A trocemente comico e felicemente tragico: sembra muoversi all’interno di questi
confini l’ultimo romanzo di Michele Mari, I convitati di pietra (2025). Il
racconto di un patto e di un gruppo di compagni di liceo. Un accordo feroce che
gioca sul futuro e sulla morte di ognuno di loro, una vittoria destinata solo
agli ultimi che resteranno in vita, dei sopravvissuti. Sotto la tessitura di una
scrittura a tratti volutamente piana e potentemente perfida, Michele Mari offre
ai suoi lettori una densissima stratificazione di elementi che in questo breve
romanzo vanno anche oltre l’ambito del letterario offrendo un disegno e un’idea
del mondo per come è, e per come sarà, tanto efficace quanto inquietante.
I convitati di pietra sembra dialogare direttamente con quello che è l’esordio
di Mari nel 1989, Di bestia in bestia, ma in una forma ancora (se possibile) più
estrema e formalmente rarefatta. Il mistero orrorifico non si dichiara mai se
non nella forma iniziale di uno scherzo, di un gioco che solo successivamente,
pagina dopo pagina, rivela pienamente la propria forza mefistofelica. Il gioco
infatti contiene sempre un inganno, una perforazione tragica che da banale
dubbio/prurito si trasforma in un dolore assurdo e innominabile. Quello che
nasce come un accordo fra vecchi compagni di classe, un gioco di società, ecco
che assume i toni e forse la volontà inconscia di divenire un’indagine su sé
stessi, ma anche sulla presenza del male nella vita di ognuno. Un male che si
palesa nelle più indistinte forme, dal sacrificio alla truffa, dall’azzardo alla
violenza fisica, e sempre apparentemente in forme prive di ogni ragione o
motivazione:
> nulla legava le loro vite al di là del fatto casuale e ormai superatissimo di
> aver fatto parte della stessa classe per un pugno di anni scolastici: certo,
> c’era la riffa della morte, che però, una volta impostata, poteva prescindere
> dallo stanco rituale dei simposi, anzi lo doveva, se non altro per una
> questione di eleganza.
Già perché la tragedia non può avere spazio e sbocco se non è preceduta e
sostenuta da un rito sociale fortemente costituito, in questo caso
dichiaratamente borghese, che ne certifichi l’eccezionalità e al tempo stesso
sollevi il consesso e i suoi astanti da ogni insinuazione di difformità sociale.
L’ambito scolastico non è altro che la culla di quella classe dirigente
mostruosa e sterminatrice, e al tempo stesso discreta, che Luis Buñuel ha così
ben definito e a cui in parte Michele Mari sembra ispirarsi, portando però nei
nomi (e soprattutto nei cognomi) dei suoi protagonisti una traccia padana la cui
origine è giocosamente letteraria, e restituendo ai lettori una presenza
intestinale da tinello gaddiano così come da sofà arbasiniano: “in un salone
tappezzato di arazzi e di specchi oltre che di quadri, Rivadeneyra era seduto su
un divano rivestito di raso giallo brodé; su due grandi poltrone di forno e alti
sedevano la Bathory e Semprini”.
> Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno
> scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela
> pienamente la propria forza mefistofelica.
Se ne intravedono le grandi stanze degli appartamenti in centro, ma anche le
finestre piccole dei palazzi d’inizio Novecento, le tradizioni cattoliche e i
rimpianti fascisti, la vacuità da rivoluzionari distratti e la polvere di
velluti consunti e di stoffe fuori moda. Dunque un po’ Il fascino discreto della
borghesia e un po’ Venga a prendere il caffè… da noi: “Questo, in ordine
alfabetico, il quadro risultante: Bathory: mastectomia. Brancigalievore:
diabete; prostatite. Brodo: Parkinson. Coppo: epilessia. De Cruce: artrite
reumatoide; isterectomia. Gaudillo: disfunzione epatica; flebite; safenectomia.
Mascolo: gastrointerite cronica; asportazione di un linfonodo. Mercandalli: due
stent coronarici e un by-pass. Migliavacca: ovaio politeistico; acufene…”.
Michele Mari immerge i suoi personaggi ultracontemporanei eppure già millenari,
in una vicenda che li vede protagonisti fino al 2050. Classe dirigente in
disarmo, ma soprattutto classe sopravvissuta a un tempo mai compreso per
davvero, così come lo stesso gioco, una tragica riffa che sembra avvilupparsi
anno dopo anno come un fenomeno autonomo dentro cui è impossibile cogliere una
singola ‒ così come una collettiva ‒ responsabilità. Tutto si muove all’interno
di un andazzo casuale, con i protagonisti che si vivono sempre colti di
sorpresa, sempre in ritardo, sempre stupiti. Un precipitare indefesso degli
eventi che sembra in qualche modo giustificare lo scomposto atteggiamento di
questa classe di sconvolti perenni sempre ostinatamente avulsi dal proprio
tempo.
E proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una
dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo
ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di
loro. I convitati di pietra assume il tono così anche di una critica esatta e
puntuale a una società che nemmeno più sembra in grado di mettere in scena uno
spettacolo, un circo Barnum fatto di fenomeni da baraccone in strenuo tentativo
di mascheramento. Ognuno ricerca una dignità e insegue un’identità che possano
essere riconosciute e validate, accettate e ritenute autorevoli e distinte.
Mascheramenti ancor più alienanti della stessa “mostrizzazione” in atto. Un
vezzo e un trucco finale che apre inevitabilmente la porta all’orrore e a una
violenza che, anche quando non appare conclamata, attraversa le persone, le loro
coscienze e i loro corpi, fino a far tremare il sangue nelle vene. Un’estesa
provincia urbana priva di discontinuità dentro alla quale ogni relazione
sottende una violenza più o meno apparente, un gioco tragico la cui uscita vede
solo la possibilità della morte.
> Proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una
> dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo
> ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di
> loro.
Il mondo non si distingue da una scuola, con le sue regole e le sue campanelle a
conclusione di ogni ora, così come i suoi giovani studenti non sembrano esaurire
la loro carica di ambizione e presunzione, ma solo adagiarsi in corpi sempre più
invecchiati, flosci e indeboliti. Il microcosmo, la quotidianità, il minimo
esistere è ormai totalmente aderente al cosmo intero, alla mondanità e
all’eccezionalità. Tutto appare naturale, ma in realtà quel tutto nasconde e
ottunde ‒ non riuscendo più a opporsi ‒ proprio quell’essere naturale che
diviene nella sua ferocia sempre più estraneo a una vitalità di maniera e a una
posa e a un’ipocrisia ritenuta quale l’ultima spiaggia di una civiltà più che
possibile, quanto meno accettabile.
La tragedia, in I convitati di pietra, non ha bisogno infatti di compiersi o di
palesarsi nel divenire della trama romanzesca, ma si mostra da subito
icasticamente, pur restando discosta oltre i tendaggi sfarzosi e boriosi di un
gioco da privilegiati: “salutato inizialmente come una trovata tanto geniale
quanto divertente (oltre che, andava da sé, come prova di un’intelligenza
superiore), era destinato, anno dopo anno, a rivelare la propria disumana
spietatezza”. La condanna appare così subito nella prima pagina, quello che
viene dopo riguarda un gusto obbligato per l’orrore che diviene necessità.
