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I convitati di pietra di Michele Mari
A trocemente comico e felicemente tragico: sembra muoversi all’interno di questi confini l’ultimo romanzo di Michele Mari, I convitati di pietra (2025). Il racconto di un patto e di un gruppo di compagni di liceo. Un accordo feroce che gioca sul futuro e sulla morte di ognuno di loro, una vittoria destinata solo agli ultimi che resteranno in vita, dei sopravvissuti. Sotto la tessitura di una scrittura a tratti volutamente piana e potentemente perfida, Michele Mari offre ai suoi lettori una densissima stratificazione di elementi che in questo breve romanzo vanno anche oltre l’ambito del letterario offrendo un disegno e un’idea del mondo per come è, e per come sarà, tanto efficace quanto inquietante. I convitati di pietra sembra dialogare direttamente con quello che è l’esordio di Mari nel 1989, Di bestia in bestia, ma in una forma ancora (se possibile) più estrema e formalmente rarefatta. Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela pienamente la propria forza mefistofelica. Il gioco infatti contiene sempre un inganno, una perforazione tragica che da banale dubbio/prurito si trasforma in un dolore assurdo e innominabile. Quello che nasce come un accordo fra vecchi compagni di classe, un gioco di società, ecco che assume i toni e forse la volontà inconscia di divenire un’indagine su sé stessi, ma anche sulla presenza del male nella vita di ognuno. Un male che si palesa nelle più indistinte forme, dal sacrificio alla truffa, dall’azzardo alla violenza fisica, e sempre apparentemente in forme prive di ogni ragione o motivazione: > nulla legava le loro vite al di là del fatto casuale e ormai superatissimo di > aver fatto parte della stessa classe per un pugno di anni scolastici: certo, > c’era la riffa della morte, che però, una volta impostata, poteva prescindere > dallo stanco rituale dei simposi, anzi lo doveva, se non altro per una > questione di eleganza. Già perché la tragedia non può avere spazio e sbocco se non è preceduta e sostenuta da un rito sociale fortemente costituito, in questo caso dichiaratamente borghese, che ne certifichi l’eccezionalità e al tempo stesso sollevi il consesso e i suoi astanti da ogni insinuazione di difformità sociale. L’ambito scolastico non è altro che la culla di quella classe dirigente mostruosa e sterminatrice, e al tempo stesso discreta, che Luis Buñuel ha così ben definito e a cui in parte Michele Mari sembra ispirarsi, portando però nei nomi (e soprattutto nei cognomi) dei suoi protagonisti una traccia padana la cui origine è giocosamente letteraria, e restituendo ai lettori una presenza intestinale da tinello gaddiano così come da sofà arbasiniano: “in un salone tappezzato di arazzi e di specchi oltre che di quadri, Rivadeneyra era seduto su un divano rivestito di raso giallo brodé; su due grandi poltrone di forno e alti sedevano la Bathory e Semprini”. > Il mistero orrorifico non si dichiara mai se non nella forma iniziale di uno > scherzo, di un gioco che solo successivamente, pagina dopo pagina, rivela > pienamente la propria forza mefistofelica. Se ne intravedono le grandi stanze degli appartamenti in centro, ma anche le finestre piccole dei palazzi d’inizio Novecento, le tradizioni cattoliche e i rimpianti fascisti, la vacuità da rivoluzionari distratti e la polvere di velluti consunti e di stoffe fuori moda. Dunque un po’ Il fascino discreto della borghesia e un po’ Venga a prendere il caffè… da noi: “Questo, in ordine alfabetico, il quadro risultante: Bathory: mastectomia. Brancigalievore: diabete; prostatite. Brodo: Parkinson. Coppo: epilessia. De Cruce: artrite reumatoide; isterectomia. Gaudillo: disfunzione epatica; flebite; safenectomia. Mascolo: gastrointerite cronica; asportazione di un linfonodo. Mercandalli: due stent coronarici e un by-pass. Migliavacca: ovaio politeistico; acufene…”. Michele Mari immerge i suoi personaggi ultracontemporanei eppure già millenari, in una vicenda che li vede protagonisti fino al 2050. Classe dirigente in disarmo, ma soprattutto classe sopravvissuta a un tempo mai compreso per davvero, così come lo stesso gioco, una tragica riffa che sembra avvilupparsi anno dopo anno come un fenomeno autonomo dentro cui è impossibile cogliere una singola ‒ così come una collettiva ‒ responsabilità. Tutto si muove all’interno di un andazzo casuale, con i protagonisti che si vivono sempre colti di sorpresa, sempre in ritardo, sempre stupiti. Un precipitare indefesso degli eventi che sembra in qualche modo giustificare lo scomposto atteggiamento di questa classe di sconvolti perenni sempre ostinatamente avulsi dal proprio tempo. E proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di loro. I convitati di pietra assume il tono così anche di una critica esatta e puntuale a una società che nemmeno più sembra in grado di mettere in scena uno spettacolo, un circo Barnum fatto di fenomeni da baraccone in strenuo tentativo di mascheramento. Ognuno ricerca una dignità e insegue un’identità che possano essere riconosciute e validate, accettate e ritenute autorevoli e distinte. Mascheramenti ancor più alienanti della stessa “mostrizzazione” in atto. Un vezzo e un trucco finale che apre inevitabilmente la porta all’orrore e a una violenza che, anche quando non appare conclamata, attraversa le persone, le loro coscienze e i loro corpi, fino a far tremare il sangue nelle vene. Un’estesa provincia urbana priva di discontinuità dentro alla quale ogni relazione sottende una violenza più o meno apparente, un gioco tragico la cui uscita vede solo la possibilità della morte. > Proprio la riffa e il suo stesso meccanismo sembrano porsi come una > dichiarazione di totale impotenza rispetto agli anni in cui si vive. Un tempo > ormai ridotto a sfondo dei narcisismi e dei personalismi sterili di ognuno di > loro. Il mondo non si distingue da una scuola, con le sue regole e le sue campanelle a conclusione di ogni ora, così come i suoi giovani studenti non sembrano esaurire la loro carica di ambizione e presunzione, ma solo adagiarsi in corpi sempre più invecchiati, flosci e indeboliti. Il microcosmo, la quotidianità, il minimo esistere è ormai totalmente aderente al cosmo intero, alla mondanità e all’eccezionalità. Tutto appare naturale, ma in realtà quel tutto nasconde e ottunde ‒ non riuscendo più a opporsi ‒ proprio quell’essere naturale che diviene nella sua ferocia sempre più estraneo a una vitalità di maniera e a una posa e a un’ipocrisia ritenuta quale l’ultima spiaggia di una civiltà più che possibile, quanto meno accettabile. La tragedia, in I convitati di pietra, non ha bisogno infatti di compiersi o di palesarsi nel divenire della trama romanzesca, ma si mostra da subito icasticamente, pur restando discosta oltre i tendaggi sfarzosi e boriosi di un gioco da privilegiati: “salutato inizialmente come una trovata tanto geniale quanto divertente (oltre che, andava da sé, come prova di un’intelligenza superiore), era destinato, anno dopo anno, a rivelare la propria disumana spietatezza”. La condanna appare così subito nella prima pagina, quello che viene dopo riguarda un gusto obbligato per l’orrore che diviene necessità. L’ultimo strumento pienamente umano è infatti l’orrore stesso, utile a restituire una sostanza fisica a un’esistenza immaginaria dentro alla quale si è creduti intelligenti e furbi, colti e atletici e in cui ci si ritrova sempre e solo in stato di abbandono. Si resta attoniti e senza fiato nell’attraversamento di queste centosessanta pagine dentro cui la vita è perenne gioco, ovvero perenne stato d’angoscia. L'articolo I convitati di pietra di Michele Mari proviene da Il Tascabile.
