U na massa inarrestabile. Senza volto, senza voce. Avanza a scatti: afferra,
dilania, consuma. Non pensa, non decide, non sente. È ovunque. Si può solo
cercare di non esserne contagiati. Oggi, questo è il nostro mostro. Non è
elegante, né seducente: non ha una storia da raccontare. Lo zombie non è
l’affascinante, tragica e ambigua creatura simbolo del male che per secoli ha
incarnato desiderio, solitudine e tormento, vale a dire il vampiro. Al centro di
molte narrazioni horror contemporanee troviamo un corpo disattivato nella sua
soggettività, ma ancora funzionante: non è più luogo di conflitto interiore, ma
meccanismo che reagisce, si muove, infetta. È una presenza che agisce senza
coscienza, senza desiderio, senza direzione.
Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario
contemporaneo: non per fascino, ma per necessità. Dove il vampiro rifletteva
l’io, lo zombie riflette il noi che si disgrega. Il primo era dramma dell’anima,
il secondo è sintomo della fine di una società. In nessun luogo questa
transizione è stata più radicale che nel cinema asiatico, dove il genere zombie
è esploso con una varietà di forme e significati, mentre il vampiro è rimasto
bloccato nel folklore o in variazioni d’autore marginali. La cultura
dell’estremo oriente ha trasformato il morto vivente in un linguaggio per
raccontare crisi collettive, vulnerabilità sistemiche, tensioni invisibili ma
onnipresenti.
> Tra zombie e vampiri, è il primo ad aver conquistato l’immaginario
> contemporaneo: dove il vampiro rifletteva l’io, lo zombie riflette il noi che
> si disgrega. Il primo era dramma dell’anima, il secondo è sintomo della fine
> di una società.
Non si tratta solo di una moda, ma di una mutazione profonda dell’immaginario.
Il vampiro apparteneva a un mondo ossessionato dalla soggettività e
dall’interiorità. Lo zombie è il prodotto – e simbolo – di un mondo in cui il
soggetto si frantuma dentro la collettività. Un mondo che ha smesso di chiedersi
chi siamo, e ha cominciato a temere di essere già diventati qualcosa d’altro.
Il corpo come specchio della crisi
Per capire il successo dello zombie e il declino del vampiro, bisogna partire
dal corpo e il corpo, oggi, è un campo di battaglia. Secondo Dennis Waskul
(professore di sociologia alla Minnesota State University di Mankato) che si
occupa di interazione simbolica, corporeità, sensorialità, sessualità e fenomeni
del soprannaturale) e Phillip Vannini (docente e ricercatore presso la Royal
Roads University di Victoria in Canada, che lavora tra sociologia, antropologia
ed etnografia visiva, occupandosi soprattutto di semiotica del corpo e
interazione simbolica), il corpo umano non può essere ridotto a una semplice
entità biologica: è un costrutto sociale e simbolico, modellato
dall’interazione, dalla cultura e dai processi di significazione che lo
attraversano.
Il corpo è un sito in cui si negoziano identità, si riflettono dinamiche di
potere e si esprime – anche attraverso il silenzio o la malattia – la condizione
del soggetto, scrivono i due studiosi in Body/Embodiment: Symbolic Interaction
and the Sociology of the Body (2006). Non possiamo quindi considerare il corpo
come un’entità biologica, ma occorre prenderlo in considerazione come punto
d’incontro tra significati, relazioni e aspettative sociali. Ogni corpo è, in
qualche misura, una biografia vivente: qualcosa che parla anche quando tace, che
significa anche quando sembra solo subire.
Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo
sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio, l’alterità.
È, potremmo dire, un corpo-specchio: non riflette direttamente ciò che gli altri
pensano, ma si plasma su segnali e aspettative sociali. E, in questo senso, è
profondamente moderno: costruisce sé stesso nel conflitto tra ciò che è e ciò
che appare. È il corpo dell’individualismo tardo-romantico, dell’interiorità
tormentata. Seduce perché mette in scena la soggettività in crisi, il desiderio
che non può essere appagato senza colpa.
Lo zombie, al contrario, è corpo svuotato. Non ha più agency (cioè la capacità
di un soggetto di agire nel mondo in modo intenzionale e consapevole,
esercitando scelta e influenza sulla realtà), né riflesso. È un caso di vero
fallimento drammaturgico: un corpo che ha smesso di recitare, che non prende più
parte al gioco rituale della socialità. Non si limita a essere escluso: è
semplicemente caduto fuori. I corpi, normalmente, si costruiscono dentro codici
condivisi, attraverso convenzioni culturali e performance quotidiane. Lo zombie,
invece, è un’interruzione di quel codice: non rappresenta più nulla, non negozia
più nulla, non comunica. Lo zombie è ciò che resta quando tutto questo si
interrompe.
> Il vampiro è un corpo riflesso: performa la propria identità in relazione allo
> sguardo altrui, si costruisce attraverso il desiderio, il giudizio,
> l’alterità. È un corpo-specchio che si plasma su segnali e aspettative
> sociali.
Nel mondo contemporaneo, segnato dalla perdita di certezze, dal collasso delle
narrazioni collettive e dalla crisi dell’identità, il corpo zombificato diventa
una metafora potente. È il corpo che ha perso la capacità di costruire senso,
che si muove senza meta in uno spazio disordinato, dove i codici sociali sono
collassati. Come ha osservato Stefano Vernamonti nel suo articolo “Staccando la
coscienza da terra”, la contemporaneità immagina sempre più spesso una coscienza
astratta, disincarnata – separabile dal corpo, caricabile su server o algoritmi.
È l’orizzonte della mente digitalizzata, della soggettività algoritmica,
dell’identità smaterializzata.
In questo scenario, lo zombie sembra una figura fuori tempo, residuale. E invece
è proprio qui che diventa interessante. Lo zombie rappresenta l’opposto esatto
di quella visione disincarnata: un corpo che continua ad agire senza coscienza,
svuotato di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della
coscienza – non più pensante, ma ancora pulsante. È il simbolo di ciò che resta
quando la coscienza se n’è andata ma il corpo non può smettere di muoversi. Lo
zombie, con la sua passività attiva, la sua esistenza senza soggetto, riesce a
restituirci con spietata precisione la condizione contemporanea: quella di
un’umanità che agisce per inerzia, lavora senza scopo, comunica senza ascolto,
vive senza presenza.
Nel cinema asiatico questo corpo senza soggetto è diventato il simbolo perfetto
della crisi. Train to Busan (2016), diretto da Yeon Sang-ho, non è solo un film
di zombie: è una radiografia della Corea del Sud contemporanea. Il treno che
corre verso la catastrofe è metafora di una modernità che ha perso controllo,
umanità, direzione. I personaggi sono tipologie sociali: il manager egoista, la
madre incinta, il senzatetto. E il virus è l’evento che li costringe a mostrarsi
per ciò che sono, senza maschere, senza ruolo, senza protezioni. Come osserva
Seoulbeats, il film ha raccolto le paure post-trauma del disastro del traghetto
Sewol e le ha trasformate in narrazione collettiva. Il treno diventa allora una
capsula sociale, una metafora accelerata della nazione, un dispositivo narrativo
che comprime tensioni familiari, economiche e morali.
In The Sadness (2021), diretto da Rob Jabbaz e ambientato a Taipei, l’orrore si
radicalizza: il virus non uccide, ma libera gli istinti peggiori. Gli infetti
restano coscienti, ma si trasformano in sadici. Non è solo la società che
crolla, ma anche il codice morale. Il film è una parabola estrema sul potere
della repressione sociale e sull’ipocrisia dell’ordine pubblico. è un’opera che,
nella sua grottesca esagerazione, rivela l’instabilità dell’intero sistema
culturale asiatico contemporaneo. Il corpo infetto non è più solo mostruoso: è
sociale. È trauma puro, incarnazione dell’assenza di senso e specchio fedele di
una società in cui la promessa di coesione sociale si è dissolta nella
competizione feroce e nella solitudine di massa.
> Lo zombie rappresenta un corpo che continua ad agire senza coscienza, svuotato
> di soggettività ma ancora vincolato al mondo, un resto muto della coscienza –
> non più pensante, ma ancora pulsante.
Se lo zombie è diventato il corpo collettivo dell’esclusione, il vampiro, al
contrario, rimane una figura centrata sul sé, sul desiderio, sull’autonomia
(qualità che appaiono dissonanti in molte narrazioni asiatiche contemporanee).
In un immaginario dominato dalla pressione del conformismo sociale e
dall’instabilità delle strutture istituzionali, il vampiro non trova un
ecosistema culturale favorevole. Certo, esistono eccezioni significative.
