A lla parola paesaggio comunemente associamo la vista su delle colline, il verde
dei boschi, una pianura nella nebbia: molto dipende da dove siamo cresciuti,
qual è il posto a cui siamo legati in modo particolare, ma tendenzialmente il
paesaggio, nella nostra testa, somiglia molto a un quadro, è un panorama legato
quasi esclusivamente alla vista. Eppure un aspetto fondamentale dei luoghi è
quello sonoro: ogni posto ha un suo soundscape, un paesaggio sonoro specifico,
che varia, esattamente come l’aspetto visivo, allo scorrere delle ore del giorno
e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare degli anni.
Per chi vive in città il soundscape è un assedio di rumori incessanti, ma anche
quei luoghi che consideriamo più silenziosi – la cima di una montagna, una
spiaggia deserta – sono intessuti di suoni.
Fra questi due estremi, dal fastidio violento alla piacevolezza pacifica, si
muove la considerazione quasi puramente estetica che abbiamo del paesaggio
sonoro: ma prestare attenzione a cosa ci dicono i suoni può essere fondamentale
per accorgerci dei cambiamenti avvenuti in un ambiente, della riduzione della
biodiversità, della salute di un territorio, e dei benefici o danni che i suoni
possono apportare agli esseri viventi che lo abitano. A volte, infatti, è
proprio tendendo l’orecchio al paesaggio che ci arriva un segnale di allarme.
Primavera silenziosa, il famoso saggio di Rachel Carson pubblicato nel 1962 che
in qualche modo ha dato avvio al movimento ecologista statunitense, si apre con
una domanda: “Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade
d’America?”. Il silenzio che improvvisamente dominava la primavera, al posto del
canto di innumerevoli specie di uccelli e del ronzio delle api, è l’aspetto
scelto dalla biologa per presentare, fin dal titolo, la sua indagine sulle
conseguenze dell’uso indiscriminato del DDT e di altri fitofarmaci.
Qualche anno dopo, all’incirca dalla fine degli anni Sessanta, alcuni studiosi
hanno cominciato a occuparsi di ecologia acustica, o ecologia dei paesaggi
sonori – ossia quella branca dell’ecologia che studia le relazioni fra i suoni
di un paesaggio e gli esseri viventi che lo abitano – nella convinzione che
l’aspetto sonoro delle questioni ambientali sia un tassello importante, che ci
può dire molto sullo stato di salute degli ecosistemi, sulla progettazione degli
spazi urbani, sui modi di condurre la transizione, sulle vite che vogliamo,
perfino sulla pace che desideriamo.
> Quando parliamo di paesaggio tendenzialmente pensiamo a un panorama legato
> quasi esclusivamente alla vista. Eppure, un aspetto fondamentale dei luoghi è
> quello sonoro: un paesaggio altrettanto specifico, che varia allo scorrere
> delle ore del giorno e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare
> degli anni.
Occuparsi di ecologia richiede spesso di impegnarsi a prestare attenzione a ciò
che alla nostra attenzione sfugge, perché difficile da comprendere, perché
invisibile, perché su scala troppo grande per averne una visione completa,
perché ha una dimensione temporale sfasata rispetto agli interessi politici e
alla nostra capacità di proiettarci nel futuro: a queste difficoltà, nel caso
dell’ecologia dei paesaggi sonori, si aggiunge il fatto che la vista, per gli
umani, è il senso a cui affidiamo gran parte delle nostre valutazioni, l’udito
ha un posto secondario, almeno a livello conscio, ed è così che sottovalutiamo
gli effetti dell’inquinamento acustico sulla nostra salute, i danni provocati
dai rumori delle guerre, la ricchezza sonora che stiamo perdendo assieme alla
biodiversità, e quanto sia importante, nell’immaginare il futuro, pensare anche
a come questo suonerà.
L’antropofonia e l’inquinamento acustico
Per cominciare a indagare di cosa è fatto un paesaggio sonoro possiamo partire
dalla divisione dei suoni in tre macrocategorie, o domini. Il primo è la
geofonia, ossia l’insieme dei suoni naturali provenienti da fonti abiotiche – il
mare, un fiume, il vento, un tuono, il brontolio selvaggio di un terremoto,
l’eruzione di un vulcano: ed è proprio l’eruzione del Krakatoa nel 1883 ad aver
generato l’onda sonora più potente mai registrata, con un boato di 310 decibel
(dB). C’è poi la biofonia, tutti quei suoni naturali emessi dagli esseri
viventi, animali e vegetali. Infine, l’antropofonia, cioè ogni nota, rumore,
boato o scricchiolio prodotti dagli umani, dalla musica più raffinata
all’insopportabile rombo di un aereo in decollo.
> Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
> esposizione al rumore, per quanto riguarda le città esistono solo delle
> raccomandazioni dell’OMS che vengono in larghissima parte disattese.