Recensioni
narrativa italiana
Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia: cosa può raccontare una lista?
N el 1993 esce Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, il saggio di Francesco Orlando che hanno definito un’opera-mondo. Supportato da un elenco di esempi letterari, Orlando crea una categorizzazione del valore che hanno gli oggetti quando diventano letteratura. Realizza un albero con dodici categorie di ruoli e significati che gli oggetti fisici, nel loro rapporto con il tempo, hanno all’interno di un testo scritto. Una delle prerogative degli oggetti studiati da Orlando è che essi abbiano una “corporeità”; l’altra che siano legati in qualche modo al passato. Tra le dodici categorie esiste quella che il critico chiama del “memore-affettivo”, che si ha quando l’oggetto contiene un ricordo “sentito soggettivamente e presentato con compiacenza”. A livello storico Orlando rileva che il “memore-affettivo” subentra, come modello, al “monitorio-solenne” e nasce insieme al senso moderno della memoria, che si sviluppa dall’individualismo preromantico e dall’indebolimento delle concezioni religiose del passato e dei morti. Gli oggetti in letteratura hanno l’attributo di “memore-affettivo” quando mantengono una sopravvivenza oltre lo spazio della memoria stessa e quando la loro elencazione crea – con la definizione di Orlando – un “pellegrinaggio sentimentale”. Si contrappone al ricordo a occhi chiusi, che invece cerca di far rivivere il passato senza guardare qualcosa di specifico, e questo pellegrinaggio poche righe più avanti viene definito “tesorizzazione di reliquie”: cioè una modalità letteraria di ricordare il passato tramite l’accumulazione di oggetti e immagini. > Gli oggetti in letteratura hanno l’attributo di “memore-affettivo” quando > mantengono una sopravvivenza oltre lo spazio della memoria stessa e quando la > loro elencazione crea – con la definizione di Orlando – un “pellegrinaggio > sentimentale”. Nel libro Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol, uscito per TerraRossa nel 2024 e nella cinquina di finalisti allo Strega 2025, ritrovo gli stessi elementi che mi hanno colpito della teoria di Orlando: il senso del tempo e la percezione dell’affetto a partire da un “assortimento di merci”. La parola “inventario” nel titolo lega subito il romanzo di Ruol al saggio del 1993 che Orlando, in epigrafe, dedicava proprio “Alla memoria dei miei genitori e della loro casa”. Inventario di quel che resta è infatti un libro sulla memoria di due genitori – che nel libro si chiamano Padre e Madre – dei figli Maggiore e Minore morti in un incidente. La casa che fu della loro famiglia unita viene scandagliata nei suoi più piccoli oggetti e ognuno di essi, dando il titolo ai capitoli, contiene archiviato un frammento di vita del passato o del presente dei protagonisti. Alla fine il libro è un vero e proprio elenco, e il romanzo ci fa percepire quella che Umberto Eco chiama Vertigine della lista in un saggio del 2009. Se la teoria di Orlando torna in Inventario di quel che resta per la funzione degli oggetti e del loro legame con il tempo in letteratura, Eco è utile per approfondire la forma-elenco che Ruol utilizza nel suo romanzo. Proprio Ruol, infatti, dirà in un podcast di TerraRossa: “Mi appoggio alle immagini, per questo stile e struttura vanno nella stessa direzione”. La forma-elenco, quindi, non è soltanto la struttura di Inventario ma anche il tratto più caratteristico dello stile di Ruol, che fa coincidere l’organizzazione del libro con l’originalità della sua voce. Umberto Eco ‒ che come Orlando realizza un elenco di esempi letterari nel saggio in cui parla di liste e oggetti ‒ parte dallo scudo di Achille, perché la descrizione che ne fa Omero gli sembra “l’epifania della Forma, del modo in cui l’arte riesce a costruire rappresentazioni armoniche in cui viene istituito un ordine”. Dare una forma armonica, gerarchica e strutturata all’espressione, permette – secondo Eco – di concentrare l’attenzione solo su quello che viene rappresentato: la forma “limita l’universo del ‘detto’”. Sul piano opposto si trovano le liste: a differenza delle forme limitate che danno confini alla materia, Eco spiega che l’elenco o la lista espandono la possibilità di oggettivare qualcosa di potenzialmente infinito. La forma dà uno spazio finito alla materia, l’elenco invece approssima continuamente la finitezza dell’oggetto di cui si parla e restituisce un’idea di infinito inesauribile. > A differenza delle forme limitate che danno confini alla materia, Eco spiega > che l’elenco o la lista espandono la possibilità di oggettivare qualcosa di > potenzialmente infinito. In questo senso il romanzo-inventario di Ruol permette al lettore di percepire oggettivamente il passato vivo e umano di Padre, Madre, Maggiore e Minore e il dolore che riconfigura il presente dei due genitori; allo stesso tempo di sentire che c’è dell’altro di indicibile, impercettibile e sfuggevole alla narrazione, cioè la forza dei loro sentimenti e la presenza infinita e incontenibile dell’umano. Non a caso Ruol ha dichiarato di voler esplorare, attraverso questo libro, le dinamiche umane che investono soprattutto i due adulti, prima e dopo il dolore capace di rivoluzionare le loro vite. Insistendo su Omero, Eco si serve dell’esempio del II canto dell’Iliade dove l’elenco dei generali greci serve a dare l’idea della grandezza immensa dell’esercito: “apparentemente l’elenco è finito, ma siccome non si può dire quanti uomini ci siano per ogni duce, il numero a cui si allude è comunque indefinito”. Poi Eco spiega in quali casi la completezza della Forma è così poco adattabile alla composizione da dover ricorrere all’elenco: > Esiste un altro modo di rappresentazione artistica, quando di ciò che si vuole > rappresentare non si conoscono i confini, quando non si sa quante siano le > cose di cui si parla e se ne presuppone un numero, se non infinito, > astronomicamente grande; o quando ancora di qualcosa non si riesce a dare una > definizione per essenza e quindi, per parlarne, per renderlo comprensibile, in > qualche modo percepibile, se ne elencano le proprietà. Il caso di Ruol mi pare che sia l’ultimo presentato da Eco: il ricorso alla lista quando l’argomento di cui si vuole parlare è impalpabile, sfuggente, a volte incomprensibile come – appunto – la perdita in un incidente di entrambi i figli adolescenti per due genitori. Se tentare un elenco di qualcosa, anche parziale, è un modo per rendere oggettivo un infinito, allora ricercare i tratti del dolore di Padre e Madre in un elenco numerato di cose dei loro luoghi familiari è un modo per oggettivare l’infinità indicibile del dolore che hanno vissuto. La prima pagina dell’indice di Inventario di quel che resta appare proprio così e resta uguale per tutte le altre, dalla cucina all’automobile: Parte prima Casa ingresso 1. cornice in argento, 15×22 cm 2. telefono fisso, marca Sirio, color avorio 3. mensola stile rococò 4. fermaporta in vetro