L’ultimo strumento pienamente umano è infatti l’orrore stesso, utile a
restituire una sostanza fisica a un’esistenza immaginaria dentro alla quale si è
creduti intelligenti e furbi, colti e atletici e in cui ci si ritrova sempre e
solo in stato di abbandono. Si resta attoniti e senza fiato nell’attraversamento
di queste centosessanta pagine dentro cui la vita è perenne gioco, ovvero
perenne stato d’angoscia.
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N el 1993 esce Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine,
reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, il saggio di
Francesco Orlando che hanno definito un’opera-mondo. Supportato da un elenco di
esempi letterari, Orlando crea una categorizzazione del valore che hanno gli
oggetti quando diventano letteratura. Realizza un albero con dodici categorie di
ruoli e significati che gli oggetti fisici, nel loro rapporto con il tempo,
hanno all’interno di un testo scritto. Una delle prerogative degli oggetti
studiati da Orlando è che essi abbiano una “corporeità”; l’altra che siano
legati in qualche modo al passato. Tra le dodici categorie esiste quella che il
critico chiama del “memore-affettivo”, che si ha quando l’oggetto contiene un
ricordo “sentito soggettivamente e presentato con compiacenza”.
A livello storico Orlando rileva che il “memore-affettivo” subentra, come
modello, al “monitorio-solenne” e nasce insieme al senso moderno della memoria,
che si sviluppa dall’individualismo preromantico e dall’indebolimento delle
concezioni religiose del passato e dei morti. Gli oggetti in letteratura hanno
l’attributo di “memore-affettivo” quando mantengono una sopravvivenza oltre lo
spazio della memoria stessa e quando la loro elencazione crea – con la
definizione di Orlando – un “pellegrinaggio sentimentale”. Si contrappone al
ricordo a occhi chiusi, che invece cerca di far rivivere il passato senza
guardare qualcosa di specifico, e questo pellegrinaggio poche righe più avanti
viene definito “tesorizzazione di reliquie”: cioè una modalità letteraria di
ricordare il passato tramite l’accumulazione di oggetti e immagini.
> Gli oggetti in letteratura hanno l’attributo di “memore-affettivo” quando
> mantengono una sopravvivenza oltre lo spazio della memoria stessa e quando la
> loro elencazione crea – con la definizione di Orlando – un “pellegrinaggio
> sentimentale”.
Nel libro Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele
Ruol, uscito per TerraRossa nel 2024 e nella cinquina di finalisti allo Strega
2025, ritrovo gli stessi elementi che mi hanno colpito della teoria di Orlando:
il senso del tempo e la percezione dell’affetto a partire da un “assortimento di
merci”. La parola “inventario” nel titolo lega subito il romanzo di Ruol al
saggio del 1993 che Orlando, in epigrafe, dedicava proprio “Alla memoria dei
miei genitori e della loro casa”. Inventario di quel che resta è infatti un
libro sulla memoria di due genitori – che nel libro si chiamano Padre e Madre –
dei figli Maggiore e Minore morti in un incidente.
La casa che fu della loro famiglia unita viene scandagliata nei suoi più piccoli
oggetti e ognuno di essi, dando il titolo ai capitoli, contiene archiviato un
frammento di vita del passato o del presente dei protagonisti. Alla fine il
libro è un vero e proprio elenco, e il romanzo ci fa percepire quella che
Umberto Eco chiama Vertigine della lista in un saggio del 2009. Se la teoria di
Orlando torna in Inventario di quel che resta per la funzione degli oggetti e
del loro legame con il tempo in letteratura, Eco è utile per approfondire la
forma-elenco che Ruol utilizza nel suo romanzo. Proprio Ruol, infatti, dirà in
un podcast di TerraRossa: “Mi appoggio alle immagini, per questo stile e
struttura vanno nella stessa direzione”. La forma-elenco, quindi, non è soltanto
la struttura di Inventario ma anche il tratto più caratteristico dello stile di
Ruol, che fa coincidere l’organizzazione del libro con l’originalità della sua
voce.
Umberto Eco ‒ che come Orlando realizza un elenco di esempi letterari nel saggio
in cui parla di liste e oggetti ‒ parte dallo scudo di Achille, perché la
descrizione che ne fa Omero gli sembra “l’epifania della Forma, del modo in cui
l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un
ordine”. Dare una forma armonica, gerarchica e strutturata all’espressione,
permette – secondo Eco – di concentrare l’attenzione solo su quello che viene
rappresentato: la forma “limita l’universo del ‘detto’”. Sul piano opposto si
trovano le liste: a differenza delle forme limitate che danno confini alla
materia, Eco spiega che l’elenco o la lista espandono la possibilità di
oggettivare qualcosa di potenzialmente infinito. La forma dà uno spazio finito
alla materia, l’elenco invece approssima continuamente la finitezza dell’oggetto
di cui si parla e restituisce un’idea di infinito inesauribile.
> A differenza delle forme limitate che danno confini alla materia, Eco spiega
> che l’elenco o la lista espandono la possibilità di oggettivare qualcosa di
> potenzialmente infinito.
In questo senso il romanzo-inventario di Ruol permette al lettore di percepire
oggettivamente il passato vivo e umano di Padre, Madre, Maggiore e Minore e il
dolore che riconfigura il presente dei due genitori; allo stesso tempo di
sentire che c’è dell’altro di indicibile, impercettibile e sfuggevole alla
narrazione, cioè la forza dei loro sentimenti e la presenza infinita e
incontenibile dell’umano. Non a caso Ruol ha dichiarato di voler esplorare,
attraverso questo libro, le dinamiche umane che investono soprattutto i due
adulti, prima e dopo il dolore capace di rivoluzionare le loro vite. Insistendo
su Omero, Eco si serve dell’esempio del II canto dell’Iliade dove l’elenco dei
generali greci serve a dare l’idea della grandezza immensa dell’esercito:
“apparentemente l’elenco è finito, ma siccome non si può dire quanti uomini ci
siano per ogni duce, il numero a cui si allude è comunque indefinito”. Poi Eco
spiega in quali casi la completezza della Forma è così poco adattabile alla
composizione da dover ricorrere all’elenco:
> Esiste un altro modo di rappresentazione artistica, quando di ciò che si vuole
> rappresentare non si conoscono i confini, quando non si sa quante siano le
> cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito,
> astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una
> definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in
> qualche modo percepibile, se ne elencano le proprietà.
