTARSI IN AVANTI?
Beh, è un altro discorso molto scivoloso. Empatizzo con Reynolds: così come
altri autori è cresciuto e si è formato in un periodo storico in cui le musiche
pop sembravano seguire un percorso di progressione continua e quindi c’era
evoluzione costante, secondo un moto lineare. Era una freccia che puntava sempre
avanti, che era poi il moto lineare tipico dello sguardo occidentale e del
progresso come ideologia dell’Occidente. Questa freccia a un certo punto è
entrata in un ambiente alieno, straniero, che è appunto quello della Macchina.
L’esito ultimo dello spingere avanti, avanti, avanti, avanti: alla fine si è
oltrepassata una membrana, una soglia che è quella della Macchina, dove questo
moto lineare del tempo non ha più senso, non ha più senso per come ragiona la
Macchina stessa. Quindi anche i prodotti culturali che nascono dal relazionarsi
con la Macchina lo riflettono.
PERCHÉ LA MACCHINA ASSEMBLA COSE CHE GIÀ ESISTEVANO IN PRECEDENZA?
La temporalità della Macchina è diversa. C’è il fatto di assemblare quello che è
stato fatto in precedenza ma c’è anche un moto più spiraliforme in cui elementi
del futuro vengono proiettati dal passato e viceversa. Da qua si è aperto un
dibattito che ci accompagna da vent’anni: dalla lenta cancellazione del futuro
di cui parlava Mark Fisher alla retromania di Simon Reynolds. Qual è la causa?
Il fatto che Internet permette la compresenza di tanti materiali del passato;
poi c’è una sovrapproduzione di materiali e quindi annaspiamo nella
sovrabbondanza di immaginari che produciamo e abbiamo prodotto nei decenni
passati; c’è il realismo capitalista che, certificando che “there is no
alternative” non lascia spazio al nuovo…
Non lo so, io ad esempio in Exmachina mi concentro più su come la Macchina
stessa opera. Siamo in una temporalità di tipo diverso e quindi ragionare sui
suoni del futuro lascia un po’ il tempo che trova. Cioè, se pensi ai suoni, alle
musiche che negli ultimi anni più sono state considerate futuribili, che siano
la trap, la drill, l’hyperpop o le forme di musica da club decostruita, sono in
realtà dei suoni che riflettono un tempo presente. È difficile paragonarle a
quel future shock che poteva avere l’avvento di un genere nuovo nel 1992, quando
arriva la jungle, una roba mai sentita prima. Fino alla settimana prima quel
suono non c’era, la settimana dopo era ovunque, era qualcosa di totalmente
diverso. Di per sé ti faceva dire: “questa è musica del futuro”. Negli anni
Novanta hai tutti questi linguaggi musicali che solleticano il gusto per la
costante tensione verso l’avvenire che, ripeto, ha un’impostazione da sguardo
sul tempo assoluto occidentale. Se prendi altre tradizioni, lo sguardo sul tempo
è diverso e quindi anche quest’ansia che abbiamo sui suoni del futuro viene
meno, non è un motivo di preoccupazione.
Mi chiederei piuttosto quali sono i suoni più “utili” al presente, quelli che ti
aiutano a decodificare meglio il tempo in cui li trovi. Se domani, per
paradosso, capiamo che la musica fatta a voce e chitarra acustica, la forma più
passatista e retrò immaginabile, è importante per noi, ci sarà un motivo e va
preso sul serio proprio perché la musica è, dicevamo all’inizio, un prodotto
immediato e non mediato di circostanze più ampie.
GIÀ È IMPORTANTE LA FORMULA CHITARRA E VOCE, PER ESEMPIO NELLA LO-FI.
Certo. Naturalmente quello che c’è adesso è una parcellizzazione estrema in
microscene minuscole. Però al tempo stesso hai dei linguaggi diventati così
tanto mainstream… ad esempio il rap nelle sue mille sfaccettature ora è una
lingua franca che può mettere d’accordo dalla ragazzina di undici anni che
guarda, che ne so, Soy Luna in televisione – a undici anni magari non se lo
guarda più – al teppista di strada, il maranza.
Bisogna tenere a mente poi che anche quelli che una volta chiamavano suoni del
futuro erano suoni del presente. Non esistono i suoni del futuro. Come sola idea
è strana: da dove arriverebbe un suono del futuro? Negli anni Novanta questo
suono del presente veniva considerato del futuro perché il futuro stesso era un
tema nel presente dei Novanta. Andrebbe un po’ attorcigliata la questione.
