L’ 11 novembre 2023 l’account ufficiale del ministero degli Affari esteri
israeliano ha pubblicato il video di un’infermiera, in preda al panico, che
denunciava l’invasione dell’ospedale Al-Shifa a Gaza City da parte di Hamas,
accusato di aver rubato morfina e carburante. Un’esplosione interrompe la sua
denuncia concitata, dando una prova tangibile dell’attacco. Al Jazeera chiederà
l’autenticazione del video a Earshot, la prima organizzazione no profit a
utilizzare il suono per la difesa dei diritti umani. L’analisi acustica rivelerà
che il suono dell’esplosione presenta un profilo completamente diverso rispetto
a quello della voce registrata nella stanza: le frequenze attivate non
coincidono, e pare che il rumore dell’esplosione sia stato aggiunto al video in
un secondo momento. Il video è pertanto un falso.
L’autenticazione è solo una delle modalità di indagine sonora di Earshot,
l’audiobalistica è un’altra. Per Forbidden Stories, un network internazionale di
giornalisti, Earshot ha analizzato l’attacco ai due giornalisti di ArabTV che
stavano filmando un raid israeliano in Cisgiordania nel maggio 2024. L’analisi
acustica ha confermato le testimonianze secondo cui gli spari, entrambi diretti
ai giornalisti, provenivano da più posizioni, da più di un tiratore, e che il
secondo sarebbe stato sparato con alta probabilità dalla posizione in cui si
trovavano i veicoli dell’esercito israeliano. L’analisi prova quindi che
l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sui giornalisti.
Earshot pratica anche la profilazione sonora, utile a identificare e isolare le
fonti di suono non visibili nelle registrazioni. Tra il 2007 e il 2022 ha
indagato sulla presenza illecita di aerei militari israeliani sui cieli
libanesi, ha profilato e documentato meticolosamente le 22.355 violazioni aeree
illegali di veicoli israeliani. Ne è nato AirPressure.info, uno studio che ha
permesso di rendere evidente la violazione del territorio e l’esercizio di
sorveglianza e di intimidazione sui milioni di persone che vivono in Libano.
> Earshot pratica la profilazione sonora, utile a identificare e isolare le
> fonti di suono non visibili nelle registrazioni ed è derivato dalla più ampia
> ricerca nel campo delle indagini audio e analisi forensi dell’artista Lawrence
> Abu Hamdan, con l’obiettivo di dare voce alle comunità vulnerabili.
Earshot è derivato dalla più ampia ricerca e dal lavoro nel campo delle indagini
audio e analisi forensi dell’artista Lawrence Abu Hamdan, con l’obiettivo di
dare voce alle comunità vulnerabili. Lawrence Abu Hamdan ha una formazione da
musicista e una profonda conoscenza delle tecnologie che circondano la
produzione musicale, per questo tende a non definirsi propriamente un artista,
piuttosto un “private ear” giocando con l’espressione “private eye”, cioè
detective privato, sostituendo eye (occhio) con ear (orecchio). Al di là delle
definizioni, si pone quindi come testimone di crimini alla soglia della
percettibilità, e a partire dall’osservazione dei confini della visibilità e
dell’udibilità, si propone di documentare e riprodurre gli eventi che li hanno
generati.
Due le premesse di questa pratica, la prima, storico-giuridica, è stata
l’introduzione del Police and Criminal Evidence Act (PACE), la legge introdotta
nel 1984 nel Regno Unito che ha innescato una rivoluzione nelle pratiche
testimoniali e nella definizione legale della “verità”. Questa legge ha imposto
che gli interrogatori di polizia venissero registrati, sostituendo la prassi
della trascrizione scritta da parte degli agenti con le registrazioni. Questo ha
trasformato la testimonianza da forma scritta a orale, aprendo a una nuova
modalità di ascolto che ha inciso profondamente sia sul modo in cui viene
percepita la voce del soggetto interrogato, sia sulle norme che ne regolano
l’uso.