di Murano 5. bomboniera di matrimonio in cristallo cucina 6. televisore a tubo catodico 14 pollici 7. cesto di vimini 8. tagliacarte 9. raccolta di calamite su frigo 10. pentolino da latte 11. lavastoviglie da incasso 12. cavatappi a leva 13, noci, n. 7 salotto 14. motoscafo in legno Riva Aquarama, modellino 1:10 15. tappeto Yalameh rosso e blu 16. tavolo 8 posti in castagno, primi del ‘900 17. penna stilografica Pelikan MK10 18. Lindor rossi, incarti Se aprissimo soltanto questa pagina del libro sarebbe veramente difficile credere che quelle precedenti contengano un romanzo. E invece ogni oggetto puntualmente registrato come in un vero e proprio inventario – anche con le specifiche tecniche – contiene dentro di sé una storia di vita della famiglia protagonista e spostandoci negli angoli della casa, poi dell’automobile, ricostruiamo tutte le loro esistenze. La stessa incredulità davanti a un libro fatto di liste si prova davanti all’ultima uscita della casa editrice Quodlibet, intitolata Guida all’installazione di un futuro me (2025) e scritta da Ugo Coppari. I primi 14 capitoli del libro si intitolano La vita come quantità e il protagonista, prima di consegnarci le sue liste di cose quotidiane, si presenta in questo modo: > Soprattutto è questa la mia ossessione: fare un elenco di quello che ho, di > quello che ho fatto, di quello che ho mangiato, di quello che ho prodotto in > una giornata, in linea con la tendenza generale alla quantificazione di sé > stessi. […] Magari se uno mi vede camminare pensieroso lungo la strada > potrebbe credere che sto riflettendo sui massimi sistemi, sul cambiamento > climatico o cose simili, ma in realtà non faccio altro che elaborare liste che > mi diano la misura della mia presenza nel mondo. Gli elenchi di Coppari, proprio come dice Eco, servono al personaggio per darsi (e poi darci) contezza della sua esistenza del mondo. Limitano e rendono visibile qualcosa di potenzialmente impercettibile e sconfinato. Se un giorno, nel futuro, un gemello digitale dovesse essere installato in una nuova persona, il personaggio del libro di Coppari è sicuro che, per replicare sé stesso, l’alias dovrà conoscere tutte le sue liste. L’elenco delle cose del protagonista, alle prese con il tentativo di salvare la sua esistenza dall’erosione del tempo, diventa un esempio di letteratura lirica, autentica, proprio perché la forma-elenco di cui parla Eco si riempie di tutto ciò che di infinito e impercettibile sfugge a un libro scritto per esteso. > Si ricorre alla lista quando l’argomento di cui si vuole parlare è > impalpabile, sfuggente, a volte incomprensibile come – appunto – la perdita in > un incidente di entrambi i figli adolescenti per due genitori. Tornando a Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, un esempio dal capitolo 40, “letto singolo con doghe”, ci fa comprendere di cosa si riempiono le liste di oggetti di Ruol. Nella serata finale dello Strega ha motivato il suo ricorso alle cose dicendo che, concentrandosi sulla loro oggettività, voleva non lasciarsi andare a eccessi, sensazionalismi e spettacolarizzazioni del suo dolore. Una sorta di scudo dalle derive della narrazione cui è avvezza la letteratura contemporanea, e che proteggendo Ruol ha permesso agli oggetti di farsi animati, vitali, fantasmatici proprio come le parole nelle storie. In questo inizio di capitolo conosciamo il nonno, la nostalgia di Padre per la casa dov’è nato, Maggiore diventare grande e avere bisogno di un letto più spazioso: > Quando il nonno paterno era stato ricoverato in una casa di riposo, Padre > aveva disdetto l’affitto e incaricato una ditta per lo sgombero > dell’appartamento. Aveva gestito tutto al telefono, raccomandando alla > residenza di avere un occhio di riguardo per quell’uomo silenzioso, e > all’impresa di conservare e spedire il suo letto di ragazzo – unico arredo che > avrebbe tenuto. Era ampio, in legno massiccio, e a parte le doghe che > scricchiolavano un po’ era ancora in ottime condizioni: sarebbe stato perfetto > per Maggiore. Ritroviamo quella filosofia della “cosa-personaggio” di cui più volte ha parlato Michele Mari a proposito del suo libro Locus desperatus  (2024) e che Maria Giardina ha anche analizzato su Il Tascabile mettendola in dialogo con una “new wave ‘marie-kondiana’” che ha origine da Il magico potere del riordino. Mentre nel libro di Mari, però, gli oggetti recuperati contengono il sé di chi li possiede e permettono al narratore di non allontanarsi dalla propria storia, come le liste di Coppari, gli oggetti di Ruol invece raccontano la storia di qualcun altro a chi non la conosce. Per Mari gli oggetti sono una memoria autoconservativa, che garantisce in un certo senso l’autodeterminazione di chi li accumula e conserva; Inventario di quel che resta invece racconta ad altri – i lettori – la storia di qualcuno che, forse, neanche ricorda tutto quello che il narratore onnisciente ha archiviato nella lista di oggetti. Ogni cosa è illuminata potremmo dire prendendo in prestito un titolo di Jonathan Safran Foer che con Inventario di quel che resta ha in comune la ricostruzione di una storia familiare e il valore di amuleto-raccontastorie delle cose. Lo studente americano omonimo a Foer intraprende un viaggio in Ucraina alla ricerca della donna che ha salvato suo nonno, ebreo, dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Per ricostruire la storia della sua famiglia si fa aiutare da Alexander, un ucraino del posto, e suo nonno. Nel libro, in una lettera di Alex a Jonathan, leggiamo queste righe: > Caro Jonathan, > […] Ho imprigionato nella busta gli oggetti che richiedevi, non escludendo le > cartoline di Lutsk, i registri del censimento dei sei villaggi prima della > Guerra e le fotografie che tu mi scongiuravi di tenere per cauti propositi.     Qualche pagina più avanti, sempre in una lettera di Alex: “ho imprigionato una foto della bicicletta in questa busta”. Le buste di cui parla Alex sono ancora più d’impatto se pensiamo all’omonimo film tratto dal libro di Foer, diretto da Liev Schreiber nel 2005. Jonathan ha un’intera parete di bustine trasparenti che racchiudono (in)finiti oggetti contenenti un pezzo della storia di suo nonno e della sua famiglia. Perché lo fai? – gli chiederà Alex – “ho paura di dimenticare”, risponde Jonathan. Le cose vanno illuminate, nella loro fisicità, catalogate, archiviate, inventariate – per tornare a Ruol – perché di esse non vada persa la storia che contengono, “imprigionata” come ripete Alex nel libro di Foer. Una catalogazione, però, può essere di tanti tipi e – riprendendo il titolo di un capitolo di Eco – “C’è lista e lista”. Dal suo punto di vista semiotico Eco differenzia la lista pratica (della spesa, di numeri di telefono, di invitati a una festa) dalla lista “poetica”, cioè che esprime una finalità artistica. Se le liste pratiche assomigliano quasi a una forma, perché devono corrispondere rigidamente al contesto che si propongono di servire; le liste poetiche si fanno “perché non si riesce a enumerare qualcosa che sfugge alle nostre capacità di controllo e denominazione”. Quella di Ruol, seguendo il ragionamento di Eco, sarebbe allora un ibrido. È sia una lista pratica, perché è un inventario strettamente legato alla vera esistenza degli oggetti che popolano la casa dei protagonisti, sia una lista poetica perché risponde alla mancanza di riferimenti fattuali con cui poter immaginare la rivoluzione esistenziale del lutto. Da questo punto di vista l’operazione di Ruol con Inventario rispecchia quella di Barthes con Frammenti di un discorso amoroso: in quel caso Barthes si chiede cosa sia l’amore e, per spiegarlo, sceglie di ricostruirne la forma e le caratteristiche dando le definizioni delle parole che ci si direbbe tra innamorati. Da una parte una lista finita di situazioni (per Barthes) o di oggetti (per Ruol), dall’altra l’esplorazione poetica – nel senso di artistica e psicologica – di quello che è contenuto oltre lo strato fittizio delle parole (Barthes) e degli oggetti (Ruol). Ecco, infatti, il capitolo 26 “borraccia Gio’ Style Safari 1000”: > Dimenticata tra le mensole della libreria c’è una borraccia di plastica color > senape, con la tracolla grigia e il coperchio bianco, che una volta svitato > diventa un bicchiere. Fino a quando erano andati in vacanza tutti insieme, la > borraccia li aveva seguiti. I viaggi erano prevedibili nella tempistica e > nella direzione: primi giorni di gennaio, montagna, e settimane centrali di > agosto, Puglia, nonno paterno. Viaggiavano sempre di notte, tranne un’estate > in cui Padre si era fatto convincere dalle proteste congiunte di Madre e figli > contro la levataccia. Oltre la borraccia Gio’ Style Safari c’è la storia di un viaggio prima di quell’incendio nella foresta cui allude il titolo. Oltre la “sedia ergonomica con rotelle” del capitolo 45 c’è una riflessione sul modo in cui Padre prova a sviare il dolore attraverso il lavoro. Al di là dell’innaffiatoio – capitolo 52 – il corbezzolo di Madre, fondamentale per il senso filosofico del libro, che infatti tornerà nel capitolo 99. L’ultimo, corbezzoli. > Quella di Ruol è sia una lista pratica, perché è un inventario strettamente > legato alla vera esistenza degli oggetti che popolano la casa dei > protagonisti, sia una lista poetica perché risponde alla mancanza di > riferimenti fattuali con cui poter immaginare la rivoluzione esistenziale del > lutto. Dalla scelta di Ruol di fermarsi a novantanove oggetti ‒ tanti quanti i voti per lui alla finale dello Strega ‒ ritorna il concetto di Eco secondo cui la lista è qualcosa di finito che, però, contiene dentro di sé una tensione perenne all’infinito e all’impossibilità di contenerlo. La famiglia di Inventario sembra avere una vita che non finisce più e una storia che continuamente aggiunge qualcosa al suo svolgimento. È una percezione che, lo dice anche Eco, scaturisce dall’accumulazione propria delle liste. Accumulare e fermarsi a novantanove però, senza arrivare alla cifra tonda di cento, dà l’idea di un elenco incompiuto, imperfetto, che proprio per questo prende vita e si permette di diventare una storia. L’accumulazione restituisce, quindi, la densità del concetto, e la scelta della lista è un compromesso con cui dire tutto senza la pretesa che sia tutto davvero. Perché tutto non si può dire, e allora Ruol si ferma a 99. Questo senso di incompleto, di mancata totalità del racconto, è ciò che Eco riassume con l’indicibilità. In un certo senso sapere di non riuscire a dir tutto della storia è un modo per rilanciare l’immaginazione del lettore e lasciare a lui la possibilità di contribuire al racconto – magari attingendo agli oggetti della propria vita, guardando alla propria esperienza del dolore. > Di fronte a qualcosa di immensamente grande, o sconosciuto, di cui non si sa > ancora abbastanza o di cui non si saprà mai, l’autore ci dice di non essere > capace di dire, e pertanto propone un elenco molto spesso come specimen, > esempio, accenno, lasciando al lettore immaginare il resto. Nel caso di una narrazione romanzesca come quella di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Ruol, accennare e dare un elenco come esempio è anche, però, un modo per ammettere che quella storia ha una natura immaginifica – e quindi relativa. L’elenco di oggetti, completo nella sua incompletezza, è un mezzo con cui svelare le altre infinite possibilità di storie a partire dalla moltitudine di oggetti alternativi che potevano essere inclusi nell’elenco. Eco lega il ricorso alle liste al “timore di non poter dire tutto”: nel caso dei romanzi non solo l’autore teme di non poter dire tutto, ma forse neanche conosce quel “tutto” della storia immaginata, sapendo che quel “tutto” non corrisponde mai necessariamente al “reale”. Proprio per questo la lista è, dalla penna di Ruol, quella che troviamo in Inventario ma potrebbe essere qualsiasi altra. Questa riflessione quasi ricorda gli esperimenti di letteratura combinatoria cari, ad esempio, a Queneau o al Calvino di Le città invisibili o Il castello dei destini incrociati. Una lista è una specie di combinazione, un tavolo di tarocchi che – se disposti in maniera diversa – offrono la possibilità di una varietà innumerevole di storie diverse fra loro. La forma-elenco nel libro di Ruol evidenzia la fantasia combinatoria della letteratura, capace di scandagliare l’essere umano con la stessa dose di precisione e imprevedibilità del ragioniere che, nonostante la pazienza con cui annota gli oggetti nelle stanze, sicuramente ne trascurerà casualmente qualcuno. > Una lista è una specie di combinazione, un tavolo di tarocchi che – se > disposti in maniera diversa – offrono la possibilità di una varietà > innumerevole di storie diverse fra loro. Se la “copertina di lana rosa” del capitolo 33 fosse verde, che storia racconterebbe? Se il “dispenser di sapone liquido” fosse una saponetta, e se il “pallone da football” in cucina fosse invece da pallavolo? La struttura a elenco di Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia permette di avvertire l’aleatorietà combinatoria della letteratura che è presente in ogni romanzo d’invenzione, meglio nascosta quando la forma è più scorrevole e meno inventariale. L’elenco scoperchia il vaso della “letteratura come menzogna” direbbe Manganelli e in questo gioco che è l’invenzione ogni registrazione puntuale si fa beffa di sé stessa e rende consapevole il lettore dell’infinita quantità di storie alternative – ma altrettanto vere – che potrebbe essere narrate attraverso altri oggetti concreti. Oltre all’infinita densità della materia della narrazione, in questo caso l’elaborazione di un lutto, la lista di Michele Ruol cerca di sfuggire alla delimitazione di un altro infinito: quello delle storie e della fantasia. “Segno che – dice Eco – alla vertigine dell’elenco si soggiace per molte e svariate ragioni”. L'articolo Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia: cosa può raccontare una lista? proviene da Il Tascabile.
