L e foto di questi luoghi mi affascinano da sempre. Ricordo la prima volta che
vidi quella diapositiva proveniente dalla macchinetta analogica di mio padre,
che ora è la mia. La foto ritraeva i miei genitori davanti a una palafitta
altissima e immersa nella foresta. Quella foresta è la foresta amazzonica
peruviana e quella foto risale al loro viaggio di nozze nell’ormai lontano 1989.
Proprio quest’anno a Palazzo delle Esposizioni a Roma ho visitato la mostra del
World Press Photo e, tra le tante foto strazianti ma necessarie che erano appese
alle pareti bianche, ho trovato anche l’Amazzonia, questa volta stravolta dalla
crisi climatica. Un giovane che per portare il cibo a sua madre in un villaggio
un tempo raggiungibile in barca, ora si trova costretto a percorrere a piedi il
letto di un fiume in secca. Una donna vive con il suo compagno e la loro figlia
di due anni in una “casa galleggiante” che, sempre a causa della siccità, sembra
galleggiare sul deserto più che sul fiume. Sono foto che mostrano gli effetti
del cambiamento climatico come una realtà concreta capace di plasmare il futuro
di comunità vulnerabili strettamente connesse con il mondo naturale.
Con il nome Amazzonia si intende un bioma, ovvero un insieme di ecosistemi, che
si trova nel nord dell’America latina e ne occupa il 40%. È una delle regioni
più estese del pianeta che con i suoi 7,8 milioni di chilometri quadrati risulta
grande due terzi dell’intera Europa. A occhi inesperti, l’Amazzonia potrebbe
sembrare un ambiente umido stabile. In realtà, è caratterizzata da due stagioni
distinte: la stagione delle piogge e la stagione secca. I livelli naturali di
inondazioni e siccità però stanno venendo potenzialmente alterati dal
cambiamento climatico con conseguenze che vanno ben oltre l’equilibrio
dell’ecosistema amazzonico stesso.
Il bacino amazzonico ospita la vasta e diversificata foresta pluviale amazzonica
e il fiume più lungo al mondo, contribuendo così a diversi servizi ecosistemici.
Da un lato, è il polmone verde che immagazzina l’anidride carbonica nella
biomassa vegetale e nel suolo e produce circa il 20% dell’ossigeno mondiale
contribuendo alla regolazione del clima locale e globale. Dall’altro, il Rio
delle Amazzoni è il fiume che trasporta più acqua al mondo. Scorre dalle Ande
all’Atlantico dove riversa ogni giorno circa 17 miliardi di tonnellate di acqua
dolce, un quinto dello scarico mondiale, mantenendo i cicli dell’acqua
attraverso il sistema delle correnti che distribuiscono calore sul pianeta. Il
maestoso fiume sta però affrontando livelli record di acque basse a causa della
grave siccità.
> L’Amazzonia è il polmone verde che produce circa il 20% dell’ossigeno mondiale
> contribuendo alla regolazione del clima locale e globale, mentre il Rio delle
> Amazzoni è il fiume che trasporta più acqua al mondo.
La crisi climatica qua si mostra come una vera e propria crisi ecologica che
minaccia la biodiversità, sconvolge gli ecosistemi e colpisce le comunità locali
che dipendono dai fiumi per la sopravvivenza. La maggior parte della foresta,
quasi i due terzi, è all’interno dei confini brasiliani. Altri Paesi dove si
estende la foresta includono Perù (circa 13%), Colombia (10%) e altri in misura
minore come Bolivia ed Ecuador. Al confine tra Perù, Brasile e Bolivia vive la
più alta concentrazione di tribù isolate al mondo. I confini dei territori che
abitano, la cosiddetta Frontiera incontattata, devono essere sorvegliati per
impedire incursioni di persone non autorizzate. La loro casa, quindi, risulta in
pericolo: la deforestazione, l’inquinamento e le altre pressioni antropiche del
mondo globalizzato sono gravi minacce per la loro sopravvivenza.
Nel 2024 il Brasile ha perso 2,8 milioni di ettari di foresta, due terzi dei
quali a causa degli incendi, spesso appiccati per fare posto alle coltivazioni
di soia o agli allevamenti di bestiame. Nel complesso si sta comunque parlando
di un anno in cui lo Stato brasiliano ha registrato una riduzione della
deforestazione del 32,4% rispetto al 2023 (377.708 ettari). Il calo è
attribuibile alle politiche di controllo dell’attuale governo, ma è ancora
lontano il raggiungimento dell’obiettivo di zero deforestazione entro il 2030,
annunciato dal presidente Lula all’inizio del suo mandato. Il dato riportato,
anche se inferiore all’anno precedente, è comunque allarmante: in media, sono
stati rasi al suolo 1.035 ettari di foresta al giorno, sette alberi ogni
secondo.
A oggi, la deforestazione cumulativa per l’intero bioma amazzonico è stimata in
circa il 18% della sua estensione dal 1987. Questo dato è in costante aumento e
già equivale alla somma delle superfici di Francia, Italia e Portogallo.
Numerosi modelli predittivi indicano il 20% di deforestazione cumulativa come un
punto critico, un vero e proprio punto di non ritorno (o tipping point), la
soglia oltre la quale la foresta si trasformerà in modo irreversibile innescando
cambiamenti che possono autoalimentarsi e avere effetti a cascata su altri
sistemi. La deforestazione incide direttamente sull’ecosistema, creando aree più
asciutte e suscettibili agli incendi. Allo stesso tempo, il cambiamento
climatico rende la foresta intrinsecamente più vulnerabile alla siccità. Quando
queste due forze si combinano, il rischio aumenta esponenzialmente: una foresta
già indebolita dalla deforestazione ha meno capacità di resistere a una siccità
estrema indotta dal clima. Dati satellitari e modelli ecologici hanno dimostrato
che la resilienza della foresta ai disturbi è in diminuzione dai primi anni 2000
e gli ultimi due anni hanno registrato una delle peggiori siccità della storia.
Tra aprile e giugno 2024, ci sono state precipitazioni da record nello stato di
Rio Grande do Sul, in Brasile. Queste hanno causato la peggiore inondazione
nella storia della regione. Più di mezzo milione di persone sono state sfollate
e più di 183 sono morte nelle inondazioni.
Lo scorso 21 maggio il senato brasiliano ha approvato un disegno di legge che
allenta le norme sulle licenze ambientali cancellando ogni regolamentazione per
vari progetti, dalla produzione di carne alla deforestazione. Il disegno di
legge viene chiamato in gergo anche “‘progetto di legge della devastazione’ e
non è un buon segnale ma è solo una conseguenza della situazione politica che
abbiamo in Brasile”. Queste le parole di Emanuela Evangelista, biologa
specializzata nello studio dei mammiferi acquatici, membro dell’Unione
internazionale per la conservazione della natura, presidente di Amazônia ETS e
trustee di Amazon Charitable Trust, organizzazioni che collaborano con i popoli
della foresta per la conservazione dell’ambiente e la tutela dei loro diritti.
> La deforestazione, l’inquinamento e le altre pressioni antropiche del mondo
> globalizzato sono gravi minacce per la sopravvivenza della cosiddetta
> Frontiera incontattata.
L’instabilità politica di cui parla è data da una semplice questione numerica.
Il presidente in carica, Luiz Inácio Lula da Silva, è stato eletto a gennaio
2023, ottenendo solo il 50,89% dei voti contro il 49,11% di Bolsonaro,
trovandosi quindi a rappresentare un Paese profondamente spaccato in due. “C’è
quindi una questione aperta sullo sviluppo della regione amazzonica. Una delle
regioni più povere di tutto il Brasile, con circa il 50% degli abitanti che sta
sotto la soglia della povertà”, continua Evangelista. Il presidente si trova a
governare in un clima politico estremamente teso e polarizzato dove la sua
visione non trova sempre la maggioranza, cedendo così al modello proposto
dall’opposizione. Un modello che da europei conosciamo molto bene, basato sul
raggiungimento di uno sviluppo economico ottenibile con l’aumento di
agricoltura, pascolo, estrazione mineraria e costruzione di infrastrutture.
“L’Amazzonia è destinata al collasso che si può evitare solamente in due modi:
proteggendo le foreste che sono rimaste ancora intatte, come questa in cui vivo,
e riforestando dove la foresta è già stata tolta”. Evangelista ha scelto infatti
di vivere da 25 anni proprio in quello che lei definisce “il cuore della
foresta”. Un cuore che sta iniziando a soffrire in maniera pesante il
cambiamento climatico. Proprio da là ha fondato l’organizzazione no profit
Amazônia ETS per una “visione globale di pianeta perché, quando hai a che fare
con le sfide ambientali, i confini non esistono”.
Tra i tantissimi progetti di sensibilizzazione, conservazione e sviluppo
sostenibile che l’organizzazione propone ce n’è uno, in collaborazione con
l’Istituto brasiliano per lo sviluppo e la sostenibilità (IABS), dal nome
Insieme piantiamo il futuro. Si parla dell’attuazione di un vero e proprio
corridoio ecologico di biodiversità tra gli Stati brasiliani di Maranhão e Pará,
la cui capitale, Belém, ha ospitato la 30ª Conferenza delle Parti della
Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP30) dal 10
al 21 novembre 2025. “I corridoi ecologici di biodiversità servono a collegare
frammenti di foresta che, a causa della deforestazione, sono rimasti isolati per
farli diventare di nuovo ambienti possibili per la vita”.
Spostandoci invece nella parte più occidentale dell’area amazzonica raggiungiamo
il Parco nazionale del Yasuní, localizzato nell’Amazzonia ecuadoriana e
designato come patrimonio UNESCO nel 1989. In Ecuador, la foresta amazzonica
copre circa la metà del territorio nazionale, sebbene rappresenti solo il 2% del
bioma amazzonico totale. È una delle aree più ricche di biodiversità al mondo,
nonché la casa di diversi gruppi di popolazioni indigene, tra le quali le
Tagaeri e Taromenane che vivono in isolamento volontario. Un luogo incontaminato
in cui però, da più di mezzo secolo, le aziende petrolifere bruciano il gas
naturale prodotto dall’attività estrattiva emettendo sostanze altamente tossiche
e dannose per l’ambiente e per la salute.
Rappresentando la maggior parte del bilancio generale dello Stato, la questione
petrolifera in Ecuador è stata e continua tutt’ora a essere irrisolta. Per anni
l’azienda Chevron-Texaco ha violato le norme ambientali riversando nei fiumi 16
miliardi di tonnellate di acque reflue: per questo nel 2011 è stata condannata a
pagare all’Ecuador 9,5 miliardi di dollari per il danno ambientale causato. La
compagnia ha poi lasciato il Paese, ma 14 anni dopo il risarcimento non è stato
ancora versato. Ancora oggi, l’Unione delle persone colpite dalla Chevron Texaco
(UDAPT), un’organizzazione che unisce almeno 80 comunità residenti nelle aree
contaminate, ha mappato quasi 500 torri di combustione attive nell’Amazzonia
ecuadoriana, testimoniando e denunciando gli sversamenti che quotidianamente
colpiscono l’area.
All’interno del Parco nazionale del Yasuní ci sono sette blocchi petroliferi,
tra cui il blocco 43, rimasto intatto almeno fino al 2013. Questo, noto anche
come ITT, comprende i giacimenti di Ishpingo, Tambococha e Tiputini ed era stato
oggetto dell’iniziativa Yasuní ITT: una proposta lanciata nel 2007 dal governo
di Rafael Correa che mirava a evitare lo sfruttamento petrolifero nella zona più
remota e meglio conservata del Parco nazionale in cambio di 3,6 miliardi di
dollari di risarcimento da parte della comunità internazionale. Nel 2013, quando
era stato raccolto nemmeno lo 0,5% di quanto previsto, l’iniziativa fallì e
nella zona iniziò l’estrazione. Molti gruppi di giovani attivisti si unirono per
difendere le riserve di petrolio dell’ITT, dando vita al collettivo YASunidos.
Il gruppo si attivò per raccogliere firme e promuovere una consultazione
popolare, ma le diffamazioni subite permisero di indire un referendum abrogativo
solo dieci anni dopo. Così nell’agosto 2023, il 60% degli ecuadoriani ha votato
a favore del mantenimento a tempo indeterminato delle riserve petrolifere nel
sottosuolo e dunque del blocco delle attività estrattive, in un referendum che è
passato alla storia.
> Il presidente Lula si trova a governare in un clima politico estremamente teso
> e polarizzato dove la sua visione non trova sempre la maggioranza, cedendo
> così al modello proposto dall’opposizione.
Oggi, a due anni di distanza, l’Ecuador si trova in una situazione precaria
sotto molti aspetti. A inizio 2024 il governo di Daniel Noboa aveva annunciato
la necessità di mettere in atto misure che consentissero al governo di
riprendere il controllo del Paese. Queste misure includono la promozione
dell’estrazione mineraria su larga scala, che interessa 20 delle 24 regioni
dell’Ecuador, e la moratoria sul risultato del referendum per almeno un altro
anno. Le recenti violenze e i disordini interni hanno fornito al presidente
Noboa, nuovamente rieletto ad aprile di quest’anno, una scusa per continuare le
trivellazioni nei principali giacimenti petroliferi all’interno del Parco
nazionale Yasuní. “Il governo continua con lo sfruttamento illegale del
giacimento petrolifero. In questo momento stanno estraendo circa 40.000 barili
di petrolio da questo blocco in cui ci sono anche più di 30 fuoriuscite di
petrolio”, ci spiega Pedro Bermeo Guarderas, coordinatore legale e portavoce del
collettivo YASunidos, nonché uno tra i promotori ufficiali del referendum del
2023. “Questo è totalmente illegale. Persino lo scorso marzo la Corte
interamericana dei diritti umani (la CIDH), che è la corte più alta della
regione, ha emesso una sentenza che obbliga il governo a rispettare il
referendum” continua Bermeo.
Va inoltre sottolineato che per la costituzione dell’Ecuador l’adempimento dei
referendum è obbligatorio, “Non è qualcosa che il governo può decidere o meno”,
ricorda l’attivista. La Costituzione andina si distingue anche per essere la
prima al mondo a riconoscere la natura come soggetto di diritto. “La stessa
natura che stanno privatizzando e trasformando in un prodotto”, sottolinea
Bermeo, facendo riferimento alla legge organica sul recupero delle aree protette
e la promozione dello sviluppo locale, che è stata pubblicata il 14 luglio nel
registro ufficiale della Repubblica dell’Ecuador. Una legge approvata in tutta
fretta come una questione di urgenza in materia economica e che mette a rischio
la conservazione dell’ambiente, la gestione pubblica dei territori protetti e i
diritti collettivi.
“Stanno violando ancora una volta i diritti. Quindi ci sono due problemi, uno
relativo alla natura e l’altro alle comunità indigene, violando il diritto alla
consultazione preventiva”, denuncia Bermeo. L’attivista fa riferimento a un
altro diritto presente nella Costituzione, che garantisce ai popoli indigeni la
consultazione preventiva sui piani di sfruttamento dei loro territori. E
considerando che “nelle comunità indigene più di 2.000 milioni di ettari di aree
protette si intersecano con i loro territori ancestrali, questa legge è anche
contro di loro”. Una legge contro più di 750.000 indigeni appartenenti a più di
12 gruppi etnici differenti. Oltre le comunità che scelgono di vivere senza
contatti con la società esterna, anche gli altri hanno una forte connessione
culturale e spirituale con la natura e la terra, che considerano fonte di vita e
sostentamento.
Concludo le chiamate con Evangelista e Bermeo con la voglia di viaggiare e
raggiungere queste mete, purtroppo divenute popolari soprattutto nel last chance
tourism, quel turismo che mira unicamente a godersi il privilegio di poter
sfruttare e fotografare le meraviglie della natura prima che scompaiano. Da un
lato vorrei liberarmi da questo peccato originale che è l’occhio coloniale che
ci marchia e mi chiedo se sia veramente possibile parlare di ecoturismo in
queste aree. L’audio della chiamata non era ancora spento e Bermeo mi risponde
prontamente portandomi l’esperienza di una forma di turismo possibile. Mi parla
del turismo comunitario, un turismo ecologico, che rispetta la comunità ed è
gestito dalla comunità stessa. Una ragione anche “per fornire un’alternativa
alle comunità che sono totalmente abbandonate dal governo e che si trovano a
dover collaborare con attività estrattive o minerarie”.
L'articolo Lo sfruttamento antropico dell’Amazzonia proviene da Il Tascabile.
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A lla parola paesaggio comunemente associamo la vista su delle colline, il verde
dei boschi, una pianura nella nebbia: molto dipende da dove siamo cresciuti,
qual è il posto a cui siamo legati in modo particolare, ma tendenzialmente il
paesaggio, nella nostra testa, somiglia molto a un quadro, è un panorama legato
quasi esclusivamente alla vista. Eppure un aspetto fondamentale dei luoghi è
quello sonoro: ogni posto ha un suo soundscape, un paesaggio sonoro specifico,
che varia, esattamente come l’aspetto visivo, allo scorrere delle ore del giorno
e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare degli anni.
Per chi vive in città il soundscape è un assedio di rumori incessanti, ma anche
quei luoghi che consideriamo più silenziosi – la cima di una montagna, una
spiaggia deserta – sono intessuti di suoni.
Fra questi due estremi, dal fastidio violento alla piacevolezza pacifica, si
muove la considerazione quasi puramente estetica che abbiamo del paesaggio
sonoro: ma prestare attenzione a cosa ci dicono i suoni può essere fondamentale
per accorgerci dei cambiamenti avvenuti in un ambiente, della riduzione della
biodiversità, della salute di un territorio, e dei benefici o danni che i suoni
possono apportare agli esseri viventi che lo abitano. A volte, infatti, è
proprio tendendo l’orecchio al paesaggio che ci arriva un segnale di allarme.
Primavera silenziosa, il famoso saggio di Rachel Carson pubblicato nel 1962 che
in qualche modo ha dato avvio al movimento ecologista statunitense, si apre con
una domanda: “Perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade
d’America?”. Il silenzio che improvvisamente dominava la primavera, al posto del
canto di innumerevoli specie di uccelli e del ronzio delle api, è l’aspetto
scelto dalla biologa per presentare, fin dal titolo, la sua indagine sulle
conseguenze dell’uso indiscriminato del DDT e di altri fitofarmaci.
Qualche anno dopo, all’incirca dalla fine degli anni Sessanta, alcuni studiosi
hanno cominciato a occuparsi di ecologia acustica, o ecologia dei paesaggi
sonori – ossia quella branca dell’ecologia che studia le relazioni fra i suoni
di un paesaggio e gli esseri viventi che lo abitano – nella convinzione che
l’aspetto sonoro delle questioni ambientali sia un tassello importante, che ci
può dire molto sullo stato di salute degli ecosistemi, sulla progettazione degli
spazi urbani, sui modi di condurre la transizione, sulle vite che vogliamo,
perfino sulla pace che desideriamo.
> Quando parliamo di paesaggio tendenzialmente pensiamo a un panorama legato
> quasi esclusivamente alla vista. Eppure, un aspetto fondamentale dei luoghi è
> quello sonoro: un paesaggio altrettanto specifico, che varia allo scorrere
> delle ore del giorno e della notte, nell’alternarsi delle stagioni, al passare
> degli anni.
Occuparsi di ecologia richiede spesso di impegnarsi a prestare attenzione a ciò
che alla nostra attenzione sfugge, perché difficile da comprendere, perché
invisibile, perché su scala troppo grande per averne una visione completa,
perché ha una dimensione temporale sfasata rispetto agli interessi politici e
alla nostra capacità di proiettarci nel futuro: a queste difficoltà, nel caso
dell’ecologia dei paesaggi sonori, si aggiunge il fatto che la vista, per gli
umani, è il senso a cui affidiamo gran parte delle nostre valutazioni, l’udito
ha un posto secondario, almeno a livello conscio, ed è così che sottovalutiamo
gli effetti dell’inquinamento acustico sulla nostra salute, i danni provocati
dai rumori delle guerre, la ricchezza sonora che stiamo perdendo assieme alla
biodiversità, e quanto sia importante, nell’immaginare il futuro, pensare anche
a come questo suonerà.
L’antropofonia e l’inquinamento acustico
Per cominciare a indagare di cosa è fatto un paesaggio sonoro possiamo partire
dalla divisione dei suoni in tre macrocategorie, o domini. Il primo è la
geofonia, ossia l’insieme dei suoni naturali provenienti da fonti abiotiche – il
mare, un fiume, il vento, un tuono, il brontolio selvaggio di un terremoto,
l’eruzione di un vulcano: ed è proprio l’eruzione del Krakatoa nel 1883 ad aver
generato l’onda sonora più potente mai registrata, con un boato di 310 decibel
(dB). C’è poi la biofonia, tutti quei suoni naturali emessi dagli esseri
viventi, animali e vegetali. Infine, l’antropofonia, cioè ogni nota, rumore,
boato o scricchiolio prodotti dagli umani, dalla musica più raffinata
all’insopportabile rombo di un aereo in decollo.
> Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
> esposizione al rumore, per quanto riguarda le città esistono solo delle
> raccomandazioni dell’OMS che vengono in larghissima parte disattese.
È proprio l’insieme dei rumori artificiali prodotti dalle attività umane a
costituire il tappeto sonoro predominante per chi vive nelle aree urbane: nel
mondo circa il 55% della popolazione, che si stima diventerà il 68% entro il
2050; in Italia la percentuale si aggira già attorno al 70% e sale al 91%,
secondo i dati Istat, che però comprendono anche i centri abitati più piccoli.
Se sul posto di lavoro esistono, in Italia, norme precise sui limiti di
esposizione che fissano a 80 dB la soglia media di attenzione (con picchi non
oltre i 135 dB) e a 87 dB la media massima che non può essere superata (con
picchi di 140 dB), per i rumori degli ambienti urbani in cui siamo immersi
esistono solo delle raccomandazioni dell’OMS (Organizzazione Mondiale della
Sanità) che vengono in larghissima parte disattese. Secondo le linee guida sul
rumore ambientale per l’Europa dell’OMS, infatti, il limite di esposizione al
rumore del traffico su strada sarebbe di 53 dB di giorno, 45 dB di notte. Quasi
un cittadino su tre, in Europa, vive in ambienti che superano, spesso anche di
molto, questi limiti: sono circa novantadue milioni di persone. Diciotto milioni
di persone, sempre in Europa, vivono in zone in cui il traffico ferroviario
produce rumori oltre la soglia prevista; e due milioni e mezzo di persone sono
esposte al rumore del traffico aereo.
Effetti dell’inquinamento acustico
La scarsa attenzione che prestiamo agli aspetti sonori dell’ambiente in cui
viviamo si riflette anche nella poca considerazione che abbiamo per i danni che
l’esposizione al rumore può avere: l’inquinamento acustico è fra le minacce
ambientali più pericolose per la salute, dopo quello atmosferico e il caldo
estremo. Lo scorso giugno, l’EEA (l’agenzia europea per l’ambiente) ha
presentato il rapporto Environmental noise in Europe, secondo il quale
l’inquinamento acustico è la causa di circa 66.000 decessi prematuri all’anno in
Europa, 50.000 nuovi casi di malattie cardiovascolari e 22.000 casi di diabete
di tipo 2. Oltre agli effetti diretti, ci sono quelli indiretti o a lungo
termine, come acufeni, stress, ansia, disturbi del sonno e difficoltà di
concentrazione, fino a depressione e demenza. Sono preoccupanti anche gli
effetti sui più piccoli: pare che l’esposizione continua al rumore del traffico
provochi difficoltà e ritardi nella lettura in circa mezzo milione di bambini e
disturbi del comportamento su circa 60.000. Si stima anche che circa 272.000
casi di sovrappeso infantile possano essere associati a livelli alti di rumore.
> L’inquinamento acustico è fra le minacce ambientali più pericolose per la
> salute: basti pensare che ogni anno, solo in Europa, causa 66.000 decessi
> prematuri. Per non parlare degli effetti indiretti su acufene, ansia, disturbi
> del sonno, difficoltà di concentrazione e depressione.
In complesso, sempre secondo lo stesso rapporto, in Europa perdiamo ogni anno
1,3 miliardi di anni di vita in buona salute (è l’indice DALY che somma gli anni
di vita persi per morti premature a quelli vissuti con malattie o disturbi
invalidanti). Un numero che fa impressione, ma forse non abbastanza da muoverci
all’azione: stando alle proiezioni dell’agenzia europea, senza forti misure
aggiuntive e senza nuovi investimenti non riusciremo a raggiungere l’obiettivo
di ridurre del 30% entro il 2030 il numero di persone che subiscono alti livelli
di inquinamento acustico (nello specifico, quello generato dal sistema dei
trasporti). Eppure i danni elencati hanno un costo elevato, stimato in 95,6
miliardi di euro l’anno: un numero da citare non perché serva assegnare un
valore economico alla nostra salute, ma per dare concretezza a qualcosa che ci
sembra semplice tappeto sonoro – il rumore del traffico nelle città – e che
solitamente consideriamo come secondario, incapace di produrre effetti concreti,
quando invece è perfino misurabile, sui nostri corpi e sui bilanci degli Stati.
