I sostenitori di Josè Antonio Kast festeggiano per le strade di Santiago la
vittoria elettorale del candidato sul suo rivale di sinistra al ballottaggio.
Con quasi tutte le schede scrutinate l’ultraconservatore ha ottenuto circa il
58% dei voti e ha mantenuto un vantaggio inattaccabile su Jeannette Jara, a capo
di un’ampia coalizione di sinistra ed è il nuovo presidente eletto del Cile.
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presidente in festa a Santiago proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Arriva alla Moneda al terzo tentativo, a 59 anni, e con il 58% delle preferenze
nel ballottaggio. L’ultraconservatore José Antonio Kast, grazie al compattamento
dei partiti di destra, è il nuovo presidente eletto del Cile: affine
ideologicamente al leader argentino Javier Milei e a Giorgia Meloni –
specialmente sui temi di immigrazione e sicurezza -, è il primo presidente
democratico che votò a favore di Pinochet nello storico plebiscito del 1988 che
impedì al dittatore cileno di perpetuarsi al potere. Kast ha prevalso sulla
comunista Jeannette Jara, che ha riconosciuto la sconfitta quando il Servizio
Elettorale ha pubblicato i risultati con l’85% delle schede scrutinate, che la
davano ferma al 42%. “La democrazia si è espressa in modo forte è chiaro. Ho
appena parlato con il presidente eletto José Antonio Kast per augurargli il
successo per il bene del Cile”, ha scritto Jara su X, diradando i pochi dubbi
che ormai pendevano sul risultato. Al termine di una lunga campagna elettorale
centrata sui temi della sicurezza e della migrazione si è concretizzata in
questo modo una drastica svolta a destra che porta il Cile in uno scenario
inedito dal ritorno della democrazia nel 1990.
Gli elettori cileni, preoccupati dalla crescente presenza delle gang venezuelane
e dal progressivo incremento del tasso di omicidi, hanno ampiamente premiato la
sua ricetta di pugno di ferro contro la delinquenza e l’immigrazione
clandestina. Nell’ultimo dibattito televisivo il leader repubblicano aveva
promesso la chiusura delle frontiere e aveva dato 92 giorni di tempo ai
residenti illegali per lasciare il Paese, esattamente il tempo che intercorre
tra il ballottaggio e l’insediamento alla presidenza, l’11 marzo. Le sue parole
avevano immediatamente scatenato una crisi al confine settentrionale con il
Perù, dove si erano riversati centinaia di migranti, principalmente venezuelani,
in cerca di rifugio nel Paese vicino.
La ‘psicosi’ sicurezza – il Cile figura ancora tra i Paesi più sicuri di tutta
l’America Latina – aveva avuto un impatto anche sulla campagna della candidata
della sinistra. Per cercare di rimontare il distacco nei sondaggi Jara era stata
costretta nelle ultime settimane ad indurire il suo discorso sulla lotta alla
criminalità lasciando parzialmente in disparte le promesse sull’accelerazione
della crescita economica e sulla riduzione della diseguaglianza. Dopo aver
emesso il suo voto, Kast aveva assicurato ad ogni modo domenica che in caso di
vittoria sarebbe stato “il presidente di tutti i cileni al di là delle
differenze politiche” mentre Jara, in un ultimo tentativo di recuperare voti,
aveva preso le distanze dal presidente uscente e suo alleato, Gabriel Boric.
“Posso rispondere solo per il mio operato come ministra del Lavoro“, aveva detto
in un punto stampa a chi gli chiedeva di fare un bilancio dell’attuale governo.
“Posso parlare della riforma della previdenza sociale, della riduzione della
giornata lavorativa a 40 ore settimanali, della ripresa dell’occupazione con
580mila posti di lavoro e dell’aumento del salario minimo”, aveva detto. A soli
sei anni dalle proteste sociali del 2019 che proiettarono Boric alla presidenza
e a trentacinque dalla fine della dittatura, il Cile vede tornare adesso alla
presidenza uno dei più convinti difensori del governo militare.
I rapporti con Milei e Meloni – Tra i leader con cui Kast aveva parlato dopo il
primo turno a metà novembre, ci sono in testa Milei e Meloni. Col leader
argentino, il neo presidente cileno ha dichiarato di condividere “le enormi
opportunità che ha l’America Latina e la relazione tra i due Paesi verso un
futuro con più libertà, sicurezza e progresso economico”, prefigurando già una
relazione più distesa con Buenos Aires rispetto a quella mantenuta dal suo
predecessore Gabriel Boric. I rapporti con la Casa Rosada sono infatti segnati
da tensioni, alimentate soprattutto dagli attacchi provenienti
dall’amministrazione Milei. Pur distante dallo stile provocatorio del presidente
argentino, Kast ne ha più volte lodato l’azione di governo, affermando che Milei
è “un’ispirazione e un modello da seguire per far uscire il Cile dalla
stagnazione”. Sempre dopo il primo turno di novembre, Kast ha riferito di avere
parlato anche con Meloni, sottolineando l’opportunità di “eccellenti relazioni
bilaterali”.
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primo presidente che votò a favore di Pinochet nel 1988 proviene da Il Fatto
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Chiuse le urne in Cile e in Ecuador, ma la partita è aperta: la destra non
sfonda, al momento, e il vento di Donald Trump si ferma a Quito. Ma andiamo con
ordine: la sinistra cilena, guidata dalla comunista Jeannette Jara, ottiene il
26% dei voti e promette di rafforzare le istituzioni, però scende a patti con il
discorso securitario per resistere all’avanzata dell’ultraliberista José Antonio
Kast, fermo al 24%, e delle destre in generale, che si prendono il Congresso (90
seggi a 64), in attesa del ballottaggio.