La seconda premessa, filosofica, è stata la svolta materiale nella fenomenologia
dell’ascolto. Il lavoro di Lawrence Abu Hamdan deve molto alle ricerche di Peter
French, docente del Dipartimento di Lingua e scienze linguistiche
dell’Università di York. French inaugura un approccio profondamente materiale al
suono, inteso come un oggetto fisico, con un corpo e una presenza concreta,
qualcosa che si può analizzare, sezionare e replicare. L’ascolto di conseguenza
si offre come strumento capace di comprendere l’anatomia del suono e di farne
emergere una quantità sorprendente di informazioni: il tipo di spazio in cui è
stato registrato, il dispositivo utilizzato, la provenienza geografica di una
voce, e magari anche l’età, le condizioni di salute o l’origine etnica della
persona che parla.
Il suono, che era stato letto dalla tradizione filosofica come un’esperienza
soggettiva, un elemento a-storico e intangibile, rivela nella ricerca di French
e nelle applicazioni di Lawrence Abu Hamdan la sua natura sociale e materiale.
Non si può dire che questo sia stato sufficiente a invertire la centralità del
visivo nella società contemporanea, basti pensare che continuiamo a non avere un
vocabolario per definire il suono, e spesso proviamo a imitare i suoni con la
bocca, o ricorriamo a metafore visive e tattili per descrivere suoni, che
diventano quindi “limpidi”, “aspri”, “morbidi” o “graffianti” sebbene entità che
non si lasciano né vedere né toccare o assaporare. Altrettanto spesso ricorriamo
alle similitudini: “è come se ti passasse un camion sopra la testa”, o “è come
il suono di un trapano che sfonda un cartongesso”.
> Il suono, che era stato letto dalla tradizione filosofica come un’esperienza
> soggettiva, un elemento a-storico e intangibile, rivela nella ricerca di
> French e nelle applicazioni di Lawrence Abu Hamdan la sua natura sociale e
> materiale.
Questi sono due esempi tratti dall’ultimo lavoro di Lawrence Abu Hamdan Zifzafa,
che provano a rendere il suono di 31 turbine eoliche che il governo israeliano
prevede di installare nel Golan. Zifzafa è la simulazione digitale del progetto
di parco eolico proposto da Energix che prevede l’occupazione di un territorio
di circa 430 ettari. Per ricostruire il paesaggio sonoro che potrebbe delinearsi
in seguito all’installazione delle pale, Lawrence Abu Hamdan s’è servito delle
registrazioni del rumore generato dalle turbine eoliche a Gaildorf, un piccolo
comune nel sud della Germania. Quella dell’annessione sonora è solo un capitolo
di una lunga storia di espropriazione e pulizia etnica che la comunità del Golan
sta affrontando da decenni.
Era il 1967 quando Israele ha occupato il 70% del territorio e sfollato i suoi
abitanti, e nell’estate 2023 ha respinto con gas lacrimogeni, proiettili con
punta di spugna e un cannone ad acqua le migliaia di manifestanti contrari
all’attuazione del piano per la costruzione di turbine eoliche, che non ha mai
avuto il consenso dei proprietari terrieri. Come in altri lavori di Lawrence Abu
Hamdan, in Zifzafa ci imbattiamo in posizionamenti filosofici, tematiche
politiche, sistemi legali, questioni riguardanti i confini, la giurisdizione, le
forme di controllo e riflessioni sul potere della ricostruzione sonora,
attraversiamo zone di conflitto geopolitico, cartografie coloniali e subdole
pratiche di ecocidio travestite da futuro decarbonizzato, e tutto nello spazio
di venti minuti.
A circa metà del video viene citata la disavventura di Don Chisciotte contro i
mulini a vento e di come Sancho Panza avesse provato a dissuaderlo dall’impresa.
Come Sancho Panza corriamo il rischio di considerare le pale eoliche innocue,
anzi utili mezzi per un futuro verde e pulito; chi abita le alture del Golan
d’altro canto, come Don Chisciotte, continuerà a vedere in esse una presenza
minacciosa, vorace di terra e mezzi di sostentamento, un pericolo per il tessuto
sociale delle comunità. “Zifzafa” vuol dire questo in arabo: il vento che scuote
e percuote tutto ciò che incontra sul suo cammino.