Thirst (2009) di Park Chan-wook, per esempio, è un film straordinario. Il
protagonista, un prete cattolico trasformato in vampiro da una trasfusione
sperimentale, è l’incarnazione vivente del paradosso tra purezza e desiderio. La
pellicola fonde erotismo e senso di colpa, trascendenza e istinto. Ma il suo
vampiro è tutt’altro che collettivo: è un individuo scisso, tragicamente
solitario. Come nota una recensione su Booker Horror, Thirst opera come dramma
metafisico più che come horror di consumo. È un film che riflette sulle
dinamiche del desiderio e della fede, ma non riesce a diventare specchio della
società nel suo complesso. Non sorprende che non abbia generato imitatori.
Al contrario, le apparizioni del jiangshi (il “vampiro saltellante” della
tradizione cinese) appartengono a un registro più folklorico e comico. Questi
esseri, rigidi e quasi caricaturali, sono il prodotto di un’altra sensibilità:
evocano lo scompenso tra mondo dei vivi e dei morti, ma senza l’introspezione o
il simbolismo erotico del vampiro occidentale. Non sono mai protagonisti
tragici, ma antagonisti da neutralizzare.
Il vampiro asiatico, dunque, appare come un corpo simbolico senza presa sul
presente. Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e
autoreferenziale, inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in
crisi sistemica. Dove lo zombie offre un linguaggio collettivo, il vampiro è
ridotto al sussurro del singolo.
> Il vampiro asiatico appare come un corpo simbolico senza presa sul presente.
> Incarna un’idea di soggettività individuale, seduttiva e autoreferenziale,
> inadeguata a rappresentare le dinamiche di una società in crisi sistemica.
E, anche nell’immaginario occidentale, il vampiro ha smesso di incarnare la
trasgressione per eccellenza. Come osserva Giovanni Padua in “Un vero conte
transilvano morto”, ha perso la sua carica perturbante: non mette più in crisi
l’ordine, lo decora. Le sue apparizioni recenti sembrano oscillare tra due poli
ugualmente depotenziati: da un lato la domesticazione adolescenziale, dall’altro
la restaurazione folklorica. Anche il Nosferatu (2024) di Robert Eggers,
attesissimo remake uscito alla fine dello scorso anno, rinuncia a ogni forma di
rinnovamento incomodante, radicandolo nella filologia culturale più che
nell’inquietudine contemporanea. Il vampiro, così, smette di interrogare
l’ordine per trasformarsi in monumento. Lungi dall’essere simbolo di rottura,
diventa una figura rassicurante, storicizzata, utile più a evocare nostalgia che
a disturbare.
Lo zombie come semiotica dell’esclusione
Il corpo “zombificato” è il corpo fuori senso, fuori discorso. Non ha più
narrazione. È ciò che resta dopo la perdita della coerenza esistenziale, il
punto in cui il linguaggio si spezza, il segno non si decifra, il potere che
diventa biologico. È, in altre parole, la radicalizzazione del soggetto
precario. Nell’Asia contemporanea, dove le strutture sociali sono attraversate
da una tensione costante tra rapidità dello sviluppo e fragilità istituzionale,
lo zombie diventa specchio e denuncia. Il suo successo culturale è legato anche
alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore, migrante
o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un corpo che
non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione. Non è più soggetto di
senso, ma resto biologico. Lo zombie non è escluso: è eccedente, inutile,
residuo.
Come nota Graziano Graziani in “Gli zombi e noi”, lo zombie si distingue da
tutte le altre figure del pantheon horror proprio per questa sua natura
collettiva e degradante. È il mostro della moltitudine, non dell’individuo: non
ha l’eleganza del vampiro, né la coscienza tragica del mostro di Frankenstein.
Non appartiene a un ordine simbolico arcaico o mitico, ma è a pieno titolo un
prodotto della società di massa. In questa prospettiva, l’immaginario zombie si
sovrappone sempre più frequentemente alla paura contemporanea dell’“invasione”
migrante. Il corpo “zombificato” è l’incarnazione dell’altro che non
riconosciamo più come umano, che è stato espulso simbolicamente dall’orizzonte
dell’empatia. Se l’alterità non ha nulla in comune con il nostro ordine
simbolico – se non è nemmeno più “umana” – allora tutto diventa giustificabile:
la violenza, l’abbandono, la rimozione. È in questa zona grigia che si colloca
l’efficacia simbolica dello zombie oggi: non è semplicemente il morto vivente,
ma il vivente disumanizzato. Un corpo che non reclama più diritti, ma che non
può essere ignorato. Uno spettro politico.
In questa genealogia del corpo degradato e non riconosciuto, si inserisce anche
il ghoul, come ha evidenziato Gioacchino (Jack) Orlando in “Echi dalle rovine”.
Creatura folklorica marginale, il ghoul si nutre dei resti umani, abita luoghi
desolati, si aggira ai confini del racconto. È simile allo zombie, ma conserva
una coscienza e una lingua: è un mutante, non un morto che ritorna. Questo lo
rende una figura ancora più ambigua, una soglia mobile tra umano e mostruoso. Il
ghoul non rappresenta una degenerazione né un’evoluzione, ma una sopravvivenza
ostinata. Non avanza né regredisce, semplicemente persiste. E come lo zombie, ci
ricorda che l’umanità non è un dato naturale, ma una condizione continuamente
negoziata – e facilmente negata.
> Nell’Asia contemporanea, lo zombie diventa specchio e denuncia, anche grazie
> alla sua flessibilità simbolica: può essere disoccupato o consumatore,
> migrante o cittadino medio, studente o manager. In ogni caso, rappresenta un
> corpo che non partecipa più, che non ha più diritto alla narrazione.
Analizzare la figura dello zombie significa confrontarsi con le fratture del
presente. L’horror è da tempo oggetto di studi approfonditi, non più relegato al
rango di genere minore, ma riconosciuto come specchio delle tensioni sociali.
Mentre altri generi proiettano speranze o nostalgie, l’horror lavora sulle crepe
dell’attualità, rendendo visibile ciò che spesso preferiremmo ignorare. In
particolare, lo zombie asiatico si fa dispositivo critico: il contagio, la
folla, l’inefficienza delle istituzioni, il panico collettivo – tutto converge
per raccontare una società già in crisi, dove la catastrofe non è una rottura,
ma una continuità.
Una sintomatologia globale
L’Asia, nel suo precipitare nel futuro, ci mostra il laboratorio del mondo. Un
luogo in cui il passato si sgretola e il presente non fa in tempo a diventare
memoria. In quel vuoto che si apre tra crisi e connessione, lo zombie cammina.
Ma se guardiamo all’Occidente, il panorama non è poi così diverso. Anche qui il
vampiro (simbolo del tormento individuale, della trasgressione romantica,
dell’erotismo gotico) ha perso centralità. Al suo posto, negli ultimi vent’anni,
si è affermato lo zombie come mostro dominante della cultura visiva: più grezzo,
meno riflessivo, ma incredibilmente efficace nel rappresentare le inquietudini
collettive.
L’inizio degli anni Duemila ha segnato una vera rinascita del genere: 28 Days
Later (2002) di Danny Boyle ha rivoluzionato il linguaggio visivo dello
zombie-movie, introducendo una creatura accelerata, rabbiosa, plasmata
sull’ansia pandemica e la dissoluzione urbana. World War Z di Marc Forster
(2013) ha dato una dimensione globale al contagio. The Walking Dead (2010-2022)
ha costruito una mitologia seriale che ha ridefinito il modo in cui raccontiamo
l’apocalisse: non più un evento improvviso, ma una lenta, dolorosa erosione
della civiltà.
Oggi, quelle stesse narrazioni stanno vivendo una nuova stagione, basti pensare
a 28 Years Later (2025), l’universo di The Walking Dead che continua a
moltiplicarsi con spin-off come The Ones Who Live e Daryl Dixon, in arrivo con
nuove stagioni nel 2025. Anche The Last of Us, dopo aver concluso la seconda
stagione nel 2025, proseguirà con una terza annunciata per il 2027, rinnovando
il suo sguardo sul trauma e sul corpo infetto.
È un rilancio simbolico. Il genere zombie si adatta a un presente frammentato:
ogni declinazione propone nuovi punti di vista, nuovi corpi vulnerabili, nuove
mappe emotive. Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine
disorientata che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza.
> Non c’è più un eroe a cui affidare il senso: c’è una moltitudine disorientata
> che cerca, a fatica, una forma di sopravvivenza.
Lo zombie occidentale si confronta con l’ansia del collasso dell’ordine
liberale, della frammentazione delle istituzioni, della perdita del controllo
razionale sul mondo. In Europa e negli Stati Uniti, il morto vivente si aggira
tra rovine riconoscibili: scuole chiuse, città svuotate, famiglie implose. Non è
solo una minaccia: è l’eco di un sistema che non funziona più. Simboleggia la
paura che l’individuo non conti più nulla, che le strutture costruite per
garantire coesione siano diventate inservibili. In Asia, invece, lo zombie
prende forma dentro una modernità estrema: è il sintomo di un mondo
iper-organizzato che produce esclusione sistemica, solitudine, anonimato. Lì, il
morto che cammina non rappresenta la perdita di un’autonomia: incarna il
sospetto che quell’autonomia non sia mai stata concessa del tutto.
