“C hissà che direbbe se fosse ancora vivo” si sospira pensando a tutti i grandi
maestri che ci hanno lasciato e che, per un motivo o per l’altro, supponiamo
avrebbero tanto da dire sulla nostra povera contemporaneità. L’idea è che i
nostri tempi, che costoro non hanno fatto in tempo a vedere, portino il segno
visibile delle loro intuizioni finalmente avverate oppure che presentino nuove
sfide che sembrano fatte apposta per essere interpretate dalla loro cassetta
degli attrezzi teoretica. Non sono il solo a pensare che entrambe queste
affermazioni siano vere per René Girard, il grande filosofo e antropologo
francese scomparso precisamente dieci anni fa, il 4 novembre 2015.
Non sono il solo a pensare che il mondo che abitiamo da quindici anni a questa
parte sia particolarmente suscettibile di analisi girardiane, un mondo che
Girard ha fatto in tempo a scorgere ma non a commentare: le sue ultime
apparizioni pubbliche risalgono alla fine del primo decennio degli anni Duemila
quando la rivoluzione tecnologica che ci avrebbe costretto a parlare di “capro
espiatorio” quasi ogni santo giorno era appena iniziata. Non sono il solo a
pensare, infine, che proprio i social network siano, da un lato una sorta di
piastra di Petri del pensiero girardiano, dall’altro un acceleratore di queste
dinamiche che rende le sue riflessioni più attuali che mai.
Già ai suoi tempi Girard notò che la diffusione nella società della locuzione
“capro espiatorio”, tanto nel linguaggio giornalistico quanto in quello
quotidiano, comportava importanti conseguenze. A differenza di tanti pensatori
che sono gelosissimi della loro ridefinizione tecnica di un concetto noto a
tutti e passano la loro carriera a squalificare gli usi “barbari” di quella
parola che è diventata il centro del loro programma teorico, Girard riconobbe un
sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione del termine, fondata
su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del senso comune. Proprio da
questa comprensione generale però, come vedremo, deriva secondo lui la
progressiva perdita di efficacia del meccanismo e, allo stesso tempo, una
proliferazione dei fenomeni ascrivibili allo stesso: di quelli veri e di quelli
falsi.
La chiamo Teoria del tutto perché la teoresi di Girard non mancava certo di
ambizione o di sistematicità. Spaziando tra antropologia, psicologia, sociologia
e storia delle religioni, con un pugno di intuizioni debitamente sviluppate e
interconnesse, Girard pretese di spiegare la condizione umana nel suo insieme e,
quasi en passant, la natura di Dio stesso: di quello vero e di quelli falsi.
Tanto sviluppate e interconnesse sono queste intuizioni ‒ e la Teoria del tutto
che ne segue ‒ che è complicato introdurle quali strumenti di analisi del
presente senza un approfondimento adeguato. Allo stesso tempo, l’originalità di
queste intuizioni fa sì che un’esposizione a volo d’uccello dei principali
assunti del pensiero girardiano risulterebbe, alla meglio, una cascata di
affermazioni arbitrarie e, alla peggio, uno sproloquio da manicomio.
> Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione
> del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del
> senso comune.
Sì, le convinzioni di Girard sul mondo sono così radicali che solo enunciarle in
un testo breve come questo rischia solo di scandalizzarvi e farvi scappare
quanto più lontano possibile dal suo universo mentale. Ho pensato quindi di
proporvi tre ipotesi fondamentali e indigeribili del pensiero girardiano e,
insieme a queste, una versione diminuita delle stesse, una sorta di argomento
minore ‒ apocrifo e di mia invenzione ‒ che limita la portata dell’affermazione
originaria ma ci consente di metterle al lavoro sulla contemporaneità senza che
il lettore sia costretto a confrontarsi con l’intera opera girardiana per farsi
un’idea dettagliata, positiva o negativa che sia. Infatti le ho chiamate ipotesi
ma, come ho anticipato, il suo pensiero è così interconnesso che ciascuna di
queste affermazioni può essere fatta discendere dall’altra e viceversa. Girard
stesso, nel corso della sua vita, ha presentato la sua Teoria del tutto partendo
da punti diversi che, con quelli che definiva “ragionamenti a spirale”,
reintegravano e giustificavano quelle che nel saggio precedente erano le
premesse.
L’omicidio collettivo fondativo
Freud e Girard si azzuffano nel fango. Volano botte da orbi retoriche. Il
secondo accusa il primo di aver frainteso tutto quello che ha intuito, che il
triangolo non è edipico, che i tuoi genitori non c’entrano niente, il triangolo
è la base delle relazioni umane punto e basta (ci arriviamo). Rotolando per
terra attraverso i secoli e i millenni, giungono all’alba dei tempi. Lì, in una
radura poco distante, si sta consumando una scena incredibile e spaventosa: una
dozzina di ominidi sta uccidendo a mani nude un loro simile. Il Padre della
psicanalisi punta il dito ed esclama “Guarda! L’omicidio del Padre primordiale
ad opera dei suoi Figli! La nascita della Civiltà”.
> Le convinzioni di Girard sul mondo sono così radicali che enunciarle rischia
> di scandalizzarvi e farvi scappare quanto più lontano possibile dal suo
> universo mentale.
Girard si alza da terra, si ricompone e, con il suo Main Theme che suona in
sottofondo, sussurra: “Sigmund… come al solito non hai capito niente eppure hai
capito tutto”.
Più o meno così ci presenta Girard il suo confronto intellettuale con Sigmund
Freud, in particolare con la sua opera maledetta Totem e tabù (1913). Maledetta
perché, come ci riporta il nostro, già in quegli anni tutti i freudiani la
evitavano come la peste. E se non potevano fare a meno di parlarne, lo facevano
con mille mani avanti e esecrando il più scandaloso passo falso del loro
maestro, questa idea ridicola e preoccupante che l’umanità sia sorta
dall’omicidio di un Padre Primordiale da parte dell’Orda Primitiva composta dai
suoi Figli coalizzati contro di lui. Girard, con una soddisfazione intellettuale
che non riesce a nascondere, dice il contrario: buttate pure tutto Totem e tabù,
se non l’intera opera freudiana, ma lasciatemi l’omicidio collettivo che è
l’unica intuizione assolutamente geniale e assolutamente vera che egli ha avuto.
Anche questa intuizione, a dire il vero, la smussa e la radicalizza insieme. I
legami familiari, dice, non c’entrano nulla. Ogni società è sorta sul cadavere
di un individuo, un individuo qualsiasi, un capro espiatorio, ucciso da tutti i
membri del gruppo che hanno convogliato su di lui tutta la violenza che li
metteva gli uni contro gli altri, trovando finalmente unità. Questo evento non è
accaduto una volta per tutte, come sembra credere Freud, ma più volte per ogni
civiltà umana, in cicli che possiamo sintetizzare così: i rapporti in un gruppo
si guastano progressivamente fino a giungere a un’ostilità diffusa che Girard
chiama “crisi mimetica” (vedremo perché); una volta scatenatasi, questa violenza
può avere due esiti: l’estinzione del gruppo stesso attraverso una catena di
rappresaglie omicide senza fine, oppure l’omicidio collettivo di un membro
scelto a caso che si assume, insieme, la colpa di tutta la violenza che correva
per la società e il merito della pace che segue questa ritrovata unità: il capro
espiatorio. Da questa pace sorgono tutte le istituzioni culturali che
garantiranno la pace interna fino alla prossima crisi mimetica.
Ora vi chiederete: e Girard, tutte queste cose, come le sa? Risponde lui:
analizzando le istituzioni stesse, su tutte i riti e i miti. È pacifico che
questo fenomeno fondamentale non può più essere osservato direttamente ma,
sostiene Girard, le tracce che ha impresso nella storia culturale dell’uomo sono
chiarissime e univoche. Ogni rito è per lui una messa in scena della crisi
originaria e dell’omicidio collettivo che l’ha risolto, che serve a sfogare la
violenza e ripristinare le forze positive che l’hanno seguita “la prima volta”.
Ogni rito, infatti, era in origine un rito di sacrificio, di sacrificio umano
per la precisione, e solo modificazioni successive hanno trasformato la maggior
parte di questi, prima in sacrifici animali e poi in rappresentazioni via via
più allusive o giocose della violenza reale, come l’aggressione collettiva di
fantocci.
I miti, dal canto loro, sono la narrazione mistificata di questo episodio
omicida che informa i riti e, a cascata, tutte le istituzioni religiose e
sociali, cioè il sacro stesso. A subire la violenza, nel mito, è un dio o un
uomo in seguito divinizzato che paga per delle colpe che gli vengono attribuite
nel racconto medesimo. Per Girard, infatti, ogni mito è il racconto di questo
omicidio insensato ma narrato dal punto di vista dei persecutori stessi che si
convincono della colpevolezza della vittima. Proprio come i riti, anche i miti
vedono evoluzioni che marginalizzano o mistificano ulteriormente l’evento reale
da cui traggono origine, trasformandolo in una disputa, un esilio o un
allontanamento/suicidio volontario. Facile formulare un’obiezione ‒ che è stata
effettivamente mossa ‒ a tutto ciò: Girard opera un cherry picking e/o
un’interpretazione forzata dei materiali mitici e rituali al fine di affermare
l’universalità della sua scoperta.
> Ogni società è sorta sul cadavere di un individuo, un individuo qualsiasi, un
> capro espiatorio, ucciso da tutti i membri del gruppo che hanno convogliato su
> di lui tutta la violenza che li metteva gli uni contro gli altri, trovando
> finalmente unità.
Nei limiti di questo articolo, sacrifichiamo volentieri l’universalità per
mantenere la capacità esplicativa di molti miti e rituali che presentano con
inquietante ricorrenza il simulacro di una violenza collettiva. Tra queste
storie, ve n’è una che non consideriamo neppure mito ma realtà storica e che ha
avuto una certa influenza sull’umanità. Girard ci mette gli occhi sopra e
afferma che è, contemporaneamente, sempre la stessa storia e una completamente
diversa.
L’eccezionalità del Cristianesimo
Duemila anni fa un uomo fu ucciso da persone che, a suo dire, non sapevano
quello che facevano. Duemila anni dopo, oltre due miliardi di persone
considerano quell’uomo figlio di Dio e tra queste c’era anche René Girard. In
chiusura de La violenza e il sacro, la sua prima grande opera di taglio
antropologico uscita nel 1972 e dalla quale ho estratto le nozioni che vi ho
sintetizzato prima, Girard lancia al lettore una sorta di cliffhanger,
anticipando che “l’ampliamento di tale teoria in direzione giudeo-cristiano”
sarà rinviata a opere successive.
Niente suggerisce al lettore che la tradizione giudaico-cristiana farà eccezione
all’unità di tutti i riti fin lì tratteggiata dall’autore. Immaginate lo stupore
quando l’opera annunciata si intitola con una suggestiva frase estratta dal
Vangelo. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo esce nel 1978. Da lì
in poi, l’opera di Girard diventa ‒ o forse si rivela ‒ una serratissima
apologetica cristiana che trae i suoi argomenti dalle precedenti ricerche
antropologiche, sociologiche, psicologiche e letterarie.
Lungi dall’essere la riproposizione del mito del dio ucciso e risorto, per
Girard il cristianesimo è la rivelazione della falsità del mito stesso, l’evento
che una volta per tutte mostra le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo,
ovverosia la mistificazione sacrificale dell’omicidio collettivo. Sì, la storia
è proprio la stessa ma per la prima volta è interpretata correttamente, viene
cioè raccontata dal punto di vista della vittima innocente e non da quello dei
persecutori. Questo è forse il boccone girardiano più difficile da ingoiare,
soprattutto se il lettore fa parte di quei sei miliardi circa che non sono
affatto convinti che quell’uomo lì fosse figlio di Dio. Eppure il centro del
ragionamento girardiano non è quasi toccato dall’effettiva esistenza di un
essere superiore, creatore del cielo e della terra ecc. La rivelazione cristiana
per lui coincide con la rivelazione del meccanismo vittimario e può pertanto
essere “accettata” anche da una prospettiva materialista. L’unico accenno di
“argomento ontologico” a sostegno dell’esistenza di Dio si trova in pochi e
frettolosi passaggi che stabiliscono, sulla logica degli altri argomenti
ontologici, che solo un essere superiore avrebbe potuto svegliare gli uomini e
rivelare loro la radice della propria violenza, attraverso la croce.
In questo senso, l’eccezionalità cristiana in Girard può essere ricevuta come la
pars construens della sua proposta teorica, il Che fare? di fronte a tutta la
violenza del mondo che per Girard coincide con l’aspetto di radicale
non-violenza del messaggio evangelico. Se la Passione racconta per la prima
volta in modo veritiero cos’è un capro espiatorio, colui che viene “odiato senza
ragione”, l’insegnamento di Cristo è tutto orientato a scongiurare con ogni
mezzo l’insorgere di questa violenza. Porgi l’altra guancia; chi è senza peccato
scagli la prima pietra; non giudicate, per non essere giudicati; e infine “Voi
avete udito che fu detto: ‘Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico’. Ma io vi
dico: ‘Amate i vostri nemici’”: Girard legge la novità evangelica come questa
profilassi estrema contro l’innesco della violenza, un pacifismo così radicale
da essere inaccettabile e infatti inaccettato tutt’ora, duemila anni dopo la
rivelazione.
> La rivelazione cristiana per lui coincide con la rivelazione del meccanismo
> vittimario e può pertanto essere “accettata” anche da una prospettiva
> materialista.
Ci resta da capire quale sia l’innesco della violenza per Girard, cos’è che
scatena, dapprima il tutti contro tutti e poi il tutti contro uno. Le basi di
questa risposta le gettò nella sua prima opera, un’opera di critica letteraria
incentrata sul desiderio, quando ancora non sapeva ‒ per sua stessa ammissione ‒
le ramificazioni antropologiche, sociologiche e infine religiose cui quella
singola intuizione lo avrebbe condotto.
Il desiderio mimetico
L’estate scorsa, per un paio di settimane, l’opinione pubblica si è
scandalizzata per un gruppo Facebook chiamato “Mia moglie” in cui decine di
migliaia di mariti italiani pubblicavano foto delle loro consorti ‒ sembra quasi
sempre senza consenso ‒ affinché venissero rese oggetto del desiderio di una
folla di altri uomini sconosciuti. Lo scandalo si è giustamente concentrato non
tanto sul gioco erotico in sé quanto sulla diffusa assenza di consenso al gioco
stesso da parte delle donne coinvolte loro malgrado. Stupisce però che quasi
nessuno si sia comunque interrogato sul perché questi ormai mitici trentaduemila
uomini italiani si trovassero tutti a loro agio in una perversione
apparentemente così specifica e marginale che non ha neppure una vera e propria
traduzione nella nostra lingua ‒ il cuckolding. Quasi nessuno eccetto un’autrice
che, proprio su queste pagine, ha correttamente parlato di “classica diffrazione
di stampo girardiano” per descrivere ciò che stava avvenendo lì.
E infatti non sarebbe poi così esagerato indicare il cuckolding come forma
universale del desiderio secondo Girard. Di questo stavano litigando lui e Freud
mentre si rotolavano nel fango. Il Padre della psicanalisi ha introdotto il
triangolo con il complesso d’Edipo mentre per Girard il triangolo è la forma di
tutte le relazioni e quella edipica è solo la prima di queste ma non ha nessun
primato epistemologico nella genesi del desiderio. Nella sua prima opera,
Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), analizzando un pugno di classici
moderni ‒ Cervantes, Stendhal, Flaubert e Dostoevskij ‒ Girard individua la
struttura fondamentale del desiderio nella triangolazione tra un soggetto, un
mediatore (in seguito chiamato anche modello/ostacolo) e un oggetto. Il
desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da
altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore
riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni
violenza.
Se tutto questo sembra astratto, ritorniamo a ciò che succedeva in quel gruppo:
i mariti tornano a desiderare le proprie mogli solo se le vedono desiderate da
altri e, forse ancora più sconvolgente a ben guardare, gli altri desiderano
queste donne che intravedono in fotografie pessime e male inquadrate solo perché
gli viene detto che appartengono a qualcun altro. Il desiderio degli “aspiranti
bull” del gruppo è, paradossalmente, molto più strano del desiderio dei “cuck”
che cedono la loro donna alla massa. In un mondo in cui la pornografia più
esplicita è ovunque, costoro si eccitano alla vista di mezzo corpo femminile in
costume solo perché un mediatore sconosciuto gli dice: “Questa è mia moglie”.
Non concepisco migliore argomento in favore dell’esistenza del desiderio
mimetico girardiano nella sua purezza che questo.
> Il desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da
> altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore
> riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni
> violenza.
I membri di “Mia moglie”, però, non accedono mai alla rivalità mimetica e quindi
alla violenza proprio in quanto perversi: sono riusciti a dirottare il loro
desiderio rivalitario in una reciprocità collaborativa che, tra le altre cose,
tende a far scomparire l’oggetto del desiderio lasciandoli in balia di un
desiderio reciproco. Pollastrini suggerisce giustamente, sulla scorta del
Challengers di Guadagnino ‒ come del caso Schreber di Freud ‒ che a sedimentarsi
è un desiderio omosessuale.