> Come in altri lavori di Lawrence Abu Hamdan, in Zifzafa ci imbattiamo in
> posizionamenti filosofici, tematiche politiche, sistemi legali, questioni
> riguardanti i confini, la giurisdizione, le forme di controllo e riflessioni
> sul potere della ricostruzione sonora.
Il rumore generato dalle turbine rivendica tutta la sua concretezza, occupa con
violenza lo spazio, interrompe ogni rete comunitaria e frattura ogni possibilità
che il tessuto sociale della comunità possa esistere. La ricostruzione non si
limita a riprodurre il suono delle turbine ma anche l’attuale paesaggio sonoro
di quel territorio: zappe che lavorano la terra, greggi belanti, il ronzio delle
api intorno alle arnie, il silenzio del paesaggio a riposo, voci lontane che si
cercano da una valle all’altra non temendo alcun confine. Questi suoni sono
potenti atti di resistenza e Zifzafa vuole riconoscere loro il diritto
all’autodeterminazione sonora. Sono suoni che rifiutano la morte e cantano per
la loro terra e non smettono mai di raccontarcene la vita. Sono un lascito di
speranza, amore e resistenza.
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A lla parola paesaggio comunemente associamo la vista su delle colline, il verde
dei boschi, una pianura nella nebbia: molto dipende da dove siamo cresciuti,
qual è il posto a cui siamo legati in modo particolare, ma tendenzialmente il
paesaggio, nella nostra testa, somiglia molto a un quadro, è un panorama legato
quasi esclusivamente alla vista. Eppure un aspetto fondamentale dei luoghi è
quello sonoro: ogni posto ha un suo soundscape, un paesaggio sonoro specifico,
che varia, esattamente come l’aspetto visivo, allo scorrere delle ore del giorno
e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare degli anni.
Per chi vive in città il soundscape è un assedio di rumori incessanti, ma anche
quei luoghi che consideriamo più silenziosi – la cima di una montagna, una
spiaggia deserta – sono intessuti di suoni.
Fra questi due estremi, dal fastidio violento alla piacevolezza pacifica, si
muove la considerazione quasi puramente estetica che abbiamo del paesaggio
sonoro: ma prestare attenzione a cosa ci dicono i suoni può essere fondamentale
per accorgerci dei cambiamenti avvenuti in un ambiente, della riduzione della
biodiversità, della salute di un territorio, e dei benefici o danni che i suoni
possono apportare agli esseri viventi che lo abitano. A volte, infatti, è
proprio tendendo l’orecchio al paesaggio che ci arriva un segnale di allarme.
Primavera silenziosa, il famoso saggio di Rachel Carson pubblicato nel 1962 che
in qualche modo ha dato avvio al movimento ecologista statunitense, si apre con
una domanda: “Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade
d’America?”. Il silenzio che improvvisamente dominava la primavera, al posto del
canto di innumerevoli specie di uccelli e del ronzio delle api, è l’aspetto
scelto dalla biologa per presentare, fin dal titolo, la sua indagine sulle
conseguenze dell’uso indiscriminato del DDT e di altri fitofarmaci.
Qualche anno dopo, all’incirca dalla fine degli anni Sessanta, alcuni studiosi
hanno cominciato a occuparsi di ecologia acustica, o ecologia dei paesaggi
sonori – ossia quella branca dell’ecologia che studia le relazioni fra i suoni
di un paesaggio e gli esseri viventi che lo abitano – nella convinzione che
l’aspetto sonoro delle questioni ambientali sia un tassello importante, che ci
può dire molto sullo stato di salute degli ecosistemi, sulla progettazione degli
spazi urbani, sui modi di condurre la transizione, sulle vite che vogliamo,
perfino sulla pace che desideriamo.