Eppure, nella moltiplicazione dei prodotti culturali lo zombie diventa un
archetipo globale. Le sue incarnazioni si ibridano, si aggiornano, si esportano.
Non è più solo un riflesso locale: è una mostruosità mondiale. Porta in sé ansie
postpandemiche, memorie coloniali, precarietà economica, instabilità climatica,
burnout emotivo. Ci racconta di come la società contemporanea, ovunque ci
troviamo, abbia smesso di interrogarsi sull’anima mentre tutto crolla.
L'articolo Sopravvivere al collasso proviene da Il Tascabile.
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S enza volto, no face. Aleggia nella Città Incantata, nessunə sa chi è, ma solo
che è lì, tra le vasche di Yubaba. Appare e sparisce, e che sia uno o siano
cento, il risultato è lo stesso: denuncia la corruzione dell’oro. Chiunque e
nessuno dietro la maschera: uno spirito della Città Incantata di Hayao Miyazaki,
ma anche un’idea politica. Lasciare indietro il volto, travisarsi come forma di
resistenza collettiva. Io traviso, tu travisi ed egli non riconosce. Non in quel
noi. Non sa dove mettere le mani. Che persone pigliare. Quali perseguitare.
Manifestare a volto coperto fa della sicurezza delle singole persone una
possibilità ‒ seppur erosa dalla tecnologia ‒ rendendole al contempo un simbolo.
A volto coperto la singola persona diventa qualcosa di più grande, e nella
politica crea perturbazioni e timori. Ed è proprio per questo che fa paura.
Paura persino al presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump.
Le fiamme di Los Angeles, le proteste, sono racchiuse nell’immagine, diventata
virale nell’arco di poco, di una persona a torso nudo. In piedi sull’auto della
polizia con una bandiera del Messico tra le mani e il volto completamente
coperto. Nulla urla “Fuck ICE” più di quest’immagine: la sfida all’intoccabilità
della polizia. Iconica l’immagine ed iconica la reazione. Da Truth, la versione
trumpiana del fu Twitter, il presidente statunitense ha ordinato agli agenti
schierati di arrestare le persone a volto coperto. Letteralmente e in lettere
maiuscole: “ARRESTATE TUTTE LE PERSONE MASCHERATE, ORA!”. Per Trump, le
proteste di Los Angeles sono sintomo di disordine, del controllo che sfugge. Le
azioni dei manifestanti, infatti, respingono al mittente le pratiche di
deportazione ‒ volute dall’attuale amministrazione ‒ compiute di notte, da
agenti armati e a volto coperto.
Il che potrebbe apparire assurdo considerando che la divisa mimetica in città
risalta anche di più, ma in verità risponde a uno scopo: palesare una presenza
militare e quindi intimorire. Per questo gli agenti della ERO (Enforcement and
Removal Operations, un’unità dell’ICE, Immigration and Customs Enforcement)
agiscono a volto coperto. Il corpo armato dello Stato può celarsi e tutelarsi,
mentre lo stesso criterio pare non applicarsi, perlomeno in termini di
legittimità, a chi è sottoposto all’autorità di quel medesimo potere. Si svela
perciò una doppia morale, che tutela il volto coperto quando a celarsi è lo
Stato, ma che ne fa un atto criminale quando a usarlo è chi contesta sistemi
oppressivi. Un’asimmetria che si svela e che fa, letteralmente, calare la
maschera al potere.
Ogni simbolo ha un significato, perciò difficilmente si può ritenere che una
scelta istituzionale sia casuale. In una società che si rispetti, questi si
inseriscono in una conversazione che, perciò, prevede e innesca delle risposte.
In questo caso, la scelta di una mobilitazione colossale che usa la guerriglia
urbana come mezzo di contenimento e minaccia nei confronti di chi sta
perseguitando le persone immigrate sul territorio statunitense: le forze
dell’ordine, certo, ma soprattutto chi queste procedure le ha volute
implementare, e cioè le istituzioni.
> A volto coperto la singola persona diventa qualcosa di più grande, e nella
> politica crea perturbazioni e timori.
Ovvero, proprio il cinguettante presidente Donald Trump. Forse, però, c’è anche
qualcosa di più profondo nella mobilitazione di forze voluta da Trump, che ha
visto lo schieramento di 2000 agenti della Guardia nazionale prima e 700 marines
dopo. In essa potrebbe annidarsi la preoccupazione per la memoria storica
statunitense. L’ossessione per l’identificazione non è una novità. Anche nella
storia americana, l’anonimato ha rappresentato una strategia di opposizione,
talvolta centrale per cambiare ‒ in parte ‒ alcuni equilibri di potere. Già nel
1773, i membri del Boston Tea Party, hanno deciso di camuffarsi prima di andare
a sversare il tè di sua maestà nella baia di Boston per protestare contro le
tasse. I Bostoneers, però, indossarono abiti tradizionali delle Prime Nazioni,
ovvero di alcune delle popolazioni autoctone del Nord America, appropriandosi di
una cultura e di un’appartenenza che loro, per primi, avevano invaso e abusato.
Quindi, il tentativo di anonimato del Boston Tea Party era lo strumento di chi
protestava contro la corona, non contro l’imperialismo. Era un travestimento da
oppressi per difendere il diritto a essere oppressori.
Pochi anni dopo, nel 1775, nonostante i tentativi di rabbonire i coloni da parte
del Regno Unito, iniziò la Guerra d’indipendenza. Proprio da quel 16 dicembre
1773 il potere inglese non si è più ripreso, messo in bilico dagli atti di
persone che scelsero di nascondere, per quanto possibile, la loro identità. Se
allora il volto coperto era stata una strategia di chi già aveva un potere
maggiore rispetto ad altri, le proteste attuali lottano proprio contro quel
medesimo potere, denunciando la matrice coloniale che nutre il razzismo
sistemico negli Stati Uniti. La volontà, ora, è quella di fare dell’anonimato un
atto collettivo capace di far tremare il potere, tutto.
Spesso il Boston Tea Party è glorificato dagli stessi che ne temono il retaggio,
senza una riflessione critica. L’inquinamento storico del volto coperto, viene
perciò ribaltato, in diverse proteste, che lo reclamano ‒ a volte indossando
balaclava rosa, come è accaduto poco tempo fa con l’occupazione del Pirellino a
Milano ‒, perché sia un atto ribelle e non un atto a sua volta violento. Il
volto coperto, quindi, può trascendere i suoi usi, in base alle rivendicazioni e
alla natura delle lotte che lo indossano. Le proteste No Kings, infatti, sono
state organizzate per contestare il modello imperiale voluto da Trump, e si
basano sul presupposto che gli Stati Uniti sono stolen lands, terre rubate
proprio alle Prime Nazioni. Territori invasi dai coloni, con una serie di
strumenti che hanno marginalizzato e tentato di rimuoverne l’identità, di
cancellare la loro storia e, quindi, la loro voce sul mondo. Una voce che nella
protesta, invece, risuona forte e chiara.
Il volto coperto ha una storia fortemente connessa all’azione contro oppressioni
sistemiche. Nei primi del Novecento, le suffragette, soprattutto quelle
impegnate in azioni dirette ‒ ovvero le suffragiste, per questo spesso
identificate come terroriste ‒ cercavano di rendersi poco riconoscibili,
modificando le proprie espressioni e posture, per sfuggire al monitoraggio
fotografico costante a cui erano sottoposte. Le foto, oltretutto, erano spesso
alterate dalle autorità per restituirne un’immagine pericolosa o sciocca. Una
foto di archivio del 1936, durante una protesta contro la guerra, ritrae diverse
donne, suffragette, che indossano maschere antigas bianche fatte di carta.
L’anonimato visivo, quindi, era ricercato come deterrente all’identificazione e
come performance. Facendo un salto temporale e rincorrendo le proteste più note,
il maggio francese del Sessantotto vide una quasi totale assenza di volti
coperti. L’anonimato corporeo, in questo caso, passava in secondo piano in forza
del numero immenso di partecipanti che, nella massa, hanno trovato la protezione
necessaria per la protesta.
> Il corpo armato dello Stato può celarsi e tutelarsi, mentre lo stesso criterio
> pare non applicarsi, in termini di legittimità, a chi è sottoposto
> all’autorità di quel medesimo potere.