Comunque, la Macchina ragiona diversamente.
L'articolo Che suono ha un’epoca? proviene da Il Tascabile.
T utto ciò che so dei Novanta non l’ho vissuto, mi ha impregnato come un residuo
ectoplasmatico, attraverso i palinsesti televisivi e i VHS graffiati dal
Telefunken di mio padre. Ciò che possiedo non è memoria, si tratta piuttosto di
possessione, di un corpo estraneo che mi abita. Per questa ragione Novanta
(2025) di Valerio Mattioli ha agito sul mio immaginario come un esorcismo,
perché è stato capace di sottrarre quegli anni all’iconografia stantia a cui li
ha relegati la retorica ufficiale.
Novanta non accetta la liturgia storico-mediatica che comprime il decennio tra
il 9 novembre 1989 e l’11 settembre 2001; segue infatti un’altra logica, senza
filtrare gli anni Novanta italiani con i grandi eventi globali, ma con il lavoro
di una generazione che ha reinventato il conflitto e ne ha spettacolarizzato la
forma. Se da una parte la storia ufficiale sembrava essersi interrotta con la
fine della guerra fredda, dall’altra parte, come in una dimensione parallela,
riemergeva dalle nebbie del passato una controstoria che con pratiche, gesti,
linguaggi, era pronta a edificare un altro mondo sulle ceneri di un’altra epoca.
Quelle pratiche e quei linguaggi attraversano ancora oggi il nostro presente,
continuano a pulsare, vivi, come un’eredità che reclama attenzione e
riconoscimento. Il risultato del libro è un’archeologia del recente passato che
rimette in moto correnti sotterranee date per disperse.
> Seguendo lo sprofondamento psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i
> conti con un decennio fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una
> realtà brulicante di sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai
> movimenti successivi.
Ma il decennio dimenticato non è possibile da decifrare se non si fanno i conti
con la sua preistoria, il lungo Sessantotto, il decennio bandito, i Settanta.
Mattioli li descrive come la preistoria del Movimento. Il biennio 1977-78
rappresentava un nodo irrisolto della storia e della controstoria italiana.
Un’epoca di gioia feroce e di rigetto dell’autoritarismo, che vide la
convergenza tra studenti e operai, veniva ridotta in superficie ai toni grigi
scuri di La notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Seguendo lo sprofondamento
psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i conti con un decennio
fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una realtà brulicante di
sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai movimenti successivi. Gli
anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante degli
“anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo
rituale” dei Novanta stessi.
È nella preistoria dei Novanta che nacquero i centri sociali autogestiti (CSA)
come il Leoncavallo a Milano e furono proprio i CSA, pur con le loro profonde
divergenze di vedute, a tenere insieme le due età. Funzionarono come dispositivi
politici e culturali, come comuni eterodosse dentro fabbriche dismesse, furono
laboratori di musica e militanza, zone di sperimentazione a partire dalle quali
si è tentato di assaltare il cielo della cultura mainstream.
Le due anime che caratterizzano la geografia dei centri sociali furono la
militanza e la controcultura, due direttrici che si sono incontrate e scontrate.
La militanza di chi è cresciuto nei Novanta risaliva all’eredità dell’Autonomia
del 1977: la Pantera ad esempio, il movimento studentesco che da Palermo unirà
l’Italia in una intensa opposizione alla riforma Ruberti dell’università. Le
università occupate faranno infiammare la ferita mai sanata del potere
costituito, obbligato dal trauma a vivere quella eco come un ritorno del
rimosso, con le sirene spiegate della paranoia, dell’allarme e della
repressione. Ma sebbene negli anni Novanta i CSA attingessero abbondantemente al
lessico e alle pratiche dell’Autonomia, da cui derivavano specificamente il
rifiuto del lavoro, l’ironia, l’azione diretta e l’uso creativo dei media, anche
e soprattutto attraverso la provocazione, il decennio dimenticato, ironia del
destino, era “profondamente estraneo” a sentimenti quali la “nostalgia”, per cui
il legame con il passato diventava più una riserva di carburante “necessaria a
proiettarsi a velocità supersonica verso il futuro”.
> Gli anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante
> degli “anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo
> rituale” dei Novanta stessi.
