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Anche senza Assad, il 90% dei siriani vive in povertà. La speranza è sempre più fragile
È trascorso un anno da quando la caduta del regime di Bashar Al Assad ha riportato la Siria al centro dell’attenzione mondiale, riaccendendo una speranza di cambiamento in milioni di siriani. L’attesa però fino ad oggi è stata delusa. Da oltre 10 anni il Paese è infatti alle prese con una gravissima crisi umanitaria e la realtà quotidiana per molti purtroppo oggi non è cambiata rispetto a prima. Tra nuovi focolai di guerra e l’impatto del cambiamento climatico In effetti, l’ultimo anno non è stato diverso dai precedenti. In diverse parti del Paese si è assistito a una recrudescenza del conflitto sommato all’impatto del cambiamento climatico, che ha portato una tremenda siccità e enormi incendi. Un mix letale, che ha causato un gran numero di vittime e devastato terreni e raccolti, riducendo i mezzi di sussistenza. “Siamo contadini senza più terra “, ha raccontato ad Oxfam, Marwa, una piccola agricoltrice che lo scorso giugno ha perso in uno dei tanti incendi il piccolo appezzamento di terreno su cui aveva fatto affidamento per 30 anni. Il risultato di questa situazione – di cui Oxfam è testimone nel proprio lavoro quotidiano a fianco delle comunità più vulnerabili – è che ancora oggi il 90% della popolazione vive in povertà e il 60% dipende dagli aiuti umanitari per sopravvivere. Come prima, tantissime donne sono costrette a svolgere anche 2 o 3 lavori per sfamare la propria famiglia e i tanti bambini che avevano lasciato la scuola per guadagnare qualcosa, non sono ancora tornati in classe. Le comunità che durante il conflitto dovevano fare i conti con la mancanza di elettricità sono ancora al buio. In molte aree del Paese la ricostruzione è ferma ad 1 anno fa. Un dramma che colpisce soprattutto le tante famiglie che si stanno riunendo dopo anni di separazione e di esilio, che dopo la gioia di ritrovarsi devono affrontare la cruda realtà di un Paese distrutto. C’è chi ha ritrovato la propria casa ridotta in macerie, chi tornando ha scoperto che semplicemente la comunità dove aveva sempre vissuto non esiste più. “Vivevamo in una tenda e ci viviamo ancora”, aggiunge Mohammed, che tornato ad Idlib ha trovato la sua abitazione rasa al suolo, dopo aver trascorso anni in un campo profughi nel nord del Paese. Tra speranza e lotta per la sopravvivenza Nella Siria di oggi convivono di fatto due realtà. Una che si regge su una fragile speranza di cambiamento, dovuta anche a maggiori spazi di libertà di espressione e dialogo; l’altra che ancora deve fare i conti con la continua lotta per andare avanti. Milioni di persone sognano infatti solo di poter tornare ad una parvenza di normalità, in cui i propri diritti siano tutelati e difesi. Un domani in cui possano permettersi un lavoro che gli consenta di garantire ai propri figli cibo e acqua pulita a sufficienza, un tetto sicuro sopra la testa. Il presente e il futuro della Siria non potranno però certo cambiare dall’oggi al domani, senza una reale volontà politica di generare un cambiamento strutturale, investire nei servizi essenziali, creare maggiori opportunità. Un processo che non può prescindere dal sostegno della comunità internazionale – non solo per far fronte ai bisogni umanitari più urgenti – ma per costruire lo sviluppo del Paese nel medio e lungo periodo. Un percorso che, allo stesso tempo, dovrà essere guidato e portato avanti dall’attuale Governo di transizione, che sarà chiamato dal popolo siriano a rendere conto non solo di quanto accaduto, ma di ciò che accadrà in futuro. L'articolo Anche senza Assad, il 90% dei siriani vive in povertà. La speranza è sempre più fragile proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Siria, un anno dopo la caduta di Assad: Al Sharaa deve evitare che il Paese venga divorato dalle lotte confessionali
La Siria continua ad esistere, anche dopo la caduta del regime guidato da Bashar al Assad. Era la mattina di un anno fa, l’8 dicembre 2024, quando dai minareti di Damasco, al posto del richiamo alla preghiera dell’alba,era risuonato l’annuncio “il dittatore Bashar al Assad è caduto”. Ahmad al Sharaa, a capo di Hayth tahrir al Sham, l’ultima evoluzione dell’al Qaeda siriana, aveva messo gli scarponi sul suolo della capitale. Le immagini del capo dell’organizzazione islamica che guidava il fronte della ribellione contro la dittatura della famiglia al Assad, al potere ininterrottamente da 54 anni, avevano fatto il giro degli schermi delle tv panarabe. Al Sharaa, allora conosciuto con il suo nome di battaglia Abu Mohammad al Jolani, si genufletteva