Caso più esplicito, a matrice profondamente decoloniale, è quello della
resistenza zapatista, che tutt’oggi rivendica la maschera come strumento perché
la lotta e la resistenza siano viste. A volto coperto, nel 1993, migliaia di
persone zapatiste occuparono ben sette città, tra cui San Cristobal de Las Casas
e al grido di “¡Ya basta!, denunciarono l’invisibilizzazione delle popolazioni
originarie in Messico e l’intenzione di liberare la terra con la lotta.
In Europa, e più in generale nei Paesi occidentali, il volto coperto è temuto.
Una paura politica incanalata contro quella modalità di protesta in cui la
copertura interessa il volto e tutto il corpo, creando un anonimato quasi
integrale. La tattica di protesta black bloc è stata per la prima volta
descritta nel maggio del 1980, nella Germania Ovest, nel contesto di proteste
contro sgomberi, movimenti neonazisti e più in generale, contro le autorità
centralizzate. Ha, quindi, una matrice identitaria profondamente antisistema e
anticapitalista. L’uso della copertura permette alle persone di compiere azioni
dalla grande portata dirompente in uno spazio di protezione collettiva, creata
non solo dai dispositivi individuali, ma dal coordinamento del blocco. Le
proteste a volto coperto si muovono su questa linea: resistere al controllo e
alla cancellazione, proteggere un’identità in pericolo e portare avanti azioni e
manifestazioni dalla forte capacità conflittuale. Il volto coperto crea un corpo
collettivo, reattivo, che non si lascia isolare.
Oggi, però tutto questo risulta sempre più difficile, e quindi rischioso, a
causa di tutte le tecnologie di sorveglianza sparpagliate nelle città che stanno
riducendo lo spazio dell’anonimato. Al punto che vien da chiedersi se sia ancora
possibile un anonimato reale in un contesto che non solo rintraccia ‒
potenzialmente ‒ ogni persona, ma che addirittura spettacolarizza e trasforma
tutto in intrattenimento. In un contesto in cui il tracciamento dei nostri
percorsi è talmente pervasivo da sembrare normale, in cui c’è addirittura una
spinta a trasformare la folla in contenuto individuale, si può sfuggire a quello
sguardo digitalizzato? Le autorità, dopotutto, ne fanno ampio uso.
Le forze dell’ordine statunitensi, ad esempio, hanno a disposizione un vasto
arsenale di controllo e monitoraggio: oltre a filmare costantemente le persone
manifestanti, sono dotate di dispositivi e strumenti ‒ come come Clearview AI ‒
che permettono di ricostruire, con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale, i
volti delle persone manifestanti in ritratti. Efficaci, ma non infallibili e
che, anzi, possono portare ad arrestare le persone sbagliate. Ma non solo, tra i
rilevatori che permettono di triangolare i segnali emanati dagli smartphone ‒
detti stingray ‒, le videocamere e la capacità di identificare una persona
addirittura dall’andatura, la possibilità dell’anonimato sembra restringersi con
ogni aggiornamento. Ogni persona, infatti, è potenzialmente rintracciabile. E
non serve nemmeno essere in prima linea. Una storia su Instagram o un passaggio
in metro con la carta, lasciano tracce, disegnando la geografia dei nostri
movimenti. E sebbene in Italia, al momento, non vengano usati gli stessi
dispositivi statunitensi, l’impegno delle forze dell’ordine per identificare i
manifestanti non è meno strenuo e non lesina a ricorrere alle tecnologie di
tracciamento o monitoraggio.
> Il volto coperto crea un corpo collettivo, reattivo, che non si lascia
> isolare.
Nel nostro ordinamento, l’atto di coprirsi il volto durante le manifestazioni
viene definito travisamento, ed è considerato un illecito amministrativo. Il
termine stesso con cui viene descritto rivela una postura repressiva: il termine
evoca l’inganno, la distorsione, e non la possibilità di autodifesa o di
anonimato politico. E, in effetti, può diventare un’aggravante, come dimostrato
nella recente sentenza in primo grado contro dieci persone manifestanti solidali
con Alfredo Cospito. Il tutto, in un concerto di riprese e identificazioni con
cui l’anonimato della persona manifestante viene eroso. Chi manifesta viene
continuamente filmato, archiviato nelle memorie della sorveglianza statale.
Volti, date, cortei. E durante le proteste non sono rari i tentativi delle forze
dell’ordine di abbassare le maschere ai manifestanti, come accaduto nel corteo
pro-Palestina del 12 aprile a Milano. Quello che in teoria non è reato, qui,
viene comunque punito, anche solo con l’aumento di attenzione riservata a quella
presenza. Con la presa dello spazio e la conseguente intossicazione del margine
politico.
In Italia come negli Stati Uniti, alla repressione materiale si accompagna
quella culturale: chi copre il volto viene raccontato come un pericolo sociale,
isolato narrativamente dal resto della piazza, dipinto come facinoroso e
infiltrato. Uno spirito malvagio pronto a distruggere la ‒ apparente ‒ quiete
sociale, senza un perché. La sovranarrazione, in questi casi, protegge lo status
quo, che diventa vittima di un attacco immotivato. La protesta, e le azioni che
può comprendere, viene collocata su un asse immaginario, ad un estremo la
narrazione di un profilo, all’altro la totale cancellazione, per evitare che
venga raccontata. Quale che sia la scelta, però, si attiva un meccanismo di tone
policing che insegna quale modo di manifestare sia “giusto”, perché più
controllabile e meno minaccioso, e quale sia “sbagliato” e, per questo,
punibile.
Una protesta decaffeinata. Altamente digeribile. L’ostinazione di alcunə deve
essere corrosa: a questo serve l’intento di rendere criminali agli occhi
dell’opinione pubblica nazionale e internazionale non schierata ‒ o già
schierata contro ‒ chi si copre il volto in piazza. Un processo immediato che
risponde in maniera quasi meccanica alla minaccia percepita. Dare l’allarme e
tratteggiare il volto coperto come un pericolo per l’ordine pubblico ‒ quindi
collettivo, cittadino ed ordinario ‒ mette le persone nella condizione di
percepire a loro volta quella minaccia. Come se fosse rivolta direttamente
contro di loro. La speranza di questo tipo di descrizione è che si inneschi un
rifiuto assoluto. Ostile. Una contrapposizione che poi permetta di punire chi ha
manifestato e di intimidire le altre persone evitando che possano anche solo
pensare di fare una cosa del genere.
> Chi manifesta viene continuamente filmato, archiviato nelle memorie della
> sorveglianza statale.
Annidarsi nella mente sociale è il miglior meccanismo di sorveglianza, perché
sono le singole persone a diventare le prime controllore di sé stesse e delle
altre. Diventano loro le voci che richiedono repressione e militarismo, che
invocano divieti contro il diritto di coprirsi il volto ‒ con una deriva
volutamente islamofoba ‒ prima ancora che gli organi repressivi si mettano in
moto da soli, agendo senza chiedersi nemmeno un perché, mossi dall’idea che lo
stato delle cose sia un ordine sacro. E il problema, forse, si annida anche
qui. Perché quando è “l’ordine pubblico” a dover essere messo in discussione –
per ottenere libertà, protezione, giustizia o quant’altro – e quando farlo
comporta gravi rischi individuali e collettivi, coprirsi il volto non è forse
uno strumento di sopravvivenza? E non solo per celare i tratti riconoscibili e,
quindi, rintracciabili del viso (occhi, naso, forma del viso ecc.), ma anche per
proteggersi dai dispositivi di controllo della folla impiegati dalle forze
dell’ordine come i gas lacrimogeni, contro cui una maschera filtrante può essere
effettivamente efficace, ma per esserlo deve necessariamente coprire il viso.
Nasconderlo, tutelarlo. E se non dai deterrenti urticanti, dal diventare un
bersaglio, perseguibile, rintracciabile, con una vita che può essere sbriciolata
sotto il peso della burocrazia punitiva.
Da Occupy Wall street alle rivolte contro i proprietari terrieri della metà
dell’Ottocento, passando per la demonizzata tattica dei black bloc, il volto
coperto cancella la vulnerabilità individuale creando una grande identità
plurale in divenire. In cui nessunə è protagonista e nessunə viene lasciato
indietro, proprio perché, a volto coperto, si entra in un’identità plurale. Si
diventa innesti in un’entità multipla, parti essenziali che si aggiungono e
muovono individualmente ma nella stessa direzione: la ribellione.