Ma non va sempre così, anzi, quasi mai. Girard afferma che l’oggetto del
desiderio tende sempre a eclissarsi ma per lasciare spazio a una rivalità che
odia senza neanche più bisogno dell’invidia o della gelosia: è la crisi dei
doppi. I due contendenti, ormai dimentichi dell’oggetto della contesa, si
recriminano l’un l’altro le stesse colpe, le stesse accuse. Niente più li
distingue. Un tipico oggetto del desiderio che, molto più delle mogli, si presta
a questa repentina scomparsa è l’onore. Chi ha offeso chi? Chi per primo, chi
per secondo, chi ha esagerato nella risposta a un’offesa che non era poi così
grave? La disputa verbale precede quella fisica e si allarga a macchia d’olio in
tutta la società: è la crisi mimetica.
Solo una cosa può risolvere questa crisi, già lo sapete, ma ora sapete anche
perché: il capro espiatorio assume su di sé tutte le recriminazioni, tutte le
colpe, tutta la catena di accuse ormai inestricabile che aveva diviso la
collettività. Lui e solo lui è l’origine dell’odio, della frustrazione, della
gelosia che proviamo. Una volta che lo abbiamo ucciso tutti insieme, ci
ritroviamo in pace: “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la
pietra d’angolo”.
Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca è
il vero motore dell’ominizzazione, ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto
il processo. Imitandosi a vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio
istintuale”, accedono a una nuova classe di desideri e quindi di conflitti. Si
scatena la violenza e uccidono uno di loro. Si calmano. Lo seppelliscono con un
cumulo di pietre: una piramide rudimentale, priva di punta, proprio come le più
antiche tombe di cui abbiamo testimonianza. Da qui, attraverso numerosi cicli,
nasce la civiltà con i suoi riti, i suoi miti, le sue istituzioni.
Mi rendo conto ora che forse, ancora più di Cristo morto e risorto, sia questo
il boccone girardiano più ostico, l’idea che la mimesi sia allo stesso tempo il
vero motore del salto compiuto dall’Homo sapiens sapiens e la realtà ultima di
ogni nostro desiderio. Anche qui possiamo però ridurre la portata universale
dell’affermazione girardiana dirigendo l’attenzione su quanti dei nostri
desideri sono mimetici senza che ce ne rendiamo conto. Fino alla fine, da
Menzogna romantica e verità romanzesca in poi, Girard ha difeso la tesi per cui
ogni desiderio è mimetico e il desiderio oggettuale è relegato all’ambito del
“montaggio istintuale”, malamente definito e ricondotto ai più bassi gradini
della piramide di Maslow. Senza cercare di dimostrare l’inesistenza totale del
desiderio oggettuale, noi possiamo fare a meno di questo assolutismo e
ipotizzare che il mimetismo sia una componente fondamentale di tanti nostri
desideri che raramente mettiamo a fuoco. Ora siamo pronti per affrontare la
contemporaneità da girardiani scettici.
I fondamenti dei nostri capri espiatori
In questi ultimi dieci anni tanti hanno evocato Girard, spinti da un mondo che
sembrava sempre più ostinato a dargli ragione. Spesso, però, è stato evocato
superficialmente, senza cioè integrare i fondamenti della sua teoria che,
abbiamo visto, non è d’altronde facile da comunicare. Di fronte al moltiplicarsi
di fenomeni quali le shitstorm, la call out culture, la cancel culture, il
politicamente corretto, a tanti saliva alla bocca la parola “capro espiatorio”
e, con questa, il nome del grande studioso che ci ha intitolato la sua opera più
famosa. All’interno di queste riflessioni, però, il ruolo di Girard si riduce
spesso all’averci genericamente “messo in guardia” contro un fenomeno brutto e
cattivo ‒ il capro espiatorio ‒ che si è stranamente moltiplicato nella nostra
società, chissà perché. Tanto più grande è stato Girard da averci dato gli
strumenti per interpretare le cause profonde del fenomeno e cioè quel meccanismo
di cui abbiamo appena parlato, chiamato mimetismo. Se tutti riconoscono che i
capri espiatori si sono moltiplicati grazie all’imporsi del social network,
Girard ci fornisce la chiave per decifrare che tipo di tendenze sono incentivate
da queste nuove forme di socialità e come queste portino a fenomeni di capro
espiatorio.
> Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca
> è ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto il processo. Imitandosi a
> vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio istintuale”, accedono a
> una nuova classe di desideri e quindi di conflitti.
Quando Girard formulava la sua teoria mimetica non era semplice mostrare che
dietro ogni nostro desiderio c’è l’imitazione, cioè l’ammirazione per un modello
che ci indica cosa desiderare. Il cuckolding è il diorama del desiderio mimetico
perché Girard stesso, quando doveva scendere nel dettaglio, tra tutti i desideri
mimetici, selezionava i triangoli amorosi per illustrarne il funzionamento.
Invece, per rendere conto del mimetismo della stragrande maggioranza dei
desideri, Girard deve ricorrere alla dicotomia mediazione interna/mediazione
esterna: i desideri di mediazione interna sono quelli, come i triangoli amorosi,
in cui il modello/ostacolo è vicino a te, in carne ed ossa, un rivale nel senso
proprio del termine; quelli di mediazione esterna sono i desideri ispirati da un
mediatore lontano nello spazio e nel tempo, da un mediatore astratto, come
possono essere i mass-media novecenteschi che ti fanno desiderare di avere una
Ferrari perché ce l’hanno i ricchi. Anticipando le critiche, Girard non riduce
la mediazione esterna a un’innovazione contemporanea, e apre il saggio con
l’esempio del Don Chisciotte che imita il desiderio di Amadigi di Gaula, un
predecessore fittizio inventato da Cervantes come modello di cavaliere errante.
La mediazione esterna, insomma, nasce con la cultura e, a livello cronologico,
segue di poco l’apparizione della mediazione interna, quella che ha destato le
prime rivalità tra gli ominidi che si sono placate solo tramite ricorrenti
omicidi collettivi.
E se il social network comportasse la confusione e il collasso di mediazione
esterna e mediazione interna? I modelli sul social network siamo tutti noi, gli
uni per gli altri, conosciuti e sconosciuti. Mediatori interni e mediatori
esterni sono posti sullo stesso piano, tutti su quel piedistallo chiamato
“profilo” che attira sguardi, attenzioni, amori, odi e invidie. Più di ogni
altra cosa approvazioni pubbliche, quel pulsantino fondamentale nell’economia
del social network chiamato “like” che altro non è che un indice di gradimento,
un indice che indica cosa desiderare, in quanto già desiderato. Il sociologo
Niklas Luhmann chiamava queste dinamiche “osservazione di secondo ordine” e, in
tempi recenti, il filosofo Hans-Georg Moeller ha adoperato la categoria per
descrivere come “profilistica” la nuova tecnologia dell’identità inaugurata dal
social network. In ottica girardiana, il social network è la più perfetta
macchina mimetica perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci.
Sul social network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro.
Insomma, se abbiamo assunto che i fenomeni di capro espiatorio si sono
moltiplicati per via dei social network e possiamo dimostrare indipendentemente
che sono anche uno degli ambienti più mimetici in cui l’umanità si sia trovata a
vivere, possiamo persino rovesciare la domanda e dire che ciò che abbiamo
davanti agli occhi conferma l’intuizione girardiana: il social network è la
prova del nesso tra mimesi e capro espiatorio, la piastra di Petri che rivela la
connessione profonda tra una società che si imita senza sosta e che senza sosta
si ritrova ad odiare collettivamente alcuni membri della società stessa.
L’inconsistenza dei nostri capri espiatori
Abbiamo anticipato che, già nel corso della sua vita, Girard osserva un duplice
e paradossale movimento dei capri espiatori: si moltiplicano ma non funzionano
più. Le ragioni che individua sono due e complementari. Intanto, sempre più
raramente uccidiamo i nostri capri espiatori e quindi non accediamo al momento
catartico che segue un vero e proprio omicidio collettivo, ma se uccidiamo
sempre più di rado è proprio perché non ci crediamo più fino in fondo. La
diffusione del termine “capro espiatorio” testimonia proprio questo: la (lenta)
presa di coscienza che l’umanità sta facendo del suo meccanismo fondatore. Anche
la più approssimativa comprensione del termine rimanda a una violenza che si
scatena senza ragione su un singolo o su un gruppo come “diversivo” o “sfogo” di
determinate energie.
> In ottica girardiana, il social network è la più perfetta macchina mimetica
> perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci. Sul social
> network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro.
D’altro canto, queste “energie” ‒ che Girard inquadra come mimesi ‒ sono ancora
qui e pertanto i capri espiatori continuano ad essere ricercati senza che
nessuno di questi svolga il suo compito fino in fondo. Ancora una volta, la
situazione che osserviamo sui social network sembra confermare ed esasperare il
fenomeno. Se osservate con attenzione una qualsiasi shitstorm noterete non solo
che, ovviamente, non si conclude con un omicidio ma che produce tutta una serie
di shitstorm minori lungo i suoi bordi. I capri espiatori si moltiplicano
letteralmente all’interno dello stesso evento. Alcuni di questi sono
semplicemente i difensori del capro espiatorio originale che, in questo
contesto, diversamente da una lapidazione vera e propria, possono trovare il
coraggio di farsi avanti, rischiando molto ma non la morte immediata.
Altri, ancora più interessanti, fanno parte della cerchia dei persecutori. A
differenza della folla anonima che lapida e che ritrova l’unità in questo gesto
collettivizzante, i persecutori del social network hanno nomi e cognomi, profili
ricchi di storia e contraddizioni, facilmente accessibili. “Come si permette LUI
di parlare?” si chiede a un certo punto qualcuno che sposta lo sguardo dalla
vittima selezionata a un suo collega con la pietra in mano. Pervertendo il senso
ultimo della parabola dell’adultera, ovverosia comprendendolo solo parzialmente,
il lapidatore virtuale scopre che nessuno è senza peccato, nessuno può scagliare
la prima pietra tranne, guarda caso, sé stesso. Il colmo si raggiunge quando,
durante questo spostamento, il persecutore che ha selezionato una vittima
secondaria arriva persino a condannare il meccanismo di “capro espiatorio” per
meglio colpevolizzare il suo nemico, senza rendersi conto di averne appena
eretto un altro. La conoscenza del meccanismo di “capro espiatorio” indebolisce
la pratica ma viene contemporaneamente messa al lavoro per individuare la
vittima perfetta, il colpevole assoluto che finalmente e una volta per tutte
chiuderà il ciclo della violenza. Ma chi è questa vittima?
L’incertezza dei nostri capri espiatori
L’omicidio fondativo, l’eccezionalità cristiana, la mimesi di ogni desiderio:
abbiamo visto che nel pensiero girardiano ce ne sono di affermazioni che un
tempo avremmo definito “problematiche”, prima che questa parola prendesse a
significare “offensive per qualcuno”.
Ma c’è n’è una che potrebbe essere la più problematica di tutte e la sua
problematicità ha a che fare direttamente con una certa permalosità
generalizzata che Girard stesso vedeva crescere già nel suo tempo. Proprio colui
che ha dedicato la sua vita di studioso al riscatto delle vittime sulle quali
abbiamo fondato la civiltà, sin dagli anni Novanta, osserva attorno a sé una
propensione ad occupare il ruolo della vittima in modo indebito. L’idea non
suonerà nuova al lettore italiano perché è la tesi centrale del saggio nostrano
più discusso sul tema, Critica della vittima di Daniele Giglioli, uscito ormai
più di dieci anni fa. Per Girard, questa tendenza a posizionarsi all’interno di
quello che Giglioli chiama “paradigma vittimario” accompagna e cresce insieme
alla consapevolezza generalizzata sul meccanismo del capro espiatorio. Il
ragionamento è semplice: quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza
ragione e poi riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in
costoro e vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia.
E a questo punto, sia in Girard sia in Giglioli, compare l’idea problematica che
rischia di squalificare l’intero discorso: la distinzione tra vittime false e
vittime vere. In più punti Girard intrattiene l’idea dell’assoluta innocenza
della vittima quando si trova effettivamente perseguitata. Oltre a Cristo ‒ che
lo è per dogma ‒, lo stesso viene detto di Giobbe, di Edipo, degli ebrei nelle
persecuzioni medievali. In Giglioli, che sembra criticare la posizione della
vittima in quanto tale, compaiono qui e lì delle vittime dichiaratamente false
che sembrano alludere all’esistenza delle vittime vere, o perlomeno “più vere”:
c’è Silvio Berlusconi e la sua persecuzione giudiziaria come simbolo
universalmente condiviso dai suoi lettori di sinistra di vittima falsa, ma anche
il popolo ebraico (di nuovo) che oggi eredita la posizione vittimaria dai
“titolari effettivi”, cioè le autentiche vittime dell’Olocausto.
> Quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza ragione e poi
> riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in costoro e
> vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia.
L’errore che si costeggia con questi discorsi non è la volontà di distinguere le
vittime vere da quelle false ‒ cioè riconoscere empiricamente che si sono date,
si danno e si daranno persone completamente innocenti delle accuse loro rivolte
e persone che inventano di sana pianta dei torti mai subiti. L’errore è
immaginare che questa distinzione sia in qualche modo autoevidente, il punto di
partenza del discorso stesso quando invece è il suo precarissimo punto di
arrivo. E non lo dico io ma Girard stesso. Lo dice implicitamente in tutta la
sua opera ma anche esplicitamente: “Non pensiamo che per sfuggire alla
responsabilità della violenza sia sufficiente rinunciare all’iniziativa
violenta. Ma nessuno si accorge mai di prendere questa iniziativa. Perfino i
soggetti più violenti credono di reagire a una violenza che proviene dagli
altri”. Ogni violenza è agita da qualcuno che crede di averla già subita, da
qualcuno che si percepisce come vittima. Di questo ci parla la crisi mimetica
dei doppi che si rilanciano le stesse accuse, da qui viene la violenza per
Girard: non da una generica “aggressività animale” ma da un reciproco senso di
ingiustizia subita. Così in Girard la posizione della vittima è sia quella di
colui che viene infine accerchiato ma anche quella di coloro che l’accerchiano,
i quali si sentono soggettivamente vittime della sua azione.
A riprova dell’attualità di Girard, a pochi anni dalla sua morte, si è diffuso
uno slogan che ha segnato il rapporto irrazionale che stavamo instaurando con il
concetto di vittima, sempre più confusi dal proliferare dei capri espiatori.
“Credere alla vittima” è infatti un’assurdità logica ancora prima di
un’aberrazione etica. Di per sé, non vuol dire nulla. È una delle più brevi
petizioni di principio formulabili. Non puoi chiedere di credere alla vittima
poiché dal momento che la definisci tale, già le credi. Se riusciamo ad
attribuire un senso alla frase, se l’abbiamo fatta operare nel mondo come
significasse qualcosa di compiuto, è perché la vera affermazione al lavoro era
ben più sinistra: credi all’accusatore. Credi a chiunque si presenti come una
vittima di un torto subito, credi alla colpevolezza di colui che indica. Girard
aggiungerebbe qui “senza fare inchieste”, la frase che più lo inquieta nella sua
già citata rilettura del Libro di Giobbe in L’antica via degli empi. Ad agire
“senza fare inchieste” è il dio del massacro che gli accusatori mobilitano
contro Giobbe, ovverosia la folla linciante che si scatena sul primo
malcapitato. Giobbe, dal canto suo, mobilita un avvocato difensore che interceda
per lui presso l’Altissimo, un Paraclito, il vero Dio dei Vangeli che è il Dio
delle vittime.
Sebbene Girard mostri con quanta insistenza le Scritture pongano Satana nel
ruolo dell’accusatore e Cristo in quello del difensore, non stiamo qui
affermando che l’accusa ha sempre torto e la difesa sempre ragione ma che questa
dialettica deve quantomeno darsi per evitare che l’umanità risolva la propria
violenza a spese di una catena di capri espiatori, più o meno innocenti, più o
meno colpevoli, selezionati “senza fare inchieste”. Il luogo in cui questa
dialettica dovrebbe avere luogo esiste già ed è ovviamente il tribunale,
metonimia dello Stato di diritto, la cui elaborazione nel corso dei secoli,
dall’habeas corpus alla presunzione di innocenza, può essere letta come la
progressiva tutela di tutti i potenziali capri espiatori dalle grinfie della
folla.
> Da qui viene la violenza per Girard: non da una generica “aggressività
> animale” ma da un reciproco senso di ingiustizia subita. Così in Girard la
> posizione della vittima è sia quella di colui che viene infine accerchiato ma
> anche quella di coloro che l’accerchiano, i quali si sentono soggettivamente
> vittime della sua azione.