Il caso di Ruol mi pare che sia l’ultimo presentato da Eco: il ricorso alla
lista quando l’argomento di cui si vuole parlare è impalpabile, sfuggente, a
volte incomprensibile come – appunto – la perdita in un incidente di entrambi i
figli adolescenti per due genitori. Se tentare un elenco di qualcosa, anche
parziale, è un modo per rendere oggettivo un infinito, allora ricercare i tratti
del dolore di Padre e Madre in un elenco numerato di cose dei loro luoghi
familiari è un modo per oggettivare l’infinità indicibile del dolore che hanno
vissuto. La prima pagina dell’indice di Inventario di quel che resta appare
proprio così e resta uguale per tutte le altre, dalla cucina all’automobile:
Parte prima
Casa
ingresso
1. cornice in argento, 15×22 cm
2. telefono fisso, marca Sirio, color avorio
3. mensola stile rococò
4. fermaporta in vetro di Murano
5. bomboniera di matrimonio in cristallo
cucina
6. televisore a tubo catodico 14 pollici
7. cesto di vimini
8. tagliacarte
9. raccolta di calamite su frigo
10. pentolino da latte
11. lavastoviglie da incasso
12. cavatappi a leva
13, noci, n. 7
salotto
14. motoscafo in legno Riva Aquarama, modellino 1:10
15. tappeto Yalameh rosso e blu
16. tavolo 8 posti in castagno, primi del ‘900
17. penna stilografica Pelikan MK10
18. Lindor rossi, incarti
Se aprissimo soltanto questa pagina del libro sarebbe veramente difficile
credere che quelle precedenti contengano un romanzo. E invece ogni oggetto
puntualmente registrato come in un vero e proprio inventario – anche con le
specifiche tecniche – contiene dentro di sé una storia di vita della famiglia
protagonista e spostandoci negli angoli della casa, poi dell’automobile,
ricostruiamo tutte le loro esistenze. La stessa incredulità davanti a un libro
fatto di liste si prova davanti all’ultima uscita della casa editrice Quodlibet,
intitolata Guida all’installazione di un futuro me (2025) e scritta da Ugo
Coppari. I primi 14 capitoli del libro si intitolano La vita come quantità e il
protagonista, prima di consegnarci le sue liste di cose quotidiane, si presenta
in questo modo:
> Soprattutto è questa la mia ossessione: fare un elenco di quello che ho, di
> quello che ho fatto, di quello che ho mangiato, di quello che ho prodotto in
> una giornata, in linea con la tendenza generale alla quantificazione di sé
> stessi. […] Magari se uno mi vede camminare pensieroso lungo la strada
> potrebbe credere che sto riflettendo sui massimi sistemi, sul cambiamento
> climatico o cose simili, ma in realtà non faccio altro che elaborare liste che
> mi diano la misura della mia presenza nel mondo.
Gli elenchi di Coppari, proprio come dice Eco, servono al personaggio per darsi
(e poi darci) contezza della sua esistenza del mondo. Limitano e rendono
visibile qualcosa di potenzialmente impercettibile e sconfinato. Se un giorno,
nel futuro, un gemello digitale dovesse essere installato in una nuova persona,
il personaggio del libro di Coppari è sicuro che, per replicare sé stesso,
l’alias dovrà conoscere tutte le sue liste. L’elenco delle cose del
protagonista, alle prese con il tentativo di salvare la sua esistenza
dall’erosione del tempo, diventa un esempio di letteratura lirica, autentica,
proprio perché la forma-elenco di cui parla Eco si riempie di tutto ciò che di
infinito e impercettibile sfugge a un libro scritto per esteso.
> Si ricorre alla lista quando l’argomento di cui si vuole parlare è
> impalpabile, sfuggente, a volte incomprensibile come – appunto – la perdita in
> un incidente di entrambi i figli adolescenti per due genitori.
Tornando a Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, un esempio
dal capitolo 40, “letto singolo con doghe”, ci fa comprendere di cosa si
riempiono le liste di oggetti di Ruol. Nella serata finale dello Strega ha
motivato il suo ricorso alle cose dicendo che, concentrandosi sulla loro
oggettività, voleva non lasciarsi andare a eccessi, sensazionalismi e
spettacolarizzazioni del suo dolore. Una sorta di scudo dalle derive della
narrazione cui è avvezza la letteratura contemporanea, e che proteggendo Ruol ha
permesso agli oggetti di farsi animati, vitali, fantasmatici proprio come le
parole nelle storie. In questo inizio di capitolo conosciamo il nonno, la
nostalgia di Padre per la casa dov’è nato, Maggiore diventare grande e avere
bisogno di un letto più spazioso:
> Quando il nonno paterno era stato ricoverato in una casa di riposo, Padre
> aveva disdetto l’affitto e incaricato una ditta per lo sgombero
> dell’appartamento. Aveva gestito tutto al telefono, raccomandando alla
> residenza di avere un occhio di riguardo per quell’uomo silenzioso, e
> all’impresa di conservare e spedire il suo letto di ragazzo – unico arredo che
> avrebbe tenuto. Era ampio, in legno massiccio, e a parte le doghe che
> scricchiolavano un po’ era ancora in ottime condizioni: sarebbe stato perfetto
> per Maggiore.
Ritroviamo quella filosofia della “cosa-personaggio” di cui più volte ha parlato
Michele Mari a proposito del suo libro Locus desperatus (2024) e che Maria
Giardina ha anche analizzato su Il Tascabile mettendola in dialogo con una “new
wave ‘marie-kondiana’” che ha origine da Il magico potere del riordino. Mentre
nel libro di Mari, però, gli oggetti recuperati contengono il sé di chi li
possiede e permettono al narratore di non allontanarsi dalla propria storia,
come le liste di Coppari, gli oggetti di Ruol invece raccontano la storia di
qualcun altro a chi non la conosce. Per Mari gli oggetti sono una memoria
autoconservativa, che garantisce in un certo senso l’autodeterminazione di chi
li accumula e conserva; Inventario di quel che resta invece racconta ad altri –
i lettori – la storia di qualcuno che, forse, neanche ricorda tutto quello che
il narratore onnisciente ha archiviato nella lista di oggetti.
Ogni cosa è illuminata potremmo dire prendendo in prestito un titolo di Jonathan
Safran Foer che con Inventario di quel che resta ha in comune la ricostruzione
di una storia familiare e il valore di amuleto-raccontastorie delle cose. Lo
studente americano omonimo a Foer intraprende un viaggio in Ucraina alla ricerca
della donna che ha salvato suo nonno, ebreo, dai nazisti durante la Seconda
guerra mondiale. Per ricostruire la storia della sua famiglia si fa aiutare da
Alexander, un ucraino del posto, e suo nonno. Nel libro, in una lettera di Alex
a Jonathan, leggiamo queste righe:
> Caro Jonathan,
> […] Ho imprigionato nella busta gli oggetti che richiedevi, non escludendo le
> cartoline di Lutsk, i registri del censimento dei sei villaggi prima della
> Guerra e le fotografie che tu mi scongiuravi di tenere per cauti propositi.
Qualche pagina più avanti, sempre in una lettera di Alex: “ho imprigionato una
foto della bicicletta in questa busta”. Le buste di cui parla Alex sono ancora
più d’impatto se pensiamo all’omonimo film tratto dal libro di Foer, diretto da
Liev Schreiber nel 2005. Jonathan ha un’intera parete di bustine trasparenti che
racchiudono (in)finiti oggetti contenenti un pezzo della storia di suo nonno e
della sua famiglia. Perché lo fai? – gli chiederà Alex – “ho paura di
dimenticare”, risponde Jonathan. Le cose vanno illuminate, nella loro fisicità,
catalogate, archiviate, inventariate – per tornare a Ruol – perché di esse non
vada persa la storia che contengono, “imprigionata” come ripete Alex nel libro
di Foer.