La controcultura d’altra parte non sbucò dal nulla e risaliva anch’essa alle
esperienze di estrema sperimentazione degli anni Settanta, centrali per
l’intersezione tra psichedelia e rivoluzione La politica rivoluzionaria e
l’underground artistico finirono per toccarsi, generando una iridescenza
difficile da classificare. Riviste come Re Nudo organizzarono festival
all’aperto che somigliavano a grandi comuni temporanee: “La Festa del
proletariato giovanile” era un happening hippie rivestito di parole d’ordine
marxiste, un luogo dove l’etica operaia si sgretolava davanti al richiamo del
piacere immediato. L’idea del “tutto subito”, nel suo mix di edonismo e
militanza, lasciò una scia che avrebbe continuato a brillare sotterranea per
decenni.
Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in
particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la repressione
svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere accesa quella
brace. L’anarcopunk, con spazi come il Virus di Milano, recuperò principi della
controcultura hippie, dall’ecologismo al pacifismo, traducendoli però in un
ethos separatista, rigido, antisistema fino al midollo. Poco dopo, il circuito
post-punk e industrial legato all’Helter Skelter nel Leoncavallo avviò
un’operazione quasi archeologica: riportare in vita l’eredità psichedelica degli
anni Settanta e farne materia di nuove comunità, nuove estetiche, nuove liturgie
del “vivere insieme”. La memoria hippie veniva riscritta attraverso suoni più
cupi, macchine rumorose e visioni distopiche, ma il nucleo rimaneva quello,
l’idea che un’altra forma di società fosse possibile.
> Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in
> particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la
> repressione svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere
> accesa quella brace.
Questa danza tra arte e politica si slanciò nello scontro diretto contro
l’ordine globale attraverso il rituale dello scontro di piazza brevettato dalle
Tute bianche, emerse a metà degli anni Novanta, nella Padova di Toni Negri e del
postoperaismo, che si proposero come diretti eredi della militanza. Vestiti come
“fantasmi”, le Tute bianche avevano come obiettivo il superamento della
dimensione intermittente dell’agire politico e affermare il principio di
“conflitto e consenso”, preparando la strada per le contestazioni globali di
fine decennio. Nella continua dialettica tra militanza e controculture
artistiche riprese corpo il Movimento, con la sua denuncia-profezia del
capitalismo della sorveglianza, le lotte per il reddito di base universale, il
rifiuto del lavoro, i pericoli dell’abbraccio morale tra nuove tecnologie e
ideologie ultraliberiste.
La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione culturale.
Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e l’Onda Rossa
Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento. Militant A, una
delle anime del gruppo, cercava una moralità superiore e l’euforia collettiva
che aveva animato il movimento degli anni Settanta. Il libro è inevitabilmente
anche una storia del panorama underground legato ai CSA e delle sue incursioni
nel mondo commerciale. Dal rap in italiano al tarantamuffin, dalla techno del
“suono di Roma” alla teoria della pompa suprema di Lori D., i capitoli del libro
sembrano i quadri di Hieronymus Bosch, carichissimi di personaggi e situazioni,
di cui rimangono impresse le pennellate con cui vengono dipinte la rabbia
militante e di provincia dell’abruzzese Lou X, lo stile bolognese di Dee Mò e
dell’Isola Posse All Star, fino a SxM, l’album di culto dei Sangue Misto. Si
trattò di strumenti di lotta ed egemonia, parti di una guerra asimmetrica
diffusa e capillare, condotta da “coindividui” come Luther Blissett, ed
esperienze radicali come la rivista Torazine e lo sfondo queer e transfemminista
che le aveva rese possibili.
> La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione
> culturale. Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e
> l’Onda Rossa Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento.
Dopo l’ennesimo tentativo di sgombero del Leoncavallo nel 1994, i movimenti
sembravano sempre più un unico Movimento, riuscendo a trarre una lezione
importante dai femminismi degli anni Settanta e dalla loro avversione al
maschiocentrismo della sinistra rivoluzionaria. Dopo che certi steccati furono
scavalcati, la lotta sembrava unire personaggi diversissimi tra loro,
darkettoni, militanti nerd, profeti con il microfono in mano, attivisti
transgender e teorici della lotta omossessuale marxista.