> Quando parliamo di paesaggio tendenzialmente pensiamo a un panorama legato
> quasi esclusivamente alla vista. Eppure, un aspetto fondamentale dei luoghi è
> quello sonoro: un paesaggio altrettanto specifico, che varia allo scorrere
> delle ore del giorno e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare
> degli anni.
Occuparsi di ecologia richiede spesso di impegnarsi a prestare attenzione a ciò
che alla nostra attenzione sfugge, perché difficile da comprendere, perché
invisibile, perché su scala troppo grande per averne una visione completa,
perché ha una dimensione temporale sfasata rispetto agli interessi politici e
alla nostra capacità di proiettarci nel futuro: a queste difficoltà, nel caso
dell’ecologia dei paesaggi sonori, si aggiunge il fatto che la vista, per gli
umani, è il senso a cui affidiamo gran parte delle nostre valutazioni, l’udito
ha un posto secondario, almeno a livello conscio, ed è così che sottovalutiamo
gli effetti dell’inquinamento acustico sulla nostra salute, i danni provocati
dai rumori delle guerre, la ricchezza sonora che stiamo perdendo assieme alla
biodiversità, e quanto sia importante, nell’immaginare il futuro, pensare anche
a come questo suonerà.
L’antropofonia e l’inquinamento acustico
Per cominciare a indagare di cosa è fatto un paesaggio sonoro possiamo partire
dalla divisione dei suoni in tre macrocategorie, o domini. Il primo è la
geofonia, ossia l’insieme dei suoni naturali provenienti da fonti abiotiche – il
mare, un fiume, il vento, un tuono, il brontolio selvaggio di un terremoto,
l’eruzione di un vulcano: ed è proprio l’eruzione del Krakatoa nel 1883 ad aver
generato l’onda sonora più potente mai registrata, con un boato di 310 decibel
(dB). C’è poi la biofonia, tutti quei suoni naturali emessi dagli esseri
viventi, animali e vegetali. Infine, l’antropofonia, cioè ogni nota, rumore,
boato o scricchiolio prodotti dagli umani, dalla musica più raffinata
all’insopportabile rombo di un aereo in decollo.
> Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
> esposizione al rumore, per quanto riguarda le città esistono solo delle
> raccomandazioni dell’OMS che vengono in larghissima parte disattese.
È proprio l’insieme dei rumori artificiali prodotti dalle attività umane a
costituire il tappeto sonoro predominante per chi vive nelle aree urbane: nel
mondo circa il 55% della popolazione, che si stima diventerà il 68% entro il
2050; in Italia la percentuale si aggira già attorno al 70% e sale al 91%,
secondo i dati Istat, che però comprendono anche i centri abitati più piccoli.
Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
esposizione che fissano a 80 dB la soglia media di attenzione (con picchi non
oltre i 135 dB) e a 87 dB la media massima che non può essere superata (con
picchi di 140 dB), per i rumori degli ambienti urbani in cui siamo immersi
esistono solo delle raccomandazioni dell’OMS (Organizzazione Mondiale della
Sanità) che vengono in larghissima parte disattese. Secondo le linee guida sul
rumore ambientale per l’Europa dell’OMS, infatti, il limite di esposizione al
rumore del traffico su strada sarebbe di 53 dB di giorno, 45 dB di notte. Quasi
un cittadino su tre, in Europa, vive in ambienti che superano, spesso anche di
molto, questi limiti: sono circa novantadue milioni di persone. Diciotto milioni
di persone, sempre in Europa, vivono in zone in cui il traffico ferroviario
produce rumori oltre la soglia prevista; e due milioni e mezzo di persone sono
esposte al rumore del traffico aereo.