Una catalogazione, però, può essere di tanti tipi e – riprendendo il titolo di
un capitolo di Eco – “C’è lista e lista”. Dal suo punto di vista semiotico Eco
differenzia la lista pratica (della spesa, di numeri di telefono, di invitati a
una festa) dalla lista “poetica”, cioè che esprime una finalità artistica. Se le
liste pratiche assomigliano quasi a una forma, perché devono corrispondere
rigidamente al contesto che si propongono di servire; le liste poetiche si fanno
“perché non si riesce a enumerare qualcosa che sfugge alle nostre capacità di
controllo e denominazione”. Quella di Ruol, seguendo il ragionamento di Eco,
sarebbe allora un ibrido. È sia una lista pratica, perché è un inventario
strettamente legato alla vera esistenza degli oggetti che popolano la casa dei
protagonisti, sia una lista poetica perché risponde alla mancanza di riferimenti
fattuali con cui poter immaginare la rivoluzione esistenziale del lutto. Da
questo punto di vista l’operazione di Ruol con Inventario rispecchia quella di
Barthes con Frammenti di un discorso amoroso: in quel caso Barthes si chiede
cosa sia l’amore e, per spiegarlo, sceglie di ricostruirne la forma e le
caratteristiche dando le definizioni delle parole che ci si direbbe tra
innamorati. Da una parte una lista finita di situazioni (per Barthes) o di
oggetti (per Ruol), dall’altra l’esplorazione poetica – nel senso di artistica e
psicologica – di quello che è contenuto oltre lo strato fittizio delle parole
(Barthes) e degli oggetti (Ruol). Ecco, infatti, il capitolo 26 “borraccia Gio’
Style Safari 1000”:
> Dimenticata tra le mensole della libreria c’è una borraccia di plastica color
> senape, con la tracolla grigia e il coperchio bianco, che una volta svitato
> diventa un bicchiere. Fino a quando erano andati in vacanza tutti insieme, la
> borraccia li aveva seguiti. I viaggi erano prevedibili nella tempistica e
> nella direzione: primi giorni di gennaio, montagna, e settimane centrali di
> agosto, Puglia, nonno paterno. Viaggiavano sempre di notte, tranne un’estate
> in cui Padre si era fatto convincere dalle proteste congiunte di Madre e figli
> contro la levataccia.
Oltre la borraccia Gio’ Style Safari c’è la storia di un viaggio prima di
quell’incendio nella foresta cui allude il titolo. Oltre la “sedia ergonomica
con rotelle” del capitolo 45 c’è una riflessione sul modo in cui Padre prova a
sviare il dolore attraverso il lavoro. Al di là dell’innaffiatoio – capitolo 52
– il corbezzolo di Madre, fondamentale per il senso filosofico del libro, che
infatti tornerà nel capitolo 99. L’ultimo, corbezzoli.
> Quella di Ruol è sia una lista pratica, perché è un inventario strettamente
> legato alla vera esistenza degli oggetti che popolano la casa dei
> protagonisti, sia una lista poetica perché risponde alla mancanza di
> riferimenti fattuali con cui poter immaginare la rivoluzione esistenziale del
> lutto.
Dalla scelta di Ruol di fermarsi a novantanove oggetti ‒ tanti quanti i voti per
lui alla finale dello Strega ‒ ritorna il concetto di Eco secondo cui la lista è
qualcosa di finito che, però, contiene dentro di sé una tensione perenne
all’infinito e all’impossibilità di contenerlo. La famiglia di Inventario sembra
avere una vita che non finisce più e una storia che continuamente aggiunge
qualcosa al suo svolgimento. È una percezione che, lo dice anche Eco, scaturisce
dall’accumulazione propria delle liste. Accumulare e fermarsi a novantanove
però, senza arrivare alla cifra tonda di cento, dà l’idea di un elenco
incompiuto, imperfetto, che proprio per questo prende vita e si permette di
diventare una storia. L’accumulazione restituisce, quindi, la densità del
concetto, e la scelta della lista è un compromesso con cui dire tutto senza la
pretesa che sia tutto davvero. Perché tutto non si può dire, e allora Ruol si
ferma a 99.
Questo senso di incompleto, di mancata totalità del racconto, è ciò che Eco
riassume con l’indicibilità. In un certo senso sapere di non riuscire a dir
tutto della storia è un modo per rilanciare l’immaginazione del lettore e
lasciare a lui la possibilità di contribuire al racconto – magari attingendo
agli oggetti della propria vita, guardando alla propria esperienza del dolore.
> Di fronte a qualcosa di immensamente grande, o sconosciuto, di cui non si sa
> ancora abbastanza o di cui non si saprà mai, l’autore ci dice di non essere
> capace di dire, e pertanto propone un elenco molto spesso come specimen,
> esempio, accenno, lasciando al lettore immaginare il resto.
Nel caso di una narrazione romanzesca come quella di Inventario di quel che
resta dopo che la foresta brucia di Ruol, accennare e dare un elenco come
esempio è anche, però, un modo per ammettere che quella storia ha una natura
immaginifica – e quindi relativa. L’elenco di oggetti, completo nella sua
incompletezza, è un mezzo con cui svelare le altre infinite possibilità di
storie a partire dalla moltitudine di oggetti alternativi che potevano essere
inclusi nell’elenco. Eco lega il ricorso alle liste al “timore di non poter dire
tutto”: nel caso dei romanzi non solo l’autore teme di non poter dire tutto, ma
forse neanche conosce quel “tutto” della storia immaginata, sapendo che quel
“tutto” non corrisponde mai necessariamente al “reale”. Proprio per questo la
lista è, dalla penna di Ruol, quella che troviamo in Inventario ma potrebbe
essere qualsiasi altra. Questa riflessione quasi ricorda gli esperimenti di
letteratura combinatoria cari, ad esempio, a Queneau o al Calvino di Le città
invisibili o Il castello dei destini incrociati. Una lista è una specie di
combinazione, un tavolo di tarocchi che – se disposti in maniera diversa –
offrono la possibilità di una varietà innumerevole di storie diverse fra loro.
La forma-elenco nel libro di Ruol evidenzia la fantasia combinatoria della
letteratura, capace di scandagliare l’essere umano con la stessa dose di
precisione e imprevedibilità del ragioniere che, nonostante la pazienza con cui
annota gli oggetti nelle stanze, sicuramente ne trascurerà casualmente qualcuno.
> Una lista è una specie di combinazione, un tavolo di tarocchi che – se
> disposti in maniera diversa – offrono la possibilità di una varietà
> innumerevole di storie diverse fra loro.