Novanta potrebbe valere come appendice dell’Escatologia occidentale, scritta dal
rabbino Jacob Taubes. Eredi di una tradizione che, come nota Taubes, si muove
sul crinale dove apocalittica e gnosi si incontrano, sotto la superficie delle
occupazioni, dei cortei, delle comuni fricchettone, pulsa la stessa corrente
che, nei secoli, ha animato profeti, settari, comunità perseguitate. I festival
di Re Nudo, le comuni, la psichedelia, e poi la Pantera, con il suo improvviso
accendersi e il suo immediato propagarsi, ha qualcosa delle ondate messianiche
luriane: un’energia collettiva che prende fuoco perché riconosce nel presente la
stanchezza di un eone in dissoluzione. Il cyberpunk di Decoder, con il suo “i
piedi sulla strada, la testa nei computer”, aggiorna l’antico dualismo gnostico:
materia e spirito, corpo e rete, qui e altrove. I rave illegali, contaminati
dalle tribù tekno-travellers, recuperano la matrice nomade e comunitaria degli
antichi movimenti ereticali, dal manicheismo fino ai Mandei. La militanza degli
anni Novanta, dal rap militante dell’Onda Rossa Posse alle Tute bianche,
riprende un’eredità che ricorda da vicino la dialettica di Münzer o degli
spirituali francescani: la convinzione che un altro ordine sia possibile non per
evoluzione graduale, ma per rottura.
Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai rave,
dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un episodio
della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano l’eone
presente e tentano di costruire un regno a venire. In questa luce, i centri
sociali assumono un profilo quasi conventuale: piccoli laboratori di apocalissi
quotidiane, dove la vita comune è un gesto di opposizione e insieme di attesa.
Come nelle comunità gnostiche, la salvezza non è rimandata al futuro: si pratica
nel qui e ora, nella condivisione dei mezzi, dei linguaggi, dei corpi. È questa
la ragione profonda per cui vengono percepiti come minaccia: come gli eretici
medievali, i movimenti degli anni Novanta non contestano solo il potere, ma la
forma stessa del mondo.
L’epica tragica di Novanta mi ha riportato in mente un cult videoludico della
seconda metà degli anni Novanta, la saga per Playstation Legacy of Kain. Nel
1999 il secondo capitolo della storia ci introduce a Raziel, il
vampiro-lieutenant di Kain, il “padre” tirannico che lo punisce per la sua
superbia, gettandolo nel lago dei morti. Contro ogni aspettativa, Raziel
riemerge come wraith: un essere spettrale, nutrito e manipolato dal Dio anziano,
una divinità lovecraftiana degli abissi, che rende il protagonista capace di
oscillare tra il piano materiale, corrotto e decadente, e quello spettrale, un
piano dimensionale capovolto, dove l’acqua perde consistenza e il tempo scorre
più lentamente. Quando il protagonista ritorna nel piano materiale, Nosgoth, un
tempo impero vampirico, è ora una landa desolata, in rovina, i clan e i fratelli
di Raziel che la reggevano si erano dissolti in orrende mutazioni, le sue terre
desolate erano state ferite dall’equilibrio spezzato dalla hybris di Kain.
> Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai
> rave, dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un
> episodio della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano
> l’eone presente e tentano di costruire un regno a venire.
Più ci penso e più i centri sociali mi appaiono come “regni vampirici” dove si
praticavano riti di resistenza collettiva contro il capitalismo neoliberale.
Erano luoghi di iniziazione politica, con musica underground, rave, assemblee e
azioni dirette che incarnavano una controcultura viva. Ma come Raziel questo
movimento si spinse troppo vicino al sole: la proclamazione di guerra consegnata
alla stampa dalle Tute bianche al Genoa Social Forum all’alba di un appuntamento
con la storia che avrebbe dovuto certificare la forza del movimento fu l’apice
della hybris della militanza degli anni Novanta.