È proprio l’insieme dei rumori artificiali prodotti dalle attività umane a
costituire il tappeto sonoro predominante per chi vive nelle aree urbane: nel
mondo circa il 55% della popolazione, che si stima diventerà il 68% entro il
2050; in Italia la percentuale si aggira già attorno al 70% e sale al 91%,
secondo i dati Istat, che però comprendono anche i centri abitati più piccoli.
Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
esposizione che fissano a 80 dB la soglia media di attenzione (con picchi non
oltre i 135 dB) e a 87 dB la media massima che non può essere superata (con
picchi di 140 dB), per i rumori degli ambienti urbani in cui siamo immersi
esistono solo delle raccomandazioni dell’OMS (Organizzazione Mondiale della
Sanità) che vengono in larghissima parte disattese. Secondo le linee guida sul
rumore ambientale per l’Europa dell’OMS, infatti, il limite di esposizione al
rumore del traffico su strada sarebbe di 53 dB di giorno, 45 dB di notte. Quasi
un cittadino su tre, in Europa, vive in ambienti che superano, spesso anche di
molto, questi limiti: sono circa novantadue milioni di persone. Diciotto milioni
di persone, sempre in Europa, vivono in zone in cui il traffico ferroviario
produce rumori oltre la soglia prevista; e due milioni e mezzo di persone sono
esposte al rumore del traffico aereo.
Effetti dell’inquinamento acustico
La scarsa attenzione che prestiamo agli aspetti sonori dell’ambiente in cui
viviamo si riflette anche nella poca considerazione che abbiamo per i danni che
l’esposizione al rumore può avere: l’inquinamento acustico è fra le minacce
ambientali più pericolose per la salute, dopo quello atmosferico e il caldo
estremo. Lo scorso giugno, l’EEA (l’agenzia europea per l’ambiente) ha
presentato il rapporto Environmental noise in Europe, secondo il quale
l’inquinamento acustico è la causa di circa 66.000 decessi prematuri all’anno in
Europa, 50.000 nuovi casi di malattie cardiovascolari e 22.000 casi di diabete
di tipo 2. Oltre agli effetti diretti, ci sono quelli indiretti o a lungo
termine, come acufeni, stress, ansia, disturbi del sonno e difficoltà di
concentrazione, fino a depressione e demenza. Sono preoccupanti anche gli
effetti sui più piccoli: pare che l’esposizione continua al rumore del traffico
provochi difficoltà e ritardi nella lettura in circa mezzo milione di bambini e
disturbi del comportamento su circa 60.000. Si stima anche che circa 272.000
casi di sovrappeso infantile possano essere associati a livelli alti di rumore.
> L’inquinamento acustico è fra le minacce ambientali più pericolose per la
> salute: basti pensare che ogni anno, solo in Europa, causa 66.000 decessi
> prematuri. Per non parlare degli effetti indiretti su acufene, ansia, disturbi
> del sonno, difficoltà di concentrazione e depressione.
In complesso, sempre secondo lo stesso rapporto, in Europa perdiamo ogni anno
1,3 miliardi di anni di vita in buona salute (è l’indice DALY che somma gli anni
di vita persi per morti premature a quelli vissuti con malattie o disturbi
invalidanti). Un numero che fa impressione, ma forse non abbastanza da muoverci
all’azione: stando alle proiezioni dell’agenzia europea, senza forti misure
aggiuntive e senza nuovi investimenti non riusciremo a raggiungere l’obiettivo
di ridurre del 30% entro il 2030 il numero di persone che subiscono alti livelli
di inquinamento acustico (nello specifico, quello generato dal sistema dei
trasporti). Eppure i danni elencati hanno un costo elevato, stimato in 95,6
miliardi di euro l’anno: un numero da citare non perché serva assegnare un
valore economico alla nostra salute, ma per dare concretezza a qualcosa che ci
sembra semplice tappeto sonoro – il rumore del traffico nelle città – e che
solitamente consideriamo come secondario, incapace di produrre effetti concreti,
quando invece è perfino misurabile, sui nostri corpi e sui bilanci degli Stati.
Il rumore delle armi, il rumore come arma
Se il rumore del traffico è diventato una presenza costante e pervasiva del
paesaggio sonoro in cui siamo immersi, nel dominio dell’antropofonia in cima
alla lista dell’intensità si trovano i suoni prodotti da armi e mezzi di guerra:
il suono antropico più potente è quello generato dall’esplosione di una bomba
atomica, che supera i 200 dB. Anche in questi casi l’aspetto acustico ci sembra
marginale – e chiaramente di fronte a strumenti che producono morte il fatto che
producano anche dei rumori è marginale – ma essere sottoposti continuamente a
rumori così forti e innaturali, dal ronzio costante dei droni, al rombo degli
aerei militari, e poi le esplosioni, gli spari, gli allarmi, le urla, ha degli
impatti a lungo termine: in chi sopravvive; le conseguenze dell’esposizione
prolungata a questo tipo di rumori sono una parte importante dei disturbi
post-traumatici da stress, che spesso comprendono ipersensibilità ai rumori,
specie se forti e improvvisi.