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Mia nonna e il Conte di Emanuele Trevi
C ome spesso accade nei suoi libri, i ricordi per Emanuele Trevi assumono la forma del sogno e le memorie divengono un corpo vivo da scoprire e riconoscere pagina dopo pagina. Un corpo pienamente e solidamente letterario che abbandona rapidamente i confini ristretti dell’autobiografia e del reale per incamminarsi in uno spazio aperto al tempo stesso intimo e universale. Un luogo in cui reale e fantastico s’intrecciano senza alcun obbligo reciproco, dando forma a personaggi assoluti, mai stereotipati o semplificati e che si distaccano però inevitabilmente dalle figure reali divenendo potentemente personaggi letterari e quindi più veri del vero, in quanto portatori di segni indistinguibili, ossia quelli di un tempo finito e chiuso che offre però ancora un aggancio possibile. Un’universalità riconoscibile utile a liberare dall’angosciosa solitudine contemporanea. Emanuele Trevi da sempre fa letteratura partendo dal proprio sé, da un’elaborazione comune della propria memoria percepita, che diviene così un campo del possibile totalmente rinnovato e sempre rinnovabile. Uno spazio letterariamente aperto e un luogo di condivisione e relazione che si muove tra gli elementi del ricordo. Dall’estate romana con Senza verso. Un’estate a Roma (2004), a Pier Paolo Pasolini e Laura Betti con Qualcosa di scritto (2012). E poi Cesare Garboli con Sogni e favole (2018) e infine Pia Pera e Rocco Carbone con Due vite (2020) solo per citare quelli che sono considerati i suoi libri più importanti, anche se probabilmente il testo che più contiene ‒ quasi fosse un manuale ‒ la poetica di Trevi è Viaggi iniziatici (2013-2021), un vero e proprio compendio dei riti di passaggio dello scrittore contemporaneo, tra scoperte, ingenuità e grande letteratura. > Emanuele Trevi da sempre fa letteratura partendo dal proprio sé, da > un’elaborazione comune della propria memoria percepita, che diviene così un > campo del possibile totalmente rinnovato e sempre rinnovabile. Un agire che appare però ancora più potente ed efficace quando Trevi concentra la propria letteratura partendo da figure non pubbliche, ma strettamente legate alla sua memoria familiare, dal padre protagonista di La casa del mago (2023) al suo ultimo lavoro, Mia nonna e il Conte (2025) che riporta in vita tra le sue pagine la nonna e la figura di un conte da lei amato negli ultimi anni della sua vita. Mia nonna e il Conte è un romanzo rapido, poco più di un centinaio di pagine, il racconto è quello di un autunno della vita lungo e luminoso, gratuito e splendido. Al centro spicca un giardino, protagonista della casa della nonna, collocata in un paesino calabrese poco lontano da Capo Palinuro. Il giardino è un luogo magico e di passaggio, lì Trevi trascorre gran parte delle sue giornate all’ombra di una nonna che appare millenaria, come una Grande Madre da cui tutto proviene. Una personalità totale e capace di ammaliare come una figura sacra o un oracolo. Dal giardino provengono gli odori e una vista sul mare che appare improvvisa e anch’essa vergata da magia. Come in un trucco perfettamente riuscito Trevi riporta ai lettori la sensazione di cosa è un giardino, rendendolo rappresentativo di un modo di vivere, di vedere e di percepire la realtà estremamente originale e al tempo stresso riconoscibile negli oggetti e nei luoghi che chiunque porta con sé nella propria personale memoria. Più figlio che nipote, Trevi ritrae con brevi tratti la figura della nonna dando corpo a una corte di parenti e compaesani degna di Vitaliano Brancati: “Come tutte le dee, troneggiava in compagnia di un suo fedelissimo seguito femminile, nel quale spiccavano due figure praticamente inseparabili da lei: zia Delia e Carmelina”. > Il giardino è un luogo magico e di passaggio, lì Trevi trascorre gran parte > delle sue giornate all’ombra di una nonna che appare millenaria, come una > Grande Madre da cui tutto proviene. Una personalità totale e capace di > ammaliare come una figura sacra o un oracolo. La forma è teatrale, un cerimoniale perfettamente scritto nel quale ogni personaggio ha il suo preciso ruolo in commedia, un’ironia che attraversa tutto il testo, utile anche a tenere a bada una nostalgia e una malinconia che alternativamente sembrano salire a galla, senza mai imporsi però con la pesantezza di una retorica che potrebbe ostacolare la leggerezza necessaria per quello che è, a tutti gli effetti, un racconto amoroso. Il Conte è una figura che assume subito i toni di una nobile (evidentemente) leggendaria tenerezza. Pur ottuagenario il conte, ovviamente monarchico e sensibilissimo alla memoria dei Borbone, ha i tratti di un ragazzo. Segni sentimentali di una purezza che subito non può che venire colta dalla nonna, donna regina estremamente sensibile al portamento e all’eleganza, soprattutto quella interiore di un uomo che proprio perché d’altri tempi rivela una rara capacità di sostenere una dotta ingenuità. Le giornate passano così lentamente fino a quando il giardino diviene il luogo di un amore tanto esplicito quanto delicato; a coglierlo è Trevi in quella presenza ‒ che diviene quotidiana ‒ del Conte sotto il segno di una solarità che rifrange atmosfere proustiane, ma che in parte riporta alla memoria anche Peter Pan nei Giardini di Kensington di J.M. Barrie, là dove proprio il Conte appare proprio un Peter Pan ideale. Quello che corrisponde tra i due anziani, la nonna e il Conte, è infatti un amore pienamente e totalmente giovane, una lezione di volo non fuori tempo massimo, ma in un tempo nuovo e come tale carico di ardimento e meraviglia: “a loro non mancava nulla: come solo può accadere a chi sa essere reciprocamente gratuito, com’è gratuito, mettiamo, un bel pomeriggio tiepido e lucente d’autunno”. Settembre è il tempo del loro incontro ed è anche il tempo della formazione di un autore, Emanuele Trevi che come racconta nel libro, allora quasi ventenne provava ancora a distanziarsi dagli altri ricercando un peso e una profondità diversa e solitaria. Un’originalità che fosse densa di un sapere urgente e necessario, una pretesa che franò però di fronte all’evidenza di una bellezza naturale e spontanea che gli farà comprendere ‒ anche grazie alla nonna e alla sua leggiadra corte di amiche e parenti ‒ il valore del tempo perso così come della chiacchiera priva di peso e valore apparente. > Quello tra i due anziani, la nonna e il Conte, è un amore pienamente e > totalmente giovane, una lezione di volo non fuori tempo massimo, ma in un > tempo nuovo e come tale carico di ardimento e meraviglia. Uno stare con gli altri là dove gli altri divengono potenzialmente il terreno di una sincera originalità. È questione di sguardo e di umiltà, di attenzione e insieme anche di libera distrazione. Un modo di essere dunque che