Il rumore delle armi, il rumore come arma
Se il rumore del traffico è diventato una presenza costante e pervasiva del
paesaggio sonoro in cui siamo immersi, nel dominio dell’antropofonia in cima
alla lista dell’intensità si trovano i suoni prodotti da armi e mezzi di guerra:
il suono antropico più potente è quello generato dall’esplosione di una bomba
atomica, che supera i 200 dB. Anche in questi casi l’aspetto acustico ci sembra
marginale – e chiaramente di fronte a strumenti che producono morte il fatto che
producano anche dei rumori è marginale – ma essere sottoposti continuamente a
rumori così forti e innaturali, dal ronzio costante dei droni, al rombo degli
aerei militari, e poi le esplosioni, gli spari, gli allarmi, le urla, ha degli
impatti a lungo termine: in chi sopravvive; le conseguenze dell’esposizione
prolungata a questo tipo di rumori sono una parte importante dei disturbi
post-traumatici da stress, che spesso comprendono ipersensibilità ai rumori,
specie se forti e improvvisi.
> In cima alla lista dei suoni più potenti prodotti dall’essere umano ci sono
> quelli generati da armi e mezzi di guerra: l’esplosione di una bomba atomica,
> per dire, provoca un rumore che supera i 200 dB.
Esiste inoltre un’intera categoria di armi che usano proprio le onde sonore come
strumento di offesa: sono le armi soniche, o LRAD – Longe-Rage Acustic Device,
dispositivi acustici a lungo raggio –, vietate in molti Paesi, fra cui la
Serbia, che però è sospettata di averle utilizzate per disperdere la folla di
manifestanti in piazza il 15 marzo 2025. Le autorità di Belgrado negano di aver
utilizzato armi soniche, anche se hanno ammesso di averne acquistate. La
popolazione ha richiesto delle indagini indipendenti per chiarire i fatti, ma
quello che colpisce dei video diffusi in rete è l’invisibilità dell’onda che si
abbatte sul corteo, che si divide in due, con le persone che scappano dal centro
della strada, un’immagine che somiglia molto al rapporto che abbiamo con il
suono: qualcosa che sfugge alla nostra attenzione, ma di cui subiamo l’impatto.
Nel documentario Vibrations from Gaza, dell’artista Rehab Nazzal, il suono della
guerra oltre che invisibile diventa anche inudibile: i protagonisti sono bambini
sordomuti della Striscia di Gaza – una di loro, Amani, dice che “è una
benedizione essere sorda, così sono la meno terrorizzata quando bombardano” –, e
per tutto il film gli unici rumori sono il ronzio dei droni e le onde del mare.
I bambini raccontano quello che percepiscono degli aerei da guerra e delle bombe
che cadono: le vibrazioni dell’aria, del pavimento e dei loro corpi: la fisicità
del rumore, che rende impossibile il silenzio, finché non c’è pace, perfino per
chi non è in grado di udire la guerra.
Il silenzio: non solo un’assenza di suoni
Pace e silenzio sono due parole spesso associate: e come non si può definire la
pace per negazione, come solo assenza di guerra, così non si può definire il
silenzio per pura sottrazione del rumore.
> Un esempio chiaro del modo antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è
> che abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma
> sulla soglia minima di percezione umana.
Eppure una prima idea di silenzio che ci viene alla mente è l’assenza di rumori
umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente auto, aerei e navi,
niente bombe, niente fuochi d’artificio, niente allarmi, sirene e suonerie,
niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente cantieri, demolizioni e
costruzioni. In breve, potremmo definire l’idea comune di silenzio come un
paesaggio sonoro in cui manca tutto l’insieme dell’antropofonia: sottraendo i
suoni di origine umana, rimangono quelli degli altri esseri viventi, o biofonia,
e degli elementi naturali non viventi, come quelli prodotti dai movimenti
dell’aria, dell’acqua o della terra, ossia la geofonia. Non è un silenzio
assoluto, ma un silenzio naturale, che non ha niente a che vedere con un vuoto,
ma è uno spazio sonoro pieno delle voci che altrimenti sono sopraffatte dai
rumori artificiali: canti degli uccelli, frinire di insetti, onde del mare,
scrosciare di fiumi e frusciare di foglie.
In Storia naturale del silenzio (2024) Jérôme Sueur va a indagare proprio cosa
c’è dentro il silenzio naturale, rendendo evidente che, se già prestiamo poca
attenzione agli aspetti sonori delle nostre vite, ancora meno ne prestiamo al
silenzio, che non è affatto univoco, né assoluto, né vuoto o assenza. Un esempio
chiaro del modo tutto antropocentrico che abbiamo di intendere il mondo è che
abbiamo fissato lo zero decibel non su un valore di reale silenzio, ma sulla
soglia minima di percezione umana: esistono in realtà suoni che misurano decibel
negativi perfettamente udibili da molte specie, ciascuna con una sua soglia di
silenzio differente.
> La nostra idea comune di silenzio è un paesaggio sonoro in cui mancano del
> tutto i rumori umani: niente rombi di motori o stridore dei freni, niente
> allarmi, sirene e suonerie, niente annunci, megafoni e altoparlanti, niente
> cantieri, demolizioni e costruzioni.
Nei linguaggi animali il silenzio non è vuoto, può essere un segnale amoroso, di
allerta o di sfida, ma può essere anche un segnale di morte e perdita: quando
una specie scompare, scompare anche il suono che è in grado di produrre. Così,
come “il silenzio nelle contrade di America” indicava che qualcosa stava
accadendo alle popolazioni di uccelli, registrare suoni e vibrazioni può dare
indicazioni precise sullo stato di salute degli ecosistemi e sulla biodiversità
che li abita.
Il silenzio dell’estinzione: l’ecoacustica per il monitoraggio della
biodiversità
È da questo proposito – monitorare la biodiversità attraverso il suono – che,
circa mezzo secolo dopo quell’intuizione di Rachel Carson, l’ecoacustica nasce
ufficialmente come disciplina, nel 2014, in Francia, al Muséum national
d’Histoire naturelle, grazie al lavoro di un gruppo di ricercatori, fra cui lo
stesso Jérôme Sueur. Alcuni ecosistemi sono nascosti alla vista: è il caso dei
ricercatori della Flinders University di Adelaide, nell’Australia meridionale,
che hanno registrato i suoni prodotti dalle comunità sotterranee di invertebrati
per monitorare lo stato di salute e di fertilità del suolo; oppure di specie
indistinguibili all’occhio, ma non all’orecchio, come alcune specie di rane; o
ancora di ecosistemi così vasti e difficili da raggiungere – l’oceano più
aperto, le profondità marine più inaccessibili – dove poter semplicemente
registrare e analizzare i suoni diventa il metodo più praticabile, e meno
invasivo, di monitoraggio.
I suoni prodotti da ciascuna specie sono un indicatore della biodiversità ma
anche, e soprattutto, una ricchezza in sé: e quando una specie scompare, quando
l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i suoi richiami d’amore rivolti ormai a
nessuno, perdiamo per sempre delle note, un gorgoglio, delle vibrazioni, una
melodia che nessun altro essere vivente potrà replicare. Ogni singola specie non
solo produce dei suoni caratteristici ma ha un diverso modo di percepirli,
diversi spettri uditivi, diversi organi predisposti e diversi modi in cui le
vibrazioni sonore vengono percepite ed elaborate. Così quando una specie
scompare, non scompare solo il suono che produce, ma anche il suono che ascolta.
> Quando una specie scompare, quando l’ultimo esemplare rinuncia a mandare i
> suoi richiami d’amore rivolti ormai a nessuno, perdiamo per sempre delle note,
> un gorgoglio, delle vibrazioni, una melodia che nessun altro essere vivente
> potrà replicare.
Fra i vari compiti della tutela della biodiversità c’è anche fare in modo che le
altre specie animali possano continuare ad ascoltarsi fra loro: ridurre il
nostro peso sugli ecosistemi comprende quindi anche la riduzione del nostro
impatto sonoro – come, per esempio, l’inquinamento acustico del trasporto
marittimo, delle trivellazioni offshore e del deep-sea mining che stressa e
disorienta, provocando danni uditivi e a volte anche la morte, nei pesci e nei
mammiferi marini.
Immaginare un futuro silenzioso
Possiamo ripensare il nostro impatto sui paesaggi sonori; ripensare le città
tenendo a mente anche la necessità di contenere l’inquinamento acustico, per il
benessere di chi in città ci vive; ripensare la pace: “far tacere le armi” non
significa solo smettere di combattere, ma è un modo di lasciare spazio alla voce
dei popoli che con le armi vengono sottomessi, soggiogati, silenziati,
annientati; ripensare il silenzio: tacere, ridurre il rumore, non è creare un
vuoto ma creare spazio, così come quella che chiamiamo decrescita non è una
riduzione ma un modo diverso di crescere, dove alla crescita del PIL si
sostituisce quella del benessere, della salute e della giustizia.
Abbassare il livello, e il peso, dell’antropofonia sull’ambiente significa
quindi dare la possibilità di espressione ad altre specie animali, dar loro la
possibilità di tornare a comunicare, a quell’ultimo esemplare di scoprire magari
di non essere rimasto solo, e intercettare il verso di un suo simile prima che
entrambi smettano di cantare. Significa dare a noi, specie umana, la possibilità
di ascolto – delle altre specie, uscendo dal nostro antropocentrismo acustico, e
di chi, all’interno della nostra, è stato meno ascoltato –, e di immaginare un
cambiamento che tenga presente anche come potrebbe suonare il futuro che
vorremmo, una transizione non solo ecologica, non solo energetica, non solo
giusta socialmente, ma anche silenziosa, non per creare un vuoto sonoro assoluto
ma per poter ascoltare tutta quella ricchezza di voci di cui è fatto il mondo,
prima di perderle per sempre.
L'articolo Il paesaggio che (non) ascoltiamo proviene da Il Tascabile.
I l 25 marzo 2023, sui terreni agricoli nei pressi del piccolissimo comune di
Sainte-Soline nell’Ovest della Francia, quasi trentamila manifestanti si sono
scontrati con tremiladuecento gendarmi e poliziotti francesi. La “battaglia di
Sainte-Soline” è stata il culmine di due anni di proteste del movimento dei
Soulèvement de la Terre. La manifestazione, non autorizzata dal governo,
contestava la costruzione di un megabassine, uno dei duecento bacini idrici,
grandi fino a diciotto ettari, voluti dalla grande industria agricola francese
per garantirsi le riserve d’acqua durante i mesi di siccità.
Il progetto, tuttora in fase di attuazione, rischia di avere effetti devastanti
sull’agricoltura: i megabassines raccolgono acqua drenandola dalle falde durante
l’inverno e, di conseguenza, danneggiandole; sono costruiti allo scopo di
irrigare le colture intensive, specie quelle del mais, che richiedono un volume
di acqua superiore a quella naturalmente garantita dai cicli stagionali; fanno
l’interesse esclusivo della grande industria e sono progettati senza tenere
conto della volontà di chi abita quei territori.
Il dispiegamento di forze di polizia quel giorno era enorme, la loro dotazione
di armi adatta a una vera e propria guerriglia: elicotteri, equipaggiamenti
antisommossa, veicoli blindati, cannoni ad acqua, granate. Centinaia di
manifestanti sono stati feriti, alcuni in modo grave, altri gravissimo. Venti
persone sono state mutilate, due sono finite in coma. Dopo la battaglia, i
Soulèvement de la Terre sono stati sciolti dal ministro dell’interno Gérald
Damarnin e dichiarati illegali.
Nato in Francia nel 2021 per contestare le politiche ambientali ed energetiche
del governo Macron e, più in generale, per manifestare in favore di un nuovo
modello sociale ed economico attorno alle questioni che riguardano l’ecologia,
lo sfruttamento del suolo, l’accumulo di risorse e di materie prime, il
movimento riunisce militanti e agricoltori locali e raccoglie la solidarietà di
altri gruppi nazionali ed esteri. Tra il 2021 e il 2023 i Soulèvement de la
Terre hanno organizzato cortei, presidi, azioni di sabotaggio a grandi impianti
e siti di estrazione di materie prime, subendo la progressiva repressione del
governo francese.
> L’Abbecedario permette di riflettere sull’uso del linguaggio in politica
> laddove non si ha a che fare con questioni particolari o identitarie, ma
> collettive e strutturali.
In risposta ai fatti del marzo 2023 è stato pubblicato On ne dissout pas un
soulèvement (“Non si scioglie una rivolta”), tradotto per Orthotes da Giovanni
Fava e Claudia Terra con il titolo Abbecedario dei Soulèvement de la Terre alla
fine del 2024. L’Abbecedario è una raccolta di trentotto brevi interventi di
militanti dei Soulèvement e dei movimenti solidali. Ogni testo è scritto a
partire da una parola chiave: disposte in ordine alfabetico, le parole formano
una costellazione di posizioni e analisi politiche, fino a comporre il manifesto
del movimento stesso. Leggere l’Abbecedario permette di riflettere su quali sono
le questioni pratiche e urgenti che i cambiamenti climatici ci imporranno di
risolvere nell’immediato; su come si organizza la resistenza a scelte politiche
che perpetrano un sistema economico insostenibile; sull’uso del linguaggio in
politica, specie laddove non si ha a che fare con questioni particolari o
identitarie, ma collettive e strutturali.
Partiamo dall’ultima questione. Come dicevamo, l’Abbecedario riunisce interventi
eterogenei, tanto nella forma quanto nei contenuti: la Confédération paysanne,
una confederazione di sindacati che tutelano il lavoro di piccoli agricoltori,
firma la voce “Contadine e contadini”; il collettivo di scienziati Scientifiques
en rébellion scrive di “Urgenza climatica”; gli antropologi Philippe Descola,
titolare della cattedra di antropologia al Collège de France, e Eduardo Viveiros
de Castro, professore universitario a Rio De Janeiro, parlano di
“Accaparramento” e “Indigeno”; la direttrice delle ricerche al CNRS di
Montpellier Virginie Maris firma “Ecofemministe”.
Questo elenco parziale rende l’idea della varietà non solo di temi – il
manifesto tiene insieme questioni architettoniche, sociali, geologiche,
ambientali – ma anche delle molte soggettività che compongono il movimento.
Proprio nella “composizione” sta il farsi soggetto collettivo dei Soulèvement de
la Terre: l’Abbecedario non sintetizza né distingue le varie posizioni, le fa
coesistere e le tiene insieme. Al fondo di ogni testo, la formula “cfr. anche”
rimanda ad altri due o tre interventi nello stesso libro. In questo modo,
l’Abbecedario si può leggere sia in ordine alfabetico sia per connessioni
tematiche, attraversando la rete di posizioni che forma l’impalcatura teorica
del movimento.
Che lingua parla, o deve parlare, la politica militante? È una questione di
enorme importanza, se si tiene conto della strutturale subalternità che i
movimenti sociali di sinistra hanno in relazione all’opinione pubblica, non
tanto per le proposte in sé, spesso largamente condivisibili e condivise, anche
inconsciamente, da moltissime persone, quanto per la loro immagine, per la
narrazione, l’idea che se ne costruisce nel dibattito. L’Abbecedario contiene
molti registri diversi. In alcuni passaggi, ad esempio, la lingua è assertiva,
quasi imperativa:
> Continuare a fare ciò che conosciamo, fare l’inventario dei siti in cui sono
> previsti progetti distruttivi. Rafforzare i nostri legami con gli avvocati.
> Supportare la rete di associazioni militanti. Denunciare gli abusi della
> società di consulenza. Politicizzare le nostre camminate nella natura.
> Diffondere le pratiche naturalistiche. Federare le comunità umane e non umane.
> Disertare. Insediarsi in campagna.
Il brano è contenuto nel capitolo “Naturalistes de Terre”, la lista dei
comandamenti prosegue ancora. Allo stesso tempo, la lingua sa essere
immaginifica, creativa, ironica, come nella “Ricetta per le mense militanti”:
Per cominciare bene, portare a ebollizione in un’assemblea generale gli addetti
e le addette alla mensa per organizzare la giornata di cucina […]. Raggiunto il
bollore, non dimenticate di creare una squadra d’attacco di lavaggio stoviglie e
un’équipe per lo spuntino. Una volta emulsionata a puntino, l’équipe parteciperà
alla manifestazione e rifornirà i manifestanti nel cuore dell’azione, in modo
che tutte e tutti possano recuperare le forze.
In alcuni capitoli si citano dati e percentuali, alcuni contengono persino note
con riferimenti bibliografici, in altri si lascia spazio alle metafore e alle
costruzioni allegoriche. I campi semantici più ricorrenti riguardano la natura
(“essere albero”, “avere radici”, “ramificare”, “creare/appartenere a
ecosistemi”), o il corpo, ad esempio nel rapporto chimerico tra corpo umano e
suolo o tra uomini e animali non umani: “Avere cura delle lotte significa curare
le nostre interdipendenze e le nostre co-affezioni attraverso
personificazioni-chimere, come uomo-anguilla-fiume o umano-tritone-prato”;
“Siamo l’Acqua che si difende e siamo pronti a sommergervi”. La Terra stessa è
personificata in “Gaia”, nome che rimanda a un’idea armoniosa del rapporto tra
uomo e natura. Non manca, ovviamente, il campo semantico del conflitto: le
grandi opere si “disarmano”, le azioni di sabotaggio dei cantieri si fanno per
“autodifesa”, le risorse naturali sono terreno di “conquista”.
> Proprio nella “composizione” sta il farsi soggetto collettivo dei Soulèvement
> de la Terre: l’Abbecedario non sintetizza né distingue le varie posizioni, le
> fa coesistere e le tiene insieme.
Che la lingua sia un campo di battaglia politica, un dispositivo attraverso cui
si stabiliscono le appartenenze, si delimitano i confini dell’identità, si
tracciano le linee di inclusione ed esclusione, è ormai un dato evidente a
chiunque. Più sotterraneo, per ora, è l’uso che si fa della lingua quando si ha
a che fare con questioni sociali. Sempre più repressivo è l’uso dei termini che
identificano i manifestanti politici: qualcuno saprebbe definire chiaramente chi
sia oggi per la legge italiana un “terrorista”? Ogni parola usata nel discorso
politico è oggetto di contesa: dire “ecologista”, “militante”, “resistente”,
“attivista” non è mai neutro, è una scelta di campo.
Anche in Italia il vocabolario istituzionale che definisce le forme di dissenso
è sempre più vago e opaco, e proprio per questo sempre più pericoloso. Categorie
giuridiche nate in contesti storici completamente differenti – pensiamo alla
nozione di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” – vengono oggi
applicate a gruppi ambientalisti o a reti di movimento che contestano
infrastrutture fossili, come i rigassificatori o i metanodotti. Il concetto
stesso di terrorismo viene stirato, piegato, fino a includere chiunque eserciti
un conflitto non autorizzato, chiunque pratichi una forma di opposizione fuori
dai canali istituzionali. Il problema, allora, è anche semantico: è nel potere
di chi assegna i nomi. Se la narrazione istituzionale è capace di imporre
un’etichetta, può cancellare la complessità, fino a devitalizzare il conflitto e
a evitare ogni confronto.
In questo contesto, la riflessione linguistica diventa una questione politica
primaria. Come ci chiamiamo? Come vogliamo essere chiamati? Quali parole ci
vengono imposte, e di quali ci possiamo riappropriare? La battaglia non si gioca
solo nelle piazze o nei tribunali, ma anche nei modi in cui parliamo delle
piazze e dei tribunali. E anche nei modi in cui parliamo tra di noi. Per questo
l’Abbecedario è un oggetto prezioso: perché costruisce una lingua comune senza
imporla. Perché mostra che si può parlare da posizioni diverse, con stili
diversi, ma in una stessa direzione, rompendo la gerarchia tra chi pensa e chi
agisce, tra chi scrive e chi lotta.
Il fatto che l’Abbecedario dei Soulèvement de la Terre sia stato scritto dopo
Sainte-Soline indica che non si tratta di un programma d’azione, ma del
tentativo di capire retroattivamente – con le parole e le forme del pensiero –
ciò che era già stato fatto. Prima il corpo, poi la lingua; prima l’urto, poi la
sintassi. Se la politica dei Soulèvement ha avuto nella presenza fisica, nella
disobbedienza, nel gesto collettivo la sua prima articolazione, è soltanto dopo
lo scontro che si è resa necessaria la costruzione di una grammatica.
L’intelletto viene a posteriori, come forma di sedimentazione, e non come
architettura previa. Questo sovvertimento delle logiche tradizionali del
pensiero militante è forse la chiave più potente dell’Abbecedario: l’azione non
è giustificata dalla teoria, ma la precede. E la teoria non ha lo scopo di
spiegare, ma di accompagnare. Non è una strategia, è una cura.
> Ogni parola usata nel discorso politico è oggetto di contesa: dire
> “ecologista”, “militante”, “resistente”, “attivista” non è mai neutro, è una
> scelta di campo.
In questo senso, l’Abbecedario non è un libro che prepara alla lotta: è il libro
che resta dopo la lotta. E proprio per questo è tanto più prezioso per chi lotta
oggi, altrove. Perché offre un esempio, non un modello. Perché si può prendere,
leggere, copiare, piegare, adattare. E perché contiene una forma di intelligenza
collettiva che non si propone come verità, ma come gesto in comune. In un tempo
in cui la repressione del dissenso si fa ogni giorno più pervasiva, anche in
Italia, e in cui la distanza tra il gesto politico e la sua rappresentazione
pubblica è abissale, l’Abbecedario diventa un oggetto strano e vitale. Una forma
di sapere che non pretende egemonia, ma relazione.
Se oggi chi dissente in modo organizzato – che si tratti di studenti, attivisti
per il clima, operai o lavoratori della cultura – viene schedato, manganellato,
perquisito, accusato di terrorismo, allora ogni parola è già azione, ogni
linguaggio condiviso è già una forma di resistenza, e la pluralità di registri
dell’Abbecedario rispecchia la molteplicità delle condizioni in cui oggi il
dissenso prende corpo: università, assemblee cittadine, campagne, festival,
accampamenti, piazze occupate, reti sindacali, collettivi scientifici.
Questa traiettoria – dall’azione al pensiero, dalla militanza al discorso – è
visibile anche altrove. Nel lavoro teorico di Andreas Malm, ad esempio,
l’urgenza dell’azione contro il cambiamento climatico è posta in forma
dialettica con il pensiero marxista. Come far saltare un oleodotto, pubblicato
in Italia da Ponte alle Grazie nel 2023, è forse l’esempio più esplicito di come
oggi la teoria non possa più restare neutra, e non possa più limitarsi a
descrivere il mondo senza prendere parte alle sue trasformazioni. Malm, come i
Soulèvement, parla delle azioni di sabotaggio (meglio dire “disarmo”) delle
grandi opere come strumento essenziale di lotta climatica e della “violenza”
contro i grandi soggetti industriali come l’unica via per contrastare un sistema
iniquo. Così facendo, l’autore costruisce una giustificazione teorica per gesti
che il sistema giuridico classifica come criminali. E che invece, nella logica
del collasso ambientale, sono azioni di tutela della vita.
La tutela dell’acqua pubblica, il contrasto alla siccità, l’abbandono di un
modello produttivo iniquo sono questioni che non possiamo più ignorare né
sminuire. D’altronde, sono moltissimi gli esempi di letteratura in proposito,
persino troppi in relazione a quanto effettivamente viene fatto dalla politica.
È inquietante, non devo essere io a notarlo ed è persino banale ripeterlo, la
discrasia tra quanto sappiamo e quanto facciamo in merito alla tutela del nostro
ecosistema e degli altri che contribuiamo a invadere o a distruggere.
> L’Abbecedario mostra che si può parlare da posizioni diverse, con stili
> diversi, ma in una stessa direzione, rompendo la gerarchia tra chi pensa e chi
> agisce, tra chi scrive e chi lotta.
Il filosofo giapponese Saito Kohei, nella sua ultima rilettura di successo del
Capitale, pubblicata in Italia da Einaudi, propone un ecomarxismo della
decrescita, vedendo nella rinuncia alla crescita per come è comunemente intesa
in Occidente l’unica possibilità di liberazione. Anche in questo caso il
discorso si fa politico non perché descrive una struttura, ma perché disegna
un’alternativa. Un’ipotesi concreta, capace di parlare non solo agli attivisti
ma anche ai cittadini, ai lavoratori, a chi subisce la crisi climatica senza
strumenti per interpretarla. La teoria non può più essere la premessa
dell’azione: deve essere la sua eco. E proprio come un’eco, portare con sé la
memoria del gesto e allo stesso tempo la sua trasformazione. È un gesto che si
riflette, si moltiplica, si adatta ai contorni di chi ascolta.
L'articolo Che lingua parla la politica militante? proviene da Il Tascabile.
L e monumentali rovine del sito maya di Calakmul sono completamente immerse
nella giungla, che le ha nascoste e protette fino a pochi decenni fa. Salendo in
cima all’Estructura II, il più alto edificio maya conosciuto, lo sguardo spazia
sopra il mare verde delle chiome degli alberi. Calakmul è stata un tempo la
capitale del regno di Kaan, il regno della testa di serpente. Città
inespugnabile, dominava un territorio sconfinato che arrivava fino all’attuale
Guatemala, dove era situata Tikal, la città-Stato che contendeva a Calakmul il
predominio sull’area. Il destino, beffardo, ha voluto che proprio a Calakmul, la
capitale del regno della testa di serpente, sorgesse una delle 34 stazioni del
Tren Maya, il “grande serpente metallico” che attraverserà la penisola dello
Yucatán. 1554 chilometri, 34 stazioni, 42 treni, collegamento con 7 aeroporti e
26 aree archeologiche, per un costo stimato che sfiora i 30 miliardi di dollari.