> In cima alla lista dei suoni più potenti prodotti dall’essere umano ci sono
> quelli generati da armi e mezzi di guerra: l’esplosione di una bomba atomica,
> per dire, provoca un rumore che supera i 200 dB.
Esiste inoltre un’intera categoria di armi che usano proprio le onde sonore come
strumento di offesa: sono le armi soniche, o LRAD – Longe-Rage Acustic Device,
dispositivi acustici a lungo raggio –, vietate in molti Paesi, fra cui la
Serbia, che però è sospettata di averle utilizzate per disperdere la folla di
manifestanti in piazza il 15 marzo 2025. Le autorità di Belgrado negano di aver
utilizzato armi soniche, anche se hanno ammesso di averne acquistate. La
popolazione ha richiesto delle indagini indipendenti per chiarire i fatti, ma
quello che colpisce dei video diffusi in rete è l’invisibilità dell’onda che si
abbatte sul corteo, che si divide in due, con le persone che scappano dal centro
della strada, un’immagine che somiglia molto al rapporto che abbiamo con il
suono: qualcosa che sfugge alla nostra attenzione, ma di cui subiamo l’impatto.
Nel documentario Vibrations from Gaza, dell’artista Rehab Nazzal, il suono della
guerra oltre che invisibile diventa anche inudibile: i protagonisti sono bambini
sordomuti della Striscia di Gaza – una di loro, Amani, dice che “è una
benedizione essere sorda, così sono la meno terrorizzata quando bombardano” –, e
per tutto il film gli unici rumori sono il ronzio dei droni e le onde del mare.
I bambini raccontano quello che percepiscono degli aerei da guerra e delle bombe
che cadono: le vibrazioni dell’aria, del pavimento e dei loro corpi: la fisicità
del rumore, che rende impossibile il silenzio, finché non c’è pace, perfino per
chi non è in grado di udire la guerra.
Il silenzio: non solo un’assenza di suoni
Pace e silenzio sono due parole spesso associate: e come non si può definire la
pace per negazione, come solo assenza di guerra, così non si può definire il
silenzio per pura sottrazione del rumore.
> Un esempio chiaro del modo antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è
> che abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma
> sulla soglia minima di percezione umana.
Eppure una prima idea di silenzio che ci viene alla mente è l’assenza di rumori
umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente auto, aerei e navi,
niente bombe, niente fuochi d’artificio, niente allarmi, sirene e suonerie,
niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente cantieri, demolizioni e
costruzioni. In breve, potremmo definire l’idea comune di silenzio come un
paesaggio sonoro in cui manca tutto l’insieme dell’antropofonia: sottraendo i
suoni di origine umana, rimangono quelli degli altri esseri viventi, o biofonia,
e degli elementi naturali non viventi, come quelli prodotti dai movimenti
dell’aria, dell’acqua o della terra, ossia la geofonia. Non è un silenzio
assoluto, ma un silenzio naturale, che non ha niente a che vedere con un vuoto,
ma è uno spazio sonoro pieno delle voci che altrimenti sono sopraffatte dai
rumori artificiali: canti degli uccelli, frinire di insetti, onde del mare,
scrosciare di fiumi e frusciare di foglie.
In Storia naturale del silenzio (2024) Jérôme Sueur va a indagare proprio cosa
c’è dentro il silenzio naturale, rendendo evidente che, se già prestiamo poca
attenzione agli aspetti sonori delle nostre vite, ancora meno ne prestiamo al
silenzio, che non è affatto univoco, né assoluto, né vuoto o assenza. Un esempio
chiaro del modo tutto antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è che
abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma sulla
soglia minima di percezione umana: esistono in realtà suoni che misurano decibel
negativi perfettamente udibili da molte specie, ciascuna con una sua soglia di
silenzio differente.
> La nostra idea comune di silenzio è un paesaggio sonoro in cui mancano del
> tutto i rumori umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente
> allarmi, sirene e suonerie, niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente
> cantieri, demolizioni e costruzioni.
Nei linguaggi animali il silenzio non è vuoto, può essere un segnale amoroso, di
allerta o di sfida, ma può essere anche un segnale di morte e perdita: quando
una specie scompare, scompare anche il suono che è in grado di produrre. Così,
come “il silenzio nelle contrade di America” indicava che qualcosa stava
accadendo alle popolazioni di uccelli, registrare suoni e vibrazioni può dare
indicazioni precise sullo stato di salute degli ecosistemi e sulla biodiversità
che li abita.
Il silenzio dell’estinzione: l’ecoacustica per il monitoraggio della
biodiversità
È da questo proposito – monitorare la biodiversità attraverso il suono – che,
circa mezzo secolo dopo quell’intuizione di Rachel Carson, l’ecoacustica nasce
ufficialmente come disciplina, nel 2014, in Francia, al Muséum national
d’Histoire naturelle, grazie al lavoro di un gruppo di ricercatori, fra cui lo
stesso Jérôme Sueur. Alcuni ecosistemi sono nascosti alla vista: è il caso dei
ricercatori della Flinders University di Adelaide, nell’Australia meridionale,
che hanno registrato i suoni prodotti dalle comunità sotterranee di invertebrati
per monitorare lo stato di salute e di fertilità del suolo; oppure di specie
indistinguibili all’occhio, ma non all’orecchio, come alcune specie di rane; o
ancora di ecosistemi così vasti e difficili da raggiungere – l’oceano più
aperto, le profondità marine più inaccessibili – dove poter semplicemente
registrare e analizzare i suoni diventa il metodo più praticabile, e meno
invasivo, di monitoraggio.