Effetti dell’inquinamento acustico
La scarsa attenzione che prestiamo agli aspetti sonori dell’ambiente in cui
viviamo si riflette anche nella poca considerazione che abbiamo per i danni che
l’esposizione al rumore può avere: l’inquinamento acustico è fra le minacce
ambientali più pericolose per la salute, dopo quello atmosferico e il caldo
estremo. Lo scorso giugno, l’EEA (l’agenzia europea per l’ambiente) ha
presentato il rapporto Environmental noise in Europe, secondo il quale
l’inquinamento acustico è la causa di circa 66.000 decessi prematuri all’anno in
Europa, 50.000 nuovi casi di malattie cardiovascolari e 22.000 casi di diabete
di tipo 2. Oltre agli effetti diretti, ci sono quelli indiretti o a lungo
termine, come acufeni, stress, ansia, disturbi del sonno e difficoltà di
concentrazione, fino a depressione e demenza. Sono preoccupanti anche gli
effetti sui più piccoli: pare che l’esposizione continua al rumore del traffico
provochi difficoltà e ritardi nella lettura in circa mezzo milione di bambini e
disturbi del comportamento su circa 60.000. Si stima anche che circa 272.000
casi di sovrappeso infantile possano essere associati a livelli alti di rumore.
> L’inquinamento acustico è fra le minacce ambientali più pericolose per la
> salute: basti pensare che ogni anno, solo in Europa, causa 66.000 decessi
> prematuri. Per non parlare degli effetti indiretti su acufene, ansia, disturbi
> del sonno, difficoltà di concentrazione e depressione.
In complesso, sempre secondo lo stesso rapporto, in Europa perdiamo ogni anno
1,3 miliardi di anni di vita in buona salute (è l’indice DALY che somma gli anni
di vita persi per morti premature a quelli vissuti con malattie o disturbi
invalidanti). Un numero che fa impressione, ma forse non abbastanza da muoverci
all’azione: stando alle proiezioni dell’agenzia europea, senza forti misure
aggiuntive e senza nuovi investimenti non riusciremo a raggiungere l’obiettivo
di ridurre del 30% entro il 2030 il numero di persone che subiscono alti livelli
di inquinamento acustico (nello specifico, quello generato dal sistema dei
trasporti). Eppure i danni elencati hanno un costo elevato, stimato in 95,6
miliardi di euro l’anno: un numero da citare non perché serva assegnare un
valore economico alla nostra salute, ma per dare concretezza a qualcosa che ci
sembra semplice tappeto sonoro – il rumore del traffico nelle città – e che
solitamente consideriamo come secondario, incapace di produrre effetti concreti,
quando invece è perfino misurabile, sui nostri corpi e sui bilanci degli Stati.
Il rumore delle armi, il rumore come arma
Se il rumore del traffico è diventato una presenza costante e pervasiva del
paesaggio sonoro in cui siamo immersi, nel dominio dell’antropofonia in cima
alla lista dell’intensità si trovano i suoni prodotti da armi e mezzi di guerra:
il suono antropico più potente è quello generato dall’esplosione di una bomba
atomica, che supera i 200 dB. Anche in questi casi l’aspetto acustico ci sembra
marginale – e chiaramente di fronte a strumenti che producono morte il fatto che
producano anche dei rumori è marginale – ma essere sottoposti continuamente a
rumori così forti e innaturali, dal ronzio costante dei droni, al rombo degli
aerei militari, e poi le esplosioni, gli spari, gli allarmi, le urla, ha degli
impatti a lungo termine: in chi sopravvive; le conseguenze dell’esposizione
prolungata a questo tipo di rumori sono una parte importante dei disturbi
post-traumatici da stress, che spesso comprendono ipersensibilità ai rumori,
specie se forti e improvvisi.
> In cima alla lista dei suoni più potenti prodotti dall’essere umano ci sono
> quelli generati da armi e mezzi di guerra: l’esplosione di una bomba atomica,
> per dire, provoca un rumore che supera i 200 dB.
Esiste inoltre un’intera categoria di armi che usano proprio le onde sonore come
strumento di offesa: sono le armi soniche, o LRAD – Longe-Rage Acustic Device,
dispositivi acustici a lungo raggio –, vietate in molti Paesi, fra cui la
Serbia, che però è sospettata di averle utilizzate per disperdere la folla di
manifestanti in piazza il 15 marzo 2025. Le autorità di Belgrado negano di aver
utilizzato armi soniche, anche se hanno ammesso di averne acquistate. La
popolazione ha richiesto delle indagini indipendenti per chiarire i fatti, ma
quello che colpisce dei video diffusi in rete è l’invisibilità dell’onda che si
abbatte sul corteo, che si divide in due, con le persone che scappano dal centro
della strada, un’immagine che somiglia molto al rapporto che abbiamo con il
suono: qualcosa che sfugge alla nostra attenzione, ma di cui subiamo l’impatto.