Questi sono i numeri essenziali che raccontano il progetto nato dalla fantasia
dell’ormai ex presidente, Andrés Manuel López Obrador, all’indomani della sua
elezione, nel 2018.
Ripetutamente dipinto dal presidente come un grande progetto di speranza e
sviluppo, una volta completato, il Tren Maya rappresenterà l’imperitura
testimonianza del passaggio di López Obrador nella storia del Paese
centroamericano. Ma non si tratta solo di aspirare all’immortalità. Un
megaprogetto è soprattutto un formidabile generatore di consenso politico, a
livello centrale e locale. Il paradigma che emerge dalla vicenda del Tren Maya è
universale. Che si tratti di una linea ferroviaria o di un ponte, che avvenga in
Messico o in Italia. Quando le grandi opere nate “in alto”, nelle stanze del
potere centrale, vengono calate “in basso”, su territori spesso impreparati o
inadeguati, in nome del progresso e dello sviluppo, i costi ambientali, sociali
e culturali rischiano di diventare enormi.
Il Tren Maya inizia il suo viaggio con una promessa: trasportare i turisti
attraverso la Regione Maya e, così facendo, offrire opportunità economiche e
benessere ad alcune delle comunità più povere del Paese, che non hanno case in
muratura né un sistema fognario, guadagnano meno del salario minimo e spesso non
proseguono gli studi oltre le scuole elementari.
> Il Tren Maya è molto di più di una linea ferroviaria: è un vero progetto di
> riordinamento territoriale e di trasformazione strutturale della regione, che
> porta con sé resort, lotti residenziali, centri commerciali e impianti di
> produzione energetica.
È il presidente stesso a esporsi in prima persona promettendo che il treno
porterà posti di lavoro e sviluppo per pagare il “debito morale” dello Stato
messicano nei confronti del suo Sud-Est, storicamente trascurato. “Il Tren Maya
è un atto di giustizia”, ha detto López Obrador, originario del vicino Stato di
Tabasco, nel corso di un incontro con le comunità locali.
Un progetto di trasformazione strutturale
In realtà il Tren Maya è molto di più di una linea ferroviaria: è un vero
progetto di riordinamento territoriale e di trasformazione strutturale della
regione. La ferrovia porta con sé resort, lotti residenziali, centri
commerciali, impianti di produzione energetica. In corrispondenza delle 20
stazioni principali è prevista la costruzione dei cosiddetti “poli di sviluppo”,
destinati a ospitare ognuno 50.000 persone, con allevamenti di maiali e polli
per soddisfare le necessità dei turisti. Ma c’è di più. Il progetto del Tren
Maya prevede il collegamento diretto con un altro megaprogetto fortemente voluto
da López Obrador e in gran parte già realizzato: il Corredor interoceánico, una
ferrovia che mette in collegamento il Pacifico e l’Atlantico nel punto più
stretto del Messico, offrendo un’alternativa terrestre più economica e più
veloce al Canale di Panama. Nell’intenzione del presidente anche questo
progetto, con i suoi parchi industriali, raffinerie e porti, contribuirà allo
sviluppo della regione e darà una spinta a tutta l’economia messicana.
Il tracciato del Tren Maya si snoda attraverso tutti e cinque gli Stati che
costituiscono la penisola dello Yucatán: Chiapas, Tabasco, Campeche, Yucatán e
Quintana Roo. Il percorso del treno, più volte modificato, a partire da quello
originario lungo 900 chilometri, ha il suo cuore nell’anello ferroviario che,
toccando i maggiori siti archeologici, le città coloniali e le località balneari
della costa caraibica, parte e torna a Cancún, la capitale turistica della
penisola.
Cancún è una città artificiale, letteralmente costruita a tavolino dal governo
messicano per favorire la nascita di un polo turistico alternativo ad Acapulco.
Quando il 23 gennaio 1970 fu avviato il progetto di sviluppo, l’area contava
solo tre residenti, i custodi della locale piantagione di cocco. Oggi, dopo 50
anni, Cancún ha quasi 900.000 abitanti e ogni anno viene visitata da oltre 20
milioni di turisti. Un vero eldorado, soprattutto per i tour operator stranieri,
le catene alberghiere internazionali e i gestori messicani di discoteche e
parchi dei divertimenti. Ad attirare i turisti nello Yucatán non sono solo la
sabbia bianca e l’acqua turchese delle spiagge caraibiche, ma anche gli
spettacolari siti archeologici della civiltà Maya e l’immenso patrimonio di
biodiversità delle sue sconfinate foreste e della seconda più grande barriera
corallina al mondo.
Gran parte degli abitanti della penisola dello Yucatán sono di origine indigena,
per lo più discendenti dai Maya. Le popolazioni indigene, con la loro cultura e
il loro modo di rapportarsi all’ambiente, sostengono e preservano la
biodiversità dello Yucatán ma spesso non traggono benefici dallo sviluppo
turistico. Al massimo, hanno accesso ai lavori più umili, come quelli da
personale delle pulizie negli hotel. È così che si comprende perché, nonostante
lo sfruttamento turistico, lo Yucatán rimane un’area depressa nel quadro
nazionale. In quattro dei cinque Stati che lo compongono, le famiglie, in
particolare quelle indigene, hanno un reddito medio di gran lunga inferiore a
quello nazionale, oltre 7 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà e
più di 2 milioni in condizioni di indigenza.
> Un gruppo di accademici ha firmato un appello per chiedere al governo di
> fermare i piani di costruzione: il treno è considerato una minaccia ambientale
> “su scala planetaria” con effetti potenzialmente devastanti.
La costruzione del Tren Maya è avvenuta con tempi da record e ad opera di
imprese quasi esclusivamente messicane: un vanto per la nazione. I primi 500
chilometri del tratto Campeche-Cancún sono stati inaugurati il 15 dicembre 2023,
poco più di mille giorni dopo l’inizio dei lavori. Il completamento effettivo
della linea, inizialmente previsto per la fine del 2024, dovrebbe avvenire entro
la fine del 2025.
Un’opera ad alto impatto ambientale
Appena dopo la presentazione del progetto, sono cominciate le critiche. Nel 2018
l’organizzazione ambientalista tedesca Salviamo la foresta ha lanciato una
petizione per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli impatti ambientali che
avrebbe avuto il Tren Maya, ottenendo una buona risonanza sia in Messico sia a
livello internazionale con quasi 300.000 firme raccolte. Nel 2020 attraverso la
voce del subcomandante Moises si sono duramente espressi anche gli zapatisti,
definendo il Tren Maya “l’ennesima grande opera con la quale il Governo voleva
distruggere il territorio”. Da quel momento le voci contrarie si sono
moltiplicate. Tra queste quelle degli archeologi, preoccupati che la ricchezza,
in gran parte ancora inesplorata, di resti di antiche civiltà presente lungo il
tracciato venga irrimediabilmente distrutta o resa inaccessibile.
Ma la maggior parte delle critiche si è concentrata sugli impatti ambientali
dell’opera. A luglio del 2020, un gruppo di 85 accademici, molti dei quali
messicani, ha firmato un appello per chiedere al governo di fermare i piani di
costruzione, individuando nel treno una minaccia ambientale “su scala
planetaria” e avvertendo degli effetti potenzialmente devastanti sulla falda
acquifera, già sottoposta a una forte pressione a causa dell’urbanizzazione. Va
considerato che geologicamente lo Yucatán è un’immensa distesa calcarea,
praticamente priva di acqua in superficie, ma caratterizzata dal più grande
sistema di fiumi sotterranei al mondo. Una vasta rete interconnessa che forma la
Grande falda acquifera Maya, fonte di acqua potabile per circa cinque milioni di
messicani. Gli speleologi locali hanno ripetutamente denunciato gli effetti del
passaggio della linea ferroviaria sopra il sistema di gallerie carsiche e i
danni ai cenotes, formazioni geologiche uniche al mondo, costituite da piscine
di acqua cristallina scoperte dal crollo della volta rocciosa sovrastante,
considerate dai Maya luoghi sacri di accesso al mondo degli inferi.
A dare un’idea concreta di quello che sta avvenendo sono gli speleologi di
Cenotes urbanos, un gruppo locale impegnato nel mappare il maggior numero di
queste formazioni calcaree, nel tentativo di impedirne la distruzione: “Le
grotte non sono solo dei tubi, vuoti, brutti e bui. Sono ecosistemi pieni di
vita che lavorano in squadra con gli ecosistemi della giungla. La rotta
ferroviaria attraversa almeno un centinaio di cenotes. Qui il terreno calcareo
si sbriciola, perciò i binari non poggiano direttamente a terra ma vengono
sopraelevati a 17 metri d’altezza, su centinaia di pali del diametro di oltre un
metro conficcati a 25 metri di profondità; è come costruire su gusci d’uovo. Gli
scavi distruggono alghe e batteri essenziali per la sopravvivenza
dell’ecosistema e inquinano l’acqua. A volte, per procedere più in fretta, le
ruspe tappano i cenotes con la terra. È un danno incalcolabile, irreversibile”.
> Secondo il Tribunale internazionale per i diritti della natura, il Tren Maya
> rappresenta una violazione dei diritti della Natura e dei diritti bioculturali
> del popolo maya, il che costituirebbe un crimine di ecocidio ed etnocidio.
Un’altra fonte di preoccupazione è l’impronta che il passaggio del Tren Maya e
le opere complementari lasceranno sulla foresta e la fauna che la abita.
All’atto della presentazione del progetto il presidente López Obrador si era
lasciato un po’ andare all’entusiasmo assicurando nei comizi che non sarebbe
stato abbattuto un solo albero. Nella realtà, l’apertura di un corridoio, che a
volte raggiunge i 60 metri di larghezza, all’interno della foresta pluviale, ha
richiesto l’abbattimento di molti alberi, difficilmente compensabili con le
piantumazioni e le risemine previste dal progetto. Le stime più accreditate
parlano di una superficie deforestata compresa tra 6.000 e 10.000 ettari. Tutto
sommato, però, questa cifra impallidisce al confronto con i 100.000 ettari di
foresta persi solo nel 2023 nella regione, a causa di pratiche agricole non
sostenibili, dell’espansione degli allevamenti e dell’urbanizzazione della
costa.
Più della deforestazione è la frammentazione degli habitat naturali il vero
rischio per la seconda più grande foresta pluviale dell’America Latina. Specie
animali che si muovono su grandi estensioni di territorio, in particolare grandi
carnivori come il giaguaro, o specie a rischio di estinzione, come il tapiro di
Baird, potrebbero subire forti limitazioni alle possibilità di movimento per
effetto di barriere artificiali come la ferrovia. Per mitigare questi impatti,
il governo ha previsto la costruzione di attraversamenti per la fauna selvatica,
ma purtroppo la maggior parte di essi è costituita da sottopassi, anziché da
cavalcavia aperti, più costosi ma molto più funzionali.
I costi e le minacce sociali
Anche il Tribunale internazionale per i diritti della natura si è occupato del
Tren Maya. Il tribunale, formato da cittadini e istituito nel 2014 per
rappresentare i “diritti soggettivi della natura”, ha deciso di occuparsi del
caso dopo che l’Assemblea del territorio Maya dello Yucatán ha richiesto il suo
intervento il 5 giugno 2022. A marzo del 2023, i cinque giudici del tribunale
hanno raccolto le testimonianze di 23 diverse comunità indigene. La sentenza
emessa non lascia posto a fraintendimenti: “Il Tren Maya – si legge nel testo ‒
rappresenta in modo inconfutabile una violazione dei diritti della Natura e dei
diritti bioculturali del Popolo Maya, il che costituisce un crimine di ecocidio
ed etnocidio”.
Al Tren Maya non sono mancate anche le critiche di chi lamenta che i costi
sociali per la realizzazione del progetto saranno principalmente a carico delle
comunità locali, mentre i benefici economici andranno per lo più ai grandi
operatori internazionali del settore turistico. L’ONG messicana Prodesc,
inoltre, ha denunciato ripetuti episodi di esproprio illegale degli ejidos, le
terre comunitarie istituite dopo la Rivoluzione messicana, nonostante le
affermazioni iniziali del governo che il progetto avrebbe interessato solo
territori di proprietà federale. “Il cosiddetto Tren Maya non è un treno e non è
maya, perché non è pensato per la popolazione ma per gli interessi del governo e
delle imprese che sfruttano le risorse locali” ripetono gli esponenti del
Congresso nazionale indigeno, organismo che riunisce le comunità indigene del
Messico.
> Tra espropri, gentrificazione e impatti ecologici, i costi sociali per la
> realizzazione del progetto saranno principalmente a carico delle comunità
> locali, mentre i benefici economici andranno per lo più ai grandi operatori
> internazionali del settore turistico.
E intanto, nelle zone di passaggio del treno, si è già innescato un processo di
gentrificazione (vale a dire di trasformazione di un’area abitativa popolare in
una più esclusiva), che ha fatto lievitare i prezzi dei beni essenziali e delle
case.
Anche il processo di consultazione delle popolazioni locali è stato ritenuto, da
più parti, insufficiente e poco trasparente. Il presidente López Obrador e i
suoi emissari sono stati apertamente accusati di manipolare le comunità indigene
facendo leva sulla loro condizione di povertà e utilizzando metodi scorretti per
ottenere il loro assenso al progetto. Alle accuse di mancato coinvolgimento
delle popolazioni indigene nella decisione il presidente ha risposto con l’esito
del referendum indetto per approvare il Tren Maya, stravinto con il 90% dei
consensi. Un referendum, però, votato da meno dell’1% degli aventi diritto e
dichiarato non conforme agli standard internazionali dagli osservatori dell’Alto
commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani. López Obrador ha
sistematicamente ignorato o denigrato, attraverso i media governativi, tutte le
critiche al progetto, riuscendo nell’intento di depotenziarle. Gli ambientalisti
sono stati ripetutamente tacciati di essere “radical chic, corrotti e pagati
dagli Stati Uniti”, e il mondo accademico scientifico di essere formato da
“intellettuali borghesi che non conoscono la realtà”.
> Molti albergatori, tassisti, guide turistiche sembrano consapevoli del prezzo
> che il territorio pagherà con l’arrivo del Tren Maya, ma tra loro prevale
> l’opinione che si tratti di un sacrificio necessario sull’altare dello
> sviluppo economico.
Le cause intentate dagli ambientalisti e dai gruppi indigeni e le sentenze dei
tribunali messicani hanno inizialmente bloccato i lavori e introdotto modifiche
al percorso originale. La minaccia di ulteriori rallentamenti ha indotto López
Obrador nel 2021 a conferire, per decreto, lo status di “progetto di sicurezza
nazionale” al Tren Maya e ad affidarne la realizzazione all’esercito,
un’istituzione con una lunga storia di violazioni dei diritti umani. Con questo
sistema sono state scavalcate tutte le autorizzazioni e le valutazioni di
impatto ambientale e sociale, molte delle quali ancora in corso. All’esercito è
passata anche la gestione diretta di diversi cantieri e la supervisione del
funzionamento del Tren Maya, testimoniata in modo evidente dalla massiccia
presenza di uomini in mimetica con armi di grosso calibro in tutte le stazioni e
nei maggiori cantieri.
Il viejito
Ma cosa pensano i messicani del Tren Maya? Molti reporter europei hanno cercato
di cogliere il pensiero dei locali parlando con loro mentre percorrevano, come
semplici passeggeri, le prime tratte aperte. Tutti più o meno hanno raccontato
una realtà simile. Salendo a bordo è evidente lo stato di eccitazione dei
messicani che per la prima volta prendono il treno. Un selfie dietro l’altro e
video a raffica dal finestrino anche quando fuori non c’è nulla da vedere. Alla
richiesta di un parere sugli impatti ambientali del progetto, la maggior parte
delle opinioni si assomigliano: “Non è un problema, ma quale deforestazione?,
non sono impatti così gravi come dicono, qualche impatto è inevitabile se
vogliamo lo sviluppo”. Nessuno sembra essere particolarmente interessato agli
aspetti economici e sociali o ai diritti degli indigeni. D’altronde, basta
entrare in una delle 34 stazioni per capire lo sforzo che il governo sta facendo
affinché i messicani si approprino del treno e lo sentano come parte
dell’identità nazionale. “Todas y todos somos Tren Maya”, recita il messaggio
che compare ovunque, sui video, sui social, sulle riviste, sui gadget per i
viaggiatori.
Tra le popolazioni locali, i consensi maggiori al progetto arrivano dalle classi
basse e medie, attratte dalla prospettiva di nuovi posti di lavoro. Qualcuno,
perfettamente allineato col governo, parla addirittura di interessi economici
che manipolano la gente per contrastare il treno. Molti albergatori, tassisti,
guide turistiche sembrano consapevoli del prezzo che il territorio pagherà con
l’arrivo del Tren Maya, ma tra loro prevale l’opinione che si tratti di un
sacrificio necessario sull’altare dello sviluppo economico.
Eletto con il consenso più alto della storia messicana recente, López Obrador è
un politico di sinistra incline al tradizionale populismo messicano, che ha
sempre coltivato un’immagine da “uomo del popolo”. Il subcomandante Marcos,
all’epoca della sua prima elezione, lo definì “l’uovo del serpente”, per
indicare la sua indole liberista sotto il guscio progressista. Sospinto dal
consenso popolare, il presidente si è permesso di usare il pugno di ferro con i
detrattori del progetto a cui, nel 2019 durante un comizio nello Stato del
Campeche, ha inviato un messaggio esplicito: “Con la pioggia, i tuoni o i lampi,
che lo vogliate o meno, il Tren Maya lo faremo”.
Il rapporto tra il presidente le classi popolari è stato efficacemente descritto
dal reporter cubano Dario Alemán: “I poveri, indubbiamente, vedono in lui un
paladino contro l’oligarchia. Potremmo azzardare che gli vogliano addirittura
bene, lo chiamano affettuosamente viejito (“nonnetto”) […]. Difficile
biasimarli. Mai nessun altro politico ha portato avanti un programma sociale
come quello di López Obrador, che ha aumentato le pensioni minime degli anziani,
ha garantito sussidi bimestrali agli handicappati. E sebbene non si stia
parlando di cifre astronomiche, nelle zone più arretrate del Messico fanno la
differenza”.
La nuova presidente
E la neopresidente Claudia Sheinbaum? Cosa pensa del Tren Maya la donna, prima
nella storia messicana, che il 1° ottobre del 2024 ha preso il posto di López
Obrador? Considerata da tutti gli osservatori una “delfina” del vecchio
presidente, Sheinbaum ha iniziato il mandato in piena continuità con il suo
predecessore, continuando a inaugurare nuove tratte del Tren Maya senza perdere
l’occasione di ribadire le prodigiose ricadute economiche e di sviluppo che
l’opera porterà con sé. La neopresidente, scienziata del clima, ha anche
continuato a sminuire le preoccupazioni ambientali legate al treno e ha
contrattaccato chiedendosi dove fossero gli stessi ambientalisti che oggi
contrastano il Tren Maya quando, nei decenni passati, lo sviluppo turistico ha
trasformato la Riviera Maya causando enormi impatti ambientali.
> Quella del Tren Maya è una vicenda esemplare dell’affermazione di un modello
> “estrattivista” di trasformazione del territorio, in cui gli interessi
> commerciali e finanziari sono predominanti rispetto a quelli collettivi.
Ora però il suo governo sembra aver cambiato posizione. All’inizio di aprile di
quest’anno, durante un incontro con i media, Alicia Bárcena, capo del ministero
dell’Ambiente e delle Risorse naturali, ha riconosciuto pubblicamente i danni
causati dal Tren Maya agli ecosistemi della regione del Quintana Roo e
comunicato che il suo ministero sta effettuando sopralluoghi nell’area colpita
con l’obiettivo di sviluppare misure di compensazione per i danni alle
infrastrutture ed eventuali cambi di destinazione d’uso del territorio, per
rispondere alle esigenze e alle preoccupazioni delle comunità locali.
Bárcena ha preannunciato l’avvio di un piano di ripristino ambientale che
dovrebbe riguardare l’intero tracciato del treno e i cui costi, a detta del
sottosegretario alla Biodiversità e al Ripristino ambientale del governo, Marina
Robles García, dovranno essere assunti da “chi ha eseguito i lavori”. Tra le
azioni più importanti del piano annunciate da Bárcena si prevede l’eliminazione
delle recinzioni metalliche che ostacolano il libero transito della fauna, la
protezione di caverne e cenotes e il divieto di costruire strade secondarie
nella giungla per le attività turistiche: “Possono essere le comunità stesse ad
aiutarci a ripristinare l’ecosistema forestale, invece di appaltare ai consorzi
che sono coinvolti nel Treno Maya, aziende che vengono, piantano un albero e il
giorno dopo muore”.
Una vicenda esemplare
In attesa che questa nuova sensibilità del governo messicano nei confronti
dell’ambiente e delle comunità locali diventi realtà, il sogno del populista
López Obrador prosegue spedito. Il prossimo obiettivo è l’estensione del
tracciato del treno per raggiungere la città maya di Tikal, in Guatemala, e il
15 agosto scorso i leader di Messico, Guatemala e Belize si sono incontrati a
Calakmul proprio per discutere dell’ampliamento della linea ferroviaria.
Nell’occasione hanno anche annunciato la creazione di un’area protetta
sovranazionale per proteggere l’intera foresta pluviale Maya. Con gli impatti
del megaprogetto in Messico davanti agli occhi e il greenwashing in agguato, la
cautela è d’obbligo.
Quella del Tren Maya è una vicenda esemplare, che assomiglia a tante altre che
in America Latina e nel resto del mondo raccontano l’affermazione di un modello
“estrattivista” di trasformazione del territorio, in cui gli interessi
commerciali e finanziari, quasi sempre di pochi, sono predominanti rispetto ai
diritti collettivi di natura ambientale, sociale e culturale. Un modello che ha
i suoi esempi anche in Europa, dallo sfruttamento minerario dei territori Sami
in Lapponia al ponte sullo stretto di Messina, e che afferma una visione
produttivistica in cui il patrimonio culturale e naturale è usato come merce,
come prodotto e in cui la sostenibilità dei megaprogetti viene valutata in
termini quasi esclusivamente economici. Un modello di sviluppo che nega o
nasconde qualsiasi discussione sulle conseguenze, in cui le grandi opere sono
imposte senza un reale consenso, senza una coprogettazione con le comunità
locali, generando forti divisioni al loro interno e una spirale di
criminalizzazione e repressione di chi vi si oppone. Un modello che irrompe nei
territori promettendo condizioni di vita migliori e finisce per alterarne
profondamente gli equilibri, producendo enormi impatti sociali e ambientali che
spesso si manifestano pienamente nel medio e lungo termine, quando ormai è
impossibile porvi rimedio.
L'articolo Il treno verde meno sostenibile al mondo proviene da Il Tascabile.
R accontando di una città che si rinnova pur mantenendo dentro di sé il germe
delle sue versioni precedenti, Italo Calvino descrive così Clarice, all’interno
delle sue Città invisibili (1972):
> farfalla suntuosa sgusciava dalla […] crisalide pezzente; la nuova abbondanza
> faceva traboccare la città di materiali edifici oggetti nuovi; […] Ogni nuova
> Clarice, compatta come un corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro,
> sfoggia come un monile quel che resta delle antiche Clarici frammentarie e
> morte.
Quello di attribuire caratteristiche proprie delle creature viventi a uno
scenario urbano è un espediente letterario piuttosto comune: dalla Dublino di
James Joyce alla Jerusalem (Northampton) di Alan Moore, la città ci affascina al
punto che spesso le vogliamo conferire un’anima, una vitalità, persino
trasformandola in un vero e proprio personaggio della storia.
Giocare con le città (raccontandole, riprogettandole o immaginandole dal nulla)
non è un’attività di solo appannaggio della letteratura, ma anche
dell’urbanistica e della sociologia. In queste discipline la metafora della
città come organismo compare almeno da due secoli, con le prime avvisaglie che
emergono già nella filosofia materialista di fine Ottocento quando, per
analizzare la rapida industrializzazione e urbanizzazione della società,
l’urbanistica inizia a prendere in prestito concetti della biologia e della
fisiologia. Negli anni Sessanta questi concetti si consolidano nel termine
metabolismo urbano, usato per la prima volta per descrivere il flusso di entrata
e uscita di risorse naturali in una ipotetica città di un milione di abitanti.
Col tempo, questo filone con tanti nomi, declinazioni e progetti ha incorporato
anche elementi dell’ambientalismo, della cibernetica, dell’ingegneria
gestionale.
La città quindi non esiste più come un’entità separata a livello concettuale
dall’ambiente naturale, ma diventa un “antroma”, un bioma di origine antropica.
È natura a sua volta: un luogo pulsante, attivo, che respira, mangia, espelle
come se fosse cosa viva, in diretto contrasto con la concezione, ancora più
antica, della città come un macchinario da far funzionare, fatto di parti
meccaniche da riparare se si rompono. L’urbanistica organica cerca invece di
vedere la città in maniera olistica: non si concentra su un singolo edificio o
progetto urbano come se fossero ingranaggi sostituibili, ma li considera
nell’insieme, come organi dello stesso corpo. Una città smart ma non in quanto
iperconnessa e digitalizzata, bensì perché possiede quelle proprietà associate
all’intelligenza animale: capacità di adattamento, flessibilità, risoluzione dei
problemi per la propria sopravvivenza. Un luogo che quindi potrebbe, se così
organizzato, essere in grado di affrontare problematiche epocali, come quella
del cambiamento climatico, alla stregua delle altre creature viventi.