Furio Jesi nel suo saggio sulla metamorfosi del vampiro nella cultura tedesca
contenuto in L’accusa del sangue, vede nel vampiro un aspetto che va oltre il
mostro folkloristico puro, interpretandolo come un’immagine mitologica distorta
imposta come marchio su quei movimenti ereticali combattuti dall’ortodossia
cristiana. Sconfitti e repressi, gli eretici sono diventati “mostri” notturni,
residuati di pratiche rese incomprensibili dopo che il potere costituito ha
pronunciato la sua damnatio memoriae. Il vampiro jesiano diventa il volto
sfregiato dell’Iniziato, colui che, in società arcaiche, attraversava prove di
morte e rinascita per accedere a un piano superiore di conoscenza o potere. La
volontà di sfondare la mitologica “zona rossa”, cuore dell’ordine mondiale,
portarono rapidamente al crollo di quella fase della storia del panorama
antagonista. Il movimento si frantumò e l’equilibrio precario tra autonomia e
integrazione si corruppe in un paesaggio di rovine, monumenti di una crisi
identitaria, simboli di cooptazione da parte del mainstream, o semplice oblio
degli anni Duemila. Come Nosgoth dopo la corruzione di Kain, l’Italia post-G8
vide i suoi “pilastri” crollare in un’era di sorveglianza e securitarismo,
oramai non più allucinazioni dei collettivi eretici degli anni Novanta ma realtà
effettive.
Come già in Remoria (2019), in cui la città di Remo ha la sua occasione di
emergere a discapito della città di Romolo, Valerio Mattioli riusa questo schema
di ribaltamento negromantico della damnatio memoriae e assume le sembianze del
Dio anziano di Legacy of Kain, diventando un narratore sotterraneo, manipolatore
di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie della retorica
ufficiale. Lo trasforma così in un’arma vendicativa atta a mondare il
doppelganger edonista e berlusconiano del decennio perduto. Mattioli è capace di
liberare il lettore dal piano spettrale, l’immagine ufficiale degli anni
Novanta, fatta di MTV, consumismo e pacificazione, per farlo riemergere sul
piano materiale, ossia la memoria militante dei riti sotterranei di resistenza,
le lotte dimenticate.
> Come già in Remoria Valerio Mattioli riusa lo schema del ribaltamento
> negromantico della damnatio memoriae, diventando un narratore sotterraneo,
> manipolatore di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie
> della retorica ufficiale.
Mentre il tempo culturale sta iniziando a rigettare il decennio perduto per
produrre cultura rediviva, il lettore di Novanta dovrebbe oggi porsi un
interrogativo dirimente: questa rinascita culturale è vera redenzione o solo un
altro ciclo di predazione mitica? Di sicuro libri come quelli di Mattioli devono
essere visitati non come mausolei della storia antiquaria, perché si tratta
piuttosto di modi per comprendere come ciò che è accaduto nel tempo sociale può
sempre accadere di nuovo. Novanta è un atto di vendetta che rimette in piedi uno
Sheol, la cui geometria costituisce un itinerario di attimi messianici che
rendono il passato ancora rivedibile e a disposizione del presente. Il libro
riattiva presenze sepolte, restituisce corpo alle possibilità negate, riaccende
lampi di un’epoca che non ha mai davvero smesso di bussare. Nei raver che
assaltano lo Spaziokamino, nella techno come tamburo di guerra, nelle T.A.Z. di
Bey, si intravede un’idea impossibile che ritorna, stavolta non come fantasma,
ma come promessa.
L'articolo Ciao proviene da Il Tascabile.
N el 2014, la campagna/performance Wages for Facebook denunciava il nostro
essere lavoratorə sfruttatə dalle compagnie tech che possiedono i social network
che utilizziamo quotidianamente.
> La chiamano amicizia, noi lo chiamiamo lavoro non retribuito. Con ogni like,
> chat, tag o poke la nostra soggettività li fa guadagnare. Loro la chiamano
> condivisione. Noi lo chiamiamo furto. […]
> Chiedere un salario per Facebook significa rendere visibile il fatto che le
> nostre opinioni ed emozioni sono state distorte per una specifica funzione
> online, per poi esserci riproposte come un modello a cui tuttə dovremmo
> conformarci se vogliamo essere accettati in questa società.
Traslando le rivendicazioni emerse negli anni Settanta da Wages for housework
(Retribuzione per il lavoro domestico), la campagna portava alla luce le
condizioni materiali di un mondo in apparenza totalmente astratto, quello della
rete. Ma in che senso non siamo semplici utenti, ma siamo ormai soprattutto
lavoratorə sfruttatə per il profitto delle aziende tech?