I suoni prodotti da ciascuna specie sono un indicatore della biodiversità ma
anche, e soprattutto, una ricchezza in sé: e quando una specie scompare, quando
l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i suoi richiami d’amore rivolti ormai a
nessuno, perdiamo per sempre delle note, un gorgoglio, delle vibrazioni, una
melodia che nessun altro essere vivente potrà replicare. Ogni singola specie non
solo produce dei suoni caratteristici ma ha un diverso modo di percepirli,
diversi spettri uditivi, diversi organi predisposti e diversi modi in cui le
vibrazioni sonore vengono percepite ed elaborate. Così quando una specie
scompare, non scompare solo il suono che produce, ma anche il suono che ascolta.
> Quando una specie scompare, quando l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i
> suoi richiami d’amore rivolti ormai a nessuno, perdiamo per sempre delle note,
> un gorgoglio, delle vibrazioni, una melodia che nessun altro essere vivente
> potrà replicare.
Fra i vari compiti della tutela della biodiversità c’è anche fare in modo che le
altre specie animali possano continuare ad ascoltarsi fra loro: ridurre il
nostro peso sugli ecosistemi comprende quindi anche la riduzione del nostro
impatto sonoro – come, per esempio, l’inquinamento acustico del trasporto
marittimo, delle trivellazioni offshore e del deep-sea mining che stressa e
disorienta, provocando danni uditivi e a volte anche la morte, nei pesci e nei
mammiferi marini.
Immaginare un futuro silenzioso
Possiamo ripensare il nostro impatto sui paesaggi sonori; ripensare le città
tenendo a mente anche la necessità di contenere l’inquinamento acustico, per il
benessere di chi in città ci vive; ripensare la pace: “far tacere le armi” non
significa solo smettere di combattere, ma è un modo di lasciare spazio alla voce
dei popoli che con le armi vengono sottomessi, soggiogati, silenziati,
annientati; ripensare il silenzio: tacere, ridurre il rumore, non è creare un
vuoto ma creare spazio, così come quella che chiamiamo decrescita non è una
riduzione ma un modo diverso di crescere, dove alla crescita del PIL si
sostituisce quella del benessere, della salute e della giustizia.
Abbassare il livello, e il peso, dell’antropofonia sull’ambiente significa
quindi dare la possibilità di espressione ad altre specie animali, dar loro la
possibilità di tornare a comunicare, a quell’ultimo esemplare di scoprire magari
di non essere rimasto solo, e intercettare il verso di un suo simile prima che
entrambi smettano di cantare. Significa dare a noi, specie umana, la possibilità
di ascolto – delle altre specie, uscendo dal nostro antropocentrismo acustico, e
di chi, all’interno della nostra, è stato meno ascoltato –, e di immaginare un
cambiamento che tenga presente anche come potrebbe suonare il futuro che
vorremmo, una transizione non solo ecologica, non solo energetica, non solo
giusta socialmente, ma anche silenziosa, non per creare un vuoto sonoro assoluto
ma per poter ascoltare tutta quella ricchezza di voci di cui è fatto il mondo,
prima di perderle per sempre.
L'articolo Il paesaggio che (non) ascoltiamo proviene da Il Tascabile.
Tag - ecologia
L o scorso 28 aprile la penisola iberica è rimasta senza elettricità. Attorno
alle 12 e 30 una serie di piccole interruzioni concentrate nel sud della Spagna
ha innescato una reazione a catena che ha compromesso la rete elettrica
spagnola. I computer che regolano le delicate esigenze di un’infrastruttura
energetica moderna sono subito intervenuti, riportando la rete in equilibrio. Ma
dopo pochi istanti è arrivato un secondo evento, e poi un terzo. Nel giro di
cinque secondi il sistema elettrico spagnolo è collassato, portandosi dietro
quello portoghese. Per dieci ore in media ‒ in alcune città, in realtà,
parecchie di più ‒ hanno smesso di funzionare le metro, i treni, gli ascensori,
gli elettrodomestici, la connessione telefonica e internet, le lampadine.