> L’urbanistica organica concepisce la città in maniera olistica: non si
> concentra su un singolo edificio o progetto urbano come se fossero ingranaggi
> sostituibili, ma li considera nell’insieme, come organi dello stesso corpo.
Partiamo da un esempio semplice: come un organismo, una città ha bisogno di
termoregolarsi a seconda delle stagioni e delle condizioni atmosferiche. Un
dipartimento di ricerca o un data center necessitano di fresco tutto l’anno per
mantenere una temperatura ottimale per server ed esperimenti; mentre una piscina
con annessa palestra deve riscaldare grandi ambienti durante le ore di attività.
Perché allora non progettare edifici in modo che il caldo sia condotto verso gli
ambienti freddi quando ne hanno bisogno, e viceversa? Perché non utilizzare
materiali che in qualche modo accumulino il caldo di giorno per rilasciarlo di
notte, e meccanismi di distribuzione del calore che allacciano un intero
quartiere?
La metodologia REAP (Rotterdam Energy Approach and Planning) in corso di
sperimentazione in alcune aree della città olandese, ad esempio, è incentrata
proprio sulla ridistribuzione dei flussi di energia e calore, con l’obiettivo di
ridurre la dipendenza della città di Rotterdam dai combustibili fossili e
raggiungere la carbon neutrality. Iniziative come CityLoops, finanziate
dall’Unione Europea, mirano invece a ridurre lo spreco di materiali di
costruzione e demolizione e di scarti alimentari rimettendoli in circolo, a
disposizione di altri progetti.
Logico, ma fin qui nemmeno troppo diverso dal concetto di economia circolare,
che porta con sé i propri limiti, anche semantici. L’economia circolare
sottintende un ritorno di investimento, una rimessa in circolazione delle
risorse garantendo un guadagno per le aziende coinvolte. L’efficienza di un
sistema è misurata in milioni di euro, che non sono sinonimi di tonnellate di
CO2 e nemmeno di salute ambientale o benessere collettivo. Anche se molti
progetti di urbanistica organica non sono incompatibili con un’economia
circolare, in quest’ultima la logica aziendale ed estrattiva permangono, e
continuano a fare a pugni con la termodinamica. A un certo punto il
reinvestimento non è più economicamente produttivo, sopravvengono i diminishing
returns (rendimenti decrescenti).
> Per le città, come per gli organismi viventi, un’iperspecializzazione potrebbe
> rivelarsi rischiosa, poiché lascia il fianco scoperto a catastrofi
> inaspettate.
L’urbanismo organico promette qualcosa di diverso: quantificare, tracciare e se
possibile distribuire non i flussi monetari, ma quelli energetici e materiali.
Ecco allora spuntare elaborati diagrammi di flusso per rappresentare non solo i
sistemi energetici di intere città, ma anche la “dieta” di risorse di cui
necessitano, comprese quelle alimentari consumate dalla popolazione. Da questi
diagrammi gli urbanisti derivano versioni ancora più complesse, per
rappresentare una ipotetica versione ottimale di quegli stessi flussi di materia
ed energia. Teorie come quella dello swarm planning, invece che incentrarsi su
grandi opere, promuovono la progettazione di molteplici interventi di
urbanistica su piccola scala, coinvolgendo le comunità locali. Questi
interventi, concepiti in batteria e ognuno con una soluzione diversa, sono
predisposti in anticipo e pronti a essere implementati in maniera puntuale in
caso di necessità. L’idea è che, come per gli organismi viventi,
l’iperspecializzazione sia evolutivamente rischiosa poiché lascia il fianco
scoperto a catastrofi inaspettate, quando essere generalisti offre invece più
chance. Un approccio che vede le città come fragili e suscettibili a mutamenti
repentini, soprattutto in un’ottica di crisi climatica ed energetica, ma anche
capaci di adattarsi.
Alcuni ricercatori si sono anche spinti a calcolare il metabolismo di una città.
Uno studio ha registrato e analizzato il pattern metabolico (quante risorse
entrano, quanta energia si genera, quanti scarti vengono prodotti) delle quattro
principali città della Danimarca. Ne è emerso che, rispetto ad altre metropoli
di grandezza paragonabile, le città danesi hanno un profilo metabolico più
basso, che sono riuscite ulteriormente a ridurre negli ultimi anni. Studiare le
città come se fossero un organismo potrebbe quindi aiutarci a comprenderle
meglio, a concepire e architettare nuove modalità di funzionamento.
Non è difficile capire come l’urbanismo organico riesca a catturare
l’immaginazione, in particolare quella di ambientalisti ed ecologisti. Ma una
domanda sorge spontanea: che tipo di organismo è, una città? Se ha un profilo
metabolico, a quale creatura, nel regno dei viventi, assomiglia di più? Proviamo
a ipotizzare. Le città consumano tanta energia e generano molti scarti rispetto
alla loro massa: un profilo metabolico tipico di un piccolo animale molto mobile
e attivo, come un roditore o un colibrì. Ma le città, oltre ad avere una massa
enorme, sono anche sessili, assomigliando in questo molto di più a una massa
fungina o algale di enorme estensione, tipo un micelio sotterraneo che abbraccia
un’intera foresta. Se sono industrializzate producono anche molta energia, ma
non fissano la CO2 come gli organismi fotosintetici, e quindi non possono
neanche essere paragonate a loro. Non riconvertono gli scarti in materia fertile
come fanno i funghi, semmai ne producono di ulteriori. Forse assomigliano a un
qualche tipo di corallo, o una colonia batterica (viste dall’alto, sembrano
crescere proprio come loro) ma i batteri consumano il substrato sul quale si
trovano, mentre le città moderne e globalizzate hanno la capacità di trarre
risorse per il loro sostentamento dall’altra parte del pianeta.
E noi esseri umani che la abitiamo che cosa siamo, in questa similitudine?
Organismi separati, come simbionti che abitano il suo corpo colossale? Anche noi
una colonia batterica? Oppure un parassita che ne infesta le membra e che ne
detta le decisioni, una sorta di fungo Cordyceps su scala metropolitana? Siamo i
suoi neuroni?
> Se la città davvero è viva, allora è una qualche forma di vita ancora poco
> conosciuta, un nuovo phylum tutto da scoprire e catalogare.
Dobbiamo purtroppo abbandonare questo esperimento mentale: non sembra esserci,
in natura, qualcosa di efficacemente paragonabile alle città, almeno a livello
metabolico. Peccato, perché ci avrebbe sicuramente aiutato a comprenderle
meglio, comparando le caratteristiche biologiche delle forme di vita a loro più
simili. Se la città davvero è viva, allora è una qualche forma di vita ancora
poco conosciuta, un nuovo phylum tutto da scoprire e catalogare.
Forse è il caso invece di capire davvero se l’approccio organico all’urbanistica
sia sufficiente a farla funzionare meglio. Un organismo è fatto di sistemi e
tessuti ben organizzati che rispondono a un imperativo: la sua stessa
sopravvivenza. I tessuti di un organismo funzionale, tranne nel caso di un
cancro, non sono in competizione tra loro. Possiamo dire che funzioni così nelle
città di oggi? Se le diverse comunità, quartieri, edifici, istituzioni e aziende
sono le cellule di una stessa creatura, la loro attività è davvero corale e
organizzata? Definirle come tali non è sufficiente affinché una collaborazione
volta alla sopravvivenza collettiva abbia effettivamente luogo.
E le altre città? Finora abbiamo sorvolato sulla questione, ma si tratta di una
domanda fondamentale. Se le città sono organismi, vuol dire che esiste anche un
loro ecosistema: come vivono i membri di questo ecosistema? Come unità di una
sola colonia globale, oppure in aspra competizione tra loro per le risorse?
Esiste una catena alimentare con città produttrici e città consumatrici?
Ridisegnare una città come Milano, in modo che sia più sostenibile, più
vivibile, meno inquinata è di sicuro un vantaggio per gli abitanti di Milano ‒
ma per tutti gli altri? Non è ancora del tutto chiaro se l’efficienza metabolica
di una singola città si traduca in un miglioramento delle condizioni anche per
le città limitrofe o distanti. Da dove ha preso l’energia, dove finiscono i suoi
rifiuti? In un paradigma gestionale ed economico di tipo estrattivo, chi paga
davvero la bolletta dei lavori di rinnovo che rendono una metropoli più green?
Il rischio è che un approccio incompleto all’urbanistica organica si trasformi
in una ennesima rivisitazione del greenwashing, con una città che si dichiara
sostenibile perché riuscita a raggiungere la tanto agognata neutralità
metabolica al suo interno, a scapito dell’esterno. Un po’ come nel caso
dell’Europa, che ha “ridotto le sue emissioni” negli ultimi anni, perché ne ha
esternalizzato gli effetti sul Sud globale tramite il meccanismo del mercato
della CO2.
> Il rischio è che un approccio incompleto all’urbanistica organica si trasformi
> in un’operazione di greenwashing, con una città che si dichiara sostenibile
> perché ha raggiunto una neutralità metabolica esternalizzandone i costi.
Gli scienziati che hanno provato a misurare il metabolismo delle città danesi
ammettono questo limite nello studio stesso: non ci sono abbastanza dati per
comprendere la portata dell’impatto ambientale che ha una città. Non tanto nella
città esaminata, bensì nel luogo da dove questa ha ottenuto le sue risorse
energetiche e materiali. Ed è altrettanto difficile capire, o anche solo
rintracciare, dove vanno a finire i flussi di materiale di scarto, le sue
emissioni. Il limite principale del concetto sta tutto qui: fino a dove si
estendono i confini della città-organismo? La sua pelle potrà corrispondere alle
linee di demarcazione municipali, ma la sua influenza è percepita ben oltre.
Per limiti tecnici, assenza di informazioni, e per evitare di confrontarsi con
una complessità di diversi ordini di grandezza maggiore, finora il metabolismo
urbano si è limitato a considerare la città come sistema chiuso, affrontando
questioni energetiche e ambientali a livello locale. Ma una città chiusa non può
essere davvero considerata un organismo, perché gli organismi non vivono in
isolamento.
Se si riuscirà a comprendere appieno la complessità ecosistemica delle città ‒
ed è una faccenda di una complessità enorme ‒ si potrà forse riuscire a
sviluppare un piano metabolico urbano su scala nazionale, se non addirittura
globale. Con relative misure di urbanistica da applicare sulla singola città a
seconda delle circostanze locali, tenendo in considerazione le aspettative di
impatto su quella città e su tutte le altre. Un’impresa titanica che richiede
una quantità spropositata di dati, modelli accurati, e soprattutto una decisa
volontà politica. Che sia fatta in maniera centralizzata o distribuita,
l’urbanistica organica richiede una pianificazione volta alla cooperazione, ed
entrambe queste parole sono lo spauracchio di più di una fazione politica.
> Finora il metabolismo urbano si è limitato a considerare la città come sistema
> chiuso. Ma una città chiusa non può essere davvero considerata un organismo,
> perché gli organismi non vivono in isolamento.
Senza una visione su larga scala, il metabolismo urbano rimane un concetto
importante ma incompleto: molto utile per risolvere problematiche locali, meno
per affrontare la sfida globale del cambiamento climatico. I suoi limiti sono
gli stessi dell’attuale approccio dominante alle questioni ecologiche, che
consiste nell’adottare soluzioni personali per quelle che sono faccende
sistemiche. Tocca quindi sperare che, anche in assenza di informazioni
sufficienti per pianificare un flusso metabolico su larghissima scala,
l’attività che ogni singola città può fare per rendere sé stessa più sostenibile
arriverà, in via incrementale, a rendere l’insieme delle città più vivibile. E
che l’ecosistema di queste città sia uno dove vige la collaborazione e non una
lotta efferata per le risorse.
Sempre nelle Città invisibili, Calvino descrive Leonia, un’altra città
ossessionata dal rinnovare di continuo sé stessa, e che in questa impresa
finisce per accumulare attorno a sé tonnellate di spazzatura, un confine di
rifiuti che la circonda come una instabile catena montuosa che rischia di
franare da un momento all’altro. E peggio di una Leonia c’è solo un mondo fatto
da tante città come questa, in competizione tra loro.
> Forse il mondo intero […] è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al
> centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee
> e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si
> puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano.
L'articolo La città come organismo proviene da Il Tascabile.
L o scorso 28 aprile la penisola iberica è rimasta senza elettricità. Attorno
alle 12 e 30 una serie di piccole interruzioni concentrate nel sud della Spagna
ha innescato una reazione a catena che ha compromesso la rete elettrica
spagnola. I computer che regolano le delicate esigenze di un’infrastruttura
energetica moderna sono subito intervenuti, riportando la rete in equilibrio. Ma
dopo pochi istanti è arrivato un secondo evento, e poi un terzo. Nel giro di
cinque secondi il sistema elettrico spagnolo è collassato, portandosi dietro
quello portoghese. Per dieci ore in media ‒ in alcune città, in realtà,
parecchie di più ‒ hanno smesso di funzionare le metro, i treni, gli ascensori,
gli elettrodomestici, la connessione telefonica e internet, le lampadine.
Per alcuni il blackout è stata una tragedia: almeno quattro persone hanno perso
la vita per cause legate all’assenza di corrente, chi intossicato da vecchie
stufe a gas e chi dal fumo di un incendio originato dalle candele. Per altri ‒
quelli che hanno avuto la sfortuna di rimanere bloccati in un ascensore o in un
vagone ‒ è stato come minimo un brutto pomeriggio. Ma la stragrande maggioranza
degli spagnoli e dei portoghesi ne conserva un ricordo diverso. La luce è
mancata a mezzogiorno di un tiepido giorno di primavera, col sole che splendeva
su praticamente tutta la penisola. Le aziende hanno chiuso, il governo ha
mandato per strada le volanti della polizia a chiedere alla gente di rimanere
dove si trovava e di non prendere l’auto, e senza telefono non c’era modo di
sapere cosa stesse succedendo o contattare i propri cari. Per tanti, la cosa più
sensata da fare è stata trovare il parco più vicino ‒ o un bar che vendesse
birre anche con la cassa spenta e i frigoriferi ormai tiepidi ‒ e aspettare. A
camminare per il centro delle città iberiche, nelle ore del blackout, sembrava
di essere nel mezzo di una domenica di ferie, più che in una emergenza.
Quel lunedì ero anche io in Spagna. Quando nella notte è tornata la connessione,
ho visto un tweet di un utente madrileno. Diceva: “sono stato meglio oggi col
blackout che tutti gli altri giorni con la luce”.
L’economia del benessere
A molti accademici che si occupano di economia del benessere non piacerebbe che
un articolo sulle loro proposte iniziasse con la descrizione di un collasso
della rete elettrica. “Quello che vogliamo non è una società senza tecnologia o
un salto indietro di secoli” mi spiega Tommaso Felici, docente di economia
ambientale all’Università di Utrecht. Ha ragione lui, ovviamente, ma rimane il
fatto che il tema di questo articolo ha a che fare col cambiare ‒ e in qualche
modo ridurre ‒ i nostri consumi, anche energetici, al fine di costruire una
società più sostenibile.
> I teorici dell’economia del benessere concordano sulla necessità di valutare
> diversamente il funzionamento delle società in cui viviamo, concentrandoci su
> fattori come l’aspettativa di vita media, il tasso d’istruzione, l’accesso ai
> servizi di base, la salute degli ecosistemi naturali e la felicità percepita.
Economia del benessere è un termine ombrello. L’espressione fu coniata nel 1920
Arthur Cecil Pigou, l’economista inglese che, tra le altre cose, fu il primo a
teorizzare la necessità di tassare le imprese al fine di diminuirne gli impatti
negativi sull’ambiente e sulla società. Nel 1972 il Massachusetts Institute of
Technology elaborò per conto del think-tank Club di Roma uno studio, passato
alla storia come Rapporto sui limiti dello sviluppo (The limits to Growth), che
ipotizzava il collasso della civiltà umana come possibile conseguenza dello
sfruttamento infinito di risorse naturali. Nei decenni a seguire autori come il
rumeno Nicholas Georgescu e il francese Serge Latouche hanno sistematizzato
nelle loro opere proposte teoriche racchiudibili nella definizione di economia
del benessere.
I diversi filoni di studio interni a questo ambito hanno in comune la necessità
di misurare il successo dell’economia su parametri che abbiano a che fare, per
l’appunto, con il livello di benessere di una società, e indirizzare di
conseguenza l’azione politica. L’indicatore oggi comunemente accettato per
valutare lo stato di salute di un’economia è il prodotto interno lordo (PIL). Si
calcola sommando il valore di tutti i beni e servizi prodotti in un territorio
in un dato lasso di tempo: quando sentiamo frasi come “L’Italia entra in
recessione” o “la Cina continua a crescere”, stiamo parlando dell’aumento o
della diminuzione di questo parametro. Tutti i teorici del benessere concordano
sulla necessità di valutare diversamente il funzionamento delle società in cui
viviamo, centrandoci su fattori come la felicità percepita, l’aspettativa di
vita media, il tasso d’istruzione, l’accesso ai servizi di base, la salute degli
ecosistemi naturali. Le Nazioni Unite usano nei loro report l’Indice di sviluppo
umano (ISU o HDI, Human Development Index), che include reddito pro capite,
aspettativa di vita e istruzione. Alcuni ricercatori dell’Università di Londra
lo hanno modificato per includere al suo interno anche una serie di parametri
ecologici, dando così vita all’Indice di sviluppo sostenibile (ISS o SDI,
Sustainable Development Index). In questa classifica, i tre Paesi con la
migliore combinazione di reddito, stile di vita e impatto ecologico sono Costa
Rica, Uruguay e Sri Lanka; gli ultimi Lussemburgo, Kuwait e Qatar.
Le proposte che ricadono sotto l’etichetta di economia del benessere sono molte.
Prima di esplorarle, però, è necessario comprendere perché la crescita economica
non possa essere una buona approssimazione del benessere di una società.
Crescere o non crescere
I periodi di crescita economica sono stati spesso anche periodi di ottimismo, ed
è legittimo domandarsi da dove provenga la necessità di abbandonare un paradigma
che a lungo sembra aver funzionato. “Te lo dico con uno slogan un po’ datato ma
efficace” risponde Riccardo Mastini, ricercatore al Politecnico di Milano e
consulente delle Nazioni Unite: “la crescita infinita in un mondo dalle risorse
finite è impossibile”. Il concetto chiave è quello di limite. L’ecologo svedese
Johan Rockström, insieme ad altri autori, pubblicò nel 2009 uno studio ‒
tutt’oggi citatissimo ‒ che teorizzava la presenza di nove limiti planetari,
superati i quali la stabilità degli ecosistemi sui quali abbiamo costruito le
nostre civiltà viene messa a rischio. Il primo riguarda la concentrazione di gas
climalteranti in atmosfera, e quindi la necessità di stabilizzare le temperature
medie del pianeta, ma ugualmente cruciali sono il ciclo dell’azoto e del
fosforo, la perdita di biodiversità, l’acidificazione degli oceani, la riduzione
dell’ozono atmosferico, l’inquinamento da sostanze chimiche, l’accumulo di
particolati, il consumo di acqua dolce e di suolo, e l’acidificazione degli
oceani.
> In un cruciale studio del 2009, l’ecologo svedese Johan Rockström ha
> teorizzato la presenza di nove limiti planetari, superati i quali la stabilità
> degli ecosistemi sui quali abbiamo costruito le nostre civiltà viene messa a
> rischio.
Il fulcro delle riflessioni sul benessere è che per garantire a tutti uno
standard di vita dignitoso e accettabile non possiamo semplicemente consumare di
più ‒ più metalli estratti dal terreno, più pesce pescato dal mare e così via ‒
perché le risorse terrestri non sono inesauribili e dipendono da sistemi fragili
e interconnessi. Una crescita indefinita della nostra economia finirà,
paradossalmente, col far venir meno quei materiali e quelle risorse da cui la
nostra civiltà dipende, economia compresa.
Questa conclusione trova in disaccordo molti economisti, che per quanto divisi
tendenzialmente concordano sull’idea che la crescita economica sia condizione
necessaria per l’avanzamento della società. Per alcuni studiosi, l’economia del
benessere assomiglia davvero al blackout spagnolo di cui sopra: poca energia,
poche risorse, poca sicurezza. “Ma è un’idea vecchia” spiega Felici che, pur
essendo economista, dissente da buona parte dei suoi colleghi. “Sicuramente in
passato la crescita ha portato a maggior benessere, e questo rimane vero per
molti dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Ma nella nostra Europa
industrializzata non è più così. Anzi, quando il PIL aumenta, aumentano anche le
disuguaglianze. Il caso italiano è emblematico: i salari reali sono fermi da
trent’anni, nonostante ci sia stata crescita”.
Ciò che dice Felici trova riscontro nei dati. Nel 2018 un gruppo di ricercatori
dell’Università di Leeds ha pubblicato uno studio intitolato A Good Life for all
within Planetary Boundaries, che rileva come l’aumento del reddito medio pro
capite corrisponda effettivamente a un aumento della qualità di vita, ma solo
fino a una certa soglia. Superata questa, che i ricercatori ritengono stia
attorno ai 20.000 dollari, l’aumento di questo parametro non è più correlato ad
un’aspettativa di vita più alta, a tassi di istruzione migliori o a più felicità
percepita. Tradotto: nella Spagna del blackout per far star meglio la gente,
piuttosto che accrescere l’economia complessiva della nazione, sarebbe utile
distribuire diversamente la ricchezza che già c’è. Ad esempio, investendo su una
rete elettrica più pulita e sicura.
> A un aumento del reddito medio pro capite corrisponde effettivamente un
> aumento della qualità di vita, in termini di aspettativa di vita, tassi di
> istruzione o felicità percepita, ma solo fino ad una certa soglia.
Il fatto che gran parte degli economisti non riconosca la necessità di porre un
limite al consumo di risorse non significa che disconoscano la realtà di una
crisi ecologica in atto. Semplicemente, scommettono sul fatto che sarà
l’innovazione tecnologica ‒ resa possibile, a detta loro, proprio dalla crescita
economica ‒ a risolvere il problema. “In passato è davvero andata così, penso ad
esempio al problema del buco dell’ozono, risolto grazie alle nuove tecnologie e
ad un modello virtuoso di collaborazione tra Stati” dice Felici “Ma non sappiamo
se ci riusciremo ancora: quando parliamo di crisi climatica, ad esempio, non
sembra affatto che stiamo riuscendo a tenere assieme un modello economico
tradizionale con la riduzione delle emissioni. Scommettere sullo sviluppo
tecnologico come panacea di ogni male sfida il principio di prudenza”.
Uno spazio operativo sicuro e giusto
I teorici dell’economia del benessere concordano su un assunto di base: non deve
essere la crescita a guidare le scelte di una società. Come debba funzionare un
modello alternativo, però, è tema di dibattito. Un grande interrogativo è cosa
fare dell’economia del presente, che si prefigge un aumento del PIL trimestre
dopo trimestre. Per la maggioranza degli studiosi di quest’area, è impossibile
disaccoppiare l’aumento del PIL dal deterioramento degli habitat naturali, dalle
emissioni, e dallo sforamento di quei limiti che abbiamo descritto sopra. È
questa la posizione anche di Riccardo Mastini: “La crescita del PIL è stata un
grande calmante sociale. Di fronte alla povertà, invece di distribuire
diversamente la ricchezza che già esisteva si è deciso di crearne di nuova,
promettendo che un po’ di quelle risorse fresche sarebbero andate a tutti. E ha
funzionato, almeno in parte, ma al prezzo inevitabile di esternalità negative
sempre più pesanti ‒ dal riscaldamento globale alla crisi degli ecosistemi.
Effetti collaterali che, paradossalmente, mettono a rischio le conquiste fin qua
avvenute”.
> Sarebbe più utile parlare di post-crescita, piuttosto che di decrescita. Il
> punto non è decrescere in sé e per sé, quanto cambiare il nostro parametro
> guida, dall’aumento del PIL all’aumento della qualità di vita delle persone.
Un’altra parte, minoritaria, degli economisti del benessere ha un approccio più
sfumato: può essere che il PIL continui a crescere anche in un’economia
differente, che il disaccoppiamento tra crescita e crisi ecologica sia
possibile. Ma se così non fosse, dobbiamo essere pronti a dare priorità a quegli
altri indicatori che abbiamo descritto ‒ dalla salute degli ecosistemi
all’aspettativa di vita ‒ piuttosto che al PIL. È questa la posizione di Tommaso
Felici: “io preferisco parlare di post-crescita, piuttosto che di decrescita.
Questo perché decrescere non deve essere un obiettivo in sé. Il punto è cambiare
focus, dall’aumento del PIL all’aumento della qualità di vita delle persone. Se
riusciamo a farlo continuando a crescere, ben venga, ma dobbiamo essere pronti a
sacrificare l’espansione dell’economia, se serve a stare meglio”.
Ciò su cui tutti gli studiosi del benessere sono invece concordi è la necessità
di porre al centro i bisogni essenziali delle persone: cibo, un tetto sopra la
testa, la possibilità di istruirsi, di curarsi, di avere tempo libero.