Nel suo libro Il lato oscuro dei social network. Come la rete ci controlla e
manipola (2025), Serena Mazzini ci spiega questo e altri meccanismi che si
celano dietro agli scroll, ai click e ai post che produciamo quotidianamente. In
questo suo primo saggio, che ha il pregio di essere estremamente comprensibile e
scorrevole, Mazzini, la quale ha lavorato a lungo nell’ambito della
comunicazione come strategist, racconta di aver analizzato i dati delle
piattaforme quotidianamente, per servirsene per aiutare influencer a creare
contenuti “affinché apparissero più sinceri, autentici e credibili”. Diviso in
capitoli che si soffermano su vari aspetti delle dinamiche social, il libro è la
breve storia di come la rete è passata dall’essere un sogno di comunità e
collaborazione globale, a diventare uno strumento di controllo, manipolazione e
potere, portandoci a vivere e creare un mondo in cui tutto è sintetico e
artificiale, mentre si impegna ad apparire autentico; che si tratti di prodotti,
mete turistiche, hobby, i nostri rapporti o la nostra stessa identità.
> La rete è diventato un mondo in cui tutto è sintetico e artificiale, mentre si
> impegna ad apparire autentico; si tratti di prodotti, mete turistiche, hobby,
> i nostri rapporti o la nostra stessa identità.
Quando Internet ha cominciato a diffondersi nelle nostre case, quasi nessunə si
sarebbe aspettatə che cosa sarebbe diventato. Sebbene le dinamiche che adesso
vediamo esplose fossero contenute in nuce in quei primi esperimenti di
connessione globale – da subito, per esempio, la creazione di una identità
virtuale parallela in cui nascondersi/rifugiarsi caratterizzava l’esperienza dei
forum e delle chat – ci sono alcune tappe che hanno segnato in maniera
irreversibile il nostro rapporto con il digitale, ma che soprattutto hanno
permesso al digitale di instaurare quella che nel libro è definita come una vera
e propria “mutazione antropologica”.
Chi si ricorda Indymedia tra gli anni Novanta e i Duemila, non poteva immaginare
cosa sarebbe accaduto con l’avvento di Facebook nel 2004, che Mazzini indica
giustamente come una delle tappe principali di questa mutazione. Nel 2010, la
nascita di Instagram e l’inserimento della fotocamera anteriore nell’iPhone,
hanno marcato in maniera definitiva l’impatto del visivo come dominio
inscalfibile delle nostre quotidianità. Se all’inizio di Facebook postavamo
degli “aggiornamenti” un po’ goffi, in seguito all’avvento di queste novità “lo
smartphone divenne un dispositivo per la condivisione immediata di esperienze
personali; e i social network, da piattaforme web, divennero applicazioni
accessibili sempre e ovunque, capaci di trattenere l’attenzione degli utenti e
di integrarsi in maniera capillare nella vita quotidiana”. Difficile pensare,
nella storia recente, a un cambiamento così drastico ed enorme nei modi in cui
percepiamo noi stessi, le altre persone e il mondo circostante, difficile
pensare a qualcosa che più di questo ha modificato le nostre abitudini e i
nostri modi di vivere le relazioni e gli spazi.
Ma torniamo ai salari: in che senso siamo lavoratorə sfruttatə? I sensi sono in
realtà molteplici. Wages for Facebook affermava che “quando parliamo di Facebook
non stiamo parlando di un lavoro come gli altri, ma della manipolazione più
pervasiva, della violenza più sottile e mistificata che il capitalismo ha
recentemente perpetrato contro di noi”. La nostra presenza sui social network,
ormai dovremmo saperlo, non è neutra. Qualunque nostra attività è registrata e
utilizzata come dato, merce preziosissima nell’economia tecnocapitalista. I
nostri like, le nostre interazioni con post, reel, video, gli articoli che
leggiamo, le pagine che seguiamo, i prodotti che cerchiamo online, tutto serve
ad alimentare quell’enorme tesoro che sono i dataset, che le aziende utilizzano
per creare il loro profitto e per alimentarlo, propinandoci, attraverso gli
algoritmi, contenuti sempre più mirati e sempre più targettizzati, creando bolle
e realtà parallele che contribuiscono a dividere e parcellizzare le popolazioni
(e che contribuiscono inoltre allo sviluppo dei software di Intelligenza
artificiale). Questa visione non è semplicemente riflesso di un timore legato
alla paura del “progresso” o alla demonizzazione degli strumenti digitali, ma è
piuttosto, come afferma anche Mazzini, l’osservazione di una realtà fattuale:
siamo prodotti, e al contempo lavoriamo gratuitamente.