Se la seconda metà del Novecento ha visto l’emergere del “processo mediatico”
come oggettiva regressione resa possibile dai mass-media tradizionali, il social
network allarga la ferita e consente all’intera popolazione di istituire
processi sommari, ciò che di volta in volta abbiamo chiamato shitstorm, cancel
culture, call-out culture etc. C’è davvero da chiedersi, fuori da ogni
formulazione retorica, cosa avrebbe detto Girard se avesse avuto gli ultimi
dieci anni di fronte agli occhi. Dove si sarebbe soffermata la sua critica in
questo mondo che ha globalizzato per davvero il villaggio, in cui le più
primitive dinamiche di linciaggio sono riemerse solo a partire da una
complessiva virtualizzazione della socialità.
Girard ci ha lasciato un problema con due corni: l’assoluta certezza
dell’esistenza delle vittime e il necessario sospetto verso chiunque si presenti
come vittima, poiché farlo è il primo passo per esercitare la violenza. Eppure
non ci ha lasciati privi di strumenti. Con un anticipo spaventoso sui tempi,
mentre siamo immersi in uno Zeitgeist che ci intima di rintracciare nella nostra
storia personale tutti i modi in cui siamo stati vittime per rinfacciarli al
prossimo, Girard afferma che la conversione cristiana è una cosa semplicissima,
quella cosa accaduta a San Paolo sulla famosa via: riconoscere sé stessi in
quanto persecutori.
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I l 25 marzo 2023, sui terreni agricoli nei pressi del piccolissimo comune di
Sainte-Soline nell’Ovest della Francia, quasi trentamila manifestanti si sono
scontrati con tremiladuecento gendarmi e poliziotti francesi. La “battaglia di
Sainte-Soline” è stata il culmine di due anni di proteste del movimento dei
Soulèvement de la Terre. La manifestazione, non autorizzata dal governo,
contestava la costruzione di un megabassine, uno dei duecento bacini idrici,
grandi fino a diciotto ettari, voluti dalla grande industria agricola francese
per garantirsi le riserve d’acqua durante i mesi di siccità.
Il progetto, tuttora in fase di attuazione, rischia di avere effetti devastanti
sull’agricoltura: i megabassines raccolgono acqua drenandola dalle falde durante
l’inverno e, di conseguenza, danneggiandole; sono costruiti allo scopo di
irrigare le colture intensive, specie quelle del mais, che richiedono un volume
di acqua superiore a quella naturalmente garantita dai cicli stagionali; fanno
l’interesse esclusivo della grande industria e sono progettati senza tenere
conto della volontà di chi abita quei territori.
Il dispiegamento di forze di polizia quel giorno era enorme, la loro dotazione
di armi adatta a una vera e propria guerriglia: elicotteri, equipaggiamenti
antisommossa, veicoli blindati, cannoni ad acqua, granate. Centinaia di
manifestanti sono stati feriti, alcuni in modo grave, altri gravissimo. Venti
persone sono state mutilate, due sono finite in coma. Dopo la battaglia, i
Soulèvement de la Terre sono stati sciolti dal ministro dell’interno Gérald
Damarnin e dichiarati illegali.
Nato in Francia nel 2021 per contestare le politiche ambientali ed energetiche
del governo Macron e, più in generale, per manifestare in favore di un nuovo
modello sociale ed economico attorno alle questioni che riguardano l’ecologia,
lo sfruttamento del suolo, l’accumulo di risorse e di materie prime, il
movimento riunisce militanti e agricoltori locali e raccoglie la solidarietà di
altri gruppi nazionali ed esteri. Tra il 2021 e il 2023 i Soulèvement de la
Terre hanno organizzato cortei, presidi, azioni di sabotaggio a grandi impianti
e siti di estrazione di materie prime, subendo la progressiva repressione del
governo francese.
> L’Abbecedario permette di riflettere sull’uso del linguaggio in politica
> laddove non si ha a che fare con questioni particolari o identitarie, ma
> collettive e strutturali.
In risposta ai fatti del marzo 2023 è stato pubblicato On ne dissout pas un
soulèvement (“Non si scioglie una rivolta”), tradotto per Orthotes da Giovanni
Fava e Claudia Terra con il titolo Abbecedario dei Soulèvement de la Terre alla
fine del 2024. L’Abbecedario è una raccolta di trentotto brevi interventi di
militanti dei Soulèvement e dei movimenti solidali. Ogni testo è scritto a
partire da una parola chiave: disposte in ordine alfabetico, le parole formano
una costellazione di posizioni e analisi politiche, fino a comporre il manifesto
del movimento stesso. Leggere l’Abbecedario permette di riflettere su quali sono
le questioni pratiche e urgenti che i cambiamenti climatici ci imporranno di
risolvere nell’immediato; su come si organizza la resistenza a scelte politiche
che perpetrano un sistema economico insostenibile; sull’uso del linguaggio in
politica, specie laddove non si ha a che fare con questioni particolari o
identitarie, ma collettive e strutturali.
Partiamo dall’ultima questione. Come dicevamo, l’Abbecedario riunisce interventi
eterogenei, tanto nella forma quanto nei contenuti: la Confédération paysanne,
una confederazione di sindacati che tutelano il lavoro di piccoli agricoltori,
firma la voce “Contadine e contadini”; il collettivo di scienziati Scientifiques
en rébellion scrive di “Urgenza climatica”; gli antropologi Philippe Descola,
titolare della cattedra di antropologia al Collège de France, e Eduardo Viveiros
de Castro, professore universitario a Rio De Janeiro, parlano di
“Accaparramento” e “Indigeno”; la direttrice delle ricerche al CNRS di
Montpellier Virginie Maris firma “Ecofemministe”.
Questo elenco parziale rende l’idea della varietà non solo di temi – il
manifesto tiene insieme questioni architettoniche, sociali, geologiche,
ambientali – ma anche delle molte soggettività che compongono il movimento.
Proprio nella “composizione” sta il farsi soggetto collettivo dei Soulèvement de
la Terre: l’Abbecedario non sintetizza né distingue le varie posizioni, le fa
coesistere e le tiene insieme. Al fondo di ogni testo, la formula “cfr. anche”
rimanda ad altri due o tre interventi nello stesso libro. In questo modo,
l’Abbecedario si può leggere sia in ordine alfabetico sia per connessioni
tematiche, attraversando la rete di posizioni che forma l’impalcatura teorica
del movimento.
Che lingua parla, o deve parlare, la politica militante? È una questione di
enorme importanza, se si tiene conto della strutturale subalternità che i
movimenti sociali di sinistra hanno in relazione all’opinione pubblica, non
tanto per le proposte in sé, spesso largamente condivisibili e condivise, anche
inconsciamente, da moltissime persone, quanto per la loro immagine, per la
narrazione, l’idea che se ne costruisce nel dibattito. L’Abbecedario contiene
molti registri diversi. In alcuni passaggi, ad esempio, la lingua è assertiva,
quasi imperativa:
> Continuare a fare ciò che conosciamo, fare l’inventario dei siti in cui sono
> previsti progetti distruttivi. Rafforzare i nostri legami con gli avvocati.
> Supportare la rete di associazioni militanti. Denunciare gli abusi della
> società di consulenza. Politicizzare le nostre camminate nella natura.
> Diffondere le pratiche naturalistiche. Federare le comunità umane e non umane.
> Disertare. Insediarsi in campagna.
Il brano è contenuto nel capitolo “Naturalistes de Terre”, la lista dei
comandamenti prosegue ancora. Allo stesso tempo, la lingua sa essere
immaginifica, creativa, ironica, come nella “Ricetta per le mense militanti”:
Per cominciare bene, portare a ebollizione in un’assemblea generale gli addetti
e le addette alla mensa per organizzare la giornata di cucina […]. Raggiunto il
bollore, non dimenticate di creare una squadra d’attacco di lavaggio stoviglie e
un’équipe per lo spuntino. Una volta emulsionata a puntino, l’équipe parteciperà
alla manifestazione e rifornirà i manifestanti nel cuore dell’azione, in modo
che tutte e tutti possano recuperare le forze.
In alcuni capitoli si citano dati e percentuali, alcuni contengono persino note
con riferimenti bibliografici, in altri si lascia spazio alle metafore e alle
costruzioni allegoriche. I campi semantici più ricorrenti riguardano la natura
(“essere albero”, “avere radici”, “ramificare”, “creare/appartenere a
ecosistemi”), o il corpo, ad esempio nel rapporto chimerico tra corpo umano e
suolo o tra uomini e animali non umani: “Avere cura delle lotte significa curare
le nostre interdipendenze e le nostre co-affezioni attraverso
personificazioni-chimere, come uomo-anguilla-fiume o umano-tritone-prato”;
“Siamo l’Acqua che si difende e siamo pronti a sommergervi”. La Terra stessa è
personificata in “Gaia”, nome che rimanda a un’idea armoniosa del rapporto tra
uomo e natura. Non manca, ovviamente, il campo semantico del conflitto: le
grandi opere si “disarmano”, le azioni di sabotaggio dei cantieri si fanno per
“autodifesa”, le risorse naturali sono terreno di “conquista”.
> Proprio nella “composizione” sta il farsi soggetto collettivo dei Soulèvement
> de la Terre: l’Abbecedario non sintetizza né distingue le varie posizioni, le
> fa coesistere e le tiene insieme.
Che la lingua sia un campo di battaglia politica, un dispositivo attraverso cui
si stabiliscono le appartenenze, si delimitano i confini dell’identità, si
tracciano le linee di inclusione ed esclusione, è ormai un dato evidente a
chiunque. Più sotterraneo, per ora, è l’uso che si fa della lingua quando si ha
a che fare con questioni sociali. Sempre più repressivo è l’uso dei termini che
identificano i manifestanti politici: qualcuno saprebbe definire chiaramente chi
sia oggi per la legge italiana un “terrorista”? Ogni parola usata nel discorso
politico è oggetto di contesa: dire “ecologista”, “militante”, “resistente”,
“attivista” non è mai neutro, è una scelta di campo.
Anche in Italia il vocabolario istituzionale che definisce le forme di dissenso
è sempre più vago e opaco, e proprio per questo sempre più pericoloso. Categorie
giuridiche nate in contesti storici completamente differenti – pensiamo alla
nozione di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” – vengono oggi
applicate a gruppi ambientalisti o a reti di movimento che contestano
infrastrutture fossili, come i rigassificatori o i metanodotti. Il concetto
stesso di terrorismo viene stirato, piegato, fino a includere chiunque eserciti
un conflitto non autorizzato, chiunque pratichi una forma di opposizione fuori
dai canali istituzionali. Il problema, allora, è anche semantico: è nel potere
di chi assegna i nomi. Se la narrazione istituzionale è capace di imporre
un’etichetta, può cancellare la complessità, fino a devitalizzare il conflitto e
a evitare ogni confronto.
In questo contesto, la riflessione linguistica diventa una questione politica
primaria. Come ci chiamiamo? Come vogliamo essere chiamati? Quali parole ci
vengono imposte, e di quali ci possiamo riappropriare? La battaglia non si gioca
solo nelle piazze o nei tribunali, ma anche nei modi in cui parliamo delle
piazze e dei tribunali. E anche nei modi in cui parliamo tra di noi. Per questo
l’Abbecedario è un oggetto prezioso: perché costruisce una lingua comune senza
imporla. Perché mostra che si può parlare da posizioni diverse, con stili
diversi, ma in una stessa direzione, rompendo la gerarchia tra chi pensa e chi
agisce, tra chi scrive e chi lotta.
Il fatto che l’Abbecedario dei Soulèvement de la Terre sia stato scritto dopo
Sainte-Soline indica che non si tratta di un programma d’azione, ma del
tentativo di capire retroattivamente – con le parole e le forme del pensiero –
ciò che era già stato fatto. Prima il corpo, poi la lingua; prima l’urto, poi la
sintassi. Se la politica dei Soulèvement ha avuto nella presenza fisica, nella
disobbedienza, nel gesto collettivo la sua prima articolazione, è soltanto dopo
lo scontro che si è resa necessaria la costruzione di una grammatica.
L’intelletto viene a posteriori, come forma di sedimentazione, e non come
architettura previa. Questo sovvertimento delle logiche tradizionali del
pensiero militante è forse la chiave più potente dell’Abbecedario: l’azione non
è giustificata dalla teoria, ma la precede. E la teoria non ha lo scopo di
spiegare, ma di accompagnare. Non è una strategia, è una cura.
> Ogni parola usata nel discorso politico è oggetto di contesa: dire
> “ecologista”, “militante”, “resistente”, “attivista” non è mai neutro, è una
> scelta di campo.
In questo senso, l’Abbecedario non è un libro che prepara alla lotta: è il libro
che resta dopo la lotta. E proprio per questo è tanto più prezioso per chi lotta
oggi, altrove. Perché offre un esempio, non un modello. Perché si può prendere,
leggere, copiare, piegare, adattare. E perché contiene una forma di intelligenza
collettiva che non si propone come verità, ma come gesto in comune. In un tempo
in cui la repressione del dissenso si fa ogni giorno più pervasiva, anche in
Italia, e in cui la distanza tra il gesto politico e la sua rappresentazione
pubblica è abissale, l’Abbecedario diventa un oggetto strano e vitale. Una forma
di sapere che non pretende egemonia, ma relazione.
Se oggi chi dissente in modo organizzato – che si tratti di studenti, attivisti
per il clima, operai o lavoratori della cultura – viene schedato, manganellato,
perquisito, accusato di terrorismo, allora ogni parola è già azione, ogni
linguaggio condiviso è già una forma di resistenza, e la pluralità di registri
dell’Abbecedario rispecchia la molteplicità delle condizioni in cui oggi il
dissenso prende corpo: università, assemblee cittadine, campagne, festival,
accampamenti, piazze occupate, reti sindacali, collettivi scientifici.
Questa traiettoria – dall’azione al pensiero, dalla militanza al discorso – è
visibile anche altrove. Nel lavoro teorico di Andreas Malm, ad esempio,
l’urgenza dell’azione contro il cambiamento climatico è posta in forma
dialettica con il pensiero marxista. Come far saltare un oleodotto, pubblicato
in Italia da Ponte alle Grazie nel 2023, è forse l’esempio più esplicito di come
oggi la teoria non possa più restare neutra, e non possa più limitarsi a
descrivere il mondo senza prendere parte alle sue trasformazioni. Malm, come i
Soulèvement, parla delle azioni di sabotaggio (meglio dire “disarmo”) delle
grandi opere come strumento essenziale di lotta climatica e della “violenza”
contro i grandi soggetti industriali come l’unica via per contrastare un sistema
iniquo. Così facendo, l’autore costruisce una giustificazione teorica per gesti
che il sistema giuridico classifica come criminali. E che invece, nella logica
del collasso ambientale, sono azioni di tutela della vita.
La tutela dell’acqua pubblica, il contrasto alla siccità, l’abbandono di un
modello produttivo iniquo sono questioni che non possiamo più ignorare né
sminuire. D’altronde, sono moltissimi gli esempi di letteratura in proposito,
persino troppi in relazione a quanto effettivamente viene fatto dalla politica.
È inquietante, non devo essere io a notarlo ed è persino banale ripeterlo, la
discrasia tra quanto sappiamo e quanto facciamo in merito alla tutela del nostro
ecosistema e degli altri che contribuiamo a invadere o a distruggere.
> L’Abbecedario mostra che si può parlare da posizioni diverse, con stili
> diversi, ma in una stessa direzione, rompendo la gerarchia tra chi pensa e chi
> agisce, tra chi scrive e chi lotta.
Il filosofo giapponese Saito Kohei, nella sua ultima rilettura di successo del
Capitale, pubblicata in Italia da Einaudi, propone un ecomarxismo della
decrescita, vedendo nella rinuncia alla crescita per come è comunemente intesa
in Occidente l’unica possibilità di liberazione. Anche in questo caso il
discorso si fa politico non perché descrive una struttura, ma perché disegna
un’alternativa. Un’ipotesi concreta, capace di parlare non solo agli attivisti
ma anche ai cittadini, ai lavoratori, a chi subisce la crisi climatica senza
strumenti per interpretarla. La teoria non può più essere la premessa
dell’azione: deve essere la sua eco. E proprio come un’eco, portare con sé la
memoria del gesto e allo stesso tempo la sua trasformazione. È un gesto che si
riflette, si moltiplica, si adatta ai contorni di chi ascolta.
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T ra una fila di silhouette di donne e uomini rivolti verso un certo sol
dell’avvenire, si staglia una figura che emerge in primo piano con il pugno
chiuso alzato. Si tratta di un uomo in maniche di camicia e cravatta nera, i
capelli laccati indietro. Un impiegato, forse addirittura un quadro, potremmo
ipotizzare. Oppure un professionista, magari della comunicazione: proprio come
Alessandro Sahebi, giornalista e divulgatore, autore del saggio cui questa
illustrazione del collettivo Malleus fa da copertina.
Non è un caso se la copertina di Questione di classe. Perché non si può essere
felici in un mondo ingiusto (2025) sceglie un soggetto tanto inconsueto per
incarnare la lotta di classe: questa immagine solo apparentemente paradossale è
in realtà adattissima per un libro che usa la figura del paradosso come un
mantra per illuminare con disarmante chiarezza le contraddizioni del presente.
Contraddizioni che hanno aggiornato e approfondito quelle “classiche” del
capitalismo, e che Sahebi si propone di indagare allo scopo di farle detonare.