Se la “copertina di lana rosa” del capitolo 33 fosse verde, che storia
racconterebbe? Se il “dispenser di sapone liquido” fosse una saponetta, e se il
“pallone da football” in cucina fosse invece da pallavolo? La struttura a elenco
di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia permette di avvertire
l’aleatorietà combinatoria della letteratura che è presente in ogni romanzo
d’invenzione, meglio nascosta quando la forma è più scorrevole e meno
inventariale. L’elenco scoperchia il vaso della “letteratura come menzogna”
direbbe Manganelli e in questo gioco che è l’invenzione ogni registrazione
puntuale si fa beffa di sé stessa e rende consapevole il lettore dell’infinita
quantità di storie alternative – ma altrettanto vere – che potrebbe essere
narrate attraverso altri oggetti concreti. Oltre all’infinita densità della
materia della narrazione, in questo caso l’elaborazione di un lutto, la lista di
Michele Ruol cerca di sfuggire alla delimitazione di un altro infinito: quello
delle storie e della fantasia. “Segno che – dice Eco – alla vertigine
dell’elenco si soggiace per molte e svariate ragioni”.
L'articolo Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia: cosa può
raccontare una lista? proviene da Il Tascabile.
C ome spesso accade nei suoi libri, i ricordi per Emanuele Trevi assumono la
forma del sogno e le memorie divengono un corpo vivo da scoprire e riconoscere
pagina dopo pagina. Un corpo pienamente e solidamente letterario che abbandona
rapidamente i confini ristretti dell’autobiografia e del reale per incamminarsi
in uno spazio aperto al tempo stesso intimo e universale. Un luogo in cui reale
e fantastico s’intrecciano senza alcun obbligo reciproco, dando forma a
personaggi assoluti, mai stereotipati o semplificati e che si distaccano però
inevitabilmente dalle figure reali divenendo potentemente personaggi letterari e
quindi più veri del vero, in quanto portatori di segni indistinguibili, ossia
quelli di un tempo finito e chiuso che offre però ancora un aggancio possibile.
Un’universalità riconoscibile utile a liberare dall’angosciosa solitudine
contemporanea.
Emanuele Trevi da sempre fa letteratura partendo dal proprio sé, da
un’elaborazione comune della propria memoria percepita, che diviene così un
campo del possibile totalmente rinnovato e sempre rinnovabile. Uno spazio
letterariamente aperto e un luogo di condivisione e relazione che si muove tra
gli elementi del ricordo. Dall’estate romana con Senza verso. Un’estate a Roma
(2004), a Pier Paolo Pasolini e Laura Betti con Qualcosa di scritto (2012). E
poi Cesare Garboli con Sogni e favole (2018) e infine Pia Pera e Rocco Carbone
con Due vite (2020) solo per citare quelli che sono considerati i suoi libri più
importanti, anche se probabilmente il testo che più contiene ‒ quasi fosse un
manuale ‒ la poetica di Trevi è Viaggi iniziatici (2013-2021), un vero e proprio
compendio dei riti di passaggio dello scrittore contemporaneo, tra scoperte,
ingenuità e grande letteratura.
> Emanuele Trevi da sempre fa letteratura partendo dal proprio sé, da
> un’elaborazione comune della propria memoria percepita, che diviene così un
> campo del possibile totalmente rinnovato e sempre rinnovabile.
Un agire che appare però ancora più potente ed efficace quando Trevi concentra
la propria letteratura partendo da figure non pubbliche, ma strettamente legate
alla sua memoria familiare, dal padre protagonista di La casa del mago (2023) al
suo ultimo lavoro, Mia nonna e il Conte (2025) che riporta in vita tra le sue
pagine la nonna e la figura di un conte da lei amato negli ultimi anni della sua
vita.
Mia nonna e il Conte è un romanzo rapido, poco più di un centinaio di pagine, il
racconto è quello di un autunno della vita lungo e luminoso, gratuito e
splendido. Al centro spicca un giardino, protagonista della casa della nonna,
collocata in un paesino calabrese poco lontano da Capo Palinuro. Il giardino è
un luogo magico e di passaggio, lì Trevi trascorre gran parte delle sue giornate
all’ombra di una nonna che appare millenaria, come una Grande Madre da cui tutto
proviene. Una personalità totale e capace di ammaliare come una figura sacra o
un oracolo. Dal giardino provengono gli odori e una vista sul mare che appare
improvvisa e anch’essa vergata da magia. Come in un trucco perfettamente
riuscito Trevi riporta ai lettori la sensazione di cosa è un giardino,
rendendolo rappresentativo di un modo di vivere, di vedere e di percepire la
realtà estremamente originale e al tempo stresso riconoscibile negli oggetti e
nei luoghi che chiunque porta con sé nella propria personale memoria. Più figlio
che nipote, Trevi ritrae con brevi tratti la figura della nonna dando corpo a
una corte di parenti e compaesani degna di Vitaliano Brancati: “Come tutte le
dee, troneggiava in compagnia di un suo fedelissimo seguito femminile, nel quale
spiccavano due figure praticamente inseparabili da lei: zia Delia e Carmelina”.
> Il giardino è un luogo magico e di passaggio, lì Trevi trascorre gran parte
> delle sue giornate all’ombra di una nonna che appare millenaria, come una
> Grande Madre da cui tutto proviene. Una personalità totale e capace di
> ammaliare come una figura sacra o un oracolo.
La forma è teatrale, un cerimoniale perfettamente scritto nel quale ogni
personaggio ha il suo preciso ruolo in commedia, un’ironia che attraversa tutto
il testo, utile anche a tenere a bada una nostalgia e una malinconia che
alternativamente sembrano salire a galla, senza mai imporsi però con la
pesantezza di una retorica che potrebbe ostacolare la leggerezza necessaria per
quello che è, a tutti gli effetti, un racconto amoroso. Il Conte è una figura
che assume subito i toni di una nobile (evidentemente) leggendaria tenerezza.
Pur ottuagenario il conte, ovviamente monarchico e sensibilissimo alla memoria
dei Borbone, ha i tratti di un ragazzo. Segni sentimentali di una purezza che
subito non può che venire colta dalla nonna, donna regina estremamente sensibile
al portamento e all’eleganza, soprattutto quella interiore di un uomo che
proprio perché d’altri tempi rivela una rara capacità di sostenere una dotta
ingenuità.
Le giornate passano così lentamente fino a quando il giardino diviene il luogo
di un amore tanto esplicito quanto delicato; a coglierlo è Trevi in quella
presenza ‒ che diviene quotidiana ‒ del Conte sotto il segno di una solarità che
rifrange atmosfere proustiane, ma che in parte riporta alla memoria anche Peter
Pan nei Giardini di Kensington di J.M. Barrie, là dove proprio il Conte appare
proprio un Peter Pan ideale. Quello che corrisponde tra i due anziani, la nonna
e il Conte, è infatti un amore pienamente e totalmente giovane, una lezione di
volo non fuori tempo massimo, ma in un tempo nuovo e come tale carico di
ardimento e meraviglia: “a loro non mancava nulla: come solo può accadere a chi
sa essere reciprocamente gratuito, com’è gratuito, mettiamo, un bel pomeriggio
tiepido e lucente d’autunno”.
Settembre è il tempo del loro incontro ed è anche il tempo della formazione di
un autore, Emanuele Trevi che come racconta nel libro, allora quasi ventenne
provava ancora a distanziarsi dagli altri ricercando un peso e una profondità
diversa e solitaria. Un’originalità che fosse densa di un sapere urgente e
necessario, una pretesa che franò però di fronte all’evidenza di una bellezza
naturale e spontanea che gli farà comprendere ‒ anche grazie alla nonna e alla
sua leggiadra corte di amiche e parenti ‒ il valore del tempo perso così come
della chiacchiera priva di peso e valore apparente.