invece di opprimere alimentando tediosi pensieri solitari, spesso insostenibili e non di rado assurdamente tragici, libera una percezione fortemente capace di cogliere il tempo e la sua totale gratuità attraverso tutti i possibili elementi che ne determinano una complessità altrimenti difficile da cogliere. Il clima che come spesso accade a settembre raggiunge vette di struggente bellezza, proprio perché improvvisa e fragile. La luce verso sera tiene duro quando il giorno si sta chiudendo in una notte che seppur dal sapore ancora estivo, già predice un futuro lungo inverno. Stare in quella luce, accettare la sua fragilità e la sua gratuita è darsi una possibilità là dove sembrerebbe impossibile poterla avere. Ed è quello che fanno la nonna e il Conte: trovarsi in un tempo che già mostra i segni inevitabili di una fine vicina, ma tenersi in quell’attimo che poi diviene un rito e una magia dal valore infinito. E questo fa Emanuele Trevi con Mia nonna e il conte, raccontando di una Grande Madre, di una divinità femminile primordiale come solo una nonna può essere, dandosi la possibilità di recuperare tutto quel tempo perso, che perso non è mai stato, e farne così letteratura restituendo alla memoria di ogni lettore una possibilità nuova. L'articolo Mia nonna e il Conte di Emanuele Trevi proviene da Il Tascabile.
Recensioni
narrativa italiana
La Sicilia, ricordata bene
È un’esperienza strana: leggere un romanzo ambientato in Sicilia e avere l’impressione che la Sicilia sia altrove. Non in un altrove immaginario, ma proprio in un altro libro, uscito quasi in contemporanea. Mi è successo con L’isola e il tempo, esordio di Claudia Lanteri nella collana Unici di Einaudi, in libreria da poco più di un anno, e con Mare aperto, reportage narrativo di Luca Misculin uscito di recente nella collana Maverick della stessa casa editrice. Entrambi raccontano, a modo loro, l’arcipelago siciliano: il primo è un romanzo letterario e introspettivo, l’altro un saggio narrativo attraversato da storie di scienza, politica, migrazioni e mito. A sorprendere non è solo il confronto tra i generi ‒ già di per sé interessante ‒ ma il fatto che sia Mare aperto, firmato da un giornalista milanese, a offrire la visione più ampia, più precisa, a tratti più lirica di un Sud spesso ridotto a cartolina. Lanteri e Misculin scrivono libri molto diversi, ma si trovano a interrogare lo stesso spazio: un Mediterraneo ambivalente, pieno di storia e di dolori, di luce e di fantasmi. Uno spazio che, come la berta maggiore ‒ l’uccello raro che ancora nidifica a Linosa ‒ si lascia osservare solo a distanza, e solo con pazienza. Per motivi e con esiti diversi, entrambi i libri ne inseguono il canto. La berta maggiore (Calonectris diomedea, secondo i tecnici) è un uccello marino della famiglia delle Procellariidae. Alto circa 50 centimetri, ha un’apertura alare che sfiora il metro. Ha piume grigie sulla testa, dorso bruno, ventre e collo bianchi; becco giallo e zampe rosate. È conosciuto per la sua voce che, come quella di Nonò, il protagonista della storia di Lanteri (vagamente ispirato all’Arturo morantiano), può essere facilmente scambiata per quella di un bambino. Secondo alcuni studiosi potrebbe essere proprio il canto della berta ad aver ispirato il mito delle sirene. In Italia la berta nidifica soprattutto sulle isole, anche se alcune piccole colonie si trovano lungo le coste. La colonia più numerosa d’Europa è a Linosa, dove si stima vivano circa 10.000 coppie. Come le berte, anche il tipo di romanzo scritto da Lanteri (che a Linosa è ambientato) si presenta come una specie marginale, difficile da avvistare. Per la sua scrittura complessa, nutrita di sicilianismi rari, e per il lavoro sperimentale sulla struttura del giallo e sul punto di vista inattendibile, ha molti tratti di quella che Gianluigi Simonetti ha chiamato, con un misto di nostalgia e ironia, “la letteratura di una volta”. Lo dimostra bene quel piccolo capolavoro di virtuosismo che è, verso l’inizio della storia, la descrizione ironica e macabra del cadavere di Daisy, la moglie dello skipper Bruno Surico: > La morta non è più abbigliata come prima, come per una gita al mare. Le > spalle, denudate delle capricciose bretelline, ora sono coperte da una casacca > di mussola dove sono di piú i bottoni che mancano di quelli presenti > all’appello. Nell’ombra non si nota neppure la stoffa consumata sotto le > ascelle né i gomiti bucati. L’orlo della gonna sì, quello è tutto > sbrindellato. I fili spenzolano a centinaia verso il piano del tavolo, sui > piedi un poco discosti, ricadono in su, si radunano in piccole pozzanghere. È > una pupidda imbiancata, odorosa del talco prestato da qualche vicina; ha i > capelli ordinati, solo qualche peluzzo scappa dalle crocchie che le hanno > intrecciato, e le dà un’aria allegra, impertinente. Non so dire quanti anni > ha: da come la linea del collo scivola verso le piccole ossa potrebbe essere > una ragazzina, scattosa come una stampella, ma la faccia è tonda, di pesca > matura da mordere. L’abitino modesto glielo ha imprestato per l’ultimo sonno > mia madre Angelina: non lo metteva piú da quando io, l’ultima infornata, le > avevo fatto crescere il culo come una mezza patata lessa fa con l’impasto del > pane, come ripete ogni volta mio padre prima di pizzicarglielo. Dalle ciglia > lunghe e distese potrebbe arrivare un fremito di minuto in minuto, quasi > stesse sognando. La fronte pare affollata di pensieri, la bocca è piena, una > festa di rose e di fiori. Questo lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista: complice, anche, dell’idea, di fatto conservatrice, che il Sud possa essere raccontato solo come un’eccezione, come un’“isola”, appunto, al di fuori della portata della razionalità (e invece ha ragione Mario Fillioley quando sostiene che la Sicilia è “un’isola per modo di dire”). Del resto, molte narrazioni contemporanee, non solo letterarie ma anche audiovisive, scelgono questa strada. Citare la serie tratta dal Gattopardo sarebbe in questo senso fin troppo facile. > Il lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di > essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina > di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista. Di questa estetizzazione senza redenzione, dove la bellezza non salva ma vela, un caso esemplare è anche un prodotto per molti versi di alto livello come la seconda stagione di The White Lotus, ambientata in un resort di lusso sulla costa siciliana. Tutto, lì, è pensato per produrre piacere: il mare, i mosaici, i limoni, i corpi. Ma dietro la cartolina, la serie mostra un Mediterraneo finto-autentico, addomesticato per lo sguardo del turista globale, che consuma l’ambiente e le persone come esperienze da collezionare, metonimie per un safari nel Nulla da sperimentare in infradito. I corpi delle ragazze