“Paradosso”, quindi, ma anche “circolo vizioso” o “meccanismo perverso”, sono
termini che ricorrono costantemente nella disamina di Sahebi, che parte da
esperienze quotidiane di ordinaria miseria umana contemporanea.
Si va dall’iperlavoro alla sofferenza psichica (ansia e depressione in primis),
ma anche (e soprattutto) al costante impoverimento che accompagna la recessione
in corso, spesso accettata passivamente perché sembra “non fare notizia”: la
povertà moderna, scrive Sahebi, è “invisibile, diffusa, travestita da normalità”
fatta di
> compromessi silenziosi, di rinunce quotidiane che passano inosservate […] È
> una condizione che il sistema ci insegna a ignorare o, peggio, a normalizzare.
> Rimandare una bolletta? “Succede.” Risparmiare sul cibo? “È solo buon senso.”
> Vivere con la paura di un imprevisto economico? “È la vita.” È una forma di
> disuguaglianza strutturale che abbiamo imparato a non vedere.
E se non la vediamo è perché, spiega Sahebi, invece di riconoscerla come forma
di oppressione, la soggettivazione neoliberale impone di viverla come un
fallimento individuale. La prima cosa da fare allora è sgombrare il campo
dall’assunzione di responsabilità determinata da “un sistema che
deresponsabilizza le strutture collettive, mentre sovraccarica gli individui di
senso di colpa e inadeguatezza”, ricordando, come avrebbe fatto Mark Fisher, che
“se sei infelice non è colpa tua”.
> Il saggio di Sahebi usa la figura del paradosso come un mantra per illuminare
> con disarmante chiarezza le contraddizioni del presente.
Autoconvincersi che esista un senso in un sistema irrazionale, però,
> non è altro che una strategia difensiva. Questo adattamento serve a mascherare
> la realtà brutale delle disuguaglianze, proteggendo chi vi è immerso dal
> rischio di un collasso psicologico […]. Chi è privato di risorse materiali e
> simboliche tend[e] a conformarsi a una visione del mondo che giustifica la
> propria mancanza di opportunità. È una forma di sopravvivenza psichica che
> però, paradossalmente, diventa anche una prigione.
Nonostante smascheri questo autoinganno, quella di Sahebi non è un’impresa
banalmente razionalista: non cerca di “educare” (né di umiliare, in fondo
l’altra faccia della medaglia degli intenti pedagogici) coloro che vi si
attaccano con fede disperata pur trovandosi dalla parte dei perdenti nella lotta
per la sopravvivenza che lo stesso sistema prevede (fazione che, come si diceva
ai tempi di Occupy Wall Street, rappresenta il 99% della popolazione).
Diversamente da quanto non abbia saputo fare la sinistra (non solo di centro,
purtroppo) negli ultimi decenni, Sahebi si propone di andare ad ascoltarne le
necessità, chiedendosi se non ci sia, piuttosto che la necessità di educare
queste masse, qualcosa da imparare da loro: chiedendosi insomma quali siano i
loro bisogni e se non esistano modi più efficaci per rispondervi che non la
soluzione sessista, razzista e autoritaria delle destre. “Il cosiddetto ‘popolo’
che ha votato per Trump o per la Brexit”, scrive, “non è composto da ignoranti
che hanno scelto il male, ma da persone che hanno risposto con rabbia e
frustrazione a un sistema che li ha sistematicamente ignorati e marginalizzati”.
Contro le accuse di ignoranza, analfabetismo funzionale, razzismo e sessismo
come peccati originali intrinsechi da correggere attraverso una fiorente
industria di pedagoghi e ortopedici della morale, Sahebi mette alla berlina
> l’incapacità dei progressisti di confrontarsi con un esercito di esclusi.
> Questa distanza fra i cosiddetti «migliori» e le masse ai margini è uno dei
> drammi centrali del nostro tempo. Ed è un dramma che esplode ciclicamente:
> nelle urne, nei movimenti cosiddetti populisti, nelle ondate di disillusione e
> rabbia che continuano a sorprendere chi vive nella bolla della classe media
> riflessiva.
A più riprese Sahebi difende la razionalità di scelte apparentemente
incomprensibili o controproducenti, che si spiegano solo se si osservano le
condizioni materiali in cui vengono maturate. E le condizioni materiali attuali
non possono che far paura: “Abbiamo il terrore di perdere il lavoro, di non
riuscire a pagare un mutuo o un affitto, di vedere peggiorate le nostre
condizioni di vita. E siamo dolorosamente consapevoli di essere soli, di
dipendere soltanto dalle nostre forze, privati di quei ‘paracadute collettivi’
che un tempo venivano definiti diritti e che oggi, erroneamente, chiamiamo
privilegi”. La confusione tra diritti e privilegi, sostiene infatti, finisce col
colpevolizzare chi semplicemente gode di condizioni che nulla toglierebbero a
nessuno se potessero beneficiarne tutti: “Il pensionato, chi riceve un sussidio,
chi è aiutato negli studi, chi eredita la casa della nonna: non sono
privilegiati da odiare”.
> Sahebi si chiede se, piuttosto che la necessità di educare le masse, non ci
> sia qualcosa da imparare da loro, chiedendosi quali siano i loro bisogni e se
> non esistano modi più efficaci per rispondervi che non la soluzione sessista,
> razzista e autoritaria delle destre.
Accanto al tema del paradosso e del circolo vizioso non mancano termini come
“mito” o “illusione”: l’accanimento in difesa di questo sistema, così come la
speranza che esso possa essere migliorato o corretto, è sostenuto da una fede
irrazionale che la classe dominante ha tutto l’interesse di fomentare. Sahebi
allarga infatti man mano il campo dall’esperienza immediata a una serie di altre
questioni che trovano nel capitalismo neoliberale se non sempre la causa
diretta, una falsa soluzione: si va dal consumismo all’interruzione della
mobilità sociale, dall’autosfruttamento al tecnofeudalesimo, dalle
privatizzazioni e finanziarizzazioni selvagge al classismo del sistema
educativo, dalla solidarietà negativa ai governi tecnici.
La fiducia che troppa sinistra si ostina a riporre in questi ultimi, spiega
Sahebi, in fondo risiede nell’ormai acquisita abitudine al dogma nella
“meritocrazia”, un modello sociale profondamente antidemocratico che presenta
almeno tre punti problematici: il primo è il fatto che il merito non sia mai
valutato in un vuoto morale, ma rifletta i bias di una data società. “Nel mondo
del lavoro, per esempio, […] una promozione non premia chi ha messo in
discussione il sistema, ma chi l’ha accettato senza fare troppe domande”. Il
secondo, un vero e proprio spreco di talenti: una serie di capacità restano
inespresse in una società che premia esclusivamente la produttività e nella
quale solo il benessere ereditato consente di dedicare tempo a meriti non
immediatamente valorizzabili. Infine, un sistema meritocratico non può che
lasciare inevasa la domanda su cosa fare dei “non meritevoli”. “Dobbiamo punire
ulteriormente i ‘perdenti della società’? Dobbiamo fare loro una colpa di non
essere adatti al sistema dominante? […] anche l’incapacità più netta dovrebbe
concederci il diritto a una vita dignitosa”. Una rivendicazione che Sahebi
connette direttamente alla formula marxiana “a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Rispetto a questa grandiosa ambizione, il problema della sinistra progressista è
di essersi accontentata. Lo si vede nelle sue battaglie, dalle più triviali,
come il bonus psicologo, “ennesima soluzione individualizzata a un problema
collettivo” (“Perché non aspiriamo a una società in cui non sia necessario
andare dallo psicologo per sopravvivere?”), al modo in cui vota, cercando sempre
di arginare il male peggiore e senza mai osare spostare la finestra di Overton.
“Questa rassegnazione finisce per essere trasmessa all’elettore”, osserva
Sahebi, “che diventa, nei tribunali morali di cui siamo giudici autoeletti, il
‘cattivo votante’”.
Per Sahebi non c’è nulla di “realistico” nella rassegnazione
progressista/riformista: al contrario, scrive
> il reale è ciò che il “realismo del meno peggio”, mascherato da oggettività, è
> continuamente costretto a sopprimere. Il realismo può essere dunque una
> visione distorta che soffoca le alternative di cambiamento, presentandosi come
> pragmatica, mentre in realtà schiaccia il vero potenziale del reale. Insomma,
> c’è un “reale-reale” che ha mille possibilità, e un “finto-reale” che
> desertifica il resto. E il reale, quello vero, ci urla ogni giorno che
> l’elettorato vota a destra non perché non riconosca le libertà o i diritti
> delle minoranze, né perché sia imperniato di patriarcato e sfacciatamente
> ignorante. L’elettorato vota a destra perché ha timore del futuro.
Nei due capitoli conclusivi, Sahebi presenta quello che sembra a tutti gli
effetti un programma elettorale, toccando temi come il salario minimo, i limiti
di misure di workfare e sussidi vincolati a merito e prestazioni, la scomparsa
del lavoro a causa della nuova rivoluzione tecnologica, l’introduzione di una
tassazione progressiva e di reddito di base universale, il cui scopo è “separare
il binomio lavoro-reddito” accettando che “una parte della popolazione non
lavorerà più nei termini tradizionali, ma che ciò non può tradursi
automaticamente in miseria”.
> La fiducia che troppa sinistra si ostina a riporre nei governi tecnici, spiega
> Sahebi, in fondo risiede nell’ormai acquisita abitudine al dogma nella
> “meritocrazia”, un modello sociale profondamente antidemocratico.
Una soluzione che consentirebbe una vera e propria rivoluzione prospettica,
consentendo di sperimentare
> un mondo in cui il benessere non sia legato al sacrificio. Per troppo tempo ci
> hanno insegnato che la dignità si conquista con la fatica, che il dolore è
> necessario, che il tempo libero è un privilegio. Ma se il futuro ci sta
> dicendo che il lavoro umano sarà sempre meno essenziale, forse d’ora in poi
> possiamo smettere di vedere il tempo libero come una minaccia. E iniziare a
> considerarlo per quello che potrebbe essere: una liberazione.
Antilavorismo a parte, le soluzioni concrete proposte da Sahebi sono piuttosto
classiche. Sahebi non ne fa mistero, e lo rivendica anzi con orgoglio: “dovremmo
smettere di sognare o aspettare che a qualcuno venga un’idea migliore. L’unica
opzione sensata c’è già ed è il socialismo,” che definisce come un modello in
cui l’economia è orientata da uno Stato che incarna la collettività in vista
delle sue necessità: “Ciò significa abbandonare l’ossessione per il prodotto
interno lordo a favore del benessere dei cittadini e della loro felicità;
significa anche che, se un singolo individuo accumula una ricchezza tale da
diventare pericoloso per la collettività, lo Stato può e deve imporne il
ridimensionamento”. A chi potrebbe avanzare timori riguardo a questo
accentramento dirigenziale, Sahebi fa giustamente notare come esso sia già in
atto anche nel nostro modello capitalista, solo che non nelle mani di chi
rappresenta la collettività ma solo il proprio interesse privato.
Su questa linea Sahebi invoca organizzazione, e un ritorno alla struttura del
partito, contro lo spontaneismo e il movimentismo che, apparentemente radicali,
si sono rivelati molto allineati su un idealismo buono anche per il Partito
democratico. Il giudizio decisamente ingeneroso sul Sessantotto è forse uno dei
punti che maggiormente tradisce la distanza di Sahebi dai gusti e dai tic dei
circoli della “theory”. Del resto, nei suoi cinque capitoli, con una chiarezza
argomentativa che solo di rado scade nella semplificazione, Sahebi getta le basi
per un sano populismo di sinistra, ben fondato sul materialismo e molto distante
dalle speculazioni (troppo spesso astrattamente etiche) su cui si è avviluppata
(e spaccata) la sinistra negli ultimi decenni.
Non sempre riesce però a sottrarsi alla tentazione di schierarsi, condannando ad
esempio, pur con tutti i caveat del caso, il consumo di droghe, il sex work e la
gestazione per altri (GPA). Spiace, pur trattandosi a parere di chi scrive
dell’unico limite di un saggio necessario e prezioso, perché un metodo
materialista applicato rigorosamente pretende che certe questioni legate alla
sfera personale (ben diversa dalla “proprietà privata”) restino a discrezione
dell’autodeterminazione delle persone. Il compito politico è quello di fare in
modo che le condizioni materiali consentano davvero di scegliere in modo
autodeterminato: il sex work e la GPA non dovrebbero essere determinate da
necessità economica, così come le droghe non dovrebbero essere l’unica via di
fuga da una realtà intollerabile. Sperare di poter elaborare norme di condotta
universali su tematiche così soggettive, però, è non solo un po’ illusorio, ma
anche in contraddizione con quanto si continua, sensatamente, a ribadire nel
libro, e cioè che la questione materiale è quella dirimente. In condizioni
materiali mutate, alcuni di quelli che Sahebi identifica come problemi etici su
cui la collettività è chiamata a deliberare per tutti smetterebbero di essere
tali, mentre la discussione contemporanea al riguardo non si rivelerebbe altro
che l’ennesima culture war, nella quale Sahebi rischia di passare per vetero o
moralista, a discapito della potenza del suo messaggio.
> Sahebi getta le basi per un sano populismo di sinistra, ben fondato sul
> materialismo e molto distante dalle speculazioni (troppo spesso astrattamente
> etiche) su cui si è avviluppata (e spaccata) la sinistra negli ultimi decenni.
Sahebi ha ragione nel sostenere che sia un compito collettivo, e non una mera
questione di semplici decisioni individuali, quello di “riflettere di fronte
agli abusi del mercato”, ma è su questa dicotomia che ha senso insistere: quella
tra gli interessi della classe lavoratrice, che possono includere anche
l’autoderminazione su questioni personali, e gli interessi del capitale.
Insistere cioè sul fatto che il capitalismo comporta un impoverimento delle
nostre vite, mentre l’alternativa socialista consente “l’affermazione dell’Io
nella sua dimensione più piena, che comprende anche la sua vita nella
collettività”.
L'articolo Questione di classe di Alessandro Sahebi proviene da Il Tascabile.
I n un saggio del 2023 dal titolo La correzione del mondo. Cancel culture,
politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata, l’autore
Davide Piacenza racconta alcune declinazioni del progressismo contemporaneo,
portate avanti da una premessa storico-filosofica che conferma l’orientamento di
massima del pensiero occidentale. La premessa del libro ci ricorda che con la
caduta del muro di Berlino nel 1989 e con la dissoluzione dell’URSS nel 1991, la
sinistra ha radicalmente mutato il suo approccio, mettendosi alla ricerca, come
scrive Piacenza, “di nuovi dei laici”, riportando a sua volta un pensiero del
critico d’arte Robert Hughes, secondo il quale con la crisi del comunismo la
reazione fu di allontanarsi dal marxismo classico, col suo accento sulle lotte
economiche e di classe, e di abbracciare le teorie della scuola di Francoforte,
soprattutto di Theodor W. Adorno ed Herbert Marcuse. Per questi pensatori,
l’intera esperienza dell’essere umano ruota attorno a meccanismi repressivi
insiti non nella politica manifesta, bensì nel linguaggio, nell’educazione,
nell’entertainment, insomma nell’intera struttura della comunicazione sociale.
Secondo Piacenza, partendo dagli assunti sociologici di Hughes, il compito
dell’attivista o del militante ‒ ma alla differenza tra questi due termini
arriveremo poi ‒ sarebbe diventato oggi quello di stanare la discriminazione
decostruendo i sistemi non basandosi più sulla riconquista di un potere
marxisisticamente economico, quanto piuttosto su una consapevolezza del
linguaggio, attraverso le pieghe della narrazione eterocostituita.
Questo “passaggio interno”, se così vogliamo chiamarlo, testimonia un
ricollocamento importante nel bilanciamento delle correnti di pensiero opposte
alle destre, che siano esse moderate o estreme, ma la sua analisi sembra
interessare poco chi si occupa degli “spostamenti di faglia” dei moti
resistenziali, o supposti tali. Eppure proprio questo cambiamento di rotta molto
forte ha generato spesso delle incomunicabilità piuttosto pesanti, soprattutto
tra la generazione delle lotte del Sessantotto e quelle successive, dagli anni
Ottanta fino a oggi.
Prendiamo a esempio di questa differenza un dialogo avuto tra Toni Negri e sua
figlia Anna Negri, nel film Toni, mio padre, diretto dalla stessa Anna, che
racconta il rapporto tra la regista e il padre, fondatore di Autonomia operaia e
tra i massimi teorici rivoluzionari del Ventesimo e Ventunesimo secolo: “Io ho
un’amica che era un ragazzino calabrese, completamente solo, in un mondo che gli
diceva che non poteva esistere. Questo ragazzino capisce da solo che lui può
essere diverso. Viene a Roma e diventa una donna. Ma se lui non avesse
riconosciuto che quelle cose erano costruzioni del patriarcato poi non avrebbe
potuto lottare e diventare quello che voleva.”
> Il cambiamento di rotta, da marxismo a decostruzione, ha generato delle
> incomunicabilità pesanti tra la generazione delle lotte del Sessantotto e
> quelle successive, dagli anni Ottanta fino a oggi.