Uno dei modi in cui l’utilizzo dei social ha completamente plasmato la nostra
realtà è esemplificato in maniera estremamente evidente dalla maniera in cui la
politica istituzionale se ne è servita per creare bolle di opinione e
polarizzare l’opinione pubblica. Mazzini riassume bene il modo in cui Donald
Trump se ne è servito per raccogliere un consenso sempre maggiore, coalizzandosi
anche con i proprietari delle aziende tech. Stiamo assistendo proprio in questi
mesi alle dinamiche (e ai teatrini) fra Trump ed Elon Musk, personaggio sempre
più al centro della politica statunitense. Un esempio più circoscritto, ma anche
più vicino geograficamente, è la cosiddetta Bestia, il meccanismo
propagandistico ideato da Luca Morisi per sostenere Matteo Salvini
nell’acquisizione di consenso e voti a partire dal 2017.
> Non si tratta di paura del “progresso” o di demonizzazione degli strumenti
> digitali, è l’osservazione di una realtà fattuale: siamo prodotti, e al
> contempo lavoriamo gratuitamente.
Mazzini dedica un lungo capitolo al fenomeno dello sharenting – termine coniato
dalla crasi tra share (condividere) e parenting (genitorialità) – nel quale
racconta, attraverso numerosi esempi, di come le bambine e i bambini vengano
usati da alcune famiglie per produrre alti profitti, talvolta in grado di
mantenere l’intera famiglia e permettere una vita agiata. Ma a che prezzo? Come
zia di due nipoti molto piccole mi interrogo moltissimo, così come i loro
genitori, sul modo in cui le forme sociali influenzano i loro comportamenti, il
loro umore, i loro gusti in quanto persone socializzate come donne. Ancor di
più, lo faccio in relazione all’influenza che hanno i social network nella
creazione di un immaginario sessualizzante e sessualizzato anche per bambine
molto piccole. Ma la questione non è individuale. Prima di tutto, il prezzo che
lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere un’infanzia
libera, soprattutto libera dallo sguardo altrui. Queste bambine e questi bambini
vengono ripresi in ogni momento della loro quotidianità (mentre mangiano,
giocano, fanno il bagno, si vestono), esposti in momenti di vulnerabilità (quei
reel che ci fanno tanto ridere con i bambini che piangono disperati perché
sgridati o perché si sono fatti male giocando), utilizzati come fenomeni da
baraccone o, peggio ancora, fatti recitare una parte.
Un esempio estremamente inquietante che viene fatto nel libro è quello di Wren
Eleanor, una bambina che fin dai tre anni è stata mostrata su un profilo TikTok
gestito dalla madre, che la esponeva anche attraverso video ambigui e
sessualizzanti, in cui la bambina mangiava cibi di forma fallica o aveva
atteggiamenti provocatori. Analizzando l’account era evidente che quei video
fossero i contenuti con più visualizzazioni del profilo, e che fossero anche
molto spesso pieni di commenti riconducibili a reti di pornografia infantile. Il
caso Wren ha fatto emergere un movimento spontaneo, con molte persone che hanno
chiesto alla madre di cancellare i video e che hanno cominciato a parlare dei
problemi legati a questo tipo di account.
Ma il fenomeno è enorme ed estremamente produttivo e sono numerosi i genitori
che non rispettano il consenso delle loro figlie, pensando evidentemente di
possederle, al punto da utilizzare la loro infanzia come merce. Il canale
Fantastic Adventures, per esempio, era gestito da una madre che sottoponeva i
figli a privazioni di cibo e violenze di altro genere per obbligarli a
partecipare ai video. Oppure il caso emerso l’anno scorso in cui la figlia
dell’influencer Ruby Franke ha testimoniato nel processo in cui la madre è stata
accusata per abusi su minori, raccontando l’esperienza di chi cresce come
vittima del family vlogging.