Per alcuni il blackout è stata una tragedia: almeno quattro persone hanno perso
la vita per cause legate all’assenza di corrente, chi intossicato da vecchie
stufe a gas e chi dal fumo di un incendio originato dalle candele. Per altri ‒
quelli che hanno avuto la sfortuna di rimanere bloccati in un ascensore o in un
vagone ‒ è stato come minimo un brutto pomeriggio. Ma la stragrande maggioranza
degli spagnoli e dei portoghesi ne conserva un ricordo diverso. La luce è
mancata a mezzogiorno di un tiepido giorno di primavera, col sole che splendeva
su praticamente tutta la penisola. Le aziende hanno chiuso, il governo ha
mandato per strada le volanti della polizia a chiedere alla gente di rimanere
dove si trovava e di non prendere l’auto, e senza telefono non c’era modo di
sapere cosa stesse succedendo o contattare i propri cari. Per tanti, la cosa più
sensata da fare è stata trovare il parco più vicino ‒ o un bar che vendesse
birre anche con la cassa spenta e i frigoriferi ormai tiepidi ‒ e aspettare. A
camminare per il centro delle città iberiche, nelle ore del blackout, sembrava
di essere nel mezzo di una domenica di ferie, più che in una emergenza.
Quel lunedì ero anche io in Spagna. Quando nella notte è tornata la connessione,
ho visto un tweet di un utente madrileno. Diceva: “sono stato meglio oggi col
blackout che tutti gli altri giorni con la luce”.
L’economia del benessere
A molti accademici che si occupano di economia del benessere non piacerebbe che
un articolo sulle loro proposte iniziasse con la descrizione di un collasso
della rete elettrica. “Quello che vogliamo non è una società senza tecnologia o
un salto indietro di secoli” mi spiega Tommaso Felici, docente di economia
ambientale all’Università di Utrecht. Ha ragione lui, ovviamente, ma rimane il
fatto che il tema di questo articolo ha a che fare col cambiare ‒ e in qualche
modo ridurre ‒ i nostri consumi, anche energetici, al fine di costruire una
società più sostenibile.
> I teorici dell’economia del benessere concordano sulla necessità di valutare
> diversamente il funzionamento delle società in cui viviamo, concentrandoci su
> fattori come l’aspettativa di vita media, il tasso d’istruzione, l’accesso ai
> servizi di base, la salute degli ecosistemi naturali e la felicità percepita.
Economia del benessere è un termine ombrello. L’espressione fu coniata nel 1920
Arthur Cecil Pigou, l’economista inglese che, tra le altre cose, fu il primo a
teorizzare la necessità di tassare le imprese al fine di diminuirne gli impatti
negativi sull’ambiente e sulla società. Nel 1972 il Massachusetts Institute of
Technology elaborò per conto del think-tank Club di Roma uno studio, passato
alla storia come Rapporto sui limiti dello sviluppo (The limits to Growth), che
ipotizzava il collasso della civiltà umana come possibile conseguenza dello
sfruttamento infinito di risorse naturali. Nei decenni a seguire autori come il
rumeno Nicholas Georgescu e il francese Serge Latouche hanno sistematizzato
nelle loro opere proposte teoriche racchiudibili nella definizione di economia
del benessere.
I diversi filoni di studio interni a questo ambito hanno in comune la necessità
di misurare il successo dell’economia su parametri che abbiano a che fare, per
l’appunto, con il livello di benessere di una società, e indirizzare di
conseguenza l’azione politica. L’indicatore oggi comunemente accettato per
valutare lo stato di salute di un’economia è il prodotto interno lordo (PIL). Si
calcola sommando il valore di tutti i beni e servizi prodotti in un territorio
in un dato lasso di tempo: quando sentiamo frasi come “L’Italia entra in
recessione” o “la Cina continua a crescere”, stiamo parlando dell’aumento o
della diminuzione di questo parametro. Tutti i teorici del benessere concordano
sulla necessità di valutare diversamente il funzionamento delle società in cui
viviamo, centrandoci su fattori come la felicità percepita, l’aspettativa di
vita media, il tasso d’istruzione, l’accesso ai servizi di base, la salute degli
ecosistemi naturali. Le Nazioni Unite usano nei loro report l’Indice di sviluppo
umano (ISU o HDI, Human Development Index), che include reddito pro capite,
aspettativa di vita e istruzione. Alcuni ricercatori dell’Università di Londra
lo hanno modificato per includere al suo interno anche una serie di parametri
ecologici, dando così vita all’Indice di sviluppo sostenibile (ISS o SDI,
Sustainable Development Index). In questa classifica, i tre Paesi con la
migliore combinazione di reddito, stile di vita e impatto ecologico sono Costa
Rica, Uruguay e Sri Lanka; gli ultimi Lussemburgo, Kuwait e Qatar.
Le proposte che ricadono sotto l’etichetta di economia del benessere sono molte.
Prima di esplorarle, però, è necessario comprendere perché la crescita economica
non possa essere una buona approssimazione del benessere di una società.