> Quello tra i due anziani, la nonna e il Conte, è un amore pienamente e
> totalmente giovane, una lezione di volo non fuori tempo massimo, ma in un
> tempo nuovo e come tale carico di ardimento e meraviglia.
Uno stare con gli altri là dove gli altri divengono potenzialmente il terreno di
una sincera originalità. È questione di sguardo e di umiltà, di attenzione e
insieme anche di libera distrazione. Un modo di essere dunque che invece di
opprimere alimentando tediosi pensieri solitari, spesso insostenibili e non di
rado assurdamente tragici, libera una percezione fortemente capace di cogliere
il tempo e la sua totale gratuità attraverso tutti i possibili elementi che ne
determinano una complessità altrimenti difficile da cogliere. Il clima che come
spesso accade a settembre raggiunge vette di struggente bellezza, proprio perché
improvvisa e fragile. La luce verso sera tiene duro quando il giorno si sta
chiudendo in una notte che seppur dal sapore ancora estivo, già predice un
futuro lungo inverno. Stare in quella luce, accettare la sua fragilità e la sua
gratuita è darsi una possibilità là dove sembrerebbe impossibile poterla avere.
Ed è quello che fanno la nonna e il Conte: trovarsi in un tempo che già mostra i
segni inevitabili di una fine vicina, ma tenersi in quell’attimo che poi diviene
un rito e una magia dal valore infinito. E questo fa Emanuele Trevi con Mia
nonna e il conte, raccontando di una Grande Madre, di una
divinità femminile primordiale come solo una nonna può essere, dandosi la
possibilità di recuperare tutto quel tempo perso, che perso non è mai stato, e
farne così letteratura restituendo alla memoria di ogni lettore una possibilità
nuova.
L'articolo Mia nonna e il Conte di Emanuele Trevi proviene da Il Tascabile.
È un’esperienza strana: leggere un romanzo ambientato in Sicilia e avere
l’impressione che la Sicilia sia altrove. Non in un altrove immaginario, ma
proprio in un altro libro, uscito quasi in contemporanea. Mi è successo con
L’isola e il tempo, esordio di Claudia Lanteri nella collana Unici di Einaudi,
in libreria da poco più di un anno, e con Mare aperto, reportage narrativo di
Luca Misculin uscito di recente nella collana Maverick della stessa casa
editrice. Entrambi raccontano, a modo loro, l’arcipelago siciliano: il primo è
un romanzo letterario e introspettivo, l’altro un saggio narrativo attraversato
da storie di scienza, politica, migrazioni e mito. A sorprendere non è solo il
confronto tra i generi ‒ già di per sé interessante ‒ ma il fatto che sia Mare
aperto, firmato da un giornalista milanese, a offrire la visione più ampia, più
precisa, a tratti più lirica di un Sud spesso ridotto a cartolina.
Lanteri e Misculin scrivono libri molto diversi, ma si trovano a interrogare lo
stesso spazio: un Mediterraneo ambivalente, pieno di storia e di dolori, di luce
e di fantasmi. Uno spazio che, come la berta maggiore ‒ l’uccello raro che
ancora nidifica a Linosa ‒ si lascia osservare solo a distanza, e solo con
pazienza. Per motivi e con esiti diversi, entrambi i libri ne inseguono il
canto.
La berta maggiore (Calonectris diomedea, secondo i tecnici) è un uccello marino
della famiglia delle Procellariidae. Alto circa 50 centimetri, ha un’apertura
alare che sfiora il metro. Ha piume grigie sulla testa, dorso bruno, ventre e
collo bianchi; becco giallo e zampe rosate. È conosciuto per la sua voce che,
come quella di Nonò, il protagonista della storia di Lanteri (vagamente ispirato
all’Arturo morantiano), può essere facilmente scambiata per quella di un
bambino. Secondo alcuni studiosi potrebbe essere proprio il canto della berta ad
aver ispirato il mito delle sirene. In Italia la berta nidifica soprattutto
sulle isole, anche se alcune piccole colonie si trovano lungo le coste. La
colonia più numerosa d’Europa è a Linosa, dove si stima vivano circa 10.000
coppie. Come le berte, anche il tipo di romanzo scritto da Lanteri (che a Linosa
è ambientato) si presenta come una specie marginale, difficile da avvistare. Per
la sua scrittura complessa, nutrita di sicilianismi rari, e per il lavoro
sperimentale sulla struttura del giallo e sul punto di vista inattendibile, ha
molti tratti di quella che Gianluigi Simonetti ha chiamato, con un misto di
nostalgia e ironia, “la letteratura di una volta”. Lo dimostra bene quel piccolo
capolavoro di virtuosismo che è, verso l’inizio della storia, la descrizione
ironica e macabra del cadavere di Daisy, la moglie dello skipper Bruno Surico:
> La morta non è più abbigliata come prima, come per una gita al mare. Le
> spalle, denudate delle capricciose bretelline, ora sono coperte da una casacca
> di mussola dove sono di piú i bottoni che mancano di quelli presenti
> all’appello. Nell’ombra non si nota neppure la stoffa consumata sotto le
> ascelle né i gomiti bucati. L’orlo della gonna sì, quello è tutto
> sbrindellato. I fili spenzolano a centinaia verso il piano del tavolo, sui
> piedi un poco discosti, ricadono in su, si radunano in piccole pozzanghere. È
> una pupidda imbiancata, odorosa del talco prestato da qualche vicina; ha i
> capelli ordinati, solo qualche peluzzo scappa dalle crocchie che le hanno
> intrecciato, e le dà un’aria allegra, impertinente. Non so dire quanti anni
> ha: da come la linea del collo scivola verso le piccole ossa potrebbe essere
> una ragazzina, scattosa come una stampella, ma la faccia è tonda, di pesca
> matura da mordere. L’abitino modesto glielo ha imprestato per l’ultimo sonno
> mia madre Angelina: non lo metteva piú da quando io, l’ultima infornata, le
> avevo fatto crescere il culo come una mezza patata lessa fa con l’impasto del
> pane, come ripete ogni volta mio padre prima di pizzicarglielo. Dalle ciglia
> lunghe e distese potrebbe arrivare un fremito di minuto in minuto, quasi
> stesse sognando. La fronte pare affollata di pensieri, la bocca è piena, una
> festa di rose e di fiori.
Questo lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di
essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina di
letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista: complice,
anche, dell’idea, di fatto conservatrice, che il Sud possa essere raccontato
solo come un’eccezione, come un’“isola”, appunto, al di fuori della portata
della razionalità (e invece ha ragione Mario Fillioley quando sostiene che la
Sicilia è “un’isola per modo di dire”). Del resto, molte narrazioni
contemporanee, non solo letterarie ma anche audiovisive, scelgono questa strada.
Citare la serie tratta dal Gattopardo sarebbe in questo senso fin troppo facile.
> Il lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di
> essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina
> di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista.