“Mi parli di questo ragazzo come se fosse un imprenditore, che scopre in se
stesso la propria fiducia nel futuro. Ma per fare quello che ha fatto questo
ragazzo ha dovuto conquistare questa sua capacità di diventare un altro
attraverso gli altri. Il tuo è un discorso completamente e radicalmente
individualista.”
“Va bene, allora non ci capiamo proprio.”
Queste idee diverse su quale sia il modus operandi per organizzare (o
riorganizzare) un pensiero che tende al resistenziale, ci portano effettivamente
a prendere atto che, negli ultimi vent’anni più o meno, proprio la concezione di
una lotta privata, più basata peraltro, la maggior parte delle volte, sul
raggiungimento di un’identità personale e meno sui conflitti di classe, ha
inevitabilmente prodotto delle derive su cui non è facile passare sopra senza
interrogarsi su cosa sia diventato il pensiero di sinistra dopo la caduta del
Muro. Infatti, ritornando sempre al libro di Piacenza, troviamo diversi esempi
che riportano le conseguenze più manifeste di questo iato sempre più ampio, e
non riguardanti esclusivamente l’identità di genere o di etnia, ma anche
questioni ben più radicate nell’immaginario del Novecento stesso, come lo
scontro tra democrazie e fascismi. L’episodio capitato a Emanuel Cafferty ne è
un emblema abbastanza lampante.
Fino al giugno del 2020, Cafferty lavorava alla San Diego Gas & Electric, una
società di luce e gas della California meridionale. “Quel giorno”, racconta
Piacenza “aveva finito un lungo turno di mappatura delle condutture sotterranee
della contea e, esausto, si era messo alla guida del pick-up bianco fornito
dalla sua società per tornare a casa, con la mano fuori dal finestrino per
godersi la brezza. A un certo punto, un automobilista fermo a un semaforo gli ha
mostrato il dito medio, per poi iniziare a insultarlo facendo uno strano gesto
con la mano: unendo pollice e indice, quello che il quarantenne Cafferty sulle
prime aveva pensato essere un folle sembrava esibire il gesto che si usa per
dire «okay».” Dopo numerose insistenze, per esasperazione, Cafferty fa il gesto,
proprio mentre il suo interlocutore lo immortala con il suo smartphone. “Come
scoprirà soltanto in un secondo momento, quell’okay sign è anche un segno di
riconoscimento appropriato dall’alt-right, il complesso sottobosco di meme e
razzismo che ha trovato in Donald Trump il suo paladino di virtú.
L’automobilista aveva visto la mano di Cafferty fuori dal finestrino del pick-up
in una posizione che richiamava quella resa un segnale di riconoscimento di una
nicchia di filonazisti online, si era convinto che fosse un suprematista bianco
e aveva iniziato a inveire contro di lui. Poi aveva postato la sua foto su
Twitter. Cafferty – figlio di messicani e latinoamericani – non aveva alcuna
idea di cosa fosse l’alt-right, né ovviamente che quello fosse un gesto da
nazisti da forum internettiani”. Eppure, a causa di questo gesto per lui privo
di significato, la settimana successiva si trova senza lavoro: “dozzine di
persone avevano chiamato il suo datore di lavoro per chiederne il
licenziamento”.
Questo è solo uno dei tanti cortocircuiti di senso riportati nel libro, che
fornisce una panoramica abbastanza lucida proprio di quanto il pensiero
originario, secondo cui appunto il sopruso vada ricercato “nel linguaggio,
nell’educazione, nell’entertainment”, sia stato trasformato in una sorta di
Giano bifronte generatore di capovolgimenti logici che passano dal progressismo
alla reazione nel giro di un battito di ciglia. Il fulcro quindi di questo
disorientamento, di questa “continua tentazione alla vaporizzazione” insita
nell’attivismo, per così dire, sta forse proprio in quella ricerca di “nuovi dei
laici”. Una ricerca che, proprio perché rimane ancora senza un concreto e
definitivo risultato, finisce per generare mostri, soprattutto nel mondo post
digitale. Ed è questa teogonia che traccia i nuovi sentieri del progressismo.
> La ricerca di “nuovi dei laici”, proprio perché rimane ancora senza un
> concreto e definitivo risultato, finisce per generare mostri. Ed è questa
> teogonia che traccia i nuovi sentieri del progressismo.
Questa direzione era stata non interamente ma significativamente già
preconizzata nei primi decenni del Novecento ‒ almeno vent’anni prima delle
teorizzazioni di Adorno, Marcuse, Horkheimer ecc… ‒ rispetto al concetto di
sacro teorizzato dalla filosofa francese Simone Weil. Weil intendeva con sacro
quella forza impersonale (sicuramente non individuale, ma neanche collettiva)
che riesce a trascendere l’umano, recuperando quel senso di spiritualità che la
società consumistica ha così annacquato, ma che continua a usare per piegare le
masse ai suoi egoistici appetiti. Il popolo, orfano di ritualità, si rifugia nei
processi di appropriazione materialistica e di accumulo seriale e compulsivo per
colmare un vuoto lasciato dalla scomparsa di una differenza tra sacro e profano.
Orfano dello spirito, il popolo va a ricercare proprio il suo contrario, e con
esso lo sostituisce.
Ecco, questo genere di individuazione sociologica ha sempre relegato la parte
maggioritaria dell’umanità a una forma di reazione, a una schiavitù nei
confronti delle forze “potentistiche” del mondo, o anzi addirittura a una
complicità nell’aver contribuito a creare la decadenza etica contemporanea. Di
queste deformazioni però a prima vista non è mai stato interessato chi invece
tende a una riqualificazione della società, chi cerca di opporsi a questo fluire
inconsapevole nelle maglie del consumo. Questa minoranza, culturale e numerica,
è sempre stata invece associata tendenzialmente a un fare virtuoso, a un senso
di responsabilità nei confronti dell’altro da sé. Ma cosa succederebbe se ci
immaginassimo che anche questa “altra parte della barricata” sente lo stesso
bisogno di sacro della maggioranza silenziosa?
Anche qui può venirci in soccorso un esempio riportato all’interno di La
correzione del mondo. Sul finire dell’anno scorso Erika López Prater, una
professoressa di Hamline, la più antica università del Minnesota, si è trovata
improvvisamente senza lavoro perché durante una lezione online di storia
dell’arte globale aveva mostrato per pochi minuti una miniatura contenuta
nell’opera di un artista islamico medievale, Rashid al-Din. Nell’immagine
l’angelo Gabriele consegna al profeta Maometto le rivelazioni di Allah raccolte
nel Corano, ma per un certo Islam conservatore la rappresentazione di Muhammad è
vietata, perché sfocia nell’idolatria. Il dettaglio importante della storia è
che López Prater nel programma del suo corso faceva riferimento al fatto che
durante le lezioni sarebbero state mostrate immagini sacre del profeta dei
musulmani, e quel giorno dalla sua cattedra ha ribadito il disclaimer, invitando
chiunque lo volesse ad abbandonare temporaneamente la lezione. Nessuno ha detto
niente, ma poco dopo la fine della lezione la professoressa è stata contattata
da una studentessa musulmana di origine sudanese, Aram Wedatalla, presidente
della Muslim Student Association dell’ateneo. Wedatalla non si è limitata a
scrivere a lei: ha raggiunto gli organi dell’università di Hamline che hanno
indetto una giornata pubblica contro l’islamofobia per riparare al torto.
Non serve sottolineare quanto in questo esempio, ancora più che nel precedente,
sia centrale l’idea di linguaggio collegata a quella di sacralità all’interno
del mondo progressista di oggi. Per affrontare questi continui marasmi di
apparenti relativismi morali va sicuramente analizzata però una premessa: è un
riflesso incondizionato di chi agisce o crede di agire per il bene non indagare
chi si attiva all’interno della stessa macrodimensione etica e morale, proprio
perché smacchiato da ogni sospetto, da ogni tentazione egoistica o
qualunquistica. Come scrive infatti Simone Weil in La persona e il sacro, dalla
prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano,
nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si
aspetta invincibilmente, che gli venga fatto del bene e non del male. È questo,
anzitutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro.
Solo il bene e ciò che è relativo al bene è sacro.
> La minoranza, culturale e numerica, politicamente attiva è sempre stata
> associata tendenzialmente a un fare virtuoso, a un senso di responsabilità nei
> confronti dell’altro da sé, ma forse sente lo stesso bisogno di sacro della
> maggioranza silenziosa.
Essendo quindi il bene una spinta “forte”, a chi crede di perseguirlo non viene
spesso da interrogarsi sulla sua nascita, o sulla sua intelligenza. Chi agisce
per il bene, in sostanza, è difficilmente indagato da un suo compagno di
viaggio, da chi come lui agisce nello stesso bene. Non si tratta dunque di
malafede, come a prima vista potrebbe sembrare, ma di una fede vera, che gira
attorno alle idee di Weil confermandole e allo stesso tempo deformandole. Tutto
questo, generato di base dalle conseguenze della crisi del comunismo teorizzate
da Hughes, ha finito in un certo senso per allineare tutto in un unicum,
sciogliendo le barricate e ammucchiando ogni ideologia in questa tendenza
all’idolatria di diversi postulati. Ed è proprio a partire da queste basi che
possiamo approfondire ora la fondamentale differenza tra militanza e attivismo
come concetto profondamente collegato ai precedenti.
L’attivismo viene associato senz’altro al mondo progressista (o woke
addirittura) ma non ha, a conti fatti, una funzione rivoluzionaria, ponendosi
invece nell’ottica di rinnovare quello che già esiste, senza tuttavia metterne
in discussione le fondamenta. Come suggerisce Gigi Roggero in Elogio della
militanza (2016) attivismo e militanza non sono concetti sinonimi o ambivalenti:
presuppongono opposte visioni della politica e sedimentano antitetiche coscienze
dell’esistente e degli strumenti per combatterlo. In altre parole, il militante
è figura politica, di parte, che attraverso il sacrificio e la disciplina
dichiara guerra all’individuo liberale in favore del divenire rivoluzionario
dell’individuo sociale; l’attivista è al contrario l’innocua figura volontaria
che tenta di ricomporre ciò che invece andrebbe disarticolato socialmente per
essere ricomposto politicamente contro e non al posto di.
Questa deriva, che parte da una perdita (la percezione del fallimento storico
del socialismo reale) per arrivare a un’illusione (un’idolatria che tende e
rendere innocua gran parte della resistenza contemporanea al capitale) riporta a
una conseguenza unica, ossia la necessità di restare a tutti i costi nel
presente, di non prevedere una riscoperta vera dei moti e delle lotte
pre-società liquida, ma eventualmente di riportare al centro del discorso la
militanza solo come un altro “vitello d’oro” proveniente da un’altra epoca, da
adorare in superficie, elevandolo ma spettacolarizzandolo allo stesso tempo, non
volendo fino in fondo approfondire cosa implichi diventare effettivamente
militanti, forse semplicemente ancora per questa spinta atavica verso il sacro,
che distorce e rende ambiguo ciò che Simone Weil aveva inteso come un momento
resistenziale, o forse anche per paura della risposta che si troverebbe.
> Attivismo e militanza non sono sinonimi: presuppongono opposte visioni della
> politica e sedimentano antitetiche coscienze dell’esistente e degli strumenti
> per combatterlo.
Roggero sostiene infatti che sacrificio e disciplina nelle forme attuali della
partecipazione politica hanno acquisito una distanza talmente profonda che,
anche laddove presenti, vengono taciute, negate, quasi che imporsi un sacrificio
o costringersi in una disciplina collettiva rimandi a forme e metodi di una
lotta politica da cui finalmente si sono prese le distanze. Ma il militante, ci
dice Roggero
> è la figura fondamentale della politica rivoluzionaria. Traduce la linea
> politica verso il basso e la corregge verso l’alto. È la cerniera tra la
> teoria e la pratica, la figura che combina incessantemente la massima rigidità
> strategica con la massima flessibilità tattica, è in altre parole la
> personificazione della dialettica leniniana, colui che sta dentro le
> contraddizioni agendo da detonatore, sempre in bilico tra dogmatismo e
> opportunismo, senza mai scivolare nell’uno o nell’altro.
Le conclusioni di Elogio della militanza auspicano un ritorno all’operaismo,
ricordandoci che non è il capitale a costituire la classe operaia ma il
contrario: è il proletariato che attraverso i suoi percorsi di resistenza
costringe il capitale a innovarsi prendendo la forma attuale e in continua
evoluzione. Non sappiamo se sia questa la strada da seguire, ma sicuramente
ricercare un’idea di attivismo come finto sinonimo deresponsabilizzante di
militanza rischia di diventare semplicemente l’altra faccia della medaglia di un
biopotere sempre più abituato a superare tutto e tutti entro ogni possibile
previsione di scontro.
Lasciandoci con molte domande e, gramscianamente, con uno stoico pessimismo
della ragione ma ottimismo della volontà, ci preme concludere con la
reiterazione poetica di questo concetto, suggerendo allo stesso tempo un
affettuoso ricordo di Goffredo Fofi: “Fossi certo che domani il mondo finisse
distrutto dall’ignominia umana – che ha un nome, ed è capitale – non farei altro
che lottare ancora più accanitamente perché questo non avvenga, anche sapendo
che avverrà”. Sarà anche questa un’idea di sacro?
L'articolo La correzione del potere proviene da Il Tascabile.
C osa rimane oggi del desiderio? Nel suo saggio La saggezza del desiderio. Stare
di fronte all’assenza di stelle – pubblicato a giugno 2025 dalla casa editrice
Mimesis – la musicologa e filosofa Danielle Cohen-Levinas, fondatrice del Centre
Emmanuel Levinas presso l’Università Sorbona di Parigi, mette a tema, passando
dall’Etica Nicomachea di Aristotele ai più recenti saggi del filosofo italiano
Giorgio Agamben, una riflessione filosofica rigorosa attorno al problema del
desiderio.
Il pensiero del desiderio proposto da Cohen-Levinas, seguendo la traccia
lasciata da Platone nel Simposio, prende le mosse dal binomio, solo
apparentemente paradossale, saggezza-desiderio annunciato nel titolo. “Perché
associare due termini, saggezza e desiderio, che la nostra tradizione filosofica
ha piuttosto avuto la tendenza a opporre, o quantomeno a separare?” è
l’interrogativo con cui si apre il breve saggio, che è una rielaborazione della
lectio magistralis tenuta al festival Filosofi lungo l’Oglio nel luglio 2024.
Si tratta, seguendo Cohen-Levinas, di superare il pensiero del desiderio come
qualcosa che rinvia soltanto a “un eccesso, ad una pulsione, anzi ad
un’ossessione impossibile da soddisfare o da colmare”: se l’oggetto del
desiderio è “per definizione, assente” allora vi è una saggezza propria del
desiderare che consiste nel desiderare ciò che non ci appartiene. “Desiderare fa
segno ad un movimento di disappropriazione che obbliga […] che consente di
rispondere adeguatamente ad una sollecitazione esteriore a sé, a degli effetti
venuti d’altrove”: questa saggezza è un tutt’uno con il desiderio, e si tratta
di una saggezza pratica che il greco antico, con Aristotele e con Platone,
esprime con la parola φρόνησις (phronesis). La φρόνησις, saggezza pratica,
consiste in una saggezza etica, che va pensata come apertura e come incontro con
l’Altro, nella linea del pensiero di Emmanuel Levinas: il desiderio di quello
che non ci appartiene consiste, per l’appunto, in un movimento di spossessamento
del sé e di apertura. “Desiderare – scrive Cohen-Levinas – significa spalancare
grandi finestre sul mondo, unica possibilità per noi di essere vivi e di
rimanere tali”.
L’incontro con l’Altro è dunque il momento fondante dell’etica, che dischiude
tale saggezza pratica. Ma perché, torniamo a chiederci, proprio l’incontro? E
perché il desiderio?
> La nostra soggettività è sinonimo di desiderio; desiderio metafisico
> dell’altro – questa alterità dell’altro che non possederò mai. Il desiderio di
> spossessamento – e non di possesso – ci rende capaci di alzare lo sguardo o
> (di indirizzare) la parola verso l’assenza di stelle, finché l’illuminazione
> profana o trascendente si palesa.
Cohen-Levinas pensa all’incontro come dono, e alla generosità del desiderio –
una generosità, avrebbe detto Emmanuel Levinas, che impone sempre anche la
responsabilità verso l’Altro, che sempre ci inchioda e ci obbliga, pur
restandoci sempre irraggiungibile.
> “Perché associare due termini, saggezza e desiderio, che la nostra tradizione
> filosofica ha piuttosto avuto la tendenza a opporre, o quantomeno a
> separare?”.
Davanti a me, e proprio per questo sempre distante da me, pur nel suo
progressivo e costante farsi prossimo: questo paradosso dell’alterità viene
illuminato grazie alla riflessione sul desiderio, che mette in luce come non sia
mai possibile appropriarsi dell’Altro. La sua radicale distanza, distanza
rispetto alla quale è impossibile trovare un punto di mediazione, è uno dei
punti cardine dell’etica levinassiana, che Cohen-Levinas qui porta avanti e
arricchisce grazie agli strumenti forniti dal pensiero del desiderio.