Crescere o non crescere
I periodi di crescita economica sono stati spesso anche periodi di ottimismo, ed
è legittimo domandarsi da dove provenga la necessità di abbandonare un paradigma
che a lungo sembra aver funzionato. “Te lo dico con uno slogan un po’ datato ma
efficace” risponde Riccardo Mastini, ricercatore al Politecnico di Milano e
consulente delle Nazioni Unite: “la crescita infinita in un mondo dalle risorse
finite è impossibile”. Il concetto chiave è quello di limite. L’ecologo svedese
Johan Rockström, insieme ad altri autori, pubblicò nel 2009 uno studio ‒
tutt’oggi citatissimo ‒ che teorizzava la presenza di nove limiti planetari,
superati i quali la stabilità degli ecosistemi sui quali abbiamo costruito le
nostre civiltà viene messa a rischio. Il primo riguarda la concentrazione di gas
climalteranti in atmosfera, e quindi la necessità di stabilizzare le temperature
medie del pianeta, ma ugualmente cruciali sono il ciclo dell’azoto e del
fosforo, la perdita di biodiversità, l’acidificazione degli oceani, la riduzione
dell’ozono atmosferico, l’inquinamento da sostanze chimiche, l’accumulo di
particolati, il consumo di acqua dolce e di suolo, e l’acidificazione degli
oceani.
> In un cruciale studio del 2009, l’ecologo svedese Johan Rockström ha
> teorizzato la presenza di nove limiti planetari, superati i quali la stabilità
> degli ecosistemi sui quali abbiamo costruito le nostre civiltà viene messa a
> rischio.
Il fulcro delle riflessioni sul benessere è che per garantire a tutti uno
standard di vita dignitoso e accettabile non possiamo semplicemente consumare di
più ‒ più metalli estratti dal terreno, più pesce pescato dal mare e così via ‒
perché le risorse terrestri non sono inesauribili e dipendono da sistemi fragili
e interconnessi. Una crescita indefinita della nostra economia finirà,
paradossalmente, col far venir meno quei materiali e quelle risorse da cui la
nostra civiltà dipende, economia compresa.
Questa conclusione trova in disaccordo molti economisti, che per quanto divisi
tendenzialmente concordano sull’idea che la crescita economica sia condizione
necessaria per l’avanzamento della società. Per alcuni studiosi, l’economia del
benessere assomiglia davvero al blackout spagnolo di cui sopra: poca energia,
poche risorse, poca sicurezza. “Ma è un’idea vecchia” spiega Felici che, pur
essendo economista, dissente da buona parte dei suoi colleghi. “Sicuramente in
passato la crescita ha portato a maggior benessere, e questo rimane vero per
molti dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Ma nella nostra Europa
industrializzata non è più così. Anzi, quando il PIL aumenta, aumentano anche le
disuguaglianze. Il caso italiano è emblematico: i salari reali sono fermi da
trent’anni, nonostante ci sia stata crescita”.
Ciò che dice Felici trova riscontro nei dati. Nel 2018 un gruppo di ricercatori
dell’Università di Leeds ha pubblicato uno studio intitolato A Good Life for all
within Planetary Boundaries, che rileva come l’aumento del reddito medio pro
capite corrisponda effettivamente a un aumento della qualità di vita, ma solo
fino a una certa soglia. Superata questa, che i ricercatori ritengono stia
attorno ai 20.000 dollari, l’aumento di questo parametro non è più correlato ad
un’aspettativa di vita più alta, a tassi di istruzione migliori o a più felicità
percepita. Tradotto: nella Spagna del blackout per far star meglio la gente,
piuttosto che accrescere l’economia complessiva della nazione, sarebbe utile
distribuire diversamente la ricchezza che già c’è. Ad esempio, investendo su una
rete elettrica più pulita e sicura.
> A un aumento del reddito medio pro capite corrisponde effettivamente un
> aumento della qualità di vita, in termini di aspettativa di vita, tassi di
> istruzione o felicità percepita, ma solo fino ad una certa soglia.
Il fatto che gran parte degli economisti non riconosca la necessità di porre un
limite al consumo di risorse non significa che disconoscano la realtà di una
crisi ecologica in atto. Semplicemente, scommettono sul fatto che sarà
l’innovazione tecnologica ‒ resa possibile, a detta loro, proprio dalla crescita
economica ‒ a risolvere il problema. “In passato è davvero andata così, penso ad
esempio al problema del buco dell’ozono, risolto grazie alle nuove tecnologie e
ad un modello virtuoso di collaborazione tra Stati” dice Felici “Ma non sappiamo
se ci riusciremo ancora: quando parliamo di crisi climatica, ad esempio, non
sembra affatto che stiamo riuscendo a tenere assieme un modello economico
tradizionale con la riduzione delle emissioni. Scommettere sullo sviluppo
tecnologico come panacea di ogni male sfida il principio di prudenza”.
Uno spazio operativo sicuro e giusto
I teorici dell’economia del benessere concordano su un assunto di base: non deve
essere la crescita a guidare le scelte di una società. Come debba funzionare un
modello alternativo, però, è tema di dibattito. Un grande interrogativo è cosa
fare dell’economia del presente, che si prefigge un aumento del PIL trimestre
dopo trimestre. Per la maggioranza degli studiosi di quest’area, è impossibile
disaccoppiare l’aumento del PIL dal deterioramento degli habitat naturali, dalle
emissioni, e dallo sforamento di quei limiti che abbiamo descritto sopra. È
questa la posizione anche di Riccardo Mastini: “La crescita del PIL è stata un
grande calmante sociale. Di fronte alla povertà, invece di distribuire
diversamente la ricchezza che già esisteva si è deciso di crearne di nuova,
promettendo che un po’ di quelle risorse fresche sarebbero andate a tutti. E ha
funzionato, almeno in parte, ma al prezzo inevitabile di esternalità negative
sempre più pesanti ‒ dal riscaldamento globale alla crisi degli ecosistemi.