La paura del volto coperto è anche paura dell’ignoto, di un’identità collettiva
che sfugge al controllo. Non sapere chi ci sia dietro impedisce di prendere di
mira la singola persona, di isolarla. Il volto coperto protegge idee e corpi,
crea un grande territorio politico in cui nessunə è protagonista e nessunə è
lasciato indietro. Gli zapatisti scelgono di mostrarsi sempre a volto coperto,
in modo da proteggere tanto l’identità quanto l’ideale. Con una serie dì
strategie anti gerarchiche, per cui non ci sono capi, ma subcomandanti che si
pongono dopo e per il popolo, che garantiscono la natura decentralizzata della
lotta. Il volto coperto è perciò un simbolo di umiltà che non conosce le
limitazioni dei confini e degli interessi statali. È il potenziale contenitore
per la ricerca di un modo diverso di vivere, in cui si abbandonano le velleità
di successo personali e si abbraccia l’idea ‒ perlomeno la possibilità ‒ di un
benessere reale, per tuttə. Insomma, è il contrario della tutina di un
supereroe, quella che mette in mostra e diventa riconoscibile, un brand. Mentre
il volto coperto è così banale da non potere appartenere a nessuno. Anche quando
vi si appone un logo davanti, è troppo forte per essere totalmente cooptato.
Oggi, in un’epoca in cui il panopticon digitale dilaga, in cui condividiamo e
siamo sorvegliati allo stesso tempo, la pratica del volto coperto rappresenta
una forma di protezione e resistenza. Per questo, il volto coperto non è solo
difesa. È anche attacco, sabotaggio, creazione. È la possibilità di essere parte
di qualcosa senza essere consumatə da quello sguardo che vuole schedare,
isolare, colpire. Perché un volto nascosto può custodire tutto: una vita, una
storia, una ribellione. E, forse più di ogni altra cosa, un ideale. La minaccia
contro chi si copre il volto ci ricorda che in effetti, ogni regime, non teme
tanto la singola persona con la sua storia e le sue azioni, quanto piuttosto
l’insieme di quelle persone, quelle storie e quelle azioni. Le idee che si
portano dentro. Che sa cosa vuol dire vedere una persona che ha scelto di essere
parte di una causa, sventolare una bandiera senza reclamare qualcosa di
materiale per sé: una sfida aperta allo status quo a volto coperto. Senza volto
e con mille facce.
L'articolo Protesta senza volto proviene da Il Tascabile.
I n una delle sue poesie più cupe, non a caso titolata Darkness, lord George
Gordon Byron scrive:
> E gli uomini nel terrore di questa desolazione
> Dimenticavano le passioni, mentre i loro cuori
> Raggelavano in un’egoistica preghiera di luce.
> Essi vivevano accanto a fuochi accesi: i troni,
> I palazzi di re incoronati, le capanne,
> Le dimore e i rifugi di ogni tipo
> Erano bruciati insieme alle città per aver luce,
> E gli uomini si raccoglievano attorno alle case in fiamme
> Per guardarsi ancora una volta in viso.
Nell’estate del 1816, mentre scriveva, le popolazioni si decimavano nella fame e
nel buio: l’eruzione del vulcano Tambora dell’anno precedente aveva liberato
nell’aria nubi di polveri e gas tali da oscurare la luce solare e provocare un
abbassamento drastico delle temperature. Ne seguirono carestie e terremoti;
violenze di massa e culti millenaristici si diffusero nelle campagne. Un senso
di fine divina pervadeva l’orizzonte degli uomini e delle donne del tempo.
L’anno successivo la Terra tornò a una condizione di equilibrio e le popolazioni
umane continuarono a scannarsi con particolare zelo: “l’anno senza estate”
rimase impresso in qualche poesia come quella di Byron e in un discreto numero
di fonti documentarie, ma sostanzialmente riposto nel cassetto dei brutti
ricordi.
Nel solco delle scienze climatiche oggi parleremmo di “evento estremo” e
bolleremmo come complottisti i contadini convinti dell’imminente apocalisse.
Eppure non muterebbe il senso di fine che ci attanaglia ancora di fronte a
sconvolgimenti imponderabili. Tanto più che quello in cui viviamo, a dispetto di
ogni avanzamento tecnico-scientifico, è un mondo totalmente immerso nelle
catastrofi. Partire dalle parole di Byron ci aiuta allora nel tentativo di
mettere a fuoco quello che sembra essere il senso profondo dell’epoca presente.
Non può non colpire infatti che quell’Ottocento delle nazioni, degli imperi
coloniali, della tecnica e delle rivoluzioni iniziasse proprio con un evento
apocalittico. Il vulcano Tambora battezzava il mondo che veniva: la modernità
nasceva sotto le nubi della catastrofe.
Epifanie catastrofiche
Ora, nel nostro tempo osserviamo un’accelerazione con cui si danno fenomeni
drammatici a ritmo serrato e, davanti ad essi, si diffonde un senso di
straniamento e impotenza generalizzata. C’è difficoltà a comprendere il reale e
ancora di più ad agirlo, eppure l’impotenza sembra essere dovuta non tanto
all’impatto dei fenomeni quanto a una sorta di disabitudine al mondo che è
propria di un Occidente tardocapitalista in una fase di senilità. Risvegliate da
un sonno trentennale che si voleva post-storico, queste società si sono
riscoperte gabbie d’acciaio fragili e totalmente distruttive. Proprio la
catastrofe quale segno del tempo potrebbe allora indicarci una via d’uscita da
questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e sospensione normativa di
cui eravamo dimentichi. Secondo definizione scientifica, infatti, catastrofe è
l’evento che irrompe in un sistema ordinato sparigliandone le carte, produce una
sospensione della norma al cui interno si danno possibilità di mutamento di
quello stesso sistema originario ormai spezzato.
> Proprio la catastrofe quale segno del tempo potrebbe indicarci una via
> d’uscita da questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e
> sospensione della norma.
Le catastrofi irrompono violentemente nella scena e travolgono le storie
individuali in un vortice totalizzante che mette in discussione ogni cosa,
distruggono edifici che sta ai superstiti scegliere come abitare. Un po’ come le
rivoluzioni, le catastrofi contengono in sé tragedia e rinnovamento, e questa
loro ambivalenza le rende un grande elemento immaginifico. Custodiscono il
potere di generare una propria epica. Non è un caso se un capitalismo che ha
divorato ogni risorsa, promesse comprese, non può che indicare un immaginario
che fantastica sulla fine di sé stesso, sfruttando una fascinazione potente e
monetizzabile.
Come la frontiera del western si è data a suo tempo quale luogo dell’immaginario
in cui il capitalismo individualista (e poi le resistenze ad esso) metteva in
scena la propria ascesi mitologica, oggi la catastrofe fa da ribalta per
un’Occidente al tramonto. È in atto da decenni un’opera di occupazione
preventiva di questo immaginario, attraverso il riadattamento dei mitemi stessi
del mondo che muore: la figura dell’audace eroe con le sue armi, la famiglia
nucleare come unico ambito degno di salvezza, l’hobbesiano stato di natura
dell’homo homini lupus che sottende a ogni sospensione normativa.
Eppure sono possibili, si sono operati rovesciamenti di significato, possibili
forme di resistenza alla colonizzazione imperiale dell’immaginario. Bisogna
sottrarre la catastrofe alle passioni tristi. Il perturbamento delle rovine,
siano tracce di passato nelle città o futuri proiettati sullo schermo, ci parla
di qualcosa che se accadesse davvero metterebbe a rischio non solo routine e
certezze assodate ma probabilmente la nostra stessa vita, e noi la rifuggiamo
per istinto di sopravvivenza. Eppure nel suo consumo immaginifico esorcizziamo
la paura e accarezziamo il sogno proibito di veder finire il nostro tempo-mondo,
fuggire dalle gabbie della produttività nella precarietà della catastrofe.
Finché l’esorcismo è consumo, però, si conclude in sé stesso. La catastrofe è
allora anzitutto uno specchio in cui riflettersi e osservare, nell’ombra di
rovine futuribili, lo spaventoso senso di smarrimento che pervade le pieghe del
quotidiano. La catastrofe, suggeriva Calvino, è ogni giorno in cui non accade
nulla. Il mondo è finito ieri.
Una fine che vorremmo cinematica
Questo senso di ovattata disperazione è il rumore di fondo di una delle opere
postapocalittiche meglio riuscite: il romanzo La strada (2006; trad. it 2007) di
Cormac McCarthy, poi tradotto in pellicola dal regista John Hillcoat. La storia
segue l’errare di un uomo con suo figlio tra le macerie di quelli che furono gli
Stati Uniti, muovendosi verso sud in cerca del mare e della fine di un inverno
che ferisce, combattendo i morsi della fame e fuggendo dalla minaccia di uomini
che la stessa fame rende predatori. Non conosciamo il nome dell’uomo né quello
del bambino, sappiamo che l’unico scopo del primo è la sopravvivenza del
secondo, una sopravvivenza che non è legata solo all’assillante bisogno
fisiologico ma soprattutto alla conservazione di un senso d’umanità, sempre più
flebile in un panorama di morte.
> La catastrofe è ogni giorno in cui non accade nulla.