L’economia del benessere è, in questo senso, erede diretta dello Stato sociale
novecentesco: l’intera struttura produttiva, l’intero mercato del lavoro, devono
essere prima di tutto al servizio del welfare, nel senso ampio del termine. Per
ottenere ciò non serve necessariamente un’economia pianificata sul modello
sovietico, ma di sicuro occorre che si contragga lo spazio del mercato e si
ampli l’intervento pubblico. Un passaggio ineludibile è la redistribuzione della
ricchezza. L’economista inglese Kate Raworth ha teorizzato per prima il modello
economico della ciambella, in cui lo spazio operativo per l’umanità andrebbe
cercato nella fascia compresa tra due limiti: uno ecologico esterno e uno
sociale interno. Per Raworth, nessuno dovrebbe essere troppo povero da non poter
accedere a risorse e diritti fondamentali, e nessuno dovrebbe essere così ricco
da incidere negativamente sui limiti planetari.
Tradurre in politiche concrete i principi di cui sopra è tutt’altro che facile,
ed è su questo che si è focalizzata buona parte del lavoro di quest’area
politica e culturale degli ultimi decenni. Una misura da tempo proposta è quella
del reddito di base universale. Si tratterebbe di un sussidio erogato dallo
Stato a chiunque possegga la cittadinanza ‒ o, addirittura, la residenza ‒ a
prescindere dal lavoro. Una grande operazione di redistribuzione della
ricchezza, ovviamente, ma anche il principio di una trasformazione più profonda.
Nel breve termine, un reddito universale permetterebbe di rendere socialmente
accettabile la contrazione della produzione industriale o la chiusura di certi
settori particolarmente impattanti; nel lungo, di iniziare a slegare il lavoro
dalla necessità di avere un salario, e costruire un’economia non più basata sui
consumi. L’accorciamento delle catene del valore ‒ cioè, riportare i luoghi di
produzione più vicino a quelli di consumo ‒ è un’altra politica che mira assieme
a ridurre il consumo energetico e logistico, oltre ad aumentare le possibilità
di impiego.
> Secondo il modello economico a ciambella di Raworth, lo spazio operativo per
> l’umanità dovrebbe avere un limite ecologico e uno sociale: nessuno dovrebbe
> essere troppo povero da non poter accedere a risorse e diritti fondamentali,
> nessuno così ricco da incidere negativamente sui limiti planetari.
“Decrescita significa abbandonare le produzioni inutili, è riportare a casa
quelle che ci servono” spiega Mastini. Per ottenere tutto questo serve cambiare
chi prende le decisioni. Da qui il ruolo centrale dello Stato di cui sopra,
certo, ma anche la possibilità di cambiare la natura del privato: “Immaginiamo
di avere, al posto dei grandi oligopoli, un sistema di employee ownership, cioè
la proprietà collettiva dei lavoratori. In questo modo elimini l’extraprofitto,
chi possiede le imprese guadagna dal suo stesso lavoro e non dalla mera
proprietà. E soprattutto, in questo modo si potrebbe pensare ad un sistema
economico orientato al bene comune”.
L’economia del benessere è economia della cura
Un ripensamento dell’economia non può prescindere dal concetto di “lavoro di
cura”, ossia quelle attività indispensabili ‒ come crescere i bambini, aiutare
gli anziani, gestire le attività domestiche ‒ che tradizionalmente sono svolte
in forma gratuita dalle donne. La redistribuzione e retribuzione di quel lavoro
potrebbe essere la chiave di volta per un’economia diversa.
Ina Praetorius è una teologa svizzera, tra le fondatrici della Network Care
Revolution. “Le donne sono il prosieguo degli schiavi dell’antichità. Platone
distingueva tra liberi e dipendenti: i primi erano gli uomini adulti con la
cittadinanza, i secondi erano i bambini, gli schiavi e le donne” mi spiega.
“L’illuminismo abolisce l’impianto formale di questa divisione, ma rimangono in
piedi gli usi. E il capitalismo, quando nasce, trova molto conveniente avere
questa manodopera gratuita addetta ad attività indispensabili, dalla cucina al
supporto ai malati. Tutt’oggi quante persone ‒ non solo uomini e non solo
conservatrici ‒ ritengono naturale che certi lavori siano svolti dalle donne
della famiglia?”.
Per economia della cura si intende un sistema economico centrato sul
soddisfacimento dei bisogni delle persone in forma organizzata, legalmente
riconosciuta ed equamente distribuita tra i generi. L’idea è che quelle mansioni
storicamente svolte da donne in ambito familiare e senza salario diventino il
punto focale delle nostre economie. Il reddito di base prima citato, ad esempio,
permetterebbe di liberare almeno parte del tempo che impieghiamo nel normale
lavoro salariato, permettendo a tutti ‒ a prescindere dal genere ‒ di usarlo
anche per questo genere di attività così indispensabili.
Le assonanze con l’economia del benessere sono chiare. “L’idea della cura nasce
nell’ambito del movimento femminista, ma non è un tema di genere: è di tutti”
continua la teologa: “se penso al mondo tra cento anni, immagino molto più tempo
libero: per curare la famiglia e la casa, certo, ma anche per l’ozio ‒ che è
importantissimo ed è un diritto di tutti, non solo dei ricchi».
> Un ripensamento dell’economia non può prescindere dalla redistribuzione e
> retribuzione del lavoro di cura, ossia quelle attività indispensabili che
> tradizionalmente sono svolte in forma gratuita dalle donne.
Il reddito di base universale è la prima delle proposte che mette d’accordo
promotori della decrescita, dell’economia del benessere e delle istanze
femministe. Spostare i capitali pubblici da settori ad alto impatto ecologico e
bassa utilità sociale ‒ il fossile, le armi, il cibo spazzatura ‒ a settori poco
impattanti ed essenziali come quelli della cura è un secondo, importante punto
di contatto. Il terzo è la riduzione dell’orario lavorativo. “Produrre meno
significa anche ridurre il monte ore lavorato. E se puntiamo a garantire a tutti
un impiego, la logica conseguenza è lavorare meno” dice Mastini. L’idea è che da
un lato l’economia del benessere richieda di produrre meno, e quindi liberi
tempo nella vita delle persone; dall’altra che il tempo libero sia prerequisito
per distribuire meglio il cosiddetto lavoro domestico.
Lo spazio per il benessere
Nonostante il relativo successo in campo accademico o nella bolla dei movimenti
sociali, per ora molto poco dell’economia del benessere si è tradotto in prassi
politica. La primazia del PIL come indicatore del successo di un’economia non è
mai stata davvero messa in discussione da nessun governo, e lo spazio del
welfare o dell’intervento pubblico, almeno in Occidente, si va riducendo, invece
che aumentare. In Europa, il piano di riarmo delle istituzioni comunitarie e dei
governi rischia di sostituire lo stato sociale e la transizione ecologica tra le
prime voci dei bilanci pubblici del prossimo lustro.
Eppure, le questioni poste dai teorici del benessere non sono venute meno. E mai
come oggi si avverte la necessità di riconcepire la nostra idea di benessere. Il
giorno seguente al blackout, i social spagnoli si sono riempiti di persone che,
più o meno ironicamente, si interrogavano sul fatto che, tutto sommato, senza
corrente non si stesse poi così male. I cittadini di un Paese ricco e
sviluppato, in cui il PIL cresce e gli indicatori macroeconomici tradizionali
sono tutti positivi, hanno salutato più con sollievo che con paura l’assenza di
elettricità. Nemmeno il più radicale dei “decrescisti” proporrebbe di farne a
meno, ma quelle reazioni rimandano ugualmente a una riflessione: quali
precondizioni, quali servizi e quali opportunità rendono la vita di una persona
soddisfacente? Siamo sicuri che il sistema in cui viviamo ci renda più felici di
quanto ci faccia sentire in trappola? E ancora: quale economia può consentirci
di utilizzare diversamente le nostre risorse, indirizzandole verso beni e
servizi che, nel loro insieme, contribuiscano a costruire una società felice?
L'articolo Da un’economia di crescita a una di cura proviene da Il Tascabile.
I n Puglia, tra i comuni di Nardò e Porto Cesareo, perfettamente tracciato nel
bel mezzo di un’estesa macchia verde, si sviluppa un anello di asfalto e cemento
lungo quasi tredici chilometri: si tratta del ring del Nardò Technical Centre
(NTC), la pista di collaudo dal 2012 proprietà della Porsche Engineering,
assieme a circa un terzo dell’area interna alla circonferenza, quella più a sud.
Dentro al cerchio, su una superficie pari a 7 milioni di m², si snodano 20
circuiti minori e diversi impianti di prova, dove vengono testate non solo
autovetture del gruppo tedesco ma anche prototipi di altri brand di lusso, come
McLaren, Aston Martin, Ferrari, Audi e Mercedes. L’indotto generato dal NTC si
estende ben oltre i confini della pista: esercizi commerciali, attività di
ristorazione e strutture ricettive della costa beneficiano delle trasferte di
ingegneri, piloti e meccanici anche in bassa stagione, garantendo alla Regione
Puglia un introito che si attesterebbe attorno ai 10 milioni di euro l’anno.
Fin qui tutto bene, o, almeno, così pare. Secondo Antonio Gratis, dal 2018 il
direttore generale del NTC, originario di Ugento (Lecce), ci troveremmo di
fronte a un caso di “unione ideale tra sviluppo e tradizione”, un matrimonio
all’apparenza felice tra “il mondo tecnologico di Porsche” e “quello rurale
della campagna salentina”, che sarebbe proseguito senza grandi clamori fino a
quando, nel corso del 2023, non è cominciata a trapelare la notizia relativa al
piano d’ampliamento del centro, confermata dall’avviso, nell’agosto dello stesso
anno, dell’imminente esproprio “per pubblica utilità” ai danni dei 134
proprietari dei 351 ettari di terreno interessati dal progetto: ancora una
volta, il Capitale colpisce d’estate, quando l’Italia è assopita e la
distensione massima.
Era già successo ai 421 operai e lavoratori delle ditte in appalto dell’ex GKN
Driveline di Campi Bisenzio nella piana fiorentina, che a luglio 2021, a pochi
giorni dallo sblocco dei licenziamenti, ricevettero una mail che li lasciava da
un giorno all’altro di fatto senza lavoro. Iniziava così l’assemblea permanente
più lunga nella storia delle lotte operaie, che ha portato il Collettivo di
fabbrica a presidiare ininterrottamente lo stabilimento per impedirne la
delocalizzazione e la definitiva dismissione, richiedendo, al loro posto, un
intervento pubblico per reindustrializzarla e trasformarla in un polo delle
energie rinnovabili e della mobilità sostenibile.
Anche nel caso di Nardò, la risposta non tarda ad arrivare. In poco tempo si
costituisce il Comitato custodi del Bosco d’Arneo, composto di cittadini,
attivisti e solidali, che si oppongono alla costruzione delle 9 piste
aggiuntive, oltre alla modernizzazione di quelle esistenti, e soprattutto
all’abbattimento di 200 ettari (l’equivalente di 300 campi da calcio) di
vegetazione; un’operazione quanto mai necessaria, a detta di Porsche, per
adattare il NTC alle esigenze delle nuove frontiere dell’automotive, tra cui la
guida autonoma e connessa, per un investimento complessivo di circa 450 milioni
di euro (l’area in questione era stata strategicamente dotata di rete 5G giusto
qualche tempo prima).
> Ancora una volta, il Capitale colpisce d’estate, quando l’Italia è assopita e
> la distensione massima.
Peccato che il cosiddetto Bosco d’Arneo compaia tra i siti protetti di
importanza comunitaria secondo la rete Natura 2000 e la Direttiva Habitat
dell’Unione Europea relativa alla conservazione degli habitat naturali e
semi-naturali e della flora e della fauna selvatiche. Anche la valutazione
ambientale svolta dalla Regione Puglia ha riconosciuto come “negativi” e
“significativi” gli eventuali impatti sul bosco di lecci di quasi 40 ettari e su
una piccola porzione di prateria mediterranea, definendo dunque l’intervento di
Porsche altamente invasivo nei confronti della struttura paesaggistica locale.
È successo, però, che il vincolo è stato aggirato, facendo leva sul presunto
valore di interesse pubblico del piano, sia per la salute dell’uomo, sia per la
sicurezza pubblica: il primo punto era motivabile grazie alla realizzazione di
un centro medico con elisoccorso all’interno del circuito, integrato al sistema
sanitario pugliese, nonostante gli ospedali della zona – in primis il Vito Fazzi
di Lecce e il Centro grandi ustionati di Brindisi – siano sprovvisti di
eliporti, e i costi di equipaggio, del personale medico, degli elicotteri stessi
e della loro manutenzione peserebbero sulle tasche della regione, che ad oggi
non riesce ad assicurare il servizio neanche laddove esistono le infrastrutture
necessarie; il secondo punto prevedeva invece l’impegno di Porsche nel mettere a
disposizione della collettività il servizio antincendio, lo stesso che avrebbe
tra l’altro consentito al bosco di crescere così rigoglioso, dal momento che,
sostiene Gratis, “le nostre termocamere individuano anche la più piccola
fiamma”.
Con una mossa inaspettata, il paradosso è finalmente compiuto: è Porsche il vero
custode del Bosco. E continuerebbe a esserlo anche qualora portasse
effettivamente a termine la deforestazione, a patto che sappia compensare la
perdita, anzi “sovracompensarla”, come se la natura fosse il frutto di
un’equazione. A questo scopo, il colosso tedesco – la cui sede, come nota Marc
Beise, si trova in Svevia, un distretto in cui non a caso i Verdi sono al potere
da una decina d’anni – ha acquistato terreni dentro e fuori al cerchio, per un
totale di 600 ettari, destinati a ospitare 1,2 milioni di giovani alberelli
bisognosi di cure e acqua in un Salento sempre più desertificato e dalle falde
pericolosamente salinizzate.
La manovra si rivela quantomeno ad alto tasso di rischio, un rischio che, forse,
la Puglia ora come ora non può permettersi di correre, dopo anni di inveterate
“monoculture della mente”, per citare Vandana Shiva, che hanno drammaticamente
impoverito il suolo del profondo tacco dello stivale, rendendolo facile preda di
speculazione e privatizzazione selvaggia, e meno reattivo nel fronteggiare
minacce quali l’epidemia da xylella fastidiosa che ne ha contribuito a
distruggere la biodiversità. Una rete virtuosa, fatta di realtà che da tempo
investono con convinzione nella possibilità di riscattare un paesaggio
fortemente traumatizzato, cerca di invertire la rotta: tra queste, Casa delle
Agriculture a Castiglione d’Otranto, nel versante Adriatico, promuove un’idea di
“restanza” attraverso l’azione sinergica di un’agricoltura rigenerata e di
un’arte pubblica che rafforza i vincoli di comunità e tenta di arginare l’esodo
di risorse naturali e umane dalla regione.
> Il paradosso è finalmente compiuto: è Porsche il vero custode del Bosco.
O la Free Home University, dove impegno pedagogico e artistico convergono nella
prefigurazione di nuovi modi di condividere e creare conoscenza, sperimentando
modelli di vita in comune e forme di ricerca-azione nel territorio assieme alle
comunità di pratica e di lotta. Per la recente mostra Learning
Intentions/Learning in Tensions allestita in occasione dei 10 anni di attività
nella ex chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce, i curatori Alessandra
Pomarico e Nikolay Oleynikov, hanno commissionato a Oliver Ressler, artista,
regista e attivista austriaco, riconosciuto per il suo trentennale impegno di
documentazione dei movimenti sociali di resistenza al capitalismo globale e al
cambiamento climatico, il film We Are the Forest Enclosed by the Wall,
incentrato proprio sulla battaglia dei Custodi d’Arneo per difendere il Bosco
dal piano ecocida del gruppo Porsche.
Sostenuto dalla fondazione svizzera Tinguely, il film sarà presentato a
settembre alla comunità locale e poi a quella internazionale nel circuito dei
festival di cinema e in quello dell’arte contemporanea. Ad aprire il percorso
espositivo della mostra, in una sorta di vero avamposto con tanto di volantini
divulgativi e raccolta firme, l’installazione del collettivo di artisti e
attivisti Ultra-red, chiamati a condurre un’investigazione sonora per analizzare
la congiuntura politco-economica in atto in questo così come in altri territori,
e le strategie di risposta per la salvaguardia della foresta.
Un audio diffonde stralci di interviste ai custodi, mentre alle pareti, assieme
alle mappe indicanti il livello di inquinamento acustico generato dal NTC,
compaiono tracce del processo di facilitazione partecipata, registrazioni
grafiche delle assemblee e le risposte dei visitatori invitati a un esercizio di
riflessione sulla crisi aperta dal progetto di ampliamento. A essere esposte,
anche le stampe offerte da diversi artisti a supporto della campagna (tra gli
altri Ruan Grupa, Crater Invertido, Glucklya, Chto Delat, Enrie Larsen e Sherry
Millner), portate in strada come stendardi e bandiere durante le manifestazioni
e i picchetti.
Storicamente, la contrapposizione tra arte e attivismo può dirsi riconducibile a
motivazioni di carattere ideologico, funzionali innanzitutto a negare sia
l’agibilità politica che la prima ambirebbe a dischiudere, sia il ruolo
dell’artista come agente di cambiamento; le cosiddette pratiche “artivistiche”
contemporanee – di cui Casa delle Agriculture, Free Home University, Oliver
Ressler e Ultra-red sono a tutti gli effetti rappresentativi – mettono in
discussione le fondamenta di tale polarizzazione, dimostrando come il medium
artistico, inteso come un campo di forze generativo e non mero simulacro, in un
momento in cui predomina l’urgenza, assuma una rilevanza catalizzatrice
nell’ottica di una sempre maggiore emancipazione sociale.
> Il medium artistico, in un momento in cui predomina l’urgenza, assume una
> rilevanza catalizzatrice nell’ottica di una sempre maggiore emancipazione
> sociale.
Alla base della comprensione del collasso climatico in corso e delle possibili
modalità di fronteggiarlo, risiede la questione di un immaginario ormai
cristallizzato che blocca la possibilità di un’inversione di rotta. Per
decostruire i paradigmi vigenti e immaginarne di nuovi o diversi, servono
strategie capaci di incorporare una differente nozione di natura, non più vista
come altro da noi o “risorsa” sempre a disposizione, e di promuovere politiche
terrestri che strutturino, a partire da presupposti altri e valori quali
l’interdipendenza e interconnessione le nostre coscienze ecologiche.
All’arte, con la sua potenza anticipatrice ed evocatrice, attraverso l’abilità
ricombinatoria di agire sull’immaginario, spetta dunque il compito di smuovere
l’irremovibile e configurarlo diversamente, mostrando come “sia possibile
invertire ciò che era ritenuto inevitabile, per quanto inimmaginabile” (da una
conversazione privata tra Oliver Ressler e TJ Demos, traduzione dell’autrice).
Del resto, sacche di resistenza e di creazione di alternative esistono e si
organizzano da tempo anche all’interno dell’anello: a meno di due chilometri dal
NTC, l’agricampeggio Le Fattizze, da tre generazioni di proprietà della famiglia
Rolli, sorge su un antico podere nel cuore della Terra d’Arneo, coniugando
l’agricoltura biologica all’ecoturismo in quello che assomiglia a un campo di
prova per il futuro del pianeta; o ancora, il neonato bosco 209 custodito da
Viola Berlanda, fotoreporter di Torino che a febbraio 2021, nel vivo delle due
pandemie disastrose che hanno colpito ulivi ed esseri umani, ha lasciato la sua
vita a Parigi per prendersi cura di 300 baby alberi appartenenti a 80 specie
antiche e ormai dimenticate, per tentare di ristabilire la biodiversità del
luogo. Queste e altre esperienze partecipano di quel fermento incessante e
laborioso che, scegliendo di non abbandonare la regione, promuove strategie
sempre nuove per rivitalizzare il territorio e garantire un’eredità verde alle
prossime generazioni: una sorta di contraltare di ciò che avviene a pochi passi
da lì, dall’altra parte del muro.
Da quando è arrivata Porsche, all’inizio degli anni Dieci, la pista è stata
progressivamente avvolta da un velo di mistero: protetta e nascosta dalla cinta
muraria e dalla vegetazione fitta, un po’ come accade nel film La zona
d’interesse (2023) di Jonathan Glazer, l’attività dei circuiti di prova, coperta
com’è dal segreto aziendale, è diventata deducibile unicamente dai suoni – la
legge del più forte parla il linguaggio del ronzio costante dei motori. Si
tratta di luoghi inaccessibili alla collettività e alla comunità scientifica,
tanto da impedire ai più di conoscere con esattezza le specificità del
patrimonio floristico e faunistico al loro interno, quantificarlo o precisarne i
rischi causati da un eventuale disboscamento.
> La legge del più forte parla il linguaggio del ronzio costante dei motori. La
> pista è inaccessibile alla collettività e alla comunità scientifica.
Con l’ingresso in scena del progetto di ampliamento del NTC, la battaglia tra il
gruppo automobilistico e il Comitato dei custodi si è giocata, in poche parole,
sul piano dell’assenza: cosa significa proteggere un bosco che non si vede ma
che indirettamente si percepisce? Come cambiano le modalità di protesta
nell’epoca della finanziarizzazione della natura, dove le forze all’opera sono
più che mai decentrate, smaterializzate e svincolate dal terreno (del) reale, e
dove le distanze tra i “luoghi esecutivi” (Stoccarda, quartier generale di
Porsche), che decidono delle sorti e degli usi di un territorio, e quelli in cui
tali disposizioni vengono applicate (Terra d’Arneo) si dilatano, passando per un
fitto reticolo di rimandi e differimenti in cui a perdersi, alla fine, è proprio
il referente nella sua sostanziale prossimità (il bosco)? A rispondere è
Alessandra Pomarico, co-founder di Free Home University e parte del Comitato
custodi del Bosco d’Arneo:
“L’impenetrabilità del bosco è una condizione di partenza interessante, che ha
portato al centro di questa lotta tante tensioni. Intanto ha evitato il rischio
di una visione ‘nimby’ (not in my backyard), invitandoci a riconsiderare il
valore dei beni comuni (commons), e disattivando il paradigma antropocentrico di
molti movimenti ambientalisti occidentali che continuano a considerare la natura
come risorsa. Non ci siamo mobilitati per difendere un bosco ‘utilizzabile’,
fruibile, o godibile in una prospettiva umana, per la nostra idea di bellezza,
di paesaggio, per il bisogno o desiderio di ‘riconnetterci con la natura’; la
questione è diventata inevitabilmente ecosistemica, di interrelazione e
interdipendenza tra comunità umane e più-che-umane, ci ha connesso a lotte
translocali e ha permesso una temporalità più estesa, che guarda al passato e al
presente, e soprattutto alle future generazioni. Naturalmente la distruzione di
questa, così come di altre foreste, significa accelerare il rischio di
estinzione della specie umana. Qui vivevamo anche un’altra tensione:
paradossalmente il fatto che il bosco fosse inaccessibile ha significato anche
la sua protezione dagli incendi – che da noi sono sempre di origine dolosa –
oltre che da altre speculazioni, ma il fatto che sia in mano a una
multinazionale dell’industria automobilistica, come questa vicenda ha
dimostrato, non ci salva da rischi di eradicazione malgrado i vincoli europei”.
“Abbiamo dovuto immaginarcelo questo bosco” prosegue Pomarico, “ipotizzare sulla
vita che lo popola, studiare le relazioni tecniche, raccolto le testimonianze
degli abitanti della zona per capire cosa ci fosse dietro il muro, quali uccelli
nidificano, l’esistenza dei lupi. Alcuni di noi hanno fatto riprese e fotografie
coi droni, e abbiamo dovuto persino utilizzare un elicottero mantenendoci nella
‘no fly zone’, che difende il segreto industriale, per consentire a Oliver
Ressler delle riperse dall’alto. È interessante come una relazione affettiva, e
direi di solidarietà, si possa instaurare per qualcosa che non si conosce, e che
forse non si conoscerà mai, ma la cui esistenza è fondamentale in una
prospettiva di giustizia ecologica e di difesa del vivente. Questa lotta ci ha
permesso di parlare di diritti della natura, della possibilità di dare
personalità giuridica al mare, ai fiumi, agli alberi, all’aria, di costituenti
della Terra”.
Gli attivisti salentini, dopo una campagna di informazione e mobilitazione,
scendendo in piazza e spingendosi fino alla capitale del Land del
Baden-Württemberg per prendere parte all’annual general meeting di Porsche e
contestarne il piano – oltre a rinominare simbolicamente la Porsche-Platz in
Bosco d’Arneo-Platz durante una cerimonia accompagnata dalla piantumazione di un
leccio, grazie al sostegno degli alleati tedeschi del gruppo ambientalista Robin
Wood – hanno prestato i loro corpi affinché fungessero da cassa di risonanza di
una vicenda che, confinata a quei 12,5 chilometri del ring, sarebbe altrimenti
rimasta senza voce, e per realizzare il sogno di poterlo finalmente
attraversare, quel bosco, e di vederlo tornare a essere, dopo cinquant’anni, di
nuovo pubblico in quanto riconosciuto a tutti gli effetti bene comune.
> Come cambiano le modalità di protesta nell’epoca della finanziarizzazione
> della natura, dove le forze all’opera sono più che mai decentrate,
> smaterializzate e svincolate dal terreno (del) reale?