Nel documentario Vibrations from Gaza, dell’artista Rehab Nazzal, il suono della
guerra oltre che invisibile diventa anche inudibile: i protagonisti sono bambini
sordomuti della Striscia di Gaza – una di loro, Amani, dice che “è una
benedizione essere sorda, così sono la meno terrorizzata quando bombardano” –, e
per tutto il film gli unici rumori sono il ronzio dei droni e le onde del mare.
I bambini raccontano quello che percepiscono degli aerei da guerra e delle bombe
che cadono: le vibrazioni dell’aria, del pavimento e dei loro corpi: la fisicità
del rumore, che rende impossibile il silenzio, finché non c’è pace, perfino per
chi non è in grado di udire la guerra.
Il silenzio: non solo un’assenza di suoni
Pace e silenzio sono due parole spesso associate: e come non si può definire la
pace per negazione, come solo assenza di guerra, così non si può definire il
silenzio per pura sottrazione del rumore.
> Un esempio chiaro del modo antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è
> che abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma
> sulla soglia minima di percezione umana.
Eppure una prima idea di silenzio che ci viene alla mente è l’assenza di rumori
umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente auto, aerei e navi,
niente bombe, niente fuochi d’artificio, niente allarmi, sirene e suonerie,
niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente cantieri, demolizioni e
costruzioni. In breve, potremmo definire l’idea comune di silenzio come un
paesaggio sonoro in cui manca tutto l’insieme dell’antropofonia: sottraendo i
suoni di origine umana, rimangono quelli degli altri esseri viventi, o biofonia,
e degli elementi naturali non viventi, come quelli prodotti dai movimenti
dell’aria, dell’acqua o della terra, ossia la geofonia. Non è un silenzio
assoluto, ma un silenzio naturale, che non ha niente a che vedere con un vuoto,
ma è uno spazio sonoro pieno delle voci che altrimenti sono sopraffatte dai
rumori artificiali: canti degli uccelli, frinire di insetti, onde del mare,
scrosciare di fiumi e frusciare di foglie.
In Storia naturale del silenzio (2024) Jérôme Sueur va a indagare proprio cosa
c’è dentro il silenzio naturale, rendendo evidente che, se già prestiamo poca
attenzione agli aspetti sonori delle nostre vite, ancora meno ne prestiamo al
silenzio, che non è affatto univoco, né assoluto, né vuoto o assenza. Un esempio
chiaro del modo tutto antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è che
abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma sulla
soglia minima di percezione umana: esistono in realtà suoni che misurano decibel
negativi perfettamente udibili da molte specie, ciascuna con una sua soglia di
silenzio differente.
> La nostra idea comune di silenzio è un paesaggio sonoro in cui mancano del
> tutto i rumori umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente
> allarmi, sirene e suonerie, niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente
> cantieri, demolizioni e costruzioni.
Nei linguaggi animali il silenzio non è vuoto, può essere un segnale amoroso, di
allerta o di sfida, ma può essere anche un segnale di morte e perdita: quando
una specie scompare, scompare anche il suono che è in grado di produrre. Così,
come “il silenzio nelle contrade di America” indicava che qualcosa stava
accadendo alle popolazioni di uccelli, registrare suoni e vibrazioni può dare
indicazioni precise sullo stato di salute degli ecosistemi e sulla biodiversità
che li abita.