“Noi siamo i buoni?” chiede il bambino in uno dei rari dialoghi, “si” risponde
laconico il padre, “perché portiamo il fuoco?” incalza ancora, “perché portiamo
il fuoco”. Stanchezza e disperazione divorano l’uomo da dentro ma la marcia non
può avere termine, nemmeno con la morte. La vita deve replicarsi in ogni modo
possibile: quello che McCarthy ha messo in scena non è una distopia ma il dramma
esistenziale del tempo nostro attraverso la lente focale di una paternità quasi
folle nella sua ostinata missione.
Il tempo del romanzo, scritto nel 2006 e filmato tre anni dopo, è un futuro che
è già avvenuto: il guscio vuoto che è diventato la Terra, con il suo sole
oscurato dalle ceneri e alberi morti che cadono tra le braci fredde di incendi
quasi estinti, richiamano da vicino gli incendi che devastano l’Australia, la
Siberia o la California. Quello di Palisades, a proposito, era un incendio
“cinematico”. Così il carrello della spesa con cui i due trasportano le loro
magre risorse, i vestiti stracciati che indossano, sono i carrelli e gli stracci
che popolano le migliaia di accampamenti di homeless dentro e fuori metropoli
come Los Angeles.
La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi. Le bande
di predoni pronti a divorare il prossimo, con le loro armi raffazzonate, i mezzi
di fortuna e la fame furiosa negli occhi, rievocano le avanguardie reazionarie
di un’America profonda, incattivita, in cerca di un riscatto dal declassamento e
che, fuor di trama, hanno trovato in Trump il proprio sovrano. Le frasi non
dette e i pochissimi e scarni dialoghi sono i resti essenziali della parola
dentro un silenzio che quotidianamente non possiamo sentire solo perché occupato
da vortici di voci superflue.
L’apocalisse di McCarthy la portiamo dentro. Questo è tanto più vero se contiamo
che lo scrittore è stato forse l’ultimo grande cantore dello spirito americano,
che un po’ si è fatto spirito del mondo, e la tragedia che ha inscenato in La
strada è la nostra tragedia intima, attualissima, ma che riannoda le sue radici
nella genetica stessa della nazione e dei suoi miti. La catastrofe non solo come
riflesso ma come radice nera della Storia che permea la soggettività presente;
come dopplegänger del Progresso: l’ascesi di un mondo fondata sull’olocausto di
mille altri. Nelle pagine dei suoi romanzi, tra la frontiera del mito western e
quella fisica fatta di fili spinati pattugliati da militari, il tempo si dilata
in un unico spazio liscio non più misurabile con gli strumenti convenzionali.
L’unica temporalità è quella dettata dallo scorrere di una natura struggente,
crudele nella sua indifferenza verso l’agire disperato degli umani e delle loro
tragiche traiettorie. La violenza dei silenziosi personaggi di McCarthy è la
violenza che pervade un intero universo infervorato da uno slancio
superomistico, volontà di potenza che lo acceca e lo spinge alla
(auto)distruzione.
> La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi.
Meridiano di sangue (1985; trad. it. 1996) è forse il suo romanzo più crudo: una
banda di cacciatori di scalpi guidata dal folle ed enorme giudice Holden,
incarnazione depravata del “Destino manifesto”, cavalca al confine messicano
nella guerra per strappare il territorio allo Stato vicino e alle tribù native;
ma più che un conflitto abbiamo una strage criminale dove chiunque finisce per
essere schiacciato. Innocenti, civili, alleati, combattenti e animali cadono
nella necessità di stabilire il potere esclusivo su una terra che rimane
scenario oscuro e distante, al limite di un onirico che ben si addice alle
allucinazioni di potere dei protagonisti.
È un racconto d’invenzione, eppure affonda i piedi in un’ampiamente documentata
storia di crimini di guerra che hanno edificato la “nazione più grande del
mondo” e che non sono relegate a spettri del passato ma si rinnovano ad ogni suo
passo. Mentre scriveva Meridiano di sangue, nella prima metà degli anni Ottanta,
McCarthy non aveva in mente solo le guerre ai nativi. Attorno a lui era
tangibile il trauma seguito alla sconfitta americana in Vietnam: l’orrore che si
erano riportati a casa i giovani veterani era un decimo di quello che si erano
lasciati alle spalle, in uno scenario divenuto anch’esso quasi mitologico quanto
la frontiera (basti citare, su tutti, il capolavoro di Francis Ford Coppola
Apocalypse Now, 1979).
In quel frangente le vicende degli scalpatori di Holden portavano in controluce
il segno di quell’ultima guerra e, come una premonizione, anticipavano
l’inchiesta che sarebbe emersa solo nel 2003, ironicamente al tempo delle
rivelazioni di Abu Grahib, sulla famigerata Tiger Force: il battaglione punitivo
dell’esercito americano utilizzato per terrorizzare i villaggi vietnamiti nel
vano tentativo di estirpare il sostegno popolare alla guerriglia. Eccidi,
torture, stupri e innumerevoli crimini della Tiger Force emersero chiaramente
come la punta di diamante di un uso sistematizzato della brutalità. Erano (sono)
la traduzione bellica di una politica imperiale che non ha alcuna considerazione
delle tracce del suo passaggio. Gli scapolari di scalpi di Meridiano di sangue e
quelli di orecchie della Tiger Force, le piramidi di teschi di bufalo nelle
cartoline dell’Ottocento yankee e le immagini del villaggio My Lai avvolto dalle
fiamme restano come i negativi dell’album fotografico di una storia egemone,
residui che vanificano ogni autoassoluzione. Alla fine del romanzo l’anonimo
ragazzo/narratore, complice e sopravvissuto alle vicende degli scalpatori, dopo
anni di modestia ritrova per caso il suo vecchio capo e la sua vita termina quel
giorno, con una sorta di lampo del passato che torna per battere cassa.
Durante la guerra fredda, con il tangibile rischio di un conflitto nucleare, gli
scienziati nucleari idearono, per somma fortuna di scrittori e registi, il
Doomsday Clock: un orologio che stabilisce, da inizio a fine, la storia
dell’uomo sulle dodici ore del quadrante. Oggi, nel pieno di una febbre bellica
senza antidoti, le lancette segnano 89 secondi alla mezzanotte: un minuto e
mezzo dall’estinzione della razza umana per mezzo di un conflitto termonucleare.
Finché non è disertata, la catastrofe imperiale, epifenomeno funesto della
logica capitalista, non lascia margini alla rigenerazione della vita. Non
trovano scampo nemmeno i sopravvissuti guardinghi o i suoi agenti, solo la
feroce volontà di potenza dei giudici Holden rimane intatta in un lago di
sangue.
> Non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario ne ricava una
> miniera preziosa di strumenti d’indagine.
Fortunatamente, però, non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario
ne ricava una miniera preziosa di strumenti d’indagine. Catastrofe come forma
della conoscenza quindi, sempre contesa nella dialettica dei rapporti di forza.
Il cinema americano, Wunderwaffen del softpower atlantista, è stato generoso nel
battere questo territorio e tentare d’imporgli le sue norme. Non per caso le
narrazioni del disaster (o del post-apocalyptic) movie si sono per lo più date
seguendo i medesimi schemi: il Destino manifesto trascende nel ruolo salvifico
dell’America rispetto al mondo intero e al suo popolo, s’impersonifica nell’eroe
quale Individuo (sovente maschio e caucasico) in grado di esercitare da solo un
potere trasformativo degli eventi.
Quando la catastrofe mina l’ordine delle cose, minacciando indistintamente la
vita umana e la proprietà privata, attraverso il collasso delle relazioni
sociali in una guerra di tutti contro tutti, è l’operato dell’eroe che
ristabilisce l’ordine originario attraverso la sconfitta dell’evento mostruoso
(e qui entrano solitamente in ballo gli emblemi della nazione: il presidente,
l’esercito, la White House) oppure attraverso il ristabilirsi di un piccolo
ordine in mezzo all’irreversibilità della fine: il salvataggio della famiglia
nucleare, il ritiro nella natura e la vita attraverso il lavoro manuale. Uno
spettro piccolo-borghese che proprio non vuole lasciare questo mondo.
A tagliar corto, questa è più o meno la forma che il capitale ha tentato di
imporre come proprio epitaffio, un finale gattopardiano per imbrigliare lo
spazio del possibile. E si potrebbero elencare centinaia di pellicole dove la
minaccia è differente ma il ciclo si ripete: The Day After (di Nicholas Meyer,
1983, guerra termonucleare), 2012 (di Roland Emmerich, 2009, disastro
ambientale), Indipendence Day (ancora Emmerich, 1996, attacco alieno), 28 giorni
dopo (di Danny Boyle, 2002, epidemia zombie). Eppure, un’assoluta colonizzazione
dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di qualsiasi Intelligenza
artificiale o algoritmo predittivo, una missione impossibile. La sua natura
ontologicamente ingovernabile ne fa un terreno impervio, da scorribande, da covo
di disertori. Per cui non andremo oltre con la filmografia dell’impero, che già
occupa posto in abbondanza e procederemo con i suoi controutilizzi.