È infatti negli anni Settanta che la foresta viene privatizzata: qui FIAT
costruisce per prima la pista, inaugurandola nel 1975 sotto la denominazione
SASN (Società Autopiste Sperimentali Nardò). Nel periodo tra il 1970 e il 1973,
l’azienda automobilistica italiana realizza un programma di investimenti nel
Mezzogiorno per circa 250 miliardi di lire, che avrebbero portato alla creazione
di 18.000 posti di lavoro diretti e, auspicabilmente, ad altrettanti
collaterali. Tra i siti individuati per la costruzione degli stabilimenti oltre
a Termini Imerese, Termoli, Vasto, Bari, Lecce, Sulmona e Cassino figura anche
Nardò, interessata dalla realizzazione di un circuito di collaudo, da terminarsi
a metà del 1974. Nel video Fiat nel Sud Italia, disponibile nel canale Youtube
dell’Archivio nazionale Cinema Impresa, la sezione del servizio dedicata a
quest’ultima è l’unica a non fornire dati precisi, come è invece il caso di
tutte le altre città coinvolte dal progetto di sviluppo. Ancora una volta,
l’anello sembra essere un luogo impenetrabile.
Sull’onda degli incentivi governativi per “risolvere” il problema della grave
disoccupazione e sottoccupazione del Meridione e decongestionare Torino e le
aree limitrofe del Nord industrializzato da poco reduce dall’“autunno caldo”,
FIAT, similmente ad altri colossi del secondario, delocalizza l’attività
produttiva là dove le tensioni sociali erano meno rumorose, la densità abitativa
tutt’altro che elevata, i lavoratori, vittime del ricatto occupazionale, meno
sindacalizzati. Insomma, spostarsi a sud si rivelava, per molti aspetti, una
scelta quasi obbligata.
La società di Agnelli rileva dunque il sito di Nardò, mantenendo pressoché
intatta la conformazione del ring, frutto dei lavori preliminari realizzati
negli anni Sessanta per accogliere un acceleratore di particelle (il concorso
internazionale fu poi vinto da Ginevra, Svizzera). La piana tra Nardò e il
tarantino era stata giudicata adatta a ospitare il protosincrotrone in quanto
geologicamente stabile; l’operazione si inseriva nel quadro più ampio di
rilancio dell’economia del Sud Italia, vedendo negli stessi anni la costruzione
del centro siderurgico di Taranto, il petrolchimico di Brindisi o il
cementificio Colacem di Galatina. La storia recente della Terra d’Arneo, che
affonda le proprie radici nelle rivolte contadine “in bicicletta” degli anni
Cinquanta contro lo sfruttamento dei grandi latifondisti per ottenere la
redistribuzione delle terre, è una tessitura complessa di sogni e delusioni,
progetti industriali e sforzi di conservazione.
Dalla Cassa del Mezzogiorno alla riforma agraria, dall’ipotesi di un Salento
“nucleare” alle velleità della FIAT, fino ad arrivare alla “pacifica convivenza”
con Porsche, è visibile in controluce un filo rosso che collega tutti questi
passaggi: la lotta dei Custodi del Bosco non è una lotta circoscritta a un’unica
vertenza, ma a una logica coloniale ed estrattivista perdurante, che da decenni
insiste sul Sud mettendone a repentaglio ecosistemi fragili, identità e stili di
vita.
> La lotta dei Custodi del Bosco non è una lotta circoscritta a un’unica
> vertenza, ma a una logica coloniale ed estrattivista perdurante, che da
> decenni insiste sul Sud mettendone a repentaglio ecosistemi fragili, identità
> e stili di vita.
Il ricatto salute o lavoro, su cui il marchio tedesco ha fatto a più riprese
leva per ottenere il via libera al progetto di ampliamento, si è tradotto in un
aut aut dichiarato: “O il piano, o il ritiro di tutti gli investimenti
dall’area”. A fronte delle critiche infondate che attribuiscono a una presunta
resistenza ideologica al progresso la causa principale dell’immobilismo
pugliese, dati alla mano la regione ospita sul proprio territorio l’acciaieria
più grande d’Europa – campione di inquinamento industriale e di CO2 –; è tra
quelle in cui si concentra la maggiore produzione di energia eolica; costituisce
il corridoio nazionale di gas naturale dall’Azerbaigian; assiste da tempo a un
aumento progressivo di consumo di suolo; è la prima al Sud per crescita del
prodotto interno lordo. Non proprio lo scenario che ci si aspetterebbe da
un’aprioristica sequenza di “no”.
Osservando un po’ più da vicino il caso del NTC emerge, inoltre, quanto esiguo
sia da sempre il numero di dipendenti salentini occupati, e come, spesso, le
loro proteste siano state in qualche modo silenziate: precari storici in perenne
attesa di una stabilizzazione che non è mai arrivata, assunzioni interinali,
incidenti in pista per supposte violazioni delle norme in materia di tutela
della salute e della sicurezza sul posto di lavoro. Ma allora in nome di cosa il
Bosco d’Arneo, rimpiazzabile da un milione di alberelli che rischiano di non
attecchire, sarebbe sacrificabile? Di una Puglia ancora “più famosa nel mondo”
come dice il suo presidente Emiliano, pronta a essere inscenata proprio come è
successo durante il G7 di Borgo Egnazia? Di una fantomatica destagionalizzazione
del flusso turistico? O di un interesse pubblico fittizio che in realtà cela
unicamente quello di una multinazionale?
La vicenda del Bosco d’Arneo ha mostrato con chiarezza non solo l’assenza di un
dialogo costruttivo tra le parti, ma anche la difficoltà di stabilire una
narrazione condivisa. Il Comitato per la difesa del bosco, spesso tacciato di
abbracciare un ambientalismo ingenuo, ha faticato a reperire dati scientifici e
oggettivi a supporto delle proprie istanze, complice l’inaccessibilità
dell’area. Dall’altro lato, Porsche ha optato per una comunicazione opaca, che
ha alimentato sospetti e diffidenze, lasciando emergere solo frammenti parziali
delle proprie intenzioni. In questo scarto di trasparenza e verificabilità, la
battaglia si è giocata anche sul terreno scivoloso tra ciò che era possibile
dimostrare e ciò che si poteva soltanto supporre.
Il biologo Rocco Labadessa, incaricato della valutazione di incidenza ambientale
per conto dell’azienda tedesca, è stato tra i pochi a esplorare direttamente la
zona contesa. La sua analisi ha rivelato anzitutto l’assenza di un bosco
secolare: al suo posto, campi agricoli abbandonati dagli anni Settanta,
progressivamente riconquistati dalla vegetazione spontanea. Paradossalmente, la
recinzione dell’area da parte di Porsche avrebbe protetto questo ecosistema
nascente da incendi e pascoli, favorendo la crescita della vegetazione arborea e
impedendo la conservazione delle praterie mediterranee, tra gli habitat tutelati
dalla rete Natura 2000.
> In nome di cosa il Bosco d’Arneo, rimpiazzabile da un milione di alberelli che
> rischiano di non attecchire, sarebbe sacrificabile?
La situazione attuale mostra infatti un ecosistema più integro all’interno del
perimetro aziendale rispetto alle zone circostanti, dove l’agricoltura intensiva
ha compromesso la biodiversità. Curiosamente, i pochi lembi di prateria
superstiti si trovano lungo le piste dismesse, aree disturbate dall’attività
industriale, ma che hanno permesso la sopravvivenza di specie tipiche degli
spazi aperti. Questa dinamica, comune nel Mediterraneo, mette in discussione
l’efficacia delle direttive europee nel riconoscere e tutelare habitat mobili e
in continua evoluzione. Anche la definizione stessa di “bosco” risulta ambigua:
nella maggior parte dell’area si tratta di un uliveto inselvatichito, con poche
fasce a vegetazione ad alto fusto. Eppure, è proprio qui che gli ulivi sono
rimasti indenni dalla xylella, forse grazie alla ricchezza biologica
dell’ambiente, in netto contrasto con la monocoltura esterna che ha favorito la
diffusione dell’infezione.
Nel quadro dell’ampliamento del Nardò Technical Center, la questione della
compensazione ecologica si fa centrale. Per autorizzare opere che comportano
perdita di habitat, la legge prevede interventi di ripristino, spesso con
incremento quantitativo: misure di greenwashing, ma che – almeno in potenza – un
attore come Porsche potrebbe realizzare con maggiore efficacia rispetto a molte
istituzioni pubbliche (soprattutto italiane). Tuttavia, la complessità tecnica e
climatica di queste operazioni resta altissima. Numerose iniziative legate al
PNRR, anche in Puglia, ne sono un esempio: costose, poco trasparenti, spesso
senza un reale monitoraggio degli esiti. In regioni come il Salento, segnate da
desertificazione e carenza idrica, i modelli forestali tradizionali non sono più
replicabili. Serve un cambio di paradigma: non più piantare alberi per far
vedere il bosco, ma progettare restauri ecologici su scala lunga, curando le
condizioni che rendono possibile l’attecchimento, la resilienza, l’equilibrio.
Senza ombra, senza acqua, senza biodiversità iniziale, un bosco non si
improvvisa. Quello che si rischia, altrimenti, è un simulacro verde: un
paesaggio agricolo travestito da ecosistema. Non si tratta, in definitiva, di
sostituirsi alla natura, che ha tempi e processi propri – e che senza dubbio
saprà sopravviverci – ma di facilitare dinamiche di ripristino ecologico.
Il caso della resistenza dei Custodi si lega a numerose altre storie di ecologia
politica insurrezionale nel continente, che si oppongono al capitalismo verde e
alle misure semplicisticamente presentate come alternative sostenibili: dalle
“occupazioni forestali” ad Hambach e a Lützerath in Germania contro le miniere
di lignite gestite dalla compagnia energetica RWE, dove ambientalisti,
attivisti, anarchici e abitanti locali hanno sperimentato forme di autogestione
antispecista guardando a esperienze longeve come la più nota ZAD-Zone-To-Defend,
che per quarant’anni ha resisto alla costruzione di un nuovo aeroporto fuori
Nantes, alla lotta contro la “gigafactory” di Tesla nella cittadina di
Grünheide, a soli cinque chilometri a sud-est di Berlino.
In tutti gli esempi menzionati, ambiente, automotive e abitare si intrecciano
indissolubilmente in una trama che compone di volta in volta tessuti differenti,
appellandosi a strumenti legislativi ordinari e non, ma sempre a ricordarci che
giustizia climatica e giustizia sociale vanno di pari passo: è questa l’unica
formula per una transizione possibile. Uomo e natura si affiancano in una
rinnovata cultura attivista che rompe con le categorizzazioni politiche,
storicamente strutturata attorno a una logica dualistica e strumentale.
Continuare a relegare ai margini della sfera politica i soggetti più-che-umani
appare oggi impensabile: nel Capitalocene, come scrive Léna Balaud, le relazioni
sociali e i rapporti di potere sono percepibili fino alle profondità delle
torbiere e dei ghiacciai (e anche dei boschi a cui non si può accedere, ma che
si possono immaginare): non c’è più spazio per ritirarsi; è giunta l’ora di
ripensare la composizione di classe nell’ottica di interspecific resistances.
> Giustizia climatica e giustizia sociale vanno di pari passo: è questa l’unica
> formula per una transizione possibile.
A marzo, la notizia tanto attesa: il “Bosco” dell’Arneo è salvo, ma a salvarlo,
non è stata la Regione Puglia. A un anno esatto dalla comunicazione della
sospensione dell’accordo di programma con il NTC, a seguito dei richiami da
parte della Commissione europea dopo il ricorso presentato al Tar dal Comitato
custodi, Italia Nostra e Gruppo di intervento giuridico, grazie al quale è stato
mobilitato il commissario per l’ambiente Virginijus Sinkevičius, Porsche
annuncia l’abbandono del piano in una nota in cui motiva la decisione alla luce
delle attuali “prospettive sociali, ambientali ed economiche” e delle
“circostanze dell’industria automotive mondiale”.
Merito della resistenza dei Custodi? E della lungimiranza dimostrata dall’aver
coinvolto autorevoli associazioni per la tutela della natura tedesche?
Dell’adozione di tattiche artivistiche? O, piuttosto, delle mutate condizioni
del mercato automobilistico internazionale? Si è forse appresa la lezione che il
dibattito pubblico è inaggirabile e che su questioni di interesse collettivo non
può vigere il vincolo della segretezza? Ora che Porsche dichiara che “le
attività di testing continueranno a essere svolte nel sito, contribuendo allo
sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”, la tanto temuta “alternativa
zero” si regge tranquillamente in piedi: a oggi non c’è traccia né di
disinvestimento né di dismissione alcuna.
Resta forse da chiedersi che cosa abbia davvero vinto: non il bosco in quanto
tale – ancora in gran parte sconosciuto, eppure centrale – ma una forma di
opposizione che ha saputo saldare attivismo, pratiche artistiche e tensione
conoscitiva, tentando di colmare con strumenti propri il vuoto lasciato da un
sapere negato. Una mobilitazione che ha tracciato una via: quella di rivendicare
trasparenza, partecipazione dal basso e giustizia sociale ed ecologica nei
processi che decidono il destino dei territori. In un’epoca in cui la verità è
sempre più una costruzione negoziata, la posta in gioco non è solo ambientale ma
anche epistemologica: non si tratta solo di difendere i boschi, ma di
riconoscere chi ha il potere di nominarli, visibilizzarli, rappresentarli, e
quindi intervenirvi.
L'articolo Morto un bosco (non) se ne fa un altro proviene da Il Tascabile.
F ulmini di pelo grigio corrono nelle aree verdi del Nord Italia e non
disdegnano un premio in cibo, preso direttamente da mani umane, mentre vengono
immortalati per l’immancabile video o fotografia per i social media. Sono gli
scoiattoli grigi (Sciurus carolinensis): a un occhio poco attento ambasciatori
della natura in zone urbanizzate, nella realtà una minaccia per i nostri
ecosistemi arrivata dagli Stati Uniti. Dal 1948, anno in cui alcuni esemplari
giunsero in Piemonte, questa specie ha dato filo da torcere allo scoiattolo
comune (Sciurus vulgaris), a cui ruba le scorte di cibo per l’inverno e che può
contagiare con il poxvirus, di cui è portatore sano. La popolazione degli
scoiattoli grigi nei decenni è cresciuta fino a diventare una minaccia reale per
la sopravvivenza dei cugini europei. Nel 1997 l’Istituto nazionale per la fauna
selvatica ‒ l’attuale ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca
Ambientale) ‒ avviò un progetto sperimentale per l’eradicazione della specie
aliena invasiva, ma l’iniziativa fu ostacolata da alcuni cittadini e
associazioni e venne sospesa in seguito a un’azione giudiziaria. Questa storia,
che si concluse con l’assoluzione degli scienziati coinvolti nel progetto e
nella prosecuzione del programma di eradicazione, è emblematica di uno degli
aspetti più critici della conservazione della natura: la scelta tra la vita di
una specie invece che un’altra, la salvezza di alcuni e la morte per altri.
Tutto per il bene della biodiversità.
Quell’attrito tra etica ambientale ed etica animale
Per biodiversità si intende ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi;
include la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi, ma può essere
più semplicemente descritta come la ricchezza della vita sulla Terra: le miriadi
di esseri viventi che la abitano, il loro patrimonio genetico, i complessi
ecosistemi che essi costituiscono. È la rete pulsante costituita dalle specie e
dalle loro relazioni e interazioni, in grado di fornire cibo, acqua potabile,
aria pulita e tutto ciò che definiamo servizi ecosistemici. Nel momento in cui
una specie viene meno o una relazione s’incrina, il meccanismo può incepparsi e
le conseguenze possono essere molto gravi e propagarsi su più livelli, da quello
sanitario a quello economico, passando per la sicurezza alimentare.
> Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di
> evoluzione comporta dei costi, uno di questi è dover scegliere di sacrificare
> una specie per risparmiarne un’altra.
Proteggere la biodiversità è cruciale per la nostra sopravvivenza e per quella
del pianeta per come lo conosciamo, ma i dati a nostra disposizione non
dipingono un quadro roseo. Nel 2019, il rapporto dell’IPBES (Intergovernmental
Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) ha evidenziato
che oltre un milione di piante e animali rischieranno l’estinzione nei prossimi
decenni a causa dell’attività umana. La sesta estinzione di massa a cui stiamo
assistendo scatena in noi indignazione, paura, l’urgenza di attivarsi per
fermare una catastrofe di cui ci sentiamo (e siamo) i colpevoli. Inserirsi negli
ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di evoluzione comporta, però,
dei costi e uno di questi è proprio dover scegliere di sacrificare una specie
per risparmiarne un’altra, di fare soffrire degli individui, degli esseri
senzienti, per salvaguardare degli ecosistemi che noi stessi abbiamo messo in
pericolo.
È l’attrito tra etica ambientale ed etica animale di cui parla Simone Pollo,
docente di filosofia morale dell’Università di Roma La Sapienza ed esperto di
etica del vivente, nel suo libro Umani e animali: questioni di etica (2016). La
stessa forza muscolare con cui abbiamo esercitato il nostro dominio su qualsiasi
risorsa naturale, ora la impieghiamo per la tutela della fauna selvatica. La
lezione di Charles Darwin che ci ricollocava al nostro posto, animali tra gli
animali, non è stata assimilata e ci rapportiamo al resto della biosfera con il
solito ben radicato antropocentrismo. Pollo scrive:
> L’anti-antropocentrismo che emerge dalla trasformazione darwiniana implica,
> piuttosto, una revisione del punto di vista dal quale le nostre risposte
> morali sono espresse e un ridimensionamento delle loro stesse richieste. Nel
> caso specifico qui in esame la pretesa di intervenire nelle vite degli animali
> selvatici in modo così intrusivo appare come una mossa problematica, nella
> misura in cui incarna una “dissonanza” con la reale collocazione degli esseri
> umani sulla Terra. La comprensione di questa posizione appare più
> efficacemente soddisfatta da un diverso atteggiamento nei confronti degli
> animali selvatici.
A questi ultimi dovremmo garantire il rispetto verso la loro libertà,
l’indipendenza e la possibilità di prosperare. Le politiche di conservazione
della natura, però, sono il risultato di un equilibrio tra istanze
antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per i servizi che
assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore assoluto,
intrinseco, a ciò che ci circonda. Sono il risultato di calcoli in cui la vita
di individui animali, che di quella diversità sono artefici e attori, è solo una
delle infinite variabili di cui tenere conto.
Specie da salvare a qualsiasi costo
Il conflitto tra individui e specie emerge spesso nella salvaguardia della
natura. In alcuni casi è particolarmente evidente, come nella conservazione ex
situ. È una strategia adottata per tutelare specie rare e gravemente minacciate,
il cui stato in natura è talmente critico da non garantirne la sopravvivenza nei
loro habitat (in situ), oppure perché gli ecosistemi in cui vivono sono ormai
così degradati da rendere incerto il loro futuro. Quindi, esemplari delle specie
in pericolo sono tenuti e fatti riprodurre in cattività: sono una scialuppa di
salvataggio, una scorta di animali da reintrodurre nel caso in cui le
popolazioni in situ non riuscissero a sopravvivere.
> Le politiche di conservazione della natura sono il risultato di un equilibrio
> tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per
> i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore
> assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda.
La reintroduzione di individui che non hanno mai vissuto nel proprio habitat
richiede ingenti sforzi e risorse e il successo non è mai garantito.
Improbabile, però, non significa impossibile. Un esempio è quello del condor
della California (Gymnogyps californianus). Nel 1967 il condor della California
fu classificato come specie in pericolo di estinzione: il calo drastico della
popolazione osservato nel Ventesimo secolo era dovuto al bracconaggio,
all’avvelenamento da piombo e al danneggiamento dell’habitat di questo animale.
Non si esclude che anch’esso fosse una delle vittime del DDT sul suolo
americano. Nel 1983, il US Fish and Wildlife Service ‒ l’agenzia governativa
degli Stati Uniti che si occupa della gestione e conservazione della fauna
selvatica, della pesca e degli habitat naturali ‒ avviò un programma di
riproduzione in cattività, in collaborazione con lo zoo di Los Angeles e il San
Diego Wild Animal Park a cui si unirono altre istituzioni. Nel frattempo, in
natura, le popolazioni di condor continuarono a diminuire fino a quando, nel
1985, rimasero solo nove esemplari selvatici alla mercé delle stesse cause che,
nel corso del tempo, avevano minacciato questa specie. Le autorità decisero di
catturare i condor rimasti e introdurre anche loro nel programma di riproduzione
in cattività. Era il 1987 e per quattro anni nessun condor della California volò
nei cieli statunitensi.
Era un progetto ambizioso: la riproduzione era solo una parte di un percorso che
richiedeva anche una riabilitazione comportamentale degli esemplari nati in
cattività. Una specie non è definita unicamente dai propri geni, ma anche da
cultura e da sistemi sociali, quando presenti. Qualcuno avrebbe dovuto insegnare
ai condor a evitare i pericoli, umani compresi, a cercare cibo in un ambiente
per loro sconosciuto e a riacquisire tutti quei comportamenti che si imparano
dalla vita in natura, seguendo l’esempio dei propri genitori e conspecifici. Gli
sforzi di scienziate e scienziati non furono vani: secondo i dati della IUCN
(International Union for the Conservation of Nature), la popolazione è aumentata
fino ad arrivare a 223 uccelli nell’agosto 2003, di cui 138 in cattività e 85
reintrodotti in California e nel nord dell’Arizona. La riproduzione in natura è
ripresa nel 2002 e ora avviene in tutte le sottopopolazioni selvatiche della
California, dell’area tra Arizona e Utah e della Baja California, in Messico.
Attualmente la popolazione selvatica conta 93 individui maturi ed è in aumento.
Quello dei condor della California non è l’unico esempio di reintroduzione
riuscita. Un altro caso è quello del gorilla di pianura occidentale (Gorilla
gorilla gorilla) in Congo e Gabon, avviata nel 1996 dalla Fondazione Aspinall.
> Nonostante gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità
> collezionistiche per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed
> educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri
> senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà.
Dietro queste storie di successo, ci sono milioni di animali in cattività per
cui non esiste un lieto fine, neanche in termini di generazioni future.
Nonostante strutture come gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità
collezionistiche e l’atmosfera da wunderkammer dei secoli passati per cedere il
posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed educazione, dobbiamo essere
consapevoli che sacrifichiamo degli esseri senzienti, molti dei quali non
conosceranno mai la libertà.
Giocare a fare Gesù
Negli ultimi anni si sono affermate strategie persino più radicali per salvare
specie a rischio di estinzione. Lo scorso aprile è rimbalzata tra le testate
nazionali e internazionali e sui social media la notizia della de-estinzione
dell’enocione (Aenocyon dirus), specie scomparsa circa 10.000 anni fa, a opera
del gruppo di ricerca dell’azienda statunitense Colossal Biosciences. La
presunta “resurrezione” è stata decisamente ridimensionata nei giorni successivi
e analizzata per capirne i reali risvolti conservazionistici, economici,
etologici ed etici.
Se la nascita di quei cuccioli di metalupo ‒ per l’esattezza lupi grigi il cui
genoma è stato sottoposto a venti modifiche per fare assumere loro alcune delle
caratteristiche dell’antico animale ‒ è da considerarsi tristemente poco più di
una trovata pubblicitaria, la Colossal Biosciences è in realtà coinvolta
nell’impresa disperata di salvare il rinoceronte bianco settentrionale
(Ceratotherium simum cottoni). Questa sottospecie del rinoceronte bianco è stata
vittima del bracconaggio e delle guerre civili che tormentano la Repubblica
Democratica del Congo e il Sud del Sudan. Secondo le informazioni riportate
dall’IUCN, non sono stati avvistati rinoceronti vivi dal 2006 e si ritiene siano
probabilmente estinti nella Repubblica Democratica del Congo. L’ultima speranza
di non perdere per sempre questo tassello di biodiversità è rappresentata da due
femmine, Najin e Fatu, madre e figlia, trasferite nel 2009 dallo zoo di Dvůr
Králové in Repubblica Ceca, in cui erano nate, alla riserva di Ol Pejeta, in
Kenya. A loro si unirono Sudan, un maschio che era il padre di Najin e il nonno
di Fatu, e Suni, il fratellastro di Fatu e Najin (quindi gli esemplari erano tra
loro consanguinei) per incoraggiarne la riproduzione in un ambiente quanto più
simile a quello d’origine di questi mammiferi. Il trasferimento non portò i
risultati sperati: dal 2009 al 2013 ci furono diversi tentativi falliti di
accoppiamento con Sudan, Suni e alcuni rinoceronti bianchi meridionali. Suni
morì nel 2013 e Sudan nel 2018. Venuto meno il supporto degli esemplari maschi,
il consorzio di cui fa parte anche Colossal Biosciences, sta procedendo con
ulteriori prove mediante fecondazione in vitro ‒ usando lo sperma congelato dei
due rinoceronti defunti ‒ e maternità surrogata. Sono interventi invasivi e non
esenti da rischi per la salute anche negli animali non umani. Non possiamo
sapere come andrà a finire, se la sofferenza causata a Najin e Fatu dagli
spostamenti e dalle procedure mediche a cui sono state sottoposte servirà a non
far scomparire la specie a cui appartengono.