siciliane diventano così dispositivi di accesso a un paesaggio assai più ampio: vendono sesso, ma offrono anche un’idea di “sicilianità” esotica, permeabile, in cui il godimento mai pieno, mai innocente, è parte del pacchetto. Anche qui la bellezza è porosa, ma la porosità è un sintomo, non una virtù: è il segno di una vulnerabilità strutturale, di un Sud che si offre come incanto ma anche come ostaggio; una superficie desiderabile, sì, ma non raccontabile. Dal canto suo, L’isola e il tempo riattiva alcuni tratti di una tradizione letteraria che in Sicilia ha una storia lunga, non meno nobile nella forma e non meno ambigua nei suoi esiti; né è un caso, quindi, che tra le parole chiave per comprendere il romanzo ci sia la memoria: “L’invenzione dà forma al disordine”, scrive Lanteri, “oppure s’impazzisce, ci si perde a inseguire i fili spersi nella memoria: nel raccomodare la trama, quello che è stato nel passato non è tanto diverso da quello che non è stato”. La memoria, insieme a ciò che essa conserva e a ciò che invece non riesce (o non vuole) conservare, è uno dei temi ricorrenti nella poetica di molti scrittori siciliani. Già Luigi Pirandello metteva in scena nella pièce Enrico IV un personaggio che preferisce abitare un’identità fittizia piuttosto che affrontare la realtà dolorosa della propria vita. L’incapacità di fare i conti col passato e il rischio di restarne intrappolati è anche uno dei motivi cardine di quel che Leonardo Sciascia ha definito col termine “sicilitudine” (una parola che, fondendo Sicilia e solitudine con un tocco di ironia, mira a descrivere una presunta condizione esistenziale isolana). Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione abbastanza diffusa tra gli autori siciliani (“– Le berte, vedi? / È così che in lingua italiana lui nomina quelle che noi diciamo le turriàche, e io lo lascio nella sua ignoranza perché non è bello star sempre lì a correggere tutti per ogni minima cosa”, dice nelle pagine iniziali il narratore, prendendo in giro l’italiano pulito del professor Dalmasso). Negli ultimi decenni sono stati i gialli di Andrea Camilleri a rendere popolare questo particolare tipo di espressionismo stilistico, sfruttandolo a fini comici, ma esso esisteva già in opere sperimentali come Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Vincenzo Consolo e Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo (quest’ultimo è stato da poco ripubblicato da Rizzoli in un’edizione elegante, con una bella prefazione di Giorgio Vasta). Secondo Margherita Ganeri, l’opera di Consolo “affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio, con la sua sedimentazione e stratificazione”, e questa memoria è anche e innanzitutto un resoconto di conflitti, incroci e migrazioni dovuti alla peculiare posizione dell’isola al centro del Mediterraneo (“Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione è il significativo titolo di una ricca raccolta di saggi curata nel 2021 da Gianni Turchetta). Mentre, interpretando Horcynus Orca come un’epopea della memoria, Marco Trainito intitolava una sua monografia del 2004 su D’Arrigo Il mare immane del male. > Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si > svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di > un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione > abbastanza diffusa tra gli autori siciliani. La memoria, secondo questa tradizione, può essere anche memoria dei luoghi e dei popoli, ma non necessariamente, viene da dire, per raccoglierne le tracce bisogna appiattirsi sulle parole di chi i posti li vive. Racconta Consolo in un’intervista alla Rai che, presentando a Palermo la prima edizione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, Sciascia parlò del suo romanzo come di un “parricidio”. Consolo ha infatti ricordato più volte che negli anni della sua formazione si sentiva indeciso tra due modelli di intellettuale molto diversi, se non opposti, ma che conosceva entrambi di persona. Uno era proprio Sciascia, fautore dell’impegno e di una lingua comunicativa e cristallina, discendente della grande tradizione dell’Illuminismo; l’altro il poeta barocco Lucio Piccolo, coltissimo bibliomane, appassionato di cultura esoterica, che amava soprattutto i versi di W.B. Yeats. Secondo Sciascia (che pure non è esente dal rischio di derive mistiche, specie in alcuni degli ultimi libri), adottando una lingua espressionista carica di un ricco bagaglio dialettale Consolo aveva intrapreso una volta per tutte la via della bella pagina e del manierismo. Del resto, la tensione tra uno stile razionale e comunicativo e uno invece più stratificato e virtuosistico, tra l’italiano standard e quello influenzato da tratti regionali, coinvolge gli scrittori del Sud in generale (in realtà l’affermazione è vera, con intensità variabile, per gli scrittori italiani tout court). Si tratta di una querelle tutt’altro che chiusa, che continua a offrire modelli alternativi e vitali. Basti pensare al modo differente con cui fronteggiano la questione i due più famosi cicli narrativi della letteratura italiana degli ultimi decenni: il già citato Camilleri, da una parte, e, dall’altra, L’amica geniale di Elena Ferrante, il cui successo (almeno se ci fermiamo al campo letterario) si deve senz’altro anche alla scelta di evitare un impianto linguistico marcato da esotismi, in favore di una vocazione alla narratività pura. Tra questi due estremi, lo spettro delle possibilità stilistiche è naturalmente ampio e variegato e, pur compiendo molti prelievi dal dialetto, il libro di Lanteri non rinuncia affatto a un’impressione complessiva di chiarezza e fluidità, che lo rende se non altro assai godibile. > Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più > porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai agli > scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria > invenzione con il liquido di contrasto di altri generi. E tuttavia, che si possano scrivere pagine importanti su un luogo anche senza imitare la lingua di chi ci abita (in fondo, un’ovvietà) è testimoniato ancora una volta dal fatto che uno dei libri più belli sulla Sicilia usciti quest’anno è stato da scritto da un milanese: Luca Misculin, appunto. In realtà, Mare aperto parla anche della Sicilia, ma lo fa con così tanta passione documentaria che non si può non restare ammirati. Del resto, non bisogna nemmeno sorprendersi troppo. In una tradizione letteraria vitale, narrativa e saggistica non dovrebbero marcare le distanze, ma cooperare ‒ come due lenti diverse puntate sullo stesso paesaggio ‒ alla costruzione, magari sfumata e plurale, ma condivisa, di un’idea di verità; illuminare, anche solo per qualche istante, invece di aggiungere buio al buio. Eppure capita che la narrativa più colta, facendo Arcadia di modelli novecenteschi ormai quasi del tutto svuotati della loro originaria carica polemica, si attardi in una retorica del mistero, dell’opacità, della noluntas sciendi, nella quale il trauma, da impasse produttrice, rischia di divenire alibi per sospendere il desiderio di conoscere. A questo cedimento talvolta risponde, in controtendenza, una certa saggistica: più libera, forse, dai canoni e dalle richieste implicite del mercato letterario; più audace nell’osservare, nel domandare, nel tracciare nessi imprevedibili. Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai, insomma, agli scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria invenzione con il liquido di contrasto di altri generi. > Mare aperto esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un > come crocevia di storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e > tragedia. Nel panorama affollato della saggistica narrativa italiana, il libro di Misculin si distingue per l’equilibrio tra la precisione e l’accessibilità. Mare aperto esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un come crocevia di storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e tragedia. Misculin, giornalista del Post già autore di podcast piuttosto seguiti (per esempio sulla nave Geo Barents e sull’indoeuropeo), guida il lettore tra isole e relitti, pescatori tunisini e miti antichi, alternando con maestria le fonti accademiche più disparate (dalla paleontologia alla biologia marina, dalla glottologia alla storia dei pirati) con le interviste agli abitanti condotte sul posto. È anche questo un libro a suo modo turistico, con una singolare struttura ad arcipelago. La penna dell’autore scorre con gusto e brillantezza da una curiosità alla successiva, ottenendo un effetto che i latini avrebbero chiamato di satura lanx. Cito, tra i tanti, due esempi diversissimi, ma egualmente rappresentativi di una ricerca metodica della storia poco raccontata. Il primo, sulla logistica del calcio di provincia: “In teoria il Lampedusa dovrebbe giocare nel girone A, quello della provincia di Agrigento: in realtà viene sempre assegnato al girone B, cioè quello di Palermo, perché ad Agrigento non c’è un aeroporto e le trasferte sarebbero di fatto impossibili”. Il secondo, sull’harissa, una pasta di peperoncini tipica delle coste della Tunisia: “In Italia è ormai nota fra i vegetariani come la ‘nduja-senza-carne, ed esistono chat sotterranee su Telegram in cui ci si scambia ricette e consigli su dove acquistarla online”. C’è, insomma, una quota di intrattenimento colto, insieme a una passione genuina per la ricerca del dettaglio inaspettato, della prospettiva inedita su fatti e questioni (una su tutte la tragedia dei migranti) che sembrano ormai saturati da un ingorgo di narrazioni. Mare aperto è però anche un libro etico, che eredita dallo stile del Post la programmatica, quasi polemica rinuncia all’io, e un’idea della scrittura come lavoro innanzitutto di servizio, nel senso alto e nobile del termine, nei confronti di chi vuole capire di più. C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto. Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti storici, squarci di bellezza quasi cinematografica. Eppure, dietro l’apparente levità della scrittura, il libro ha un sottotesto che si fa via via più cupo. Un esempio emblematico è il racconto della “deportazione” in Libia di decine di migliaia di italiani ai tempi del fascismo. Il capitolo si apre con una serie di testimonianze che sembrano tratte da un documentario sui migranti che arrivano oggi in Italia. Questo crea uno straniamento che ribalta le nostre percezioni ossificate: > “Quando arrivammo al porto c’era tutto un formicolio di persone, chi con la > valigia, chi con sacchetti stracolmi di indumenti, bimbi che piangevano, molto > probabilmente avevano dormito poco e male. Certamente molti di noi vedevano il > mare per la prima volta”, scrisse E. nel suo diario. > La traversata, aggiunse E., durò diversi giorni, a bordo di un’imbarcazione > stracarica di persone: “La mamma e I. soffrivano il mal di mare e molto spesso > erano costretti a rimanere in coperta per non stare male”. > All’arrivo, raccontò invece N., “ci misero in fila e ad ogni capofamiglia > diedero una sporta piena di viveri”. Laggiù “c’erano ad aspettarci cento > camion, me li ricordo bene, pronti a portarci a destinazione. Su ogni camion > erano stipate due famiglie. […] Siamo stati i primi a partire; ricordo che la > mamma disse: ‘Vuoi vedere che siamo i primi a partire e saremo gli ultimi ad > arrivare?’ Infatti così è stato: ricordo i suoi pianti”. > G., che vide sbarcare questa enorme “colonna” di persone, la descrisse così: > “donne incinte, bambini lattanti, ragazzi; tutti hanno qualche necessità e a > tutto occorre pensare e provvedere”. Misculin costruisce senso anche attraverso una serie di rimandi interni, impliciti o espliciti, ed è interessante e paradossale che le affermazioni più rilevanti sul piano politico e ideologico non compaiano nei capitoli, al contrario molto sobri, dedicati ai temi scottanti dell’attualità. Quando scrive “[c]i piaccia o no, siamo tutti figli e discendenti di stranieri, genitori di persone che saranno considerate straniere da qualcun altro, o stranieri noi stessi, nel posto in cui viviamo”, non sta parlando dei morti in mare o di un referendum sulla cittadinanza, ma di archeogenetica e dei rapporti tra i sardi e i cartaginesi. È un espediente narrativo efficace, che dimostra come il libro non sia solo una raccolta di storie, ma anche un esercizio di sguardo che ci fa capire che le cose, spesso, si vedono meglio allontanandole, collocandole su uno sfondo più ampio e articolato. > C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto. > Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua > filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti > storici, squarci di bellezza quasi cinematografica. “Fino al 1846 a Linosa c’erano solo le berte”, racconta il ricercatore Giacomo Dell’Omo in uno dei capitoli più belli. Leggendolo, scopriamo che sull’isola ci sono più gatti che persone e che questo è un pericolo per la sopravvivenza di molte specie endemiche, che si sono abituate a prosperare in un ambiente privo di predatori. Tra queste specie ci sono, appunto, le berte. Per salvarle, Dell’Omo promuove da tre anni una campagna di sterilizzazione dei gatti linosani: è solo uno dei tanti episodi, tra quelli citati nel libro, che dimostrano che la realtà è sempre più complessa delle opposizioni binarie con cui siamo soliti schematizzarla, e che “stare dalla parte degli animali” è un’espressione che presa a sé rischia di risultare priva di significato. Le berte, come i libri belli, sono in pericolo, ma ancora per un po’ possiamo tirare un sospiro di sollievo. L'articolo La Sicilia, ricordata bene proviene da Il Tascabile.
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