È stato ad esempio un sabotatore particolarmente abile Jonathan Nolan, già
reduce del capolavoro western-scifi Westworld (2016), nell’ideazione della serie
Fallout (2024) che riprende le vicende alla base dell’omonima saga videoludica
di culto: un’America completamente distrutta dalle ricadute di una guerra
termonucleare è popolata da bande di predoni, eserciti pretoriani e città-stato
governate dalle più bizzarre fedi e forme politiche; pericolo e fame sono
ovunque, tra le rovine della civiltà un tempo egemone si aggirano forme di vita
mutate dalle radiazioni.
> Un’assoluta colonizzazione dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di
> qualsiasi Intelligenza artificiale o algoritmo predittivo, una missione
> impossibile.
Il successo del videogame fu dovuto anzitutto all’ampia autonomia di gioco di
cui gode il gamer, che lo mette in condizione di creare la propria storia
piuttosto che seguirne una predisposta (e qui già possiamo percepire il piacere
della fuga), ma soprattutto all’ambiguità morale che struttura tutto il gioco:
il giocatore/personaggio può prendere le decisioni migliori come aiutare un
bambino, o le più efferate come ucciderlo. In questa sospensione di giudizio la
catastrofe diventa una tela attraverso cui decine di migliaia di adolescenti (e
non) hanno attraversato e consumato una piccola epica personale, tagliata su
misura per ciascuno di loro.
Nolan ha utilizzato questo potere immersivo dell’ambiguità e un’estetica
retrofuturista che strizza l’occhio alla grande sci-fi degli anni Cinquanta per
costruire una spietata metafora degli Stati Uniti i cui miti perdono ogni poesia
e si rivelano goffe pezze che a malapena celano l’interesse più famelico.
La Vault-tec, mega azienda del settore tecnologico con ramificazioni
nell’industria bellica già nel pre-bomba, permette a una selezionatissima
minoranza di cittadini di vivere dentro complessi bunker sotterranei mentre
l’umanità della superficie è lasciata in balia di sé stessa.
L’azienda è onnipresente nella trama e diventa nel Fallout di Nolan l’esplicita
metafora del comparto militar-industriale, il cui strapotere provoca non solo
l’apocalisse nucleare all’origine della storia ma la riproduzione di meccanismi
di gerarchizzazione e sfruttamento delle forme di vita rigenerando i meccanismi
del capitale anche oltre la fine del mondo. Tra l’umanità dei bunker e quella
della zona contaminata vige un rapporto verticale in cui i primi si ritengono
custodi della civiltà, eletti destinati a esportare l’ordine e la verità ai
barbari della superficie, i quali dovrebbero essere ben contenti di adattarsi o,
nel caso peggiore, possono essere sterminati in quanto privi di effettiva
umanità (ecco tornare gli orrori dell’Herrenvolk che, dal genocidio dei nativi
alle guerre democratiche, allunga la sua ombra sui futuri)
La catastrofe, dentro Fallout, cessa finalmente di essere un movimento neutro
che coinvolge tutti indistintamente: la posizione all’interno della scala
sociale determina coinvolgimenti e responsabilità differenti, stabilisce la
possibilità stessa di vita o di morte; l’ambiguità morale e la violenza
riflettono una dimensione in cui l’orizzonte non è dominato da alcun destino che
guida la mano dell’eroe ma da costanti rapporti di forza tra alto e basso. Non a
caso uno dei personaggi principali, plastica incarnazione della sospensione
morale, è un pistolero mercenario vissuto a cavallo tra i due mondi che le
radiazioni hanno trasformato in ghoul, creatura tra l’umano e lo zombie; frutto
di una transizione incompleta dove i mitologici panni del cowboy sono indossati
da un mostro che ha perso cittadinanza nella comunità degli uomini e delle
donne.
> L’ambiguità morale e la violenza riflettono una dimensione in cui l’orizzonte
> non è dominato da alcun destino che guida la mano dell’eroe ma da costanti
> rapporti di forza tra alto e basso.
Mostro la cui condizione d’isolamento lo rende al tempo stesso più adatto
all’ambiente circostante e più umano degli umani stessi che, nella lotta per la
sopravvivenza, perdono ogni tratto positivo. La deformazione diventa
adattamento, l’erranza e l’ambiguità forme di resistenza. Non è l’umanità che si
salva; almeno non quella che persegue nello scimmiottare caricature di civiltà
morte e forme di vita (auto)distruttive.
Ghoul, zombie e mostruosità del dopo-fine
Il ghoul in effetti si presta bene a questo détournement. Creatura del
folk-horror dalle fattezze antropomorfe, si nutre di cadaveri e abita luoghi
desolati; è una di quelle figure reiette che viene sospinta agli angoli delle
storie. È un mostro di second’ordine: ex-umano perseguitato da una morte
incompiuta, mangia per necessità, attacca per difesa e non ha altri scopi che
l’autoconservazione; non ha fattezze animalesche né poteri sovrannaturali. È un
deforme riflesso degli umani che si ciba dei loro resti e usa gli spazi di
risulta; senziente al pari dell’umano, ne comprende la lingua e le passioni, in
una vicinanza che amplifica la mostruosità e pertanto lo costringe all’ombra
dell’esilio. Questa mutazione mette in discussione la narrazione teleologica che
legge ogni mutamento come un avanzamento verso la perfezione o una deviazione da
eliminare: ciò che non ci avvicina a Dio ci spinge verso Satana, continua a
sussurrarci una coscienza che presumiamo scientista ma allevata da secoli di
pensiero religioso. Il ghoul non avanza né devia ma muta: è alterità familiare,
inquietudine.
C’è una particolare vicinanza tra il ghoul e il più celebre zombie: simili nelle
fattezze e nell’essere una derivazione umana, a separarli è il fatto che il
primo è frutto di una mutazione, mentre il secondo di un processo di morte e
resurrezione da cui ne discende l’assenza (in fondo presunta) di ragione e una
dieta a base di persone vive. Mostro proletario per eccellenza, lo zombie ha
catalizzato su di sé interi filoni creativi e nel suo universo si è dato lo
spazio più largo per sperimentare diserzioni alla norma dell’immaginario
catastrofico. Questa specie di morte cerebrale e movimento a branchi che lo
caratterizzano, ne hanno fatto una metafora dell’omologazione e, nel periodo
della guerra fredda, un’allegoria delle masse anomiche del socialismo che veniva
a minacciare lo stile di vita americano. Qualche successiva lettura xenofoba ci
ha voluto vedere un’immagine della cosiddetta invasione dei migranti. C’è però
un’irrecuperabilità dello zombie che lo rende refrattario a qualsiasi
disciplinamento. Rintracciabile forse nella sua origine nel voodoo haitiano, in
cui le comunità afrodiscendenti lo leggevano come schiavo alternativamente
costretto al lavoro in una condizione di non-vita o tornato dalla morte per
vendicarsi del padrone.
Ogni incidente che coinvolge gli zombie porta inevitabilmente l’umanità a un
passo dall’estinzione. E d’altronde è proprio degli umani che si servono:
mangiandoli e trasformandoli ne contendono l’egemonia sulla catena alimentare,
li assorbono in una collettività espansiva che si sbarazza della civiltà
instaurando un nuovo regime di natura assolutamente privo di gerarchie e
sfruttamento: gli zombie non hanno nomi né volti distinguibili, non hanno
lingua, genere, proprietà né titoli, mangiano solo animali umani e soltanto
quanto necessario alla loro riproduzione di specie. Lo zombie non è un
postumano, non nel senso di un superamento costruttivo, non aggiunge nulla alla
specie; non è nemmeno un subumano, poiché non degrada la forma di vita umana a
uno stato inferiore: la annienta per farsi spazio. Siamo davanti a un salto di
specie, uno spillover dell’immaginario. Le orde senza verbo sembrano dire: i
morti siete voi! La non-coscienza zombie, mai davvero confutabile, è
l’annullamento dell’eccezionalità antropica che liquida millenni di cosiddetto
progresso imponendo il paradigma di un mondo altro. La fine del mondo è la fine
del mondo degli uomini.
> La fine del mondo è la fine del mondo degli uomini.