Stiamo giocando a “fare Dio”? Forse sarebbe meglio dire “giocare a fare Gesù”,
con un riferimento esplicito alla resurrezione, come si racconta accadde a
Lazzaro. Almeno così suggeriscono Bjørn Myskja e Mickey Gjerris, autori dello
studio “Playing Jesus to Save Species: A Virtue Ethics Approach to Biotech
De-Extinction Projects”, pubblicato su Journal of Agricultural and Environmental
Ethics nell’aprile 2025. I due studiosi, attraverso l’esame del valore delle
specie, delle responsabilità morali e del ruolo umano nelle estinzioni, si
rivolgono all’etica della virtù per un nuovo approccio nei confronti della
conservazione o del ripristino delle specie. L’etica della virtù si concentra
sulle virtù e sul carattere morale delle persone, a differenza della
deontologia, che si basa su regole e doveri, e del consequenzialismo, che valuta
le azioni in base alle loro conseguenze. In particolare, riguardo al conflitto
tra specie e individui, gli studiosi dichiarano nel testo:
> Sebbene la de-estinzione possa ripristinare una specie, non può essere
> realizzata senza il coinvolgimento di singoli animali, il cui benessere deve
> essere considerato nelle decisioni etiche. A seconda delle procedure
> impiegate, preoccupazioni come il benessere fisico e psicologico, la
> conoscenza delle esigenze tipiche degli animali e la sensibilità alle
> preferenze individuali devono guidare le nostre azioni. Virtù come la
> compassione e la cura sono centrali in queste decisioni.
Nel mondo in cui viviamo, l’essere umano ha creato situazioni che non possono
essere risolte con soluzioni perfette e per le quali siamo costretti ad adottare
scelte di compromesso. Davanti a questa prospettiva, la stima del rapporto
costi/benefici, che scaturisce dal confronto tra il benessere di individui e la
salvezza di una specie, dovrebbe soppesare molteplici fattori tra cui i dati
scientifici, ma anche, ad esempio, le percezioni culturali. Queste dovrebbero
essere le premesse per una riflessione continua e lucida sul nostro stile di
vita, che ha portato a diminuire le opportunità di prosperare per gli esemplari
di alcune specie. Myskja e Gjerris dichiarano nell’articolo: “In tali
riflessioni, le risposte generali ci portano solo in parte verso una soluzione,
che deve sempre essere particolare e contestualizzata”.
Di conservazione si può anche morire
Ipotesi di soluzioni particolari e contestualizzate sono quelle riportate in
un’altra pubblicazione, comparsa su Science il 15 maggio scorso, intitolata
“Deliberate extinction by genome modification: An ethical challenge. What
circumstances might justify deliberate, full extinction of a species?” Per
mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un
ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è
una strategia di conservazione. Il gruppo di autrici e autori composto da
scienziati appartenenti a differenti ambiti, tra cui bioeticisti, biologi della
conservazione, ecologi ed esperti di scienze sociali, ha esaminato la
possibilità di adoperare l’ingegneria genetica per estinguere localmente o
globalmente tre particolari specie: la mosca del Nuovo Mondo (Cochliomyia
hominivorax), la zanzara Anopheles gambiae, vettore della malaria, e le specie
di roditori invasive come il topo domestico (Mus musculus) e i ratti (Rattus
rattus e Rattus norvegicus).
> Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un
> ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è
> una strategia di conservazione.
Secondo l’analisi svolta, l’estinzione completa e deliberata potrebbe essere
accettabile solo in casi estremamente rari, dopo la valutazione di fattori come
le sofferenze causate ad animali umani o non umani dalla specie in esame, il suo
impatto ecologico, l’efficacia delle strategie genomiche rispetto ai metodi
tradizionali, il rischio di conseguenze indesiderate come l’estinzione
involontaria della specie, la pericolosità della specie per la salute pubblica
(compresa la sicurezza alimentare), il valore intrinseco della specie e i
benefici ambientali che eventualmente esercita. Emerge anche l’importanza del
coinvolgimento delle comunità locali e delle parti interessate nel processo
decisionale, per assicurarsi che il problema sia esaminato da diverse
prospettive, con un’adeguata rappresentanza di coloro che ne sono maggiormente
colpiti. Dallo studio risulterebbe che solo la mosca del Nuovo Mondo, un
parassita letale per l’essere umano e gli animali selvatici e d’allevamento,
sarebbe eleggibile per l’eradicazione totale, mentre per Anopheles gambiae si
dovrebbero dirottare le attenzioni direttamente sul plasmodio della malaria, e
per topi e ratti ‒ da sempre vettori di malattie e causa di gravi danni alle
scorte alimentari, alla fauna selvatica e agli ecosistemi ‒ sarebbe preferibile
l’eliminazione solo a livello locale, concentrandosi su tecniche che agiscano in
un intervallo di tempo limitato o si possano applicare su specifiche
sottopopolazioni. Di modifiche genetiche (e strategie di conservazione), dunque,
si può anche morire.
Le basi di questa discussione potrebbero essere una guida per gli interventi che
riguardano altre specie, proprio come lo scoiattolo grigio in Italia. Sempre
grazie ai dati raccolti dall’IPBES, sappiamo che le specie aliene invasive hanno
contribuito al 60% delle estinzioni di cui siamo venuti a conoscenza: si stima
che poco più di 200 tra queste abbiano causato oltre 1.200 estinzioni locali di
specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di
malattie o distruzione dei loro habitat. Ne conseguono anche danni per Homo
sapiens, come scrive Piero Genovesi, responsabile ISPRA della conservazione
della fauna e del monitoraggio della biodiversità, e tra i massimi esperti
mondiali di specie aliene, nel suo libro Specie aliene. Quali sono, perché
temerle e come possiamo fermarle (2024). Genovesi spiega che il passo dalla
questione ecologica a quella sociale è molto breve. Le invasioni biologiche,
infatti, possono avere conseguenze gravi anche per le persone, colpendo in
particolare le comunità più vulnerabili e arrivando a minacciare anche la
salute. Purtroppo, questa molteplicità di effetti negativi non è un’eccezione,
ma una caratteristica frequente di molte invasioni biologiche, che spesso
esercitano impatti su diversi ambiti, dalle attività economiche alle
infrastrutture, fino a influenzare le economie locali e nazionali.
> Le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni locali di
> specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di
> malattie o distruzione dei loro habitat.
Il caso dello scoiattolo grigio ha fatto emergere in Italia il conflitto tra
specie e individui. Per una parte dell’opinione pubblica è stato difficile
accettare che venissero eliminati quegli animali con cui avevano un contatto
diretto, un sentimento amplificato dal loro aspetto simpatico, dalla loro
socievolezza e dalla mancanza di consapevolezza dei danni che stavano arrecando.
Le nuove tecnologie genomiche, che riducono al minimo la sofferenza degli
animali durante le operazioni di eradicazione, insieme a un dialogo aperto che
consideri sia la scienza sia l’etica, potrebbero rappresentare il futuro della
tutela della biodiversità. Tuttavia, decisioni di questo tipo saranno sempre
accompagnate da un profondo dilemma morale.
Il residuo morale
Inquinamento, distruzione di habitat, sfruttamento dei suoli, emissioni di gas
serra, bracconaggio, disboscamento, cementificazione, commercio illegale di
animali: queste sono solo alcune delle attività su cui avremmo dovuto e dovremmo
agire per evitare un’imponente perdita di biodiversità e ridurre il rischio di
estinzione di molte specie. Ci sono poi strategie più invasive, che evidenziano
come Homo sapiens continui a esercitare il suo impatto sul pianeta e su tutti i
suoi abitanti, anche se per salvare, curare, ripristinare. Non solo il dominio,
anche la custodia può trasformarsi in una forma di controllo che imponiamo agli
altri esseri viventi. È vero: abbiamo a disposizione conoscenze e strumenti per
farlo nel migliore modo possibile, cercando di assicurare maggiore benessere per
gli esemplari oggetto dei programmi di conservazione e di eradicazione. Resta il
fatto che sosteniamo di voler far prosperare le specie, ma soprassediamo sul
valore degli individui.
A questo proposito, la giornalista Emma Marris, nel suo libro Anime Selvagge. La
rigogliosa libertà del mondo non umano (2022) ci invita a fare i conti con il
residuo morale, definito come l’insieme delle esigenze morali che rimangono
insoddisfatte in situazioni che presentano un dilemma, come quelle descritte.
Salvare lo scoiattolo comune europeo significa condannare a morte lo scoiattolo
grigio, i tentativi per evitare l’estinzione del rinoceronte bianco
settentrionale comportano rischi e forme di stress negli esemplari coinvolti nel
progetto di salvaguardia della specie. Le scelte che adottiamo ci costringono a
pagare dei costi etici inevitabili. “Non esiste un unico lieto fine per la vita
sulla Terra, così come non esiste una formula semplice per agire eticamente in
un mondo umanizzato”, scrive Marris: “Dobbiamo fare il meglio che possiamo con
molteplici valori incommensurabili, e poi convivere con le scelte che abbiamo
fatto, le specie non salvate, il dolore che abbiamo causato”.
L'articolo Il lato oscuro della conservazione proviene da Il Tascabile.
L a geopolitica dell’acqua oggi ha di certo meno visibilità rispetto alla corsa
all’intelligenza artificiale o alla competizione tecnologica globale, ma resta
un nervo scoperto nelle dinamiche di potere contemporanee. Ce lo ricordano le
recenti tensioni tra India e Pakistan: dopo un attentato, Nuova Delhi ha sospeso
il Trattato delle acque dell’Indo, minacciando di ridurre del 25% il flusso
verso il Pakistan. In un’area dove l’agricoltura dipende in larga parte da quei
fiumi condivisi, l’acqua torna a essere leva di pressione e possibile miccia di
conflitto.
A rendere ancora più instabile il quadro è l’impatto della crisi climatica, che
accentua la vulnerabilità delle risorse idriche in tutto il mondo. L’aumento
delle temperature, l’alterazione dei regimi delle piogge e la maggiore frequenza
di eventi estremi compromettono la disponibilità e la prevedibilità dell’acqua,
con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e migrazioni. Anche regioni
un tempo considerate relativamente sicure stanno affrontando scenari di
scarsità.
Negli Stati Uniti, nel 2023, sette Stati del sud-ovest hanno siglato un accordo
per ridurre i prelievi dal fiume Colorado, evitando il collasso di metropoli
come Los Angeles e Phoenix. Ma la portata del fiume continua a calare, ponendo
interrogativi sempre più urgenti sulla sostenibilità di lungo periodo.
> La crisi climatica sta accentuando la vulnerabilità delle risorse idriche in
> tutto il mondo, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e
> migrazioni.
Sempre negli Stati Uniti, l’acqua è oggi al centro di dispute ben più
grottesche. Nell’aprile 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per
annullare i limiti ambientali sulla pressione delle docce, lamentando che le
regolazioni volute da Obama e Biden non gli consentivano di lavarsi bene i
capelli. A inizio del suo secondo mandato e in un modo decisamente più
preoccupante, rispolverando nostalgie imperiali, Trump ha evocato pubblicamente
la necessità di “riprendere” il controllo del Canale di Panama, denunciando le
tariffe panamensi come ingiuste e ventilando persino l’ipotesi di un’azione
militare.
In Africa, intanto, la Grand Ethiopian renaissance dam (GERD) continua a essere
motivo di scontro diplomatico tra Etiopia, Egitto e Sudan, preoccupati per il
controllo delle acque del Nilo Azzurro. Il progetto, ormai pienamente operativo,
è destinato a ridisegnare i rapporti di forza nel Corno d’Africa.
Il secolo delle acque forzate
Queste dinamiche contemporanee trovano radici profonde nel modo in cui, durante
il Novecento, si è concepita l’idrosfera: come spazio da dominare, modellare e
sfruttare a fini economici, politici e simbolici. Winston Churchill, fermandosi
nel 1908 a osservare il Nilo presso il lago Vittoria, scrisse che “una simile
leva per controllare le forze naturali dell’Africa che nessuno impugna, può
soltanto intrigare e stimolare l’immaginazione”. Negli anni successivi, la
costruzione di dighe e sistemi idraulici divenne una pratica globale: Stati
Uniti, Unione Sovietica, India e Cina investirono massicciamente in progetti di
deviazione dei fiumi e costruzione di bacini, vedendo in essi strumenti di
modernizzazione e legittimazione politica. Le dighe non solo fornivano
irrigazione ed energia elettrica, esprimevano anche la capacità eroica dello
Stato di dominare la natura per il bene collettivo.
Due casi emblematici mostrano il costo di questa visione: in India,
l’Inghilterra coloniale sfruttò l’Indo per consolidare il proprio dominio
agricolo, mentre in Asia centrale l’Unione Sovietica progettò imponenti sistemi
irrigui per sostenere la monocultura del cotone. L’ambizione sovietica portò
alla ben nota vicenda del prosciugamento del lago d’Aral, con conseguenze
disastrose: desertificazione, salinizzazione dei suoli, crollo dell’attività
ittica, crisi sanitaria ed economica.
> Prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita
> nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in
> invasi.
Negli anni Duemila tornò a circolare ‒ in forma speculativa e mai ufficialmente
stipulata in accordi ‒ l’ipotesi di rilanciare un antico progetto sovietico:
deviare parte delle acque dei grandi fiumi siberiani verso la Cina
nord-occidentale. Si parlava di piegare l’Irtyš, l’Ob, forse persino l’Enisej
verso sud-est, oltre la frontiera, fino alle regioni del Xinjiang e del Gansu ‒
terre assetate, industrializzate, in piena espansione. Un canale artificiale
lungo oltre mille chilometri: una ferita nella taiga da coprire con una promessa
di prosperità. L’idea, più volte evocata da funzionari russi e cinesi, fu
rilanciata nel 2002 dal sindaco di Mosca Yuri Luzhkov e rientrava, almeno
idealmente, nelle prospettive di cooperazione idrica tra i due Paesi.
Nulla di nuovo, in fondo: già negli anni Sessanta l’Unione Sovietica aveva
concepito piani dettagliati per rovesciare il corso dei fiumi artici e
trasferire enormi volumi d’acqua verso sud, con l’obiettivo di irrigare le
steppe dell’Asia centrale e sostenere la produzione agricola. Ma il progetto ‒
noto come Northern river reversal ‒ venne abbandonato nel 1986, sotto le
pressioni del mondo scientifico, per l’impatto ambientale potenzialmente
devastante.
Quel progetto mai realizzato, ma ciclicamente evocato, è forse il più recente
fantasma di una lunga ossessione imperiale, moderna, nazionalista che nell’ex
Unione Sovietica si è manifestata in modo particolarmente imponente: l’acqua
come vettore di potere, oggetto di controllo tecnico e politico. Ma prima di
farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita nel piccolo:
argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in invasi.
C’è un caso, all’apparenza periferico, che racconta meglio di altri questa
tensione. In un altopiano del Caucaso meridionale, un lago è stato trasformato
in strumento di modernizzazione forzata, banco di prova per ingegneri, politici
e ideologi. Una microstoria che rivela l’ambizione ‒ tipicamente novecentesca ‒
di rifare la geografia, riscrivere l’ecologia, disciplinare il paesaggio.
Storia di un equilibrio fragile
Arrivando dal Nord dell’Armenia, lungo le strade che scendono dal Parco
nazionale di Dilijan ‒ detto anche Piccola Svizzera d’Armenia per i suoi
paesaggi montuosi, le foreste dense e le sorgenti minerali curative – il lago di
Sevan apre il paesaggio seguendo l’estensione del grande altopiano che lo
contiene. L’altitudine si abbassa di poco, ma la vegetazione dirada e poi
scompare, gli spazi si allargano. Con oltre mille chilometri quadrati a quasi
duemila metri sul livello del mare, Sevan è la principale riserva d’acqua dolce
del Caucaso meridionale e uno degli spazi simbolici più importanti dell’Armenia.
> La storia del lago Sevan mostra come anche un bacino apparentemente periferico
> possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali
> e progetti di disciplinamento territoriale.
Le sue rive sono abitate sin dall’antichità: ce lo dicono i ritrovamenti
archeologici, come quelli di Lchashen, dove è stato rinvenuto il celebre carro
dell’età del bronzo, o il cimitero medievale di Noraduz, con le tradizionali
khachkar, le croci di pietra, conservate e tuttora prodotte in loco da piccoli
laboratori artigiani.
Croci di pietra, Sevan, 2024; fot. Giulio Burroni.
Nonostante le pressioni ambientali e la crescita edilizia, Sevan è ancora oggi
meta di turismo interno, frequentata per le spiagge, le escursioni in barca, la
pesca, i monasteri sulle rive. Il più noto si trova su quella che un tempo era
un’isola ‒ Sevanavank ‒ e che oggi è una penisola. Non è un dettaglio
paesaggistico: è la traccia visibile di un abbassamento artificiale iniziato
negli anni Trenta, quando il livello del lago venne ridotto per scopi irrigui ed
energetici.
Già negli anni Venti, l’ingegnere armeno Soukias Manasserian aveva proposto di
abbassare Sevan di 45 metri per ridurre l’evaporazione e usare l’acqua a fini
produttivi. La proposta, ripresa con entusiasmo nel Primo piano quinquennale,
portò nel 1933 all’avvio della costruzione di un tunnel lungo quasi 40
chilometri, destinato a convogliare l’acqua verso sud, lungo il fiume Hrazdan.
Completato nel 1949, il tunnel diede avvio al progressivo svuotamento del lago.
Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, il livello si abbassò di quasi venti
metri, con una perdita di volume stimata attorno al 40%. Le conseguenze furono
gravi: perdita di biodiversità, prosciugamento delle coste, salinizzazione del
suolo, alterazione del microclima. Alcuni scienziati armeni sollevarono
l’allarme già negli anni Sessanta, ma le loro voci rimasero marginali. Solo nel
1978 si autorizzò la costruzione di un tunnel di reintegro (Arpa-Sevan),
completato nel 1981. Un secondo tunnel, il Vorotan-Sevan, entrò in funzione nel
2004.
> L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi
> significava piegare la natura alla volontà dello Stato.
Il lago ha recuperato alcuni metri, ma resta ecologicamente fragile, oggi
minacciato da eutrofizzazione, inquinamento e gestione politica incerta. La sua
storia, poco nota fuori dal Caucaso, mostra come anche un bacino apparentemente
periferico possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni
statali e progetti di disciplinamento territoriale. Una microstoria che
racconta, in scala ridotta, le stesse logiche che hanno condotto al
prosciugamento del lago d’Aral.
Deviare fiumi, nutrire anime
Sevan fu, in un certo senso, un prototipo. A partire dagli anni Cinquanta, la
pianificazione sovietica riprodusse lo stesso schema in Asia Centrale, deviando
i fiumi Amu Darya e Syr Darya per l’irrigazione intensiva del cotone: nacque
così il ben noto disastro del Lago d’Aral, che in pochi decenni si ritirò
lasciando dietro di sé deserti salati e relitti navali. Negli anni Ottanta fu la
volta del Kara-Bogaz, golfo poco profondo del Mar Caspio, chiuso artificialmente
e trasformato in un bacino sterile. L’URSS rese l’acqua un agente politico e
simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello
Stato.
Come spiega Frank Westerman nel suo reportage e saggio del 2020 Ingegneri di
anime l’Unione Sovietica mise in scena una titanica alleanza tra ingegneri e
scrittori, impegnati nella costruzione di un nuovo spazio fisico e ideologico.
La tesi di Westerman è che il concetto di “dispotismo idraulico”, formulato da
Karl Wittfogel, trovi la sua massima espressione in Unione Sovietica: lo Stato
totalitario si legittima attraverso il controllo delle acque, imponendo su di
esse una centralità politica, simbolica e produttiva che trascende la
razionalità ecologica.
> Oltre all’Unione Sovietica, anche i regimi autoritari europei del primo
> Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica.
La fede sovietica nella trasformazione della natura affonda le radici nel
modernismo industriale. Lenin sintetizzava l’essenza del comunismo come “potere
sovietico più elettrificazione del Paese”. Stalin ne radicalizzò la visione:
fiumi da deviare, laghi da prosciugare, dighe da costruire. La tecnica,
asservita al piano quinquennale, diventava quindi narrazione, epopea, mito. Nel
cuore di questo racconto si collocano gli scrittori del realismo socialista.
Alla cena organizzata da Maksim Gor´kij nel 1932, Stalin proclamò:
> I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono
> di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di
> quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non
> possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro Paese.
> L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione
> della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo
> brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime.
Nasce così la letteratura idraulica: un sottogenere del romanzo sovietico calato
dall’alto del regime (e sempre sottoposto ai raggi X della Glavlit, la Direzione
generale per gli affari della letteratura e dell’editoria) che esalta l’opera
pubblica come fondamento della nuova civiltà socialista e che funzionerà, da qui
in avanti, come un dispositivo ideologico per mascherare le contraddizioni della
modernità. Una su tutte: la realizzazione di queste opere fu davvero possibile
solo grazie allo sfruttamento della manodopera di milioni di condannati ai
lavori forzati.
Terraformare l’Europa
L’idea che la trasformazione dell’ambiente potesse diventare una leva narrativa
e simbolica non fu esclusiva dell’Unione Sovietica. Anche i regimi autoritari
europei del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di
legittimazione politica: agire sulla natura significava dimostrare ordine,
efficienza, potere. In Italia, il fascismo fece della bonifica integrale uno dei
suoi principali dispositivi simbolici. Nonostante la portata di questi
interventi fosse in realtà marginale, la redenzione delle paludi malariche, la
trasformazione dell’Agro Pontino in insediamenti agricoli moderni e l’epopea dei
pionieri della terra nuova divennero elementi centrali della propaganda.
Cinegiornali, plastici, architetture monumentali e retoriche del lavoro
contribuirono a costruire l’immagine di una natura domata e redenta, conferma
tangibile della capacità del regime di instaurare un ordine anche ambientale.
> Anche nel fascismo la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un
> disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Frank Snowden, storico dell’Università di Yale, ha mostrato nel suo libro La
conquista della malaria (2008) come questa modernizzazione comportò un costo
umano elevatissimo: sradicamento di comunità rurali, imposizione di nuovi
modelli di vita e aumento della mortalità tra i lavoratori delle opere di
risanamento. Ma la politica ambientale del fascismo non si limitò alla pianura:
anche in montagna, il regime promosse una vasta opera di elettrificazione
alpina, costruendo dighe e bacini idroelettrici dalla Valtellina alla Val
d’Aosta. La montagna domata, l’acqua incanalata e sublimata in energia,
diventavano metafore dell’autarchia e dell’identità nazionale. Anche qui, come
nella bonifica, la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un
disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Il nazionalsocialismo tedesco portò questo paradigma a un’estremizzazione
ideologica. La dottrina Blut und Boden (sangue e suolo), elaborata dal ministro
Richard Walther Darré, legava l’identità razziale alla terra, sostenendo che la
sopravvivenza dell’ariano dipendesse dalla sua connessione ancestrale con il
territorio tedesco. L’organizzazione del Reichsarbeitsdienst mobilitava migliaia
di giovani in lavori pubblici, trasformando il paesaggio in un rituale
collettivo di disciplina e appartenenza.
In entrambi i casi, l’ambiente trasformato diventava un set politico e
pedagogico, costruito attraverso propaganda, architettura e narrazione. L’acqua
‒ bonificata, deviata, trattenuta ‒ fu uno degli elementi privilegiati di queste
operazioni ideologiche.
Dispotismo idraulico e modernità socialista
Il fascismo, il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico agirono, con gradi
e strumenti diversi, all’interno di uno stesso orizzonte modernista: l’idea che
la tecnica potesse dominare la natura, ordinarla, piegarla a fini produttivi,
simbolici e politici. Anche il fascismo terraformò su larga scala, non solo
nelle aree di bonifica ma anche attraverso la grande opera di elettrificazione
delle Alpi, che comportò la costruzione di dighe, serbatoi artificiali, canali
forzati e centrali idroelettriche. L’acqua montana venne incanalata e messa al
lavoro per produrre energia, autosufficienza e immaginario patriottico.
L’intervento non fu solo simbolico, ma modificò concretamente gli equilibri
ambientali delle valli alpine e ne riscrisse la geografia.
> Il fascismo spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio, ma
> nessuno ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così
> rapidi come l’Unione Sovietica.
La differenza rispetto al caso sovietico sta, forse, meno in una
contrapposizione di intenti e più in una diversa magnitudo e organizzazione del
progetto. Il fascismo mise in scena la potenza trasformativa della tecnica, ma
spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio: la natura, pur
disciplinata, continuava a funzionare come sfondo identitario e risorsa
simbolica. L’URSS, invece, si spinse verso una visione più sistemica, in cui la
natura ‒ e l’acqua in particolare ‒ veniva trattata come componente pienamente
integrata nel meccanismo della produzione pianificata. Non solo da domare, ma da
rimodellare funzionalmente. Come sottolinea John R. McNeill nella sua storia
ambientale del Ventesimo secolo, nessun altro Stato ha trasformato i suoi
paesaggi su scala così vasta e in tempi così rapidi come l’Unione Sovietica,
animata da una miscela di ideologia, urgenza industriale e fede tecnocratica.
Il concetto di “dispotismo idraulico” di Wittfogel voleva descrivere forme
antiche di potere che fondavano la loro autorità sul controllo delle risorse
idriche. Ma fu proprio nell’Unione Sovietica, secondo Westerman, che quel
modello trovò un’espressione moderna, tecnologicamente aggiornata e
ideologicamente giustificata. Il dominio sull’acqua genera inevitabilmente
centralizzazione politica, burocrazia espansiva e gerarchie verticali:
condizioni che trovano piena corrispondenza nell’organizzazione dell’economia
pianificata sovietica, sostiene Westerman.