Desiderare non significa infatti altro che “stare di fronte all’assenza delle
stelle”, non perché queste ultime siano scomparse, ma proprio in ragione della
incolmabile distanza che da esse ci separa:
> Non si tratta di desiderare un cielo vuoto, né di idealizzare la mancanza,
> l’assenza di trascendenza che peserebbe sulla nostra psiche al punto di
> paralizzare il desiderio di esporsi a un’esperienza radicalmente altra […].
> Questa condizione significa essere in grado di stare di fronte a ciò di cui
> non possiamo appropriarci.
L’immagine di questo desiderio, che è sopportazione dell’assenza, è quella della
carezza, particolarmente cara sia al pensiero fenomenologico tout court sia, in
particolare, alla riflessione levinassiana. Il simbolo che la carezza dischiude
è quello del tocco, momento di avvicinamento tanto quanto della dimostrazione
radicale della separazione – rappresentata a propria volta dall’ambivalenza
della pelle, che espone e racchiude, permette il tocco e tuttavia proprio nel
tocco marca la distanza.
> Accontentandosi di non impadronirsi di nulla, di non possedere nulla, la
> carezza è il luogo di una donazione assoluta, senza ritorno, né reciprocità,
> né pretesa di ottenere qualcosa in cambio. La carezza non accarezza che ciò di
> cui non potrebbe mai appropriarsi o avere il controllo […] non è invadente,
> non comanda nulla, non aspira a nulla, neppure il proprio desiderio di
> accarezzare rivolto ad altri.
Il passaggio attraverso la rilettura del Cantico dei Cantici, l’Inno biblico del
desiderio, traducibile dall’ebraico anche come Eccedenza delle eccedenze,
Traccia delle tracce, permette ancora una volta, nella parte conclusiva del
saggio, di insistere sui caratteri di generosità e di abbondanza del desiderio,
e della sua spinta di uscita dal sé. Questo racconto di un “desiderio
immemoriale” insiste sull’aspetto carnale (e incarnato) del desiderio, che le
pagine dedicate alla carezza avevano anticipato.
> Il paradosso dell’alterità viene illuminato grazie alla riflessione sul
> desiderio, che mette in luce come non sia mai possibile appropriarsi
> dell’Altro.
La Bibbia racconta, in questo senso, la saggezza del corpo, e la saggezza del
desiderio del corpo: la sessualità, Yada, viene chiamata attraverso l’atto di
conoscersi. “Conoscersi carnalmente indica che il corpo nasconde un sapere
ignaro dell’Altro che sarebbe la vera e propria saggezza del desiderio”. Si
tratta allora di non dimenticare il legame “tra conoscere, riconoscere, amare e
desiderare”, e l’aspetto radicalmente erotico e carnale del desiderio, che il
Cantico del Cantici, come sottolinea Cohen-Levinas, radicalizza. In questa
direzione, quella della conversione e dello spostamento del Sé verso il polo
dell’Altro, l’Inno può allora arrivare a dire che “L’amore è forte come la
morte”: un rinnovamento costante, apertura sconfinata, dono che si esprime nella
logica della sovrabbondanza e nella rinuncia al possesso.
Non desiderio di saggezza, dunque, ma la saggezza del desiderio: il tocco di “un
oggetto che non si materializza mai completamente, tra fenomeno e non fenomeno,
tra carne e corpo, tra pelle e una nudità che può giungere fino all’invisibile”.
Il saggio di Cohen-Levinas procede dunque in una direzione che è tesa a mettere
in luce l’etica del desiderio e i suoi aspetti incarnati e relazionali – e non è
forse un caso che l’ultimo decennio abbia visto un fiorire di statistiche e
report che ci descrivono come sempre più soli, sempre più infelici, e con vite
erotiche sempre meno soddisfacenti: c’è un nesso forte tra la solitudine e
quella che è stata chiamata “recessione sessuale”, che ha a che fare con un
isolamento psichico che si trasforma nell’orrore del tocco, della carezza.
Nonostante Cohen-Levinas non indaghi esplicitamente questi aspetti eminentemente
sociali, mi sembra che il suo saggio si possa leggere in consonanza con lavori
di altre discipline che in qualche maniera lo completano, guardando allo stesso
tema a partire da un’altra prospettiva. Uno di questi è il saggio Il declino del
desiderio (2022) dello psicoanalista milanese Luigi Zoja. Il “desiderio” del
titolo di Zoja potrebbe essere sostituito con “relazione” molto più che con
Eros.
Eppure, come mostra Danielle Cohen-Levinas, tra relazione ed Eros c’è una
continuità, costituita dalla saggezza annunciata nel titolo: la saggezza etica
del desiderio che si svolge a partire dall’accettazione della separazione e
della distanza; un secondo elemento di questa saggezza, che il saggio non
esplora fino in fondo, è quello del rischio che deriva dall’esposizione del Sé
all’Altro: rischio che, come dicevamo, in una contemporaneità nevroticamente
ossessionata dal mito dell’autonomia e dell’indipendenza non può che
trasformarsi nel terrore di farsi toccare dall’Altro e dal suo sguardo, di
vedersi riconosciuti e di riconoscere la propria vulnerabilità.
L'articolo La saggezza del desiderio di Danielle Cohen-Levinas proviene da Il
Tascabile.
I n una delle sue poesie più cupe, non a caso titolata Darkness, lord George
Gordon Byron scrive:
> E gli uomini nel terrore di questa desolazione
> Dimenticavano le passioni, mentre i loro cuori
> Raggelavano in un’egoistica preghiera di luce.
> Essi vivevano accanto a fuochi accesi: i troni,
> I palazzi di re incoronati, le capanne,
> Le dimore e i rifugi di ogni tipo
> Erano bruciati insieme alle città per aver luce,
> E gli uomini si raccoglievano attorno alle case in fiamme
> Per guardarsi ancora una volta in viso.
Nell’estate del 1816, mentre scriveva, le popolazioni si decimavano nella fame e
nel buio: l’eruzione del vulcano Tambora dell’anno precedente aveva liberato
nell’aria nubi di polveri e gas tali da oscurare la luce solare e provocare un
abbassamento drastico delle temperature. Ne seguirono carestie e terremoti;
violenze di massa e culti millenaristici si diffusero nelle campagne. Un senso
di fine divina pervadeva l’orizzonte degli uomini e delle donne del tempo.
L’anno successivo la Terra tornò a una condizione di equilibrio e le popolazioni
umane continuarono a scannarsi con particolare zelo: “l’anno senza estate”
rimase impresso in qualche poesia come quella di Byron e in un discreto numero
di fonti documentarie, ma sostanzialmente riposto nel cassetto dei brutti
ricordi.
Nel solco delle scienze climatiche oggi parleremmo di “evento estremo” e
bolleremmo come complottisti i contadini convinti dell’imminente apocalisse.
Eppure non muterebbe il senso di fine che ci attanaglia ancora di fronte a
sconvolgimenti imponderabili. Tanto più che quello in cui viviamo, a dispetto di
ogni avanzamento tecnico-scientifico, è un mondo totalmente immerso nelle
catastrofi. Partire dalle parole di Byron ci aiuta allora nel tentativo di
mettere a fuoco quello che sembra essere il senso profondo dell’epoca presente.
Non può non colpire infatti che quell’Ottocento delle nazioni, degli imperi
coloniali, della tecnica e delle rivoluzioni iniziasse proprio con un evento
apocalittico. Il vulcano Tambora battezzava il mondo che veniva: la modernità
nasceva sotto le nubi della catastrofe.
Epifanie catastrofiche
Ora, nel nostro tempo osserviamo un’accelerazione con cui si danno fenomeni
drammatici a ritmo serrato e, davanti ad essi, si diffonde un senso di
straniamento e impotenza generalizzata. C’è difficoltà a comprendere il reale e
ancora di più ad agirlo, eppure l’impotenza sembra essere dovuta non tanto
all’impatto dei fenomeni quanto a una sorta di disabitudine al mondo che è
propria di un Occidente tardocapitalista in una fase di senilità. Risvegliate da
un sonno trentennale che si voleva post-storico, queste società si sono
riscoperte gabbie d’acciaio fragili e totalmente distruttive. Proprio la
catastrofe quale segno del tempo potrebbe allora indicarci una via d’uscita da
questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e sospensione normativa di
cui eravamo dimentichi. Secondo definizione scientifica, infatti, catastrofe è
l’evento che irrompe in un sistema ordinato sparigliandone le carte, produce una
sospensione della norma al cui interno si danno possibilità di mutamento di
quello stesso sistema originario ormai spezzato.
> Proprio la catastrofe quale segno del tempo potrebbe indicarci una via
> d’uscita da questo presente, grazie al suo potere di ribaltamento e
> sospensione della norma.
Le catastrofi irrompono violentemente nella scena e travolgono le storie
individuali in un vortice totalizzante che mette in discussione ogni cosa,
distruggono edifici che sta ai superstiti scegliere come abitare. Un po’ come le
rivoluzioni, le catastrofi contengono in sé tragedia e rinnovamento, e questa
loro ambivalenza le rende un grande elemento immaginifico. Custodiscono il
potere di generare una propria epica. Non è un caso se un capitalismo che ha
divorato ogni risorsa, promesse comprese, non può che indicare un immaginario
che fantastica sulla fine di sé stesso, sfruttando una fascinazione potente e
monetizzabile.
Come la frontiera del western si è data a suo tempo quale luogo dell’immaginario
in cui il capitalismo individualista (e poi le resistenze ad esso) metteva in
scena la propria ascesi mitologica, oggi la catastrofe fa da ribalta per
un’Occidente al tramonto. È in atto da decenni un’opera di occupazione
preventiva di questo immaginario, attraverso il riadattamento dei mitemi stessi
del mondo che muore: la figura dell’audace eroe con le sue armi, la famiglia
nucleare come unico ambito degno di salvezza, l’hobbesiano stato di natura
dell’homo homini lupus che sottende a ogni sospensione normativa.
Eppure sono possibili, si sono operati rovesciamenti di significato, possibili
forme di resistenza alla colonizzazione imperiale dell’immaginario. Bisogna
sottrarre la catastrofe alle passioni tristi. Il perturbamento delle rovine,
siano tracce di passato nelle città o futuri proiettati sullo schermo, ci parla
di qualcosa che se accadesse davvero metterebbe a rischio non solo routine e
certezze assodate ma probabilmente la nostra stessa vita, e noi la rifuggiamo
per istinto di sopravvivenza. Eppure nel suo consumo immaginifico esorcizziamo
la paura e accarezziamo il sogno proibito di veder finire il nostro tempo-mondo,
fuggire dalle gabbie della produttività nella precarietà della catastrofe.
Finché l’esorcismo è consumo, però, si conclude in sé stesso. La catastrofe è
allora anzitutto uno specchio in cui riflettersi e osservare, nell’ombra di
rovine futuribili, lo spaventoso senso di smarrimento che pervade le pieghe del
quotidiano. La catastrofe, suggeriva Calvino, è ogni giorno in cui non accade
nulla. Il mondo è finito ieri.
Una fine che vorremmo cinematica
Questo senso di ovattata disperazione è il rumore di fondo di una delle opere
postapocalittiche meglio riuscite: il romanzo La strada (2006; trad. it 2007) di
Cormac McCarthy, poi tradotto in pellicola dal regista John Hillcoat. La storia
segue l’errare di un uomo con suo figlio tra le macerie di quelli che furono gli
Stati Uniti, muovendosi verso sud in cerca del mare e della fine di un inverno
che ferisce, combattendo i morsi della fame e fuggendo dalla minaccia di uomini
che la stessa fame rende predatori. Non conosciamo il nome dell’uomo né quello
del bambino, sappiamo che l’unico scopo del primo è la sopravvivenza del
secondo, una sopravvivenza che non è legata solo all’assillante bisogno
fisiologico ma soprattutto alla conservazione di un senso d’umanità, sempre più
flebile in un panorama di morte.
> La catastrofe è ogni giorno in cui non accade nulla.
“Noi siamo i buoni?” chiede il bambino in uno dei rari dialoghi, “si” risponde
laconico il padre, “perché portiamo il fuoco?” incalza ancora, “perché portiamo
il fuoco”. Stanchezza e disperazione divorano l’uomo da dentro ma la marcia non
può avere termine, nemmeno con la morte. La vita deve replicarsi in ogni modo
possibile: quello che McCarthy ha messo in scena non è una distopia ma il dramma
esistenziale del tempo nostro attraverso la lente focale di una paternità quasi
folle nella sua ostinata missione.
Il tempo del romanzo, scritto nel 2006 e filmato tre anni dopo, è un futuro che
è già avvenuto: il guscio vuoto che è diventato la Terra, con il suo sole
oscurato dalle ceneri e alberi morti che cadono tra le braci fredde di incendi
quasi estinti, richiamano da vicino gli incendi che devastano l’Australia, la
Siberia o la California. Quello di Palisades, a proposito, era un incendio
“cinematico”. Così il carrello della spesa con cui i due trasportano le loro
magre risorse, i vestiti stracciati che indossano, sono i carrelli e gli stracci
che popolano le migliaia di accampamenti di homeless dentro e fuori metropoli
come Los Angeles.
La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi. Le bande
di predoni pronti a divorare il prossimo, con le loro armi raffazzonate, i mezzi
di fortuna e la fame furiosa negli occhi, rievocano le avanguardie reazionarie
di un’America profonda, incattivita, in cerca di un riscatto dal declassamento e
che, fuor di trama, hanno trovato in Trump il proprio sovrano. Le frasi non
dette e i pochissimi e scarni dialoghi sono i resti essenziali della parola
dentro un silenzio che quotidianamente non possiamo sentire solo perché occupato
da vortici di voci superflue.
L’apocalisse di McCarthy la portiamo dentro. Questo è tanto più vero se contiamo
che lo scrittore è stato forse l’ultimo grande cantore dello spirito americano,
che un po’ si è fatto spirito del mondo, e la tragedia che ha inscenato in La
strada è la nostra tragedia intima, attualissima, ma che riannoda le sue radici
nella genetica stessa della nazione e dei suoi miti. La catastrofe non solo come
riflesso ma come radice nera della Storia che permea la soggettività presente;
come dopplegänger del Progresso: l’ascesi di un mondo fondata sull’olocausto di
mille altri. Nelle pagine dei suoi romanzi, tra la frontiera del mito western e
quella fisica fatta di fili spinati pattugliati da militari, il tempo si dilata
in un unico spazio liscio non più misurabile con gli strumenti convenzionali.
L’unica temporalità è quella dettata dallo scorrere di una natura struggente,
crudele nella sua indifferenza verso l’agire disperato degli umani e delle loro
tragiche traiettorie. La violenza dei silenziosi personaggi di McCarthy è la
violenza che pervade un intero universo infervorato da uno slancio
superomistico, volontà di potenza che lo acceca e lo spinge alla
(auto)distruzione.
> La povertà non necessita di alcun evento spettacolare per incistarsi.
Meridiano di sangue (1985; trad. it. 1996) è forse il suo romanzo più crudo: una
banda di cacciatori di scalpi guidata dal folle ed enorme giudice Holden,
incarnazione depravata del “Destino manifesto”, cavalca al confine messicano
nella guerra per strappare il territorio allo Stato vicino e alle tribù native;
ma più che un conflitto abbiamo una strage criminale dove chiunque finisce per
essere schiacciato. Innocenti, civili, alleati, combattenti e animali cadono
nella necessità di stabilire il potere esclusivo su una terra che rimane
scenario oscuro e distante, al limite di un onirico che ben si addice alle
allucinazioni di potere dei protagonisti.
È un racconto d’invenzione, eppure affonda i piedi in un’ampiamente documentata
storia di crimini di guerra che hanno edificato la “nazione più grande del
mondo” e che non sono relegate a spettri del passato ma si rinnovano ad ogni suo
passo. Mentre scriveva Meridiano di sangue, nella prima metà degli anni Ottanta,
McCarthy non aveva in mente solo le guerre ai nativi. Attorno a lui era
tangibile il trauma seguito alla sconfitta americana in Vietnam: l’orrore che si
erano riportati a casa i giovani veterani era un decimo di quello che si erano
lasciati alle spalle, in uno scenario divenuto anch’esso quasi mitologico quanto
la frontiera (basti citare, su tutti, il capolavoro di Francis Ford Coppola
Apocalypse Now, 1979).