Il silenzio dell’estinzione: l’ecoacustica per il monitoraggio della
biodiversità
È da questo proposito – monitorare la biodiversità attraverso il suono – che,
circa mezzo secolo dopo quell’intuizione di Rachel Carson, l’ecoacustica nasce
ufficialmente come disciplina, nel 2014, in Francia, al Muséum national
d’Histoire naturelle, grazie al lavoro di un gruppo di ricercatori, fra cui lo
stesso Jérôme Sueur. Alcuni ecosistemi sono nascosti alla vista: è il caso dei
ricercatori della Flinders University di Adelaide, nell’Australia meridionale,
che hanno registrato i suoni prodotti dalle comunità sotterranee di invertebrati
per monitorare lo stato di salute e di fertilità del suolo; oppure di specie
indistinguibili all’occhio, ma non all’orecchio, come alcune specie di rane; o
ancora di ecosistemi così vasti e difficili da raggiungere – l’oceano più
aperto, le profondità marine più inaccessibili – dove poter semplicemente
registrare e analizzare i suoni diventa il metodo più praticabile, e meno
invasivo, di monitoraggio.
I suoni prodotti da ciascuna specie sono un indicatore della biodiversità ma
anche, e soprattutto, una ricchezza in sé: e quando una specie scompare, quando
l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i suoi richiami d’amore rivolti ormai a
nessuno, perdiamo per sempre delle note, un gorgoglio, delle vibrazioni, una
melodia che nessun altro essere vivente potrà replicare. Ogni singola specie non
solo produce dei suoni caratteristici ma ha un diverso modo di percepirli,
diversi spettri uditivi, diversi organi predisposti e diversi modi in cui le
vibrazioni sonore vengono percepite ed elaborate. Così quando una specie
scompare, non scompare solo il suono che produce, ma anche il suono che ascolta.
> Quando una specie scompare, quando l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i
> suoi richiami d’amore rivolti ormai a nessuno, perdiamo per sempre delle note,
> un gorgoglio, delle vibrazioni, una melodia che nessun altro essere vivente
> potrà replicare.
Fra i vari compiti della tutela della biodiversità c’è anche fare in modo che le
altre specie animali possano continuare ad ascoltarsi fra loro: ridurre il
nostro peso sugli ecosistemi comprende quindi anche la riduzione del nostro
impatto sonoro – come, per esempio, l’inquinamento acustico del trasporto
marittimo, delle trivellazioni offshore e del deep-sea mining che stressa e
disorienta, provocando danni uditivi e a volte anche la morte, nei pesci e nei
mammiferi marini.
Immaginare un futuro silenzioso
Possiamo ripensare il nostro impatto sui paesaggi sonori; ripensare le città
tenendo a mente anche la necessità di contenere l’inquinamento acustico, per il
benessere di chi in città ci vive; ripensare la pace: “far tacere le armi” non
significa solo smettere di combattere, ma è un modo di lasciare spazio alla voce
dei popoli che con le armi vengono sottomessi, soggiogati, silenziati,
annientati; ripensare il silenzio: tacere, ridurre il rumore, non è creare un
vuoto ma creare spazio, così come quella che chiamiamo decrescita non è una
riduzione ma un modo diverso di crescere, dove alla crescita del PIL si
sostituisce quella del benessere, della salute e della giustizia.
Abbassare il livello, e il peso, dell’antropofonia sull’ambiente significa
quindi dare la possibilità di espressione ad altre specie animali, dar loro la
possibilità di tornare a comunicare, a quell’ultimo esemplare di scoprire magari
di non essere rimasto solo, e intercettare il verso di un suo simile prima che
entrambi smettano di cantare. Significa dare a noi, specie umana, la possibilità
di ascolto – delle altre specie, uscendo dal nostro antropocentrismo acustico, e
di chi, all’interno della nostra, è stato meno ascoltato –, e di immaginare un
cambiamento che tenga presente anche come potrebbe suonare il futuro che
vorremmo, una transizione non solo ecologica, non solo energetica, non solo
giusta socialmente, ma anche silenziosa, non per creare un vuoto sonoro assoluto
ma per poter ascoltare tutta quella ricchezza di voci di cui è fatto il mondo,
prima di perderle per sempre.
L'articolo Il paesaggio che (non) ascoltiamo proviene da Il Tascabile.