Di questa estetizzazione senza redenzione, dove la bellezza non salva ma vela,
un caso esemplare è anche un prodotto per molti versi di alto livello come la
seconda stagione di The White Lotus, ambientata in un resort di lusso sulla
costa siciliana. Tutto, lì, è pensato per produrre piacere: il mare, i mosaici,
i limoni, i corpi. Ma dietro la cartolina, la serie mostra un Mediterraneo
finto-autentico, addomesticato per lo sguardo del turista globale, che consuma
l’ambiente e le persone come esperienze da collezionare, metonimie per un safari
nel Nulla da sperimentare in infradito. I corpi delle ragazze siciliane
diventano così dispositivi di accesso a un paesaggio assai più ampio: vendono
sesso, ma offrono anche un’idea di “sicilianità” esotica, permeabile, in cui il
godimento mai pieno, mai innocente, è parte del pacchetto. Anche qui la bellezza
è porosa, ma la porosità è un sintomo, non una virtù: è il segno di una
vulnerabilità strutturale, di un Sud che si offre come incanto ma anche come
ostaggio; una superficie desiderabile, sì, ma non raccontabile.
Dal canto suo, L’isola e il tempo riattiva alcuni tratti di una tradizione
letteraria che in Sicilia ha una storia lunga, non meno nobile nella forma e non
meno ambigua nei suoi esiti; né è un caso, quindi, che tra le parole chiave per
comprendere il romanzo ci sia la memoria: “L’invenzione dà forma al disordine”,
scrive Lanteri, “oppure s’impazzisce, ci si perde a inseguire i fili spersi
nella memoria: nel raccomodare la trama, quello che è stato nel passato non è
tanto diverso da quello che non è stato”. La memoria, insieme a ciò che essa
conserva e a ciò che invece non riesce (o non vuole) conservare, è uno dei temi
ricorrenti nella poetica di molti scrittori siciliani. Già Luigi Pirandello
metteva in scena nella pièce Enrico IV un personaggio che preferisce abitare
un’identità fittizia piuttosto che affrontare la realtà dolorosa della propria
vita. L’incapacità di fare i conti col passato e il rischio di restarne
intrappolati è anche uno dei motivi cardine di quel che Leonardo Sciascia ha
definito col termine “sicilitudine” (una parola che, fondendo Sicilia e
solitudine con un tocco di ironia, mira a descrivere una presunta condizione
esistenziale isolana). Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a
corpo col passato si svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma
anche nella forma di un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una
tradizione abbastanza diffusa tra gli autori siciliani (“– Le berte, vedi? / È
così che in lingua italiana lui nomina quelle che noi diciamo le turriàche, e io
lo lascio nella sua ignoranza perché non è bello star sempre lì a correggere
tutti per ogni minima cosa”, dice nelle pagine iniziali il narratore, prendendo
in giro l’italiano pulito del professor Dalmasso).
Negli ultimi decenni sono stati i gialli di Andrea Camilleri a rendere popolare
questo particolare tipo di espressionismo stilistico, sfruttandolo a fini
comici, ma esso esisteva già in opere sperimentali come Il sorriso dell’ignoto
marinaio (1976) di Vincenzo Consolo e Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo
(quest’ultimo è stato da poco ripubblicato da Rizzoli in un’edizione elegante,
con una bella prefazione di Giorgio Vasta). Secondo Margherita Ganeri, l’opera
di Consolo “affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole
tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio,
con la sua sedimentazione e stratificazione”, e questa memoria è anche e
innanzitutto un resoconto di conflitti, incroci e migrazioni dovuti alla
peculiare posizione dell’isola al centro del Mediterraneo (“Questo luogo
d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del
Mediterraneo, fra conflitto e integrazione è il significativo titolo di una
ricca raccolta di saggi curata nel 2021 da Gianni Turchetta). Mentre,
interpretando Horcynus Orca come un’epopea della memoria, Marco Trainito
intitolava una sua monografia del 2004 su D’Arrigo Il mare immane del male.
> Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si
> svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di
> un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione
> abbastanza diffusa tra gli autori siciliani.
La memoria, secondo questa tradizione, può essere anche memoria dei luoghi e dei
popoli, ma non necessariamente, viene da dire, per raccoglierne le tracce
bisogna appiattirsi sulle parole di chi i posti li vive. Racconta Consolo in
un’intervista alla Rai che, presentando a Palermo la prima edizione de Il
sorriso dell’ignoto marinaio, Sciascia parlò del suo romanzo come di un
“parricidio”. Consolo ha infatti ricordato più volte che negli anni della sua
formazione si sentiva indeciso tra due modelli di intellettuale molto diversi,
se non opposti, ma che conosceva entrambi di persona. Uno era proprio Sciascia,
fautore dell’impegno e di una lingua comunicativa e cristallina, discendente
della grande tradizione dell’Illuminismo; l’altro il poeta barocco Lucio
Piccolo, coltissimo bibliomane, appassionato di cultura esoterica, che amava
soprattutto i versi di W.B. Yeats. Secondo Sciascia (che pure non è esente dal
rischio di derive mistiche, specie in alcuni degli ultimi libri), adottando una
lingua espressionista carica di un ricco bagaglio dialettale Consolo aveva
intrapreso una volta per tutte la via della bella pagina e del manierismo.
Del resto, la tensione tra uno stile razionale e comunicativo e uno invece più
stratificato e virtuosistico, tra l’italiano standard e quello influenzato da
tratti regionali, coinvolge gli scrittori del Sud in generale (in realtà
l’affermazione è vera, con intensità variabile, per gli scrittori italiani tout
court). Si tratta di una querelle tutt’altro che chiusa, che continua a offrire
modelli alternativi e vitali. Basti pensare al modo differente con cui
fronteggiano la questione i due più famosi cicli narrativi della letteratura
italiana degli ultimi decenni: il già citato Camilleri, da una parte, e,
dall’altra, L’amica geniale di Elena Ferrante, il cui successo (almeno se ci
fermiamo al campo letterario) si deve senz’altro anche alla scelta di evitare un
impianto linguistico marcato da esotismi, in favore di una vocazione alla
narratività pura. Tra questi due estremi, lo spettro delle possibilità
stilistiche è naturalmente ampio e variegato e, pur compiendo molti prelievi dal
dialetto, il libro di Lanteri non rinuncia affatto a un’impressione complessiva
di chiarezza e fluidità, che lo rende se non altro assai godibile.
> Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più
> porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai agli
> scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria
> invenzione con il liquido di contrasto di altri generi.
E tuttavia, che si possano scrivere pagine importanti su un luogo anche senza
imitare la lingua di chi ci abita (in fondo, un’ovvietà) è testimoniato ancora
una volta dal fatto che uno dei libri più belli sulla Sicilia usciti quest’anno
è stato da scritto da un milanese: Luca Misculin, appunto. In realtà, Mare
aperto parla anche della Sicilia, ma lo fa con così tanta passione documentaria
che non si può non restare ammirati. Del resto, non bisogna nemmeno sorprendersi
troppo. In una tradizione letteraria vitale, narrativa e saggistica non
dovrebbero marcare le distanze, ma cooperare ‒ come due lenti diverse puntate
sullo stesso paesaggio ‒ alla costruzione, magari sfumata e plurale, ma
condivisa, di un’idea di verità; illuminare, anche solo per qualche istante,
invece di aggiungere buio al buio.