Effetti collaterali che, paradossalmente, mettono a rischio le conquiste fin qua
avvenute”.
> Sarebbe più utile parlare di post-crescita, piuttosto che di decrescita. Il
> punto non è decrescere in sé e per sé, quanto cambiare il nostro parametro
> guida, dall’aumento del PIL all’aumento della qualità di vita delle persone.
Un’altra parte, minoritaria, degli economisti del benessere ha un approccio più
sfumato: può essere che il PIL continui a crescere anche in un’economia
differente, che il disaccoppiamento tra crescita e crisi ecologica sia
possibile. Ma se così non fosse, dobbiamo essere pronti a dare priorità a quegli
altri indicatori che abbiamo descritto ‒ dalla salute degli ecosistemi
all’aspettativa di vita ‒ piuttosto che al PIL. È questa la posizione di Tommaso
Felici: “io preferisco parlare di post-crescita, piuttosto che di decrescita.
Questo perché decrescere non deve essere un obiettivo in sé. Il punto è cambiare
focus, dall’aumento del PIL all’aumento della qualità di vita delle persone. Se
riusciamo a farlo continuando a crescere, ben venga, ma dobbiamo essere pronti a
sacrificare l’espansione dell’economia, se serve a stare meglio”.
Ciò su cui tutti gli studiosi del benessere sono invece concordi è la necessità
di porre al centro i bisogni essenziali delle persone: cibo, un tetto sopra la
testa, la possibilità di istruirsi, di curarsi, di avere tempo libero.
L’economia del benessere è, in questo senso, erede diretta dello Stato sociale
novecentesco: l’intera struttura produttiva, l’intero mercato del lavoro, devono
essere prima di tutto al servizio del welfare, nel senso ampio del termine. Per
ottenere ciò non serve necessariamente un’economia pianificata sul modello
sovietico, ma di sicuro occorre che si contragga lo spazio del mercato e si
ampli l’intervento pubblico. Un passaggio ineludibile è la redistribuzione della
ricchezza. L’economista inglese Kate Raworth ha teorizzato per prima il modello
economico della ciambella, in cui lo spazio operativo per l’umanità andrebbe
cercato nella fascia compresa tra due limiti: uno ecologico esterno e uno
sociale interno. Per Raworth, nessuno dovrebbe essere troppo povero da non poter
accedere a risorse e diritti fondamentali, e nessuno dovrebbe essere così ricco
da incidere negativamente sui limiti planetari.
Tradurre in politiche concrete i principi di cui sopra è tutt’altro che facile,
ed è su questo che si è focalizzata buona parte del lavoro di quest’area
politica e culturale degli ultimi decenni. Una misura da tempo proposta è quella
del reddito di base universale. Si tratterebbe di un sussidio erogato dallo
Stato a chiunque possegga la cittadinanza ‒ o, addirittura, la residenza ‒ a
prescindere dal lavoro. Una grande operazione di redistribuzione della
ricchezza, ovviamente, ma anche il principio di una trasformazione più profonda.
Nel breve termine, un reddito universale permetterebbe di rendere socialmente
accettabile la contrazione della produzione industriale o la chiusura di certi
settori particolarmente impattanti; nel lungo, di iniziare a slegare il lavoro
dalla necessità di avere un salario, e costruire un’economia non più basata sui
consumi. L’accorciamento delle catene del valore ‒ cioè, riportare i luoghi di
produzione più vicino a quelli di consumo ‒ è un’altra politica che mira assieme
a ridurre il consumo energetico e logistico, oltre ad aumentare le possibilità
di impiego.
> Secondo il modello economico a ciambella di Raworth, lo spazio operativo per
> l’umanità dovrebbe avere un limite ecologico e uno sociale: nessuno dovrebbe
> essere troppo povero da non poter accedere a risorse e diritti fondamentali,
> nessuno così ricco da incidere negativamente sui limiti planetari.
“Decrescita significa abbandonare le produzioni inutili, è riportare a casa
quelle che ci servono” spiega Mastini. Per ottenere tutto questo serve cambiare
chi prende le decisioni. Da qui il ruolo centrale dello Stato di cui sopra,
certo, ma anche la possibilità di cambiare la natura del privato: “Immaginiamo
di avere, al posto dei grandi oligopoli, un sistema di employee ownership, cioè
la proprietà collettiva dei lavoratori. In questo modo elimini l’extraprofitto,
chi possiede le imprese guadagna dal suo stesso lavoro e non dalla mera
proprietà. E soprattutto, in questo modo si potrebbe pensare ad un sistema
economico orientato al bene comune”.