A differenza dei regimi autoritari coevi in Europa, il socialismo reale non si
limitò a rappresentare la natura come spazio da redimere: tentò di
riorganizzarla integralmente secondo principi razionali e quantitativi su
larghissima scala. L’acqua veniva misurata, deviata, redistribuita; i bacini,
svuotati o riempiti a seconda delle esigenze della produzione agricola e
industriale. Questa visione trovò la sua massima espressione nei piani idraulici
dell’Asia centrale: milioni di ettari irrigati, chilometri di canali,
prosciugamenti artificiali.
> L’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero
> marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi
> della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura.
Il filosofo giapponese Kohei Saito ha sviluppato una critica radicale al modello
estrattivista capitalistico, rileggendo Marx da una prospettiva ecologica: ma,
sebbene in misura largamente minoritaria, nel suo Capitale nell’Antropocene
(2024) Saito non tralascia di sostenere che l’Unione Sovietica ha completamente
snaturato il nucleo ecologico del pensiero marxista, che nei tardi scritti di
Marx si stava orientando verso un’analisi della cosiddetta “frattura metabolica”
tra società e natura. Per Marx, questa frattura ‒ causata dall’estrazione
intensiva di risorse e dalla disconnessione tra produzione e riproduzione
ecologica ‒ non era sanabile con il semplice superamento del capitalismo di
mercato. Occorreva ristabilire un equilibrio tra i cicli della natura e le forme
sociali. Il socialismo sovietico, invece, adottò un paradigma iperproduttivista,
trasferendo le logiche del dominio ambientale dalla proprietà privata alla
pianificazione centralizzata. La natura venne trattata come un deposito da
svuotare, un ostacolo da regolare, una risorsa da calcolare. Seguendo Saito,
quindi, la pianificazione sovietica non solo non colmò la frattura metabolica:
la istituzionalizzò, trasformandola in uno squilibrio strutturale tra l’apparato
statale e l’ambiente. L’acqua, da fattore di equilibrio, divenne leva di
controllo.
Decisamente più radicale la lettura ormai datata di Murray Feshbach e Alfred
Friendly Jr. nel loro libro Ecocide in the USSR: Health and Nature Under Siege ‒
opera che a ridosso del crollo del 1992 segnò l’opinione pubblica occidentale
con toni volutamente drammatici e generalizzanti: l’Unione Sovietica avrebbe
trasformato l’intero continente eurasiatico in una zona di sacrificio
ambientale, compromettendo irrimediabilmente ecosistemi, risorse idriche e
salute pubblica, in nome della produzione e della segretezza di Stato. Secondo
gli autori, l’ecocidio non era un incidente del sistema sovietico, ma una sua
componente strutturale, favorita dall’opacità del potere e dalla logica
pianificatrice che vedeva la natura solo come materia da sfruttare.
In questo quadro, il lago Sevan può essere considerato un laboratorio
preliminare, un esperimento su scala minore rispetto alle trasformazioni
idrauliche realizzate in Asia Centrale, ma già pienamente paradigmatico. La
deviazione del suo corso naturale, l’abbassamento controllato del livello, la
trasformazione di un’isola in penisola, l’alterazione degli equilibri ecologici
ed economici locali: tutto anticipava, per logica e metodo, quanto sarebbe
accaduto vent’anni dopo con il disastro del lago d’Aral.
La Casa degli scrittori di Sevan, 2024, fot. Giulio Burroni. Costruita negli
anni Trenta in stile modernista, sorge su una penisola rocciosa del lago Sevan.
Progettata come residenza estiva per l’élite letteraria sovietica, univa rigore
funzionale e slancio avanguardista. Oggi, semidiroccata, ospita un ostello
estivo e attira visitatori curiosi della sua storia.
L’acqua è ancora infrastruttura del potere
Oggi il controllo delle acque non è più dominio esclusivo dei regimi autoritari.
Anche nelle democrazie neoliberali, l’acqua è al centro di nuovi conflitti: come
risorsa scarsa, come leva geopolitica, come strumento di influenza economica.
Durante l’amministrazione Trump, il paradigma si è aggiornato: dal rilancio
delle grandi opere idrauliche alla sistematica deregulation ambientale, dalla
riduzione dei vincoli federali sulle risorse idriche al disimpegno dai trattati
sul clima e sulla cooperazione transfrontaliera. Il linguaggio si è fatto più
pragmatico, orientato al mercato, epurato della grammatica della sostenibilità.
> Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire
> alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da
> governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare.
Nella riconfigurazione attuale dei rapporti tra natura e politica, l’acqua
continua a essere un’infrastruttura strategica, al pari di un gasdotto o di una
piattaforma logistica. Il caso del Canale di Panama, con la sua gestione contesa
e le periodiche crisi idriche che ne minacciano l’operatività, dimostra quanto
la disponibilità e il controllo dell’acqua siano tornati a essere nodi centrali
nelle reti globali del potere. Allo stesso modo, la sospensione del Trattato
delle acque dell’Indo da parte dell’India dopo l’attentato del 2025 ci dice come
il flusso idrico possa essere impiegato come strumento di pressione
internazionale, mettendo a rischio la sicurezza alimentare e sociale del vicino
Pakistan.
Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire
alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da
governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. I progetti
mai realizzati di deviazione dei fiumi siberiani non sono oggi interessanti per
la loro fattibilità, ma per la logica che incarnano: la tentazione ricorrente di
piegare l’idrosfera a un disegno politico, economico, ideologico.
Da questo punto di vista, la vicenda del lago Sevan ‒ apparentemente marginale
nella geografia dei grandi bacini ‒ si rivela paradigmatica. Lontana dalle
megalopoli e dalle rotte globali, eppure profondamente inserita nella storia del
dominio tecnico sulla natura, racconta con chiarezza come il controllo
dell’acqua sia sempre anche controllo del territorio, dei corpi, dei futuri
possibili. È in questi spazi periferici che si manifesta con maggiore nitidezza
la persistenza ‒ e l’adattabilità ‒ del potere idraulico.
L'articolo Acque sovrane, di guerra e propaganda proviene da Il Tascabile.
D a Huaraz si vedono le Ande. La città peruviana dista solo 20 chilometri dal
lago glaciale Palcacocha, alimentato dalla fusione del ghiacciaio Palcaraju. Da
alcuni anni, Luciano Lliuya, agricoltore e guida di montagna, osserva le cime
preoccupato. Il ghiacciaio si sta ritirando troppo, e troppo in fretta. Il
rischio che una frana o una valanga generino un’onda capace di travolgere il
centro abitato è diventato concreto: nel 2020, il lago conteneva acqua
sufficiente a riempire 800 piscine olimpioniche. Nonostante lo stato di
emergenza dichiarato dal governo e l’installazione di enormi tubi per drenare
l’acqua in eccesso, il livello del lago è sceso solo di pochi metri. Lliuya,
comunque, non è rimasto a guardare.
Dopo il vertice delle Nazioni Unite sul clima del 2014 – la Cop20 di Lima –
Lliuya e l’organizzazione tedesca, Germanwatch, arrivata in Perù in occasione
del negoziato ONU, hanno deciso di portare avanti un’idea folle, un’azione
giudiziaria senza precedenti: denunciare per i danni legati alla fusione del
ghiacciaio la società energetica tedesca RWE (Rheinisch-Westfälisches
Elektrizitätswerk), una delle aziende più inquinanti d’Europa, anche se questa
non ha mai operato in Sud America.
A novembre 2015, la denuncia è stata depositata al tribunale distrettuale di
Essen, città dove ha sede RWE. Citare in giudizio una multinazionale tedesca è
una scelta strategica: lo scopo è far giudicare il caso da un tribunale della
Germania. Nel Paese, infatti, la legge consente alle persone di fare causa a un
vicino se le sue azioni ne danneggiano la proprietà e – dettaglio importante –
il concetto di “vicinato” comprende qualsiasi luogo raggiunto dagli effetti
dannosi, anche se lontano migliaia di chilometri. Nel contesto delle emissioni
globali – nell’atmosfera senza confini – l’avvocata di Lliuya, Roda Verheyen, ha
argomentato che il “vicinato” di RWE comprende il mondo intero: le emissioni
della multinazionale contribuiscono in modo rilevante alla crisi climatica
globale e, dunque, al rischio di alluvione che incombe su Huaraz.
> Il caso dell’agricoltore peruviano Luciano Lliuya ha dimostrato che è
> possibile citare in giudizio un’azienda fossile per i danni prodotti
> dall’emergenza climatica anche a migliaia di chilometri di distanza.
La pronuncia del tribunale tedesco è attesa dalla metà di aprile 2025. Finora
nessuna sentenza è arrivata così lontana, nessuna ha collegato, nel contesto del
riscaldamento globale, un lago glaciale sulle Ande alla sede di una
multinazionale in Germania. I legali che stanno seguendo Lliuya ritengono che
una pronuncia favorevole avrebbe conseguenze a cascata su aziende e governi. Se
i grandi inquinatori cominciassero a temere di essere ritenuti responsabili per
i danni climatici ovunque nel mondo, potrebbero adottare pratiche più
sostenibili. E anche i governi più ricchi potrebbero essere spinti a finanziare
l’adattamento e i risarcimenti per i danni da eventi meteorologici estremi, pur
di evitare lunghe battaglie legali.
Il caso Lliuya v. RWE è solo uno degli ultimi contenziosi incentrati sul
cambiamento climatico ad aver attirato l’attenzione dei media. Le climate
litigations – come vengono chiamate anche in italiano le azioni legali intentate
contro Stati o aziende responsabili del riscaldamento globale e dei danni
ambientali connessi – esistono da alcuni anni, ma negli ultimi tempi sono
diventate sempre più visibili e numerose. In un periodo caratterizzato da una
crescente repressione delle azioni di protesta e da una ridotta mobilitazione
nelle piazze, portare il cambiamento climatico in tribunale può rappresentare il
cavallo di Troia dell’attivismo ambientale contemporaneo.
Una questione di diritto
A porre le basi per le attuali climate litigations furono le cause legate
all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e al degrado ambientale, avviate negli
anni Settanta, soprattutto negli Stati Uniti. Sono stati questi primi casi ad
aprire la strada ai contenziosi climatici degli anni Duemila, quando il legame
tra attività antropiche e cambiamento climatico è diventato impossibile da
ignorare.
Nel 2007, ad esempio, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sentenza
storica per il caso Massachusetts v. EPA. In quella causa, dodici Stati, tra cui
il Massachusetts, e diverse città statunitensi avevano citato in giudizio
l’Environmental Protection Agency (EPA) per non aver regolamentato le emissioni
di gas serra provenienti dai veicoli, sostenendo che tali emissioni
contribuivano al cambiamento climatico e mettevano a rischio la salute pubblica.
La Corte ha stabilito che, stando al Clean Air Act, la legge federale sulla
qualità dell’aria, i gas serra rientrano nella definizione di “inquinanti
atmosferici”, e dunque l’EPA era obbligata a regolamentarli. Per la prima volta,
la crisi climatica veniva riconosciuta anche come una questione di diritto da
affrontare giuridicamente. Da allora, le climate litigations sono aumentate di
anno in anno.
Stando al database Global Climate Change Litigation, dal 1986 al settembre del
2024 sono stati avviati 2976 contenziosi climatici, il 70% dei quali solo negli
ultimi dieci anni. Gli Stati Uniti sono il Paese dove se ne registrano di più.
Per contarli, comunque, occorre prima distinguerli, il che non è affar semplice.
> Il numero di cause climatiche sta aumentando drasticamente. Dal 1986 ad oggi
> sono stati avviati 2976 contenziosi in tutto il mondo, il 70% dei quali solo
> negli ultimi dieci anni.
Una delle definizioni più diffuse è quella adottata dal Sabin Center for Climate
Change Law della Columbia University, che utilizza due criteri per selezionare i
casi che vengono inseriti nel database sopracitato. Il primo è che il caso deve
essere stato presentato davanti a un organo giudiziario, sebbene spesso vengano
inclusi anche alcuni procedimenti amministrativi o richieste di indagine; il
secondo è che il diritto, le politiche o la scienza del cambiamento climatico
devono avere un ruolo rilevante nel caso.
Un altro modo di fare attivismo
Nel 2013 – un’era fa in termini di consapevolezza e politiche climatiche – un
gruppo di cittadini e cittadine dei Paesi Bassi, guidato dall’organizzazione
ambientalista Urgenda, ha deciso di citare in giudizio il proprio governo per
inazione climatica. Secondo i promotori della causa, lo Stato olandese, non
riducendo abbastanza rapidamente le emissioni di gas serra, stava violando i
diritti fondamentali di cittadini e cittadine. I legali hanno fatto riferimento
alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’inerzia statale stava
minacciando il diritto alla vita (art. 2) e il diritto al rispetto della vita
privata e familiare (art. 8). Nel 2015 è arrivata la sentenza del tribunale
dell’Aia: entro il 2020 l’esecutivo dei Paesi Bassi avrebbe avuto l’obbligo di
ridurre le emissioni di almeno il 25 per cento rispetto ai livelli del 1990.
Nonostante il ricorso del governo, nel 2019 la Corte suprema ha confermato la
sentenza. Per la prima volta, un tribunale riconosceva la responsabilità legale
di uno Stato in materia climatica. I Paesi Bassi hanno annunciato diverse
iniziative per rispettare la decisione: chiusura delle centrali a carbone,
investimenti in energie rinnovabili e una legge sul clima più ambiziosa di
quella vigente fino a quel momento. Misure che hanno funzionato: nel 2024,
secondo l’Istituto nazionale di statistica (CBS Statistics Netherlands), le
emissioni nel Paese sono scese del 37% rispetto ai livelli del 1990. Così, il
contenzioso è diventato un precedente per chiunque voglia citare in giudizio uno
Stato per inazione climatica.
> Nel 2019 per la prima volta un tribunale ha riconosciuto la responsabilità
> legale di uno Stato in materia climatica. I Paesi Bassi hanno dovuto chiudere
> centrali a carbone, investire in rinnovabili e approvare una legge sul clima
> più ambiziosa.
Il cavallo di Troia del caso Urgenda ha dimostrato la sua efficacia, ottenendo
anche risultati extra-giuridici. I contenziosi climatici rientrano infatti nella
definizione più ampia di “cause strategiche”: procedimenti avviati non solo per
ottenere un esito giuridico o amministrativo, ma anche per produrre effetti
mediatici e politici. Poiché i ricorrenti – al pari di attiviste e attivisti –
cercano di sollecitare l’intervento di governi, istituzioni o imprese, la
questione al centro di un contenzioso strategico non riguarda solo i singoli
individui coinvolti nella causa, ma anche categorie più ampie, spesso l’intera
collettività.
È questo che fa delle climate litigations una forma di attivismo, magari diversa
nei modi dagli scioperi del venerdì promossi dai Fridays for future, dai blocchi
stradali e dalle performance fatte da Extinction rebellion e Ultima generazione,
ma non negli obiettivi. Fare attivismo climatico in tribunale funziona almeno su
due fronti: in primo luogo coinvolge persone che non parteciperebbero a cortei e
azioni dirompenti dei gruppi ambientalisti; in secondo luogo aggira il dibattito
pubblico, che sui temi climatici è ormai polarizzato, portando la questione
direttamente all’attenzione e alla pronuncia dei giudici.
Chi fa causa a chi
Nell’ambito delle climate litigations, i casi vengono classificati, in base al
soggetto citato in giudizio, in due categorie: da una parte ci sono le cause
contro gli Stati, accusati di inazione di fronte alla crisi climatica;
dall’altra quelle contro le aziende responsabili delle emissioni e dei danni
ambientali.
> I contenziosi climatici rientrano nella definizione più ampia di “cause
> strategiche”: procedimenti avviati non solo per ottenere un esito giuridico o
> amministrativo, ma anche per produrre effetti mediatici e politici.
Nella prima categoria, oltre al caso Urgenda, un altro contenzioso ormai storico
è quello Neubauer, et al. v. Germany. Nel 2019 un gruppo di giovani, attivisti e
attiviste tedeschi – sostenuti anche dal movimento locale dei Fridays for future
– ha presentato alla Corte costituzionale un ricorso contro la legge federale
per la protezione del clima. Nel 2021, il tribunale ha accolto le richieste,
riconoscendo la necessità di una normativa più ambiziosa in termini di riduzione
delle emissioni, e ha dichiarato incostituzionali alcune disposizioni della
legge, giudicate insufficienti a garantire la tutela dei diritti fondamentali
delle generazioni future.
La Corte ha quindi ordinato al legislatore di stabilire, entro la fine del 2022,
obiettivi chiari di riduzione delle emissioni. In risposta alla decisione, il
Parlamento tedesco ha modificato la legge sul clima, fissando l’obiettivo di
ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 65% rispetto ai livelli del 1990
entro il 2030 e di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2045, cinque
anni prima rispetto alla data prevista dall’Unione Europea. Anche in questo
caso, come in quello Urgenda, portare la questione climatica in tribunale si è
rivelato un mezzo efficace per costringere uno Stato ad agire.
Un altro precedente importante – anche nel dimostrare l’efficacia dei
contenziosi per allargare la sfera generazionale dell’attivismo climatico – è il
caso KlimaSeniorinnen v. Switzerland, avviato nel 2016 da un’associazione di
oltre duemila donne anziane. Le signore svizzere hanno sostenuto di essere, a
causa dell’età e del genere, più vulnerabili alle ondate di calore estreme,
notoriamente aggravate dal riscaldamento globale. Hanno quindi denunciato la
Svizzera alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), accusandola di non
aver ridotto in modo sufficiente le emissioni di gas serra, mettendo a rischio
salute e vita privata, contravvenendo così agli articoli 2 e 8 della Convenzione
europea.
Ad aprile 2024, la CEDU ha stabilito che l’inazione climatica di uno Stato può
violare i diritti umani e ha condannato la Svizzera per non aver adottato misure
adeguate e trasparenti di riduzione delle emissioni. Ha anche ribadito il dovere
degli Stati di proteggere soprattutto le categorie più vulnerabili. Un anno
dopo, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha riconosciuto alcuni
miglioramenti legislativi da parte del Paese, ma ha chiesto ulteriori prove di
coerenza con la sentenza.
> Esistono diversi fattori che rendono difficile per cittadini, comunità o
> associazioni intentare cause contro governi o aziende, tra cui l’assenza di
> obblighi giuridicamente vincolanti, i lunghi tempi della giustizia, gli
> elevati costi legali.
Come accade per altre forme di attivismo, non tutte le cause climatiche hanno la
stessa efficacia. Le ragioni vanno ricercate sia nelle caratteristiche
specifiche di ciascun contenzioso, sia nel contesto nazionale in cui si svolge,
oltre che in fattori sociali e giuridici più ampi.
Le difficoltà dei contenziosi climatici
A chiarire le principali difficoltà che ostacolano chi intenta una causa
climatica è Luca Saltalamacchia, avvocato civilista esperto in materia:
“L’assenza di indicazioni specifiche nei trattati internazionali sul clima è uno
degli ostacoli più difficili da superare per ottenere una decisione positiva”,
spiega al Tascabile. Il riferimento principale è all’Accordo di Parigi, che ha
il merito di fissare un obiettivo mediaticamente forte – contenere l’aumento
delle temperature ben al di sotto dei due gradi rispetto ai livelli
preindustriali – ma non stabilisce come ciascun Paese debba contribuire
concretamente alla mitigazione del riscaldamento globale.
Esistono quindi diversi fattori che frenano la diffusione e l’efficacia delle
climate litigations: l’assenza di obblighi giuridicamente vincolanti nei
trattati internazionali, i lunghi tempi della giustizia, gli elevati costi
legali. Elementi che rendono difficile per cittadini, comunità o associazioni
intentare cause contro governi o grandi imprese. Anche quando sono presenti
solidi argomenti scientifici e giuridici, l’accesso alla giustizia climatica
resta diseguale, ostacolato da barriere economiche, normative e istituzionali.
Un esempio è quello del contenzioso Milieudefensie v. Shell, tra i più noti a
livello internazionale. Avviato nel 2019 dall’organizzazione olandese
Milieudefensie, insieme ad altre associazioni e oltre 17 mila cittadini, il
ricorso mirava a imporre alla compagnia petrolifera Royal Dutch Shell una
riduzione sostanziale delle proprie emissioni. Dopo una prima sentenza storica
favorevole ai ricorrenti – nel 2021 il tribunale distrettuale dell’Aia ordinava
a Shell di ridurre del 45% le emissioni di CO₂ entro il 2030 rispetto ai livelli
del 2019 – il procedimento ha incontrato un’inversione di rotta. Il 12 novembre
2024, infatti, la Corte d’appello dell’Aia ha ribaltato la decisione, stabilendo
che non si possono imporre a Shell obblighi specifici di riduzione. Le
associazioni ambientaliste stanno ora valutando se ricorrere in cassazione,
soppesando le probabilità di successo, i costi legali e l’importanza di
mantenere alta l’attenzione pubblica sulle responsabilità delle grandi
compagnie.
> L’Italia è tra i pochi Paesi europei a non avere una legge quadro sul clima,
> strumento che regolerebbe il processo di pianificazione e monitoraggio delle
> politiche climatiche.
Le incertezze che circondano alcuni tra i casi più emblematici di climate
litigation mostrano quanto sia fragile affidarsi unicamente alla giustizia per
ottenere risultati concreti nella riduzione delle emissioni e nel contrasto al
riscaldamento globale. Una fragilità che si manifesta con particolare evidenza
nel contesto italiano.
Le cause climatiche in Italia
L’Italia è tra i pochi Paesi europei a non avere una legge quadro sul clima,
strumento che regolerebbe il processo di pianificazione e monitoraggio delle
politiche climatiche: il Parlamento italiano, eletto con elezioni democratiche,
non è ancora riuscito ad approvarla. Questa mancanza genera difficoltà anche
nelle decisioni della magistratura in materia climatica.
A spiegare il contesto italiano è di nuovo l’avvocato Saltalamacchia, che
conosce bene le climate litigations in Italia anche facendo parte del team
legale della prima e più nota causa italiana di questo tipo. Promossa nel 2021
da oltre 200 ricorrenti, l’iniziativa è chiamata Giudizio universale ed è
rivolta contro lo Stato italiano, accusato di non attuare politiche efficaci per
la riduzione delle emissioni. Secondo i promotori, questa inazione viola
numerosi diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. A marzo 2024 è
arrivata la sentenza di primo grado: il tribunale civile di Roma, pur
riconoscendo la gravità della crisi climatica, ha dichiarato la causa
inammissibile per “difetto assoluto di giurisdizione”. I giudici hanno sostenuto
che la definizione delle politiche climatiche spetta alla sfera politica, non a
quella giudiziaria, e hanno richiamato il principio di separazione dei poteri.
Tuttavia, come sottolinea Saltalamacchia, “la sentenza della CEDU emessa il 9
aprile 2024 nel caso KlimaSeniorinnen v. Switzerland ha stabilito che il
principio di separazione dei poteri non può essere invocato per impedire ai
giudici di pronunciarsi su una causa climatica”. Il team di Giudizio universale
ha fatto valere questa pronuncia nel ricorso in appello. La nuova sentenza è
attesa nei primi mesi del 2027.
> I casi italiani dimostrano che la mobilitazione per il clima attraverso lo
> strumento del contenzioso giudiziario, da sola, non è sufficiente. Per
> superarne i limiti, l’attivismo legale deve trasformarsi in capitale politico.
Un altro contenzioso climatico italiano affronta difficoltà simili. Si tratta
del caso La giusta causa, avviato nel 2023 da Greenpeace, ReCommon e dodici
cittadini contro la compagnia petrolifera ENI. L’accusa è di aver contribuito in
modo sostanziale al cambiamento climatico, investendo nel settore fossile pur
conoscendone gli impatti ambientali già dagli anni Settanta. Il procedimento è
stato sospeso dal tribunale di Roma ed è ora all’esame della Corte di
cassazione, che dovrà stabilire se il tribunale abbia giurisdizione sulla causa.
I casi italiani, come anche altri a livello internazionale, dimostrano che la
mobilitazione per il clima attraverso lo strumento del contenzioso giudiziario,
da sola, non è sufficiente. Per superare i limiti che ne riducono l’efficacia,
l’attivismo legale – come ogni altra forma di attivismo – deve trasformarsi in
capitale politico. Nelle democrazie, il mezzo a disposizione di ogni cittadina e
cittadino per compiere questo passaggio è il voto. Eleggere parlamenti e governi
capaci di approvare leggi a tutela del clima, adottare misure concrete contro il
riscaldamento globale e porre fine agli incentivi alle fonti fossili è il primo
passo per rendere incisiva anche l’azione nei tribunali. Solo così si può
provare a scardinare uno dei pilastri dell’impunità climatica: l’idea che gli
effetti della crisi siano troppo diffusi, indiretti o lontani nel tempo e nello
spazio per poter essere attribuiti a un singolo soggetto. In questo modo,
collegare la fusione di un ghiacciaio sulle Ande alle emissioni di una
multinazionale in Germania – come nel caso Lliuya – potrebbe non sembrare più
un’idea così folle.
L'articolo Salvare il mondo in tribunale proviene da Il Tascabile.