In quel frangente le vicende degli scalpatori di Holden portavano in controluce
il segno di quell’ultima guerra e, come una premonizione, anticipavano
l’inchiesta che sarebbe emersa solo nel 2003, ironicamente al tempo delle
rivelazioni di Abu Grahib, sulla famigerata Tiger Force: il battaglione punitivo
dell’esercito americano utilizzato per terrorizzare i villaggi vietnamiti nel
vano tentativo di estirpare il sostegno popolare alla guerriglia. Eccidi,
torture, stupri e innumerevoli crimini della Tiger Force emersero chiaramente
come la punta di diamante di un uso sistematizzato della brutalità. Erano (sono)
la traduzione bellica di una politica imperiale che non ha alcuna considerazione
delle tracce del suo passaggio. Gli scapolari di scalpi di Meridiano di sangue e
quelli di orecchie della Tiger Force, le piramidi di teschi di bufalo nelle
cartoline dell’Ottocento yankee e le immagini del villaggio My Lai avvolto dalle
fiamme restano come i negativi dell’album fotografico di una storia egemone,
residui che vanificano ogni autoassoluzione. Alla fine del romanzo l’anonimo
ragazzo/narratore, complice e sopravvissuto alle vicende degli scalpatori, dopo
anni di modestia ritrova per caso il suo vecchio capo e la sua vita termina quel
giorno, con una sorta di lampo del passato che torna per battere cassa.
Durante la guerra fredda, con il tangibile rischio di un conflitto nucleare, gli
scienziati nucleari idearono, per somma fortuna di scrittori e registi, il
Doomsday Clock: un orologio che stabilisce, da inizio a fine, la storia
dell’uomo sulle dodici ore del quadrante. Oggi, nel pieno di una febbre bellica
senza antidoti, le lancette segnano 89 secondi alla mezzanotte: un minuto e
mezzo dall’estinzione della razza umana per mezzo di un conflitto termonucleare.
Finché non è disertata, la catastrofe imperiale, epifenomeno funesto della
logica capitalista, non lascia margini alla rigenerazione della vita. Non
trovano scampo nemmeno i sopravvissuti guardinghi o i suoi agenti, solo la
feroce volontà di potenza dei giudici Holden rimane intatta in un lago di
sangue.
> Non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario ne ricava una
> miniera preziosa di strumenti d’indagine.
Fortunatamente, però, non tutte le apocalissi sono così assolute e l’immaginario
ne ricava una miniera preziosa di strumenti d’indagine. Catastrofe come forma
della conoscenza quindi, sempre contesa nella dialettica dei rapporti di forza.
Il cinema americano, Wunderwaffen del softpower atlantista, è stato generoso nel
battere questo territorio e tentare d’imporgli le sue norme. Non per caso le
narrazioni del disaster (o del post-apocalyptic) movie si sono per lo più date
seguendo i medesimi schemi: il Destino manifesto trascende nel ruolo salvifico
dell’America rispetto al mondo intero e al suo popolo, s’impersonifica nell’eroe
quale Individuo (sovente maschio e caucasico) in grado di esercitare da solo un
potere trasformativo degli eventi.
Quando la catastrofe mina l’ordine delle cose, minacciando indistintamente la
vita umana e la proprietà privata, attraverso il collasso delle relazioni
sociali in una guerra di tutti contro tutti, è l’operato dell’eroe che
ristabilisce l’ordine originario attraverso la sconfitta dell’evento mostruoso
(e qui entrano solitamente in ballo gli emblemi della nazione: il presidente,
l’esercito, la White House) oppure attraverso il ristabilirsi di un piccolo
ordine in mezzo all’irreversibilità della fine: il salvataggio della famiglia
nucleare, il ritiro nella natura e la vita attraverso il lavoro manuale. Uno
spettro piccolo-borghese che proprio non vuole lasciare questo mondo.
A tagliar corto, questa è più o meno la forma che il capitale ha tentato di
imporre come proprio epitaffio, un finale gattopardiano per imbrigliare lo
spazio del possibile. E si potrebbero elencare centinaia di pellicole dove la
minaccia è differente ma il ciclo si ripete: The Day After (di Nicholas Meyer,
1983, guerra termonucleare), 2012 (di Roland Emmerich, 2009, disastro
ambientale), Indipendence Day (ancora Emmerich, 1996, attacco alieno), 28 giorni
dopo (di Danny Boyle, 2002, epidemia zombie). Eppure, un’assoluta colonizzazione
dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di qualsiasi Intelligenza
artificiale o algoritmo predittivo, una missione impossibile. La sua natura
ontologicamente ingovernabile ne fa un terreno impervio, da scorribande, da covo
di disertori. Per cui non andremo oltre con la filmografia dell’impero, che già
occupa posto in abbondanza e procederemo con i suoi controutilizzi.
È stato ad esempio un sabotatore particolarmente abile Jonathan Nolan, già
reduce del capolavoro western-scifi Westworld (2016), nell’ideazione della serie
Fallout (2024) che riprende le vicende alla base dell’omonima saga videoludica
di culto: un’America completamente distrutta dalle ricadute di una guerra
termonucleare è popolata da bande di predoni, eserciti pretoriani e città-stato
governate dalle più bizzarre fedi e forme politiche; pericolo e fame sono
ovunque, tra le rovine della civiltà un tempo egemone si aggirano forme di vita
mutate dalle radiazioni.
> Un’assoluta colonizzazione dell’immaginario costituisce ancora, a dispetto di
> qualsiasi Intelligenza artificiale o algoritmo predittivo, una missione
> impossibile.
Il successo del videogame fu dovuto anzitutto all’ampia autonomia di gioco di
cui gode il gamer, che lo mette in condizione di creare la propria storia
piuttosto che seguirne una predisposta (e qui già possiamo percepire il piacere
della fuga), ma soprattutto all’ambiguità morale che struttura tutto il gioco:
il giocatore/personaggio può prendere le decisioni migliori come aiutare un
bambino, o le più efferate come ucciderlo. In questa sospensione di giudizio la
catastrofe diventa una tela attraverso cui decine di migliaia di adolescenti (e
non) hanno attraversato e consumato una piccola epica personale, tagliata su
misura per ciascuno di loro.
Nolan ha utilizzato questo potere immersivo dell’ambiguità e un’estetica
retrofuturista che strizza l’occhio alla grande sci-fi degli anni Cinquanta per
costruire una spietata metafora degli Stati Uniti i cui miti perdono ogni poesia
e si rivelano goffe pezze che a malapena celano l’interesse più famelico.
La Vault-tec, mega azienda del settore tecnologico con ramificazioni
nell’industria bellica già nel pre-bomba, permette a una selezionatissima
minoranza di cittadini di vivere dentro complessi bunker sotterranei mentre
l’umanità della superficie è lasciata in balia di sé stessa.
L’azienda è onnipresente nella trama e diventa nel Fallout di Nolan l’esplicita
metafora del comparto militar-industriale, il cui strapotere provoca non solo
l’apocalisse nucleare all’origine della storia ma la riproduzione di meccanismi
di gerarchizzazione e sfruttamento delle forme di vita rigenerando i meccanismi
del capitale anche oltre la fine del mondo. Tra l’umanità dei bunker e quella
della zona contaminata vige un rapporto verticale in cui i primi si ritengono
custodi della civiltà, eletti destinati a esportare l’ordine e la verità ai
barbari della superficie, i quali dovrebbero essere ben contenti di adattarsi o,
nel caso peggiore, possono essere sterminati in quanto privi di effettiva
umanità (ecco tornare gli orrori dell’Herrenvolk che, dal genocidio dei nativi
alle guerre democratiche, allunga la sua ombra sui futuri)
La catastrofe, dentro Fallout, cessa finalmente di essere un movimento neutro
che coinvolge tutti indistintamente: la posizione all’interno della scala
sociale determina coinvolgimenti e responsabilità differenti, stabilisce la
possibilità stessa di vita o di morte; l’ambiguità morale e la violenza
riflettono una dimensione in cui l’orizzonte non è dominato da alcun destino che
guida la mano dell’eroe ma da costanti rapporti di forza tra alto e basso. Non a
caso uno dei personaggi principali, plastica incarnazione della sospensione
morale, è un pistolero mercenario vissuto a cavallo tra i due mondi che le
radiazioni hanno trasformato in ghoul, creatura tra l’umano e lo zombie; frutto
di una transizione incompleta dove i mitologici panni del cowboy sono indossati
da un mostro che ha perso cittadinanza nella comunità degli uomini e delle
donne.
> L’ambiguità morale e la violenza riflettono una dimensione in cui l’orizzonte
> non è dominato da alcun destino che guida la mano dell’eroe ma da costanti
> rapporti di forza tra alto e basso.
Mostro la cui condizione d’isolamento lo rende al tempo stesso più adatto
all’ambiente circostante e più umano degli umani stessi che, nella lotta per la
sopravvivenza, perdono ogni tratto positivo. La deformazione diventa
adattamento, l’erranza e l’ambiguità forme di resistenza. Non è l’umanità che si
salva; almeno non quella che persegue nello scimmiottare caricature di civiltà
morte e forme di vita (auto)distruttive.
Ghoul, zombie e mostruosità del dopo-fine
Il ghoul in effetti si presta bene a questo détournement. Creatura del
folk-horror dalle fattezze antropomorfe, si nutre di cadaveri e abita luoghi
desolati; è una di quelle figure reiette che viene sospinta agli angoli delle
storie. È un mostro di second’ordine: ex-umano perseguitato da una morte
incompiuta, mangia per necessità, attacca per difesa e non ha altri scopi che
l’autoconservazione; non ha fattezze animalesche né poteri sovrannaturali. È un
deforme riflesso degli umani che si ciba dei loro resti e usa gli spazi di
risulta; senziente al pari dell’umano, ne comprende la lingua e le passioni, in
una vicinanza che amplifica la mostruosità e pertanto lo costringe all’ombra
dell’esilio. Questa mutazione mette in discussione la narrazione teleologica che
legge ogni mutamento come un avanzamento verso la perfezione o una deviazione da
eliminare: ciò che non ci avvicina a Dio ci spinge verso Satana, continua a
sussurrarci una coscienza che presumiamo scientista ma allevata da secoli di
pensiero religioso. Il ghoul non avanza né devia ma muta: è alterità familiare,
inquietudine.
C’è una particolare vicinanza tra il ghoul e il più celebre zombie: simili nelle
fattezze e nell’essere una derivazione umana, a separarli è il fatto che il
primo è frutto di una mutazione, mentre il secondo di un processo di morte e
resurrezione da cui ne discende l’assenza (in fondo presunta) di ragione e una
dieta a base di persone vive. Mostro proletario per eccellenza, lo zombie ha
catalizzato su di sé interi filoni creativi e nel suo universo si è dato lo
spazio più largo per sperimentare diserzioni alla norma dell’immaginario
catastrofico. Questa specie di morte cerebrale e movimento a branchi che lo
caratterizzano, ne hanno fatto una metafora dell’omologazione e, nel periodo
della guerra fredda, un’allegoria delle masse anomiche del socialismo che veniva
a minacciare lo stile di vita americano. Qualche successiva lettura xenofoba ci
ha voluto vedere un’immagine della cosiddetta invasione dei migranti. C’è però
un’irrecuperabilità dello zombie che lo rende refrattario a qualsiasi
disciplinamento. Rintracciabile forse nella sua origine nel voodoo haitiano, in
cui le comunità afrodiscendenti lo leggevano come schiavo alternativamente
costretto al lavoro in una condizione di non-vita o tornato dalla morte per
vendicarsi del padrone.
Ogni incidente che coinvolge gli zombie porta inevitabilmente l’umanità a un
passo dall’estinzione. E d’altronde è proprio degli umani che si servono:
mangiandoli e trasformandoli ne contendono l’egemonia sulla catena alimentare,
li assorbono in una collettività espansiva che si sbarazza della civiltà
instaurando un nuovo regime di natura assolutamente privo di gerarchie e
sfruttamento: gli zombie non hanno nomi né volti distinguibili, non hanno
lingua, genere, proprietà né titoli, mangiano solo animali umani e soltanto
quanto necessario alla loro riproduzione di specie. Lo zombie non è un
postumano, non nel senso di un superamento costruttivo, non aggiunge nulla alla
specie; non è nemmeno un subumano, poiché non degrada la forma di vita umana a
uno stato inferiore: la annienta per farsi spazio. Siamo davanti a un salto di
specie, uno spillover dell’immaginario. Le orde senza verbo sembrano dire: i
morti siete voi! La non-coscienza zombie, mai davvero confutabile, è
l’annullamento dell’eccezionalità antropica che liquida millenni di cosiddetto
progresso imponendo il paradigma di un mondo altro. La fine del mondo è la fine
del mondo degli uomini.
> La fine del mondo è la fine del mondo degli uomini.
Ne era ben consapevole George Romero, maestro assoluto del genere, che nella
pellicola Land of the dead (2005), quasi al termine della sua carriera, rende
esplicito il passaggio di testimone. In un pianeta ormai occupato dai non-morti
le comunità umane vivono in città-stato fortificate e diseguali, dove pochi
satrapi spadroneggiano su masse affamate. Il territorio esterno, popolato dagli
zombie, è attraversato esclusivamente per la caccia alle risorse e i suoi
abitanti massacrati con noncuranza fino a provocarne una marcia vendicativa
sulla città, che degenera nella rivolta interna e nel suo collasso definitivo,
con l’eliminazione dei padroni locali proprio per mano dei non-morti. Nelle
ultime scene, il protagonista ha l’opportunità di sterminare l’orda che si
ritira ma riconoscendo, per la prima volta nella filmografia prima che nella
pellicola, una forma di vita si fa da parte. Se i sopravvissuti umani possono,
nel finale, ricostruire una comunità su basi più eque è perché si sono liberati
non dagli zombie, di cui condividevano la miseria, ma dai vivi regnanti.
L’estinzione delle forme di potere è una catastrofe che schiude le possibilità
di ibridi inediti.
Riflettendo il proprio tempo e le sue urgenze, negli ultimi anni questi ibridi
si sono fatti via via spazio nel genere anche in modalità inaspettate. Una
traccia di ciò è rintracciabile nella serie The last of us (2023), dove una
mutazione del fungo parassita Cordyceps, solitamente associato alle formiche, si
trasmette agli umani compiendo il suo spillover grazie al riscaldamento globale.
Gli zombie in questo caso vengono governati dalla simbiosi micotica che ne
determina le azioni e li connette tra loro in una coscienza collettiva
attraverso il micelio. I corpi trasmettono informazioni tra loro e si
modificano, si compostano l’un l’altro per dare nutrimento alla specie.
Inaspettato matrimonio tra gli zombie di George Romero e i funghi di Anna Tsing.
Seppure lo schema narrativo ripeta il ciclo dell’eroe che deve riportare le cose
al punto di equilibrio, nessuna “Restaurazione” è possibile: mentre gli umani
perpetuano la loro esistenza violenta e si spengono poco a poco, gli infetti
proliferano ovunque candidandosi a ereditare la Terra in piena reciproca
connessione. Il mostruoso emerge come effetto dell’incapacità umana ad andare
oltre sé stessa.
A guardar bene, ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
sovrani. Intorno al V millennio a.C. piccole civiltà stanziali dell’Europa
centro-occidentale vennero investite dalle tribù delle steppe orientali: genti
dalla lingua incomprensibile che si muovevano a dorso di cavallo, animale ancora
sconosciuto in quei territori e che saranno apparsi a quei contadini come
spaventosi ibridi: centauri dalle gambe equine e busto umano. D’altronde
l’ibrido faceva parte dell’orizzonte entro cui si muovevano. Come riporta Luca
Misculin nel suo podcast L’invasione, a montare quei cavalli erano molto spesso
giovani maschi, poco più che bambini, nell’atto di compiere il rito di
passaggio: il Koryos, un periodo di anni in cui tutti i ragazzi coetanei
abbandonavano il proprio villaggio per trascorrere un tempo di nomadismo prima
di fare ritorno come adulti.
La vita dei membri del Koryos si conformava, più che alla vita umana, a quella
dei branchi di lupi con il loro errare predatorio, le mutevoli leggi interne. E
nei lupi questi ragazzi si identificavano e riferivano a sé stessi, dei lupi
vestivano le pelli. Non vi è dubbio che l’apparire nei villaggi di queste
chimere cavallo-umano-lupo fosse presagio di violenza, la loro sopravvivenza
legata al saccheggio ne ha determinato l’espansione disordinata su nuovi
territori, ma è altrettanto vero che molto spesso questi gruppi finirono per non
tornare ai luoghi d’origine e stanziarsi presso altre comunità. L’erranza del
Koryos, pur col suo portato di brutalità patriarcale, nell’incontro/scontro con
umanità differenti, ha finito per rideterminare l’assetto di un mondo, ponendo
fine a forme di vita conchiuse e seminando quella che sarebbe diventata la
civiltà protoindoeuropea. Le piccole apocalissi che investivano i modesti
insediamenti del continente, estinguevano un passato per “compostarlo” nelle
possibilità di forme di vita altre, più ampie.
La catastrofe è il modus della Storia
La storia del mondo è una storia senza morale, quella dell’umanità è una storia
di catastrofi. Ciò è particolarmente vero, come abbiamo visto, per la modernità.
A differire oggi è che le evidenze di un mutamento climatico senza precedenti ci
si riversano contro con una forza che l’attuale livello tecnologico permette di
osservare, misurare e prevedere, senza però riuscire a fermarla. Gli umani
osservano per la prima volta da vicino l’eventualità dell’estinzione per propria
mano. Tutto ciò non è più eludibile da alcun discorso politico, è il Tema, la
cornice entro cui ogni cosa necessita di essere interpretata.