L’economia del benessere è economia della cura
Un ripensamento dell’economia non può prescindere dal concetto di “lavoro di
cura”, ossia quelle attività indispensabili ‒ come crescere i bambini, aiutare
gli anziani, gestire le attività domestiche ‒ che tradizionalmente sono svolte
in forma gratuita dalle donne. La redistribuzione e retribuzione di quel lavoro
potrebbe essere la chiave di volta per un’economia diversa.
Ina Praetorius è una teologa svizzera, tra le fondatrici della Network Care
Revolution. “Le donne sono il prosieguo degli schiavi dell’antichità. Platone
distingueva tra liberi e dipendenti: i primi erano gli uomini adulti con la
cittadinanza, i secondi erano i bambini, gli schiavi e le donne” mi spiega.
“L’illuminismo abolisce l’impianto formale di questa divisione, ma rimangono in
piedi gli usi. E il capitalismo, quando nasce, trova molto conveniente avere
questa manodopera gratuita addetta ad attività indispensabili, dalla cucina al
supporto ai malati. Tutt’oggi quante persone ‒ non solo uomini e non solo
conservatrici ‒ ritengono naturale che certi lavori siano svolti dalle donne
della famiglia?”.
Per economia della cura si intende un sistema economico centrato sul
soddisfacimento dei bisogni delle persone in forma organizzata, legalmente
riconosciuta ed equamente distribuita tra i generi. L’idea è che quelle mansioni
storicamente svolte da donne in ambito familiare e senza salario diventino il
punto focale delle nostre economie. Il reddito di base prima citato, ad esempio,
permetterebbe di liberare almeno parte del tempo che impieghiamo nel normale
lavoro salariato, permettendo a tutti ‒ a prescindere dal genere ‒ di usarlo
anche per questo genere di attività così indispensabili.
Le assonanze con l’economia del benessere sono chiare. “L’idea della cura nasce
nell’ambito del movimento femminista, ma non è un tema di genere: è di tutti”
continua la teologa: “se penso al mondo tra cento anni, immagino molto più tempo
libero: per curare la famiglia e la casa, certo, ma anche per l’ozio ‒ che è
importantissimo ed è un diritto di tutti, non solo dei ricchi».
> Un ripensamento dell’economia non può prescindere dalla redistribuzione e
> retribuzione del lavoro di cura, ossia quelle attività indispensabili che
> tradizionalmente sono svolte in forma gratuita dalle donne.
Il reddito di base universale è la prima delle proposte che mette d’accordo
promotori della decrescita, dell’economia del benessere e delle istanze
femministe. Spostare i capitali pubblici da settori ad alto impatto ecologico e
bassa utilità sociale ‒ il fossile, le armi, il cibo spazzatura ‒ a settori poco
impattanti ed essenziali come quelli della cura è un secondo, importante punto
di contatto. Il terzo è la riduzione dell’orario lavorativo. “Produrre meno
significa anche ridurre il monte ore lavorato. E se puntiamo a garantire a tutti
un impiego, la logica conseguenza è lavorare meno” dice Mastini. L’idea è che da
un lato l’economia del benessere richieda di produrre meno, e quindi liberi
tempo nella vita delle persone; dall’altra che il tempo libero sia prerequisito
per distribuire meglio il cosiddetto lavoro domestico.
Lo spazio per il benessere
Nonostante il relativo successo in campo accademico o nella bolla dei movimenti
sociali, per ora molto poco dell’economia del benessere si è tradotto in prassi
politica. La primazia del PIL come indicatore del successo di un’economia non è
mai stata davvero messa in discussione da nessun governo, e lo spazio del
welfare o dell’intervento pubblico, almeno in Occidente, si va riducendo, invece
che aumentare. In Europa, il piano di riarmo delle istituzioni comunitarie e dei
governi rischia di sostituire lo stato sociale e la transizione ecologica tra le
prime voci dei bilanci pubblici del prossimo lustro.
Eppure, le questioni poste dai teorici del benessere non sono venute meno. E mai
come oggi si avverte la necessità di riconcepire la nostra idea di benessere. Il
giorno seguente al blackout, i social spagnoli si sono riempiti di persone che,
più o meno ironicamente, si interrogavano sul fatto che, tutto sommato, senza
corrente non si stesse poi così male. I cittadini di un Paese ricco e
sviluppato, in cui il PIL cresce e gli indicatori macroeconomici tradizionali
sono tutti positivi, hanno salutato più con sollievo che con paura l’assenza di
elettricità. Nemmeno il più radicale dei “decrescisti” proporrebbe di farne a
meno, ma quelle reazioni rimandano ugualmente a una riflessione: quali
precondizioni, quali servizi e quali opportunità rendono la vita di una persona
soddisfacente? Siamo sicuri che il sistema in cui viviamo ci renda più felici di
quanto ci faccia sentire in trappola? E ancora: quale economia può consentirci
di utilizzare diversamente le nostre risorse, indirizzandole verso beni e
servizi che, nel loro insieme, contribuiscano a costruire una società felice?
L'articolo Da un’economia di crescita a una di cura proviene da Il Tascabile.