Casi come questi, ci dice Mazzini, “ci mostrano come dietro i contenuti
apparentemente innocui e divertenti, in cui i bambini sembrano sempre felici,
spensierati e amati, possa nascondersi una realtà ben diversa”. Pensiamo che sia
divertente vedere il video di un bambino che fa qualcosa di buffo, o che sia
innocuo l’utilizzare i propri figli per produrre canali YouTube pieni di
contenuti di intrattenimento, ma “ignoriamo che quei bambini, che vediamo
sorridere per intrattenere i nostri, potrebbero essere costretti a ripetere le
stesse scene decine di volte, imparare copioni precisi […] per assecondare i
desideri di genitori inebriati dall’algoritmo”. Questi fenomeni, che sembrano
riguardare solo chi lavora effettivamente con l’immagine della propria famiglia
e dei propri figli, sono in realtà estremamente pervasivi della quotidianità di
molte persone, e si concretizzano per esempio nel caricamento costante di foto e
video che ritraggono bambinə anche molto piccolə senza oscurare il volto;
pratica che, dice anche Mazzini, fino a un certo punto era una prassi delle
regole non scritte dei social.
> Il prezzo che lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere
> un’infanzia libera dallo sguardo altrui.
Il capitolo sullo sharenting è seguito da una riflessione molto interessante sul
modo in cui i social hanno modificato il nostro rapporto con la morte –
argomento affrontato in maniera puntuale anche dal tanatologo Davide Sisto – al
punto da permetterci di scrivere dei messaggi che potranno poi essere pubblicati
sui nostri profili alla nostra morte. Anche quello che Mazzini chiama
“capitalismo della pietà” – che consiste in video di persone che vanno in giro a
regalare soldi a chi si dimostra “buono” – ha molto spazio nel libro, così come
il “reality show della malattia”, per cui vengono messe in mostra malattie,
disabilità, situazioni di disagio sociale e psicologico al fine di guadagnare
visualizzazioni (e quindi denaro).
Messa in questi termini, verrebbe voglia di scappare da ogni forma di socialità
digitale. Forse, in parte, sarebbe auspicabile, ma la realtà è che per molte di
noi utilizzare questi strumenti è ancora utile (per alcune persone necessario) e
che, afferma Mazzini, disertare completamente da alcuni spazi sociali online –
come è stato fatto nella disiscrizione di massa da Twitter, ora X, dopo
l’acquisto della piattaforma da parte di Elon Musk – può portare alla creazione
di bolle di violenza e radicalizzazione di destra inscalfibili. Al contempo,
boicottare alcune piattaforme e cercare forme di socialità online alternative è
più che positivo. I social network si sono succeduti nel tempo e se alcuni hanno
avuto la meglio sugli altri è stato per la loro capacità di rispondere ad alcune
esigenze, ma queste esigenze possono cambiare.
Alla fine del saggio Mazzini riflette anche su questo e, pur senza fornire
esplicitamente delle alternative precise, evidenzia la necessità di smettere di
accettare passivamente un sistema che in realtà non ci sta facendo del bene, e
di concedere così tanto potere a queste piattaforme sulle nostre vite.
Servirebbero, anche, delle azioni di politica istituzionale che invece tardano
ad arrivare, per proteggere i dati dellə utenti, per limitare la possibilità di
utilizzo da parte delle aziende, per informare le persone piccole e giovani
riguardo al funzionamento delle tecnologie e dei social network. Serve però
soprattutto, a suo avviso, un cambiamento di immaginario e di cultura in cui
“piattaforme, brand, agenzie, creator e utenti” lavorino in direzione comune, ma
anche e principalmente che la comunicazione abbandoni la sua ossessione per la
viralità, cercando modalità che avvicinino utenti e creator, che
responsabilizzino lə utenti e non li trattino da oggetti passivi.
Mazzini ci invita a chiederci:
> Vogliamo davvero accettare di essere parte di un meccanismo che si nutre di
> noi, trasformando le nostre vite in semplici dati per macchine insaziabili?
> […] Per anni abbiamo lavorato gratuitamente, in silenzio, trasformando la
> nostra presenza digitale in una merce da vendere al miglior offerente. […]
> Riprenderci il controllo significa soprattutto guardare oltre gli schermi,
> ritrovando valore nelle comunità fisiche che spesso abbiamo trascurato. Questi
> spazi, fragili ma preziosi, offrono la possibilità di costruire relazioni
> autentiche, dove l’interazione non è filtrata da algoritmi o metriche di
> successo.
Il primo passo per uscire dagli schermi forse è ricordarci che tutto quello che
vediamo delle vite altrui attraverso i social è una costruzione fatta per
mostrarsi migliore, per raccontare un’idea di vita e, molto più di frequente,
venderci qualcosa.
L'articolo Il lato oscuro dei social network di Serena Mazzini proviene da Il
Tascabile.