Eppure capita che la narrativa più colta, facendo Arcadia di modelli
novecenteschi ormai quasi del tutto svuotati della loro originaria carica
polemica, si attardi in una retorica del mistero, dell’opacità, della noluntas
sciendi, nella quale il trauma, da impasse produttrice, rischia di divenire
alibi per sospendere il desiderio di conoscere. A questo cedimento talvolta
risponde, in controtendenza, una certa saggistica: più libera, forse, dai canoni
e dalle richieste implicite del mercato letterario; più audace nell’osservare,
nel domandare, nel tracciare nessi imprevedibili. Reportage, memoir, inchieste
narrative sanno talvolta essere più ariosi, più porosi, più attenti al mondo di
quanto lo siano in media i romanzi. Guai, insomma, agli scrittori che leggono
solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria invenzione con il liquido
di contrasto di altri generi.
> Mare aperto esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un
> come crocevia di storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e
> tragedia.
Nel panorama affollato della saggistica narrativa italiana, il libro di Misculin
si distingue per l’equilibrio tra la precisione e l’accessibilità. Mare aperto
esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un come crocevia di
storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e tragedia. Misculin,
giornalista del Post già autore di podcast piuttosto seguiti (per esempio sulla
nave Geo Barents e sull’indoeuropeo), guida il lettore tra isole e relitti,
pescatori tunisini e miti antichi, alternando con maestria le fonti accademiche
più disparate (dalla paleontologia alla biologia marina, dalla glottologia alla
storia dei pirati) con le interviste agli abitanti condotte sul posto. È anche
questo un libro a suo modo turistico, con una singolare struttura ad arcipelago.
La penna dell’autore scorre con gusto e brillantezza da una curiosità alla
successiva, ottenendo un effetto che i latini avrebbero chiamato di satura lanx.
Cito, tra i tanti, due esempi diversissimi, ma egualmente rappresentativi di una
ricerca metodica della storia poco raccontata. Il primo, sulla logistica del
calcio di provincia: “In teoria il Lampedusa dovrebbe giocare nel girone A,
quello della provincia di Agrigento: in realtà viene sempre assegnato al girone
B, cioè quello di Palermo, perché ad Agrigento non c’è un aeroporto e le
trasferte sarebbero di fatto impossibili”. Il secondo, sull’harissa, una pasta
di peperoncini tipica delle coste della Tunisia: “In Italia è ormai nota fra i
vegetariani come la ‘nduja-senza-carne, ed esistono chat sotterranee su Telegram
in cui ci si scambia ricette e consigli su dove acquistarla online”. C’è,
insomma, una quota di intrattenimento colto, insieme a una passione genuina per
la ricerca del dettaglio inaspettato, della prospettiva inedita su fatti e
questioni (una su tutte la tragedia dei migranti) che sembrano ormai saturati da
un ingorgo di narrazioni. Mare aperto è però anche un libro etico, che eredita
dallo stile del Post la programmatica, quasi polemica rinuncia all’io, e un’idea
della scrittura come lavoro innanzitutto di servizio, nel senso alto e nobile
del termine, nei confronti di chi vuole capire di più.
C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto.
Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua filosofia,
così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti storici,
squarci di bellezza quasi cinematografica. Eppure, dietro l’apparente levità
della scrittura, il libro ha un sottotesto che si fa via via più cupo. Un
esempio emblematico è il racconto della “deportazione” in Libia di decine di
migliaia di italiani ai tempi del fascismo. Il capitolo si apre con una serie di
testimonianze che sembrano tratte da un documentario sui migranti che arrivano
oggi in Italia. Questo crea uno straniamento che ribalta le nostre percezioni
ossificate:
> “Quando arrivammo al porto c’era tutto un formicolio di persone, chi con la
> valigia, chi con sacchetti stracolmi di indumenti, bimbi che piangevano, molto
> probabilmente avevano dormito poco e male. Certamente molti di noi vedevano il
> mare per la prima volta”, scrisse E. nel suo diario.
> La traversata, aggiunse E., durò diversi giorni, a bordo di un’imbarcazione
> stracarica di persone: “La mamma e I. soffrivano il mal di mare e molto spesso
> erano costretti a rimanere in coperta per non stare male”.
> All’arrivo, raccontò invece N., “ci misero in fila e ad ogni capofamiglia
> diedero una sporta piena di viveri”. Laggiù “c’erano ad aspettarci cento
> camion, me li ricordo bene, pronti a portarci a destinazione. Su ogni camion
> erano stipate due famiglie. […] Siamo stati i primi a partire; ricordo che la
> mamma disse: ‘Vuoi vedere che siamo i primi a partire e saremo gli ultimi ad
> arrivare?’ Infatti così è stato: ricordo i suoi pianti”.
> G., che vide sbarcare questa enorme “colonna” di persone, la descrisse così:
> “donne incinte, bambini lattanti, ragazzi; tutti hanno qualche necessità e a
> tutto occorre pensare e provvedere”.
Misculin costruisce senso anche attraverso una serie di rimandi interni,
impliciti o espliciti, ed è interessante e paradossale che le affermazioni più
rilevanti sul piano politico e ideologico non compaiano nei capitoli, al
contrario molto sobri, dedicati ai temi scottanti dell’attualità. Quando scrive
“[c]i piaccia o no, siamo tutti figli e discendenti di stranieri, genitori di
persone che saranno considerate straniere da qualcun altro, o stranieri noi
stessi, nel posto in cui viviamo”, non sta parlando dei morti in mare o di un
referendum sulla cittadinanza, ma di archeogenetica e dei rapporti tra i sardi e
i cartaginesi. È un espediente narrativo efficace, che dimostra come il libro
non sia solo una raccolta di storie, ma anche un esercizio di sguardo che ci fa
capire che le cose, spesso, si vedono meglio allontanandole, collocandole su uno
sfondo più ampio e articolato.
> C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto.
> Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua
> filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti
> storici, squarci di bellezza quasi cinematografica.
“Fino al 1846 a Linosa c’erano solo le berte”, racconta il ricercatore Giacomo
Dell’Omo in uno dei capitoli più belli. Leggendolo, scopriamo che sull’isola ci
sono più gatti che persone e che questo è un pericolo per la sopravvivenza di
molte specie endemiche, che si sono abituate a prosperare in un ambiente privo
di predatori. Tra queste specie ci sono, appunto, le berte. Per salvarle,
Dell’Omo promuove da tre anni una campagna di sterilizzazione dei gatti
linosani: è solo uno dei tanti episodi, tra quelli citati nel libro, che
dimostrano che la realtà è sempre più complessa delle opposizioni binarie con
cui siamo soliti schematizzarla, e che “stare dalla parte degli animali” è
un’espressione che presa a sé rischia di risultare priva di significato. Le
berte, come i libri belli, sono in pericolo, ma ancora per un po’ possiamo
tirare un sospiro di sollievo.
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