Ne era ben consapevole George Romero, maestro assoluto del genere, che nella
pellicola Land of the dead (2005), quasi al termine della sua carriera, rende
esplicito il passaggio di testimone. In un pianeta ormai occupato dai non-morti
le comunità umane vivono in città-stato fortificate e diseguali, dove pochi
satrapi spadroneggiano su masse affamate. Il territorio esterno, popolato dagli
zombie, è attraversato esclusivamente per la caccia alle risorse e i suoi
abitanti massacrati con noncuranza fino a provocarne una marcia vendicativa
sulla città, che degenera nella rivolta interna e nel suo collasso definitivo,
con l’eliminazione dei padroni locali proprio per mano dei non-morti. Nelle
ultime scene, il protagonista ha l’opportunità di sterminare l’orda che si
ritira ma riconoscendo, per la prima volta nella filmografia prima che nella
pellicola, una forma di vita si fa da parte. Se i sopravvissuti umani possono,
nel finale, ricostruire una comunità su basi più eque è perché si sono liberati
non dagli zombie, di cui condividevano la miseria, ma dai vivi regnanti.
L’estinzione delle forme di potere è una catastrofe che schiude le possibilità
di ibridi inediti.
Riflettendo il proprio tempo e le sue urgenze, negli ultimi anni questi ibridi
si sono fatti via via spazio nel genere anche in modalità inaspettate. Una
traccia di ciò è rintracciabile nella serie The last of us (2023), dove una
mutazione del fungo parassita Cordyceps, solitamente associato alle formiche, si
trasmette agli umani compiendo il suo spillover grazie al riscaldamento globale.
Gli zombie in questo caso vengono governati dalla simbiosi micotica che ne
determina le azioni e li connette tra loro in una coscienza collettiva
attraverso il micelio. I corpi trasmettono informazioni tra loro e si
modificano, si compostano l’un l’altro per dare nutrimento alla specie.
Inaspettato matrimonio tra gli zombie di George Romero e i funghi di Anna Tsing.
Seppure lo schema narrativo ripeta il ciclo dell’eroe che deve riportare le cose
al punto di equilibrio, nessuna “Restaurazione” è possibile: mentre gli umani
perpetuano la loro esistenza violenta e si spengono poco a poco, gli infetti
proliferano ovunque candidandosi a ereditare la Terra in piena reciproca
connessione. Il mostruoso emerge come effetto dell’incapacità umana ad andare
oltre sé stessa.
A guardar bene, ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
sovrani. Intorno al V millennio a.C. piccole civiltà stanziali dell’Europa
centro-occidentale vennero investite dalle tribù delle steppe orientali: genti
dalla lingua incomprensibile che si muovevano a dorso di cavallo, animale ancora
sconosciuto in quei territori e che saranno apparsi a quei contadini come
spaventosi ibridi: centauri dalle gambe equine e busto umano. D’altronde
l’ibrido faceva parte dell’orizzonte entro cui si muovevano. Come riporta Luca
Misculin nel suo podcast L’invasione, a montare quei cavalli erano molto spesso
giovani maschi, poco più che bambini, nell’atto di compiere il rito di
passaggio: il Koryos, un periodo di anni in cui tutti i ragazzi coetanei
abbandonavano il proprio villaggio per trascorrere un tempo di nomadismo prima
di fare ritorno come adulti.
La vita dei membri del Koryos si conformava, più che alla vita umana, a quella
dei branchi di lupi con il loro errare predatorio, le mutevoli leggi interne. E
nei lupi questi ragazzi si identificavano e riferivano a sé stessi, dei lupi
vestivano le pelli. Non vi è dubbio che l’apparire nei villaggi di queste
chimere cavallo-umano-lupo fosse presagio di violenza, la loro sopravvivenza
legata al saccheggio ne ha determinato l’espansione disordinata su nuovi
territori, ma è altrettanto vero che molto spesso questi gruppi finirono per non
tornare ai luoghi d’origine e stanziarsi presso altre comunità. L’erranza del
Koryos, pur col suo portato di brutalità patriarcale, nell’incontro/scontro con
umanità differenti, ha finito per rideterminare l’assetto di un mondo, ponendo
fine a forme di vita conchiuse e seminando quella che sarebbe diventata la
civiltà protoindoeuropea. Le piccole apocalissi che investivano i modesti
insediamenti del continente, estinguevano un passato per “compostarlo” nelle
possibilità di forme di vita altre, più ampie.
La catastrofe è il modus della Storia
La storia del mondo è una storia senza morale, quella dell’umanità è una storia
di catastrofi. Ciò è particolarmente vero, come abbiamo visto, per la modernità.
A differire oggi è che le evidenze di un mutamento climatico senza precedenti ci
si riversano contro con una forza che l’attuale livello tecnologico permette di
osservare, misurare e prevedere, senza però riuscire a fermarla. Gli umani
osservano per la prima volta da vicino l’eventualità dell’estinzione per propria
mano. Tutto ciò non è più eludibile da alcun discorso politico, è il Tema, la
cornice entro cui ogni cosa necessita di essere interpretata.
> A guardar bene ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
> condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
> sovrani.
Ma c’è un di più, un’eccedenza che si intreccia e non si esaurisce nella
questione ecologica e fa tracimare ovunque un senso di fine. La crisi è
ambientale, politica, esistenziale, finanziaria, culturale, produttiva,
sanitaria; è ovunque e si autoalimenta, tratteggia affreschi da Hyeronimus Bosch
in un mondo che non sa più tenersi insieme, che favoleggia sulla propria fine
proprio per l’incapacità di pensare sé stesso in un avvenire. Presi dal panico
di un tempo che diviene ingovernabile e atterriti dall’assenza di strutture
psichiche collettive in grado di farci sentire saldi nel presente, pensiamo che
nulla sopravviverà alla nostra fine.
Questo pensiero sciocco ed etnocentrico (ci preme sottolineare il prefisso
etno-) è il primo dispositivo di governo delle alterità possibili. Ma se la
modernità è catastrofe allora siamo oggi dinanzi a una ripresa di senso delle
cose. La presunzione dell’universalismo bianco di forgiare un mondo a propria
immagine a qualunque costo non poteva che produrre edifici fragili; la fine
della storia con cui il liberismo ha legittimato sé stesso in quanto Nomos della
terra non era che un abbaglio. Ottuso e autoreferenziale squillo di trombe, ha
intenzionalmente rimosso e oscurato qualsiasi moto lo eccedesse. E quando le
fondamenta del suo edificio hanno iniziato a tremare, la Storia si è
ripresentata alla porta, lo ha costretto in tempi strettissimi a tornare sui
propri passi e discutere di fine della fine della storia. Possiamo seguire la
suggestione di Anton Jäger nel suo Iperpolitica (2024), quando osserva che la
desertificazione sociale prodotta dal neoliberismo ha determinato un’umanità
alienata, piegata su sé stessa e priva di respiro collettivo. Senza classi,
chiese, partiti, senza forme di organizzazione delle collettività esistono solo
individualità e fragili bolle. Dopo una brevissima estate le società del
benessere si sono trovate, crisi dopo crisi, a svegliarsi da un sonno
farmacologico e a necessitare di una grammatica del mondo che avevano
disimparato.
È arcinoto l’adagio per cui è più probabile la fine del mondo che del
capitalismo; non esiste a oggi un modello alternativo in grado di sfidare il
campione in carica; motivo in più per cui occorre osservare tra le sue scorie
per trovare strumenti utili. Come lo stato d’eccezione, la catastrofe non si
pone come momento chiuso in sé, slegato dal mondo in cui si manifesta, piuttosto
è una contingenza che ne porta all’estremo i tratti salienti: nel caos che
l’accompagna, è un momento di disvelamento. Il suo darsi in permanenza la
configura come dispositivo di governo. Visto e agito dall’alto, il campo del
possibile è un momento di ristrutturazione del modo di produzione. Un buon
affare, anche se sporco. Ridevano gli imprenditori edili mentre L’Aquila si
sbriciolava nel sisma del 2009.
Parallelamente è un ottimo momento per stabilire un ordine rigido e un maggiore
controllo sociale, recuperando le linee di fuga e soffocando le forme di
autorganizzazione emerse dalla necessità che si presentano come rotture
potenziali in grado di ribaltare l’assioma. Ecco allora che assumere la
catastrofe come campo del possibile significa cogliere le vie di trasformazione,
resistenza e abitabilità dell’attuale scenario tardocapitalista proprio
attraverso le sue rovine, Il tentativo prioritario è sottrarla alle narrazioni
immobilizzanti dell’immaginario apocalittico, al fine di sondare questa ipotesi.
> Vi è un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
> dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e
> istintivi tentativi di sottrazione.
Vi è allora un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e istintivi
tentativi di sottrazione. Apre un margine di conflitto che può spezzare il
continuum della storia o riassestarlo sui suoi binari Questa è la grammatica
dimenticata che occorre reimparare per non soffocare tra le macerie ma abitare
un mondo di rovine, per decifrarne il senso. L’apocalisse oggi spaventa non come
evento escatologico, ma come lingua dimenticata. Siamo tornati al cospetto di
una catastrofe che non se n’era mai andata, semplicemente avevamo smesso di
guardarla, di riconoscerla e riconoscerci in essa.
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