> A guardar bene ciò che ritorna in scena nei futuri catastrofici è una
> condizione arcaica dell’umanità, la sua origine prima della scrittura e dei
> sovrani.
Ma c’è un di più, un’eccedenza che si intreccia e non si esaurisce nella
questione ecologica e fa tracimare ovunque un senso di fine. La crisi è
ambientale, politica, esistenziale, finanziaria, culturale, produttiva,
sanitaria; è ovunque e si autoalimenta, tratteggia affreschi da Hyeronimus Bosch
in un mondo che non sa più tenersi insieme, che favoleggia sulla propria fine
proprio per l’incapacità di pensare sé stesso in un avvenire. Presi dal panico
di un tempo che diviene ingovernabile e atterriti dall’assenza di strutture
psichiche collettive in grado di farci sentire saldi nel presente, pensiamo che
nulla sopravviverà alla nostra fine.
Questo pensiero sciocco ed etnocentrico (ci preme sottolineare il prefisso
etno-) è il primo dispositivo di governo delle alterità possibili. Ma se la
modernità è catastrofe allora siamo oggi dinanzi a una ripresa di senso delle
cose. La presunzione dell’universalismo bianco di forgiare un mondo a propria
immagine a qualunque costo non poteva che produrre edifici fragili; la fine
della storia con cui il liberismo ha legittimato sé stesso in quanto Nomos della
terra non era che un abbaglio. Ottuso e autoreferenziale squillo di trombe, ha
intenzionalmente rimosso e oscurato qualsiasi moto lo eccedesse. E quando le
fondamenta del suo edificio hanno iniziato a tremare, la Storia si è
ripresentata alla porta, lo ha costretto in tempi strettissimi a tornare sui
propri passi e discutere di fine della fine della storia. Possiamo seguire la
suggestione di Anton Jäger nel suo Iperpolitica (2024), quando osserva che la
desertificazione sociale prodotta dal neoliberismo ha determinato un’umanità
alienata, piegata su sé stessa e priva di respiro collettivo. Senza classi,
chiese, partiti, senza forme di organizzazione delle collettività esistono solo
individualità e fragili bolle. Dopo una brevissima estate le società del
benessere si sono trovate, crisi dopo crisi, a svegliarsi da un sonno
farmacologico e a necessitare di una grammatica del mondo che avevano
disimparato.
È arcinoto l’adagio per cui è più probabile la fine del mondo che del
capitalismo; non esiste a oggi un modello alternativo in grado di sfidare il
campione in carica; motivo in più per cui occorre osservare tra le sue scorie
per trovare strumenti utili. Come lo stato d’eccezione, la catastrofe non si
pone come momento chiuso in sé, slegato dal mondo in cui si manifesta, piuttosto
è una contingenza che ne porta all’estremo i tratti salienti: nel caos che
l’accompagna, è un momento di disvelamento. Il suo darsi in permanenza la
configura come dispositivo di governo. Visto e agito dall’alto, il campo del
possibile è un momento di ristrutturazione del modo di produzione. Un buon
affare, anche se sporco. Ridevano gli imprenditori edili mentre L’Aquila si
sbriciolava nel sisma del 2009.
Parallelamente è un ottimo momento per stabilire un ordine rigido e un maggiore
controllo sociale, recuperando le linee di fuga e soffocando le forme di
autorganizzazione emerse dalla necessità che si presentano come rotture
potenziali in grado di ribaltare l’assioma. Ecco allora che assumere la
catastrofe come campo del possibile significa cogliere le vie di trasformazione,
resistenza e abitabilità dell’attuale scenario tardocapitalista proprio
attraverso le sue rovine, Il tentativo prioritario è sottrarla alle narrazioni
immobilizzanti dell’immaginario apocalittico, al fine di sondare questa ipotesi.
> Vi è un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
> dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e
> istintivi tentativi di sottrazione.
Vi è allora un doppio movimento all’interno della catastrofe: ristrutturazione
dall’alto, fuga dal basso; irrigidimento dei dispositivi di governo e istintivi
tentativi di sottrazione. Apre un margine di conflitto che può spezzare il
continuum della storia o riassestarlo sui suoi binari Questa è la grammatica
dimenticata che occorre reimparare per non soffocare tra le macerie ma abitare
un mondo di rovine, per decifrarne il senso. L’apocalisse oggi spaventa non come
evento escatologico, ma come lingua dimenticata. Siamo tornati al cospetto di
una catastrofe che non se n’era mai andata, semplicemente avevamo smesso di
guardarla, di riconoscerla e riconoscerci in essa.
L'articolo Echi dalle rovine proviene da Il Tascabile.
N oi abbiamo da lungo tempo abbandonato l’illusione che il movimento del
processo storico sia determinato a principio, che il suo giungere a destinazione
sia iscritto nella dinamica stessa delle cose. Non ha senso fare l’elenco degli
eventi che ci hanno disilluso: sarebbe troppo lungo e forse troppo triste. È
tuttavia certo che anche il più diffuso senso comune non abbia alcuna speranza
in sorti progressive del presente, così come è certo che l’ultimo colpo a questa
illusione moderna sia stato, da un lato, lo scoppio della guerra in Ucraina e,
dall’altro, la campagna di annientamento condotta da Israele contro la
popolazione palestinese.
Ragionare di una “Terza guerra mondiale”, se quanto detto sinora ha senso,
significa allora tracciare i tratti di una forma storica non riducibile agli
scontri militari e nemmeno ai massacri che caratterizzano la nostra condizione
attuale. È quest’ultimo atteggiamento il primo obiettivo polemico di
ꭍconnessioni precarie, il collettivo che ha dato alla luce Nella Terza guerra
mondiale. Un lessico politico per le lotte nel presente (2025). Il testo si
oppone all’idea per cui il problema del nostro presente sarebbe esclusivamente
la guerra guerreggiata, il massacro fisico di centinaia di migliaia di inermi, o
almeno per cui l’urgenza di interrompere tali violenze renderebbe obbligatorio
sospendere le lotte che hanno preceduto la mobilitazione contro la guerra.
La gravità delle immagini che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania, così come
quelle che giungono dall’Ucraina, rende comprensibile da un punto di vista umano
tale prospettiva. Niente pare più importante che impedire agli abitanti di Gaza
di morire così. Tuttavia, concentrarsi esclusivamente sulla guerra è
inaccettabile sul piano teorico e politico, innanzitutto perché condanna i
movimenti all’inefficacia o, addirittura, a collaborare alla costruzione di un
mondo che porrà di nuovo le condizioni di altri genocidi.
In primo luogo, perché si fonda su un’analisi sbagliata del reale. Considera
cioè queste morti e queste sofferenze immani esito immediato di volontà
individuali, colpi di mano della Storia, eventi sciolti da ogni condizione.
Esse, al contrario, sono radicate nella crisi che il modo di produzione
capitalistico affronta su scala globale. Secondo ꭍconnessioni precarie non è
possibile pensare le violenze a cui giustamente si pone tanta attenzione senza
collegarle alle dinamiche di produzione della ricchezza su scala globale. Non
certo perché tali massacri non abbiano un significato politico: al contrario,
cogliere quest’ultimo significa proprio collocare questi annientamenti nel
contesto storico in cui si danno e da cui si originano. Essi non sono un “nulla”
che si tratterebbe di vedere come un sintomo, ma nemmeno l’origine pura di sé
stessi. Impedirli, dunque, significa valutarli sul piano del capitalismo
transnazionale, che è la cornice entro cui va compresa per ꭍconnessioni precarie
la congiuntura globale contemporanea.
> Queste morti e queste sofferenze immani sono radicate nella crisi che il modo
> di produzione capitalistico affronta su scala globale.
L’esito politico di tale atteggiamento è il campismo, o frontismo, cioè la presa
di posizione per un campo (geo)politico determinato tra quelli in scontro. Si
tratta allora, per il campismo che secondo gli autori e le autrici dilaga nel
mondo militante a partire almeno dal 2022, di scegliere di volta in volta se
stare con la NATO o con la Russia e la Cina; oppure con Israele o con Hamas. Il
punto non è l’interscambiabilità delle parti in lotta: ꭍconnessioni precarie non
vuole dire che non vi sia differenza tra l’Iran e gli Stati Uniti. Tali
protagonisti sono evidentemente differenti sui piani della forma storica, degli
obiettivi che perseguono e di tantissimi altri. Non lo sono, però, per chi
desidera un mondo dove ciò che ha causato la Terza guerra mondiale sia
disarticolato. Tale conformazione planetaria non è riducibile, si diceva, alla
volontà di alcuni uomini di ucciderne altri, ma tiene insieme razzismo,
patriarcato, sfruttamento di classe. Scegliere Hamas per “liberare” la Palestina
può forse voler dire arrestare il genocidio di Gaza, ma anche mantenere intatte
le condizioni che hanno provocato la guerra.
Al fine di comprendere questa affermazione, che è il vero nucleo al contempo
teorico e politico del libro, bisogna comprendere cosa intendono le autrici e
gli autori per “Terza guerra mondiale”. La Terza guerra mondiale non è una somma
di scontri tra Stati e/o di genocidi sparsi per il mondo, ma l’unione sistemica
del meccanismo che produce guerre, processi di preparazione alla guerra
(indipendentemente dal suo effettivo avvenire) e gli effetti pratici di tali
meccanismi. In questo senso, le autrici e gli autori affermano che la Terza
guerra mondiale non termina nel momento in cui Trump o chi per lui firma una
tregua, giacché una tregua è. in quanto tale, preludio di una nuova guerra. La
pace non è assenza di guerra, ma fine delle condizioni che la riproducono; è una
trasformazione strutturale interna al sistema sociale che rende difficile il
verificarsi di nuove guerre.
Le condizioni che riproducono la guerra sono legate alla forma attuale della
globalizzazione, il transnazionale. Si tratta della “realtà del mercato mondiale
e dei movimenti del lavoro vivo che a quella realtà si oppongono avanzando una
pretesa di liberazione da sfruttamento e oppressione”. In altre parole, si
tratta della forma del rapporto sociale tra capitale e lavoro che si pone su
scala globale. Che tale forma sia favorevole al primo è accidentale, non
necessitato dalla forma in generale. Esso è al contrario “espressione storica di
un conflitto che oggi si presenta come una latente, ma costante, lotta di classe
in cerca di organizzazione”.
Capitale e lavoro vivo si confrontano non nel campo della sovranità statale come
per gran parte del “secolo breve”, né sullo spazio liscio indeterminato e
generico del “Globo”: i flussi della produzione e della riproduzione del valore
scivolano continuamente sopra la distinzione tra sovranità nazionale (che non è
mai scomparsa) e globalità, dunque il transnazionale non può in alcun caso
“imporre un ordine globale stabile e continuativo”. ꭍconnessioni precarie
sottolinea che tale rapporto sociale, pur favorevole al capitale, non è mai
posto da esso: si tratta di una relazione sociale. Là dove si dà accumulazione
capitalistica (transnazionale) si danno le lotte e la loro possibilità di
vittoria. Ciò che manca non sono queste lotte, bensì un’“adeguata elaborazione
della politicità transnazionale del lavoro vivo”, una elaborazione che è resa
difficile precisamente dal fatto che il transnazionale consiste in un disordine
globale, “nel senso che è privo di possibilità di ricomposizione istituzionale o
politica della classe dentro le forme storiche del nazionale e
dell’internazionale”.
> La pace non è assenza di guerra, ma fine delle condizioni che la riproducono;
> è una trasformazione strutturale interna al sistema sociale che rende
> difficile il verificarsi di nuove guerre.
Da questo punto di vista la centralità della tematica dell’organizzazione, che
attraversa tutto il lavoro, non deve stupire. L’articolazione del lavoro vivo e
delle sue lotte su scala transnazionale (né nazionale, né immediatamente
globale) è dunque l’obiettivo politico minimo indispensabile. E per raggiungerlo
serve considerare come tutti i blocchi identitari posti da nazioni, appartenenza
a popoli determinati, a generi o a sessi “interdicono il riferimento alla
classe”, cioè di “vedere l’incessante movimento storico del lavoro vivo”.
Ma questo piano organizzativo non può risolversi nella forma sindacato
comunemente intesa, perché questo lavoro vivo non è la classe per come la si era
teorizzata nel corso del Novecento: è composta da differenze (operai, precari,
donne, LGBTQ+, migranti) che esistono in relazione a un prelievo incessante di
forza lavoro che viene loro imposto dal modo di produzione capitalistico nella
sua forma transnazionale. Di conseguenza queste differenti soggettività
praticano una “incessante lotta di classe” che si tratta di rendere efficace
articolandola. Nemmeno lo Stato, pensato come “articolazione in processo” e non
come forma identica a sé stessa, identica attraverso i decenni, è in quanto tale
uno spazio sufficiente per lo svolgimento di queste lotte. Questo perché lo
Stato non basta al capitale per organizzarsi su scala nazionale, l’unica
accessibile allo Stato come struttura. La pur rilevante presenza dello Stato
come “attore dotato di capacità giuridiche, militari, di comando e decisione”
(p. 38), che lo rende un campo di battaglia, non lo rende però una parte con cui
si tratterebbe di schierarsi contro un’altra (quella, appunto, del capitale).
Essendo un libro d’intervento nell’ambito dei movimenti, va sottolineato il modo
in cui le autrici e gli autori si rivolgono a quello che è a loro avviso il
senso comune dei discorsi movimentisti contemporanei. Esse ritengono si tratti,
sostanzialmente, di una connessione perversa tra il decoloniale e il campismo,
di cui il primo è divenuto una sorta di attributo. Proprio laddove il
decoloniale è capace di mettere in discussione alcune sicurezze di una parte del
mondo, pare essere divenuto incapace di rigettare le proprie. Infatti, secondo
le autrici e gli autori, nel discorso decoloniale “il colonialismo è questo: non
una fase storica che viene messa in discussione dai processi di decolonizzazione
e dai movimenti indisciplinati dei e delle migranti che squarciano la presunta
omogeneità tanto dei popoli delle ex colonie, quanto di quelli del Primo mondo,
ma una violenza originaria che si rigenera infinitamente sempre uguale a sé
stessa”.
Il decoloniale ricerca l’identità perduta dei popoli colonizzati, non il
movimento possibile di liberazione delle soggettività sfruttate e oppresse dal
modo di produzione capitalistico e dalle guerre che esso genera per ripristinare
vettori di accumulazione. Non si tratta di inventare spazi politici entro i
quali queste soggettività, nelle loro differenze, possano muoversi in un’ottica
condivisa di emancipazione, ma di ricostituire forme di esistenza precoloniali
(sopravvissute a secoli di colonialismo). Si tratta, com’è evidente, di una
delle torsioni che il dibattito nei movimenti ha oramai assunto: rompere con
Israele e la NATO significherebbe (dal punto di vista degli obiettivi politici)
ripristinare gli spazi perduti di libertà dei palestinesi come popolo ancestrale
presente in Palestina da secoli (la sua dignità) e a questo scopo non sarebbe in
alcun modo problematico schierarsi dalla parte dell’“Asse della resistenza”,
nella misura in cui questa è la posizione di Hamas e di una supposta maggioranza
del popolo palestinese. L’idea sottostante “è chiara: solo chi è palestinese per
nascita può parlare, e solo chi è palestinese può decidere come quella lotta
debba essere portata avanti”. Questo, è palese, tramuta la “posizionalità” da
strumento a pulpito non criticabile, una posizione che in quanto situata nel
luogo dell’originario che viene attaccato dal potere coloniale renderebbe divina
la parola di chi la abita.
> L’articolazione del lavoro vivo e delle sue lotte su scala transnazionale è
> l’obiettivo, mentre i blocchi identitari posti da nazioni, appartenenza a
> popoli determinati, a generi o a sessi impediscono il riferimento alla classe.
In questo modo, sostiene ꭍconnessioni precarie, non solo si vive in un mondo
assurdo, un mondo cioè dove sarebbe possibile il ritorno a un’origine mistica e
dunque una politica (letteralmente) reazionaria, ma non si coglie la Terza
guerra mondiale come espressione di un rapporto sociale transnazionale in cui
siamo tutte implicate. Quanto va sottolineato è che se è vero che a Gaza vengono
macellati decine di migliaia di innocenti, è anche vero che i palestinesi non
sono una massa indistinta e priva di differenze interne, di divisioni di sesso e
di classe. Allo stesso tempo, quindi, è falso che gli interessi di centinaia di
migliaia di loro coincidano con la semplice liberazione dalla violenza dello
Stato di Israele (gli abitanti di esso comprendendo tuttavia a sua volta
proletari, donne e soggettività LGBTQ+ oppresse).
Anche in uno Stato palestinese, o in uno Stato unico non confessionale, si
abbatterebbe quotidianamente su operai, precari, donne, LGBTQ+, migranti, la
violenza del modo di produzione capitalistico. Si risponderà che essa non è pari
a quella dello Stato di Israele in corso. Questo è certamente vero, ma è anche
vero che dalla prima deriva la seconda: ripristinare la prima come “normale”
significa porre le condizioni della seconda. Il campismo oscura proprio queste