Nelle stesse ore l’Ecuador infligge un duro colpo al presidente Daniel Noboa, là
dove oltre il 60% degli elettori ha “no” al ritorno delle basi militari Usa nel
Paese e all’apertura di una Costituente e il 53% si è detto contrario alla
diminuzione dei parlamentari. Ancora una volta la realtà smentisce previsioni,
bookmakers e sondaggi, là dove le stime Polymarket davano a Kast una probabilità
di vittoria del 73%, ora in parte ridimensionata, e i sondaggi anticipavano un
“Sì” del 60% alle basi militari Usa in Ecuador e alla Costituente di Noboa.
Il contesto. In Cile e in Ecuador il dibattito elettorale era stato
monopolizzato dalla crescente crisi di sicurezza, provocata dall’avvento della
criminalità transnazionale e dalla questione migratoria, che ha senz’altro
rafforzati sentimenti di paura e xenofobia nell’elettorato generale. E in
entrambi i casi gli Stati Uniti si sono posti come partner militare per arginare
i delinquenti e punto di riferimento ideologico in chiave anti-migratoria,
complice lo spauracchio della gang venezuelana “Tren de Aragua“, che ha spesso
lasciato la firma a Santiago del Cile e a Quito.
Gli Usa in campagna elettorale. Le ingerenze di Washington non sono mancate, con
il segretario del Tesoro Usa Scott Bessent che ha commentato gli appuntamenti
elettorali come “un’opportunità storica per creare alleanze in America Latina”
sulla falsariga delle mid-term argentine e del trionfo di Rodrigo Paz in
Bolivia, auspicando gli stessi risultati in Cile. A sua volta il sottosegretario
di Stato Christopher Landau ha sostenuto che, sotto il governo di Gabriel Boric,
le relazioni tra Washington e Santiago del Cile non sono state “solide”,
accusando il presidente uscente di “mentire” per le sue critiche a Trump.
A sua volta, poche ore prima del referendum in Ecuador il segretario di Stato
Marco Rubio non ha esitato a esprimere il suo sostegno a Noboa, elogiando la sua
lotta contro il “narcoterrorismo” e assicurando il sostegno della Casa Bianca.
Rubio ha visitato il Paese a inizio settembre, rafforzando la cooperazione
Washington-Quito, mentre il controverso imprenditore Erik Prince riscuote 30mila
dollari al giorno per le sue consulenze agli organi di Pubblica sicurezza. “È
uno spreco innecessario di risorse pubbliche”, aveva avvertito l’ex generale
ecuadoregno Luis Altamirano. Ma l’apice dell’espansionismo Usa si è verificato
una settimana fa con la visita di Kristi Noem, segretario per la Sicurezza
nazionale, che ha effettuato un sopralluogo a cavallo nelle vecchie basi
militari di Manta e Salinas. “Da qui l’Ecuador porrà fine al narcotraffico”,
aveva tuonato Noem, pochi giorni prima del referendum.
Freno a mano. La presa di Santiago e Quito è quindi rimandata con gli Stati
Uniti costretti a ridimensionare l’obiettivo, puntando al massimo sulla vittoria
di Kast in Cile, in ottica di un governo ideologicamente affine. Certamente, gli
elettori vorrebbero più sicurezza, ma si guardano bene dalla svendita dei
rispettivi Stati. La loro diffidenza si deve in parte a quanto accade nei
Caraibi, al largo del Venezuela, con l’operazione Southern Spear pronta
all’avvio con tanto di offerte di esilio a Nicolás Maduro e ipotesi di
intervento. “Più si forza la mano più si risvegliano sentimenti antiamericani
nella regione. E l’opinione pubblica preferisce stare alla larga da certe
dinamiche, che mettono a rischio il continente”, dice una fonte al
fattoquotidiano.it. Altro fattore incisivo riguarda l’impatto della Cina su
entrambi i Paesi: l’Ecuador deve a Pechino quasi 5 miliardi di dollari, che
Quito sta pagando in greggio. Xi Jinping è anche il primo socio commerciale del
Cile, con uno scambio bilaterale che ha recentemente superato i 50 miliardi di
dollari, soprattutto in materie prime come rame e litio. In termini reali, al di
là di quello che sarà risultato del ballottaggio in Cile, il pieno allineamento
con Washington resta un’illusione assai lontana.
Questioni aperte. Tuttavia i nodi sicurezza e migrazione restano aperti in
entrambi i Paesi. In Ecuador il tasso di omicidi è passato da 25,6 a 43,7 ogni
100mila abitanti negli ultimi due anni, i sequestri di persona sono aumentati
del 60% nello stesso periodo. Elementi che hanno rafforzato la percezione di una
“guerra interna“, spingendo il governo Noboa a “un presidenzialismo esacerbato”,
afferma Hernán Salgado Pesantes, ex magistrato della Corte interamericana per i
Diritti umani. Anche in Cile aumenta il tasso di omicidi del 5% negli ultimi due
anni e il focus del dibattito resta sulle migrazioni, poiché la popolazione
migrante ha raggiunto l’8,8% della popolazione, rafforzando la proposta di
“espulsioni di massa” lanciata da Kast.
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l’Ecuador dice “no” alle basi militari di Washington proviene da Il Fatto
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