baciando la terra. La Siria che per mezzo secolo aveva governato le vite della popolazione era scomparsa, improvvisamente. In meno di due settimane, dalla roccaforte nella regione di Idlib, l’avanzata dei ribelli era stata inarrestabile e l’esercito fedele al regime si era sgretolato. Tutto il sistema di sicurezza, come i reparti dei famigerati servizi segreti, era scomparso. “La Siria sarà come l’Afghanistan, ora che un fondamentalista ha preso il comando” si erano affrettati a commentare diversi analisti. Ma a distanza di un anno possiamo tracciare un bilancio. Ahmad al Sharaa, auto proclamato presidente della nuova Siria, è riuscito ad accreditarsi sul piano internazionale. A settembre il presidente siriano si è recato a New York e ha parlato al Palazzo di Vetro, segnando un nuovo record: è il primo capo di stato del paese mediorientale a tenere un discorso durante un’Assemblea generale dell’Onu dal 1967. Ma la catena di successi non si ferma qui. Smessi i panni del fondamentalista, accorciata la barba e cambiato i vestiti da guerrigliero, ha indossato un abito in giacca e cravatta convincendo Donald Trump di essere il suo nuovo alleato nella regione. “It is a tough guy – è un tipo duro – but is good”, ha detto il tycoon. Questa liaison ha spinto gli Stati Uniti a rimuovere le sanzioni economiche contro la Siria in vigore da oltre un decennio per fiaccare il regime di Assad. In aggiunta, anche le restrizioni verso gli uomini della cerchia di Al Sharaa, accusati dagli Usa di terrorismo, sono state rimosse. “Vogliamo costruire un paese per tutte le confessioni, una Siria dei siriani” ha sempre rassicurato al Sharaa, nonostante, nel marzo scorso, oltre 1000 civili – alawiti, appartenenti alla confessione di Assad , oggi rifugiato in Russia – sono stati uccisi da forze paramilitari e dell’esercito regolare. Su questi fatti, per proteggersi dalle critiche, il nuovo governo ha creato un comitato per indagare sulle violenze verificatesi nel marzo 2024 sulla costa siriana. Ancora si aspetta un verdetto univoco. Ma la questione del confessionalismo, della necessità di ricostruire un tessuto sociale, ed evitare che il paese si sfaldi in tanti cantoni indipendenti basati sull’appartenenza religiosa, è il tema principale sul tavolo della nuova Siria. Nel sud, a Suwayda, regione a maggiornaza drusa e confinante con Israele, parte della comunità drusa chiede maggiore autonomia da Damasco, accusata di reprimere le minoranze. Sullo sfondo il governo di Netanyahu che da mesi ha occupato parte del territorio demilitarizzato nella regione di Quneitra e che ha dichiarato di sostenere le aspirazioni druse, così da espandere la sua influenza in Siria. A est, continua a rimanere aperto lo scenario irrisolto dell’autonomia dei curdi, guidati dall’YPG, il braccio siriano del PKK. Durante gli anni della guerra civile, l’YPG ha goduto del supporto degli Usa nella lotta contro l’Isis e di un numero di foreign fighter, anche italiani, andati in Siria a combattere nelle fila del partito curdo. Ma a pesare sulle spalle dei siriani, oltre all’incertezza politica, c’è la questione economica. L’inflazione galoppante e gli strascichi di una guerra che ha lasciato un paese distrutto fanno si che circa il 90% dei siriani viva sotto la soglia di povertà. Il governo sta rispondendo con iniziative di raccolta fondi attraverso festival e eventi in cui i privati sono chiamati a donare. Circa un miliardo di dollari è già stato raccolto fra i siriani, ma le stime dicono che 400 sono i miliardi necessari per la ricostruzione. Ad ostacolare il processo c’è anche un sistema burocratico vecchio, ancora attaccato al clientelismo del passato, che ha bisogno di essere modernizzato. Ma il paese c’è. Come c’è la possibilità di tornare. Questo anno migliaia di persone, in esilio da decenni, hanno riabbracciato i loro famigliari. Altri, rinchiusi in carcere da altrettanto tempo, hanno rivisto la luce. Come Ragheed al Tatari, pilota dell’aviazione siriana, arrestato e rinchiuso in una cella per 43 anni. Le prigioni, un tempo luoghi oscuri e solo narrati dai sopravvisuti, sono state aperte. A Damasco, è stato perfino creato un museo interattivo che racconta la realtà dei lager siriani. Migliaia mancano all’appello, scomparsi nelle maglie di un sistema carcerario fra i più temuti al mondo. Ma il paese affronta una transizione che sarà lunga, in cui c’è una sola possibilità: una Siria per tutti, o per nessuno. L'articolo Siria, un anno dopo la caduta di Assad: Al Sharaa deve evitare che il Paese venga divorato dalle lotte confessionali proviene da Il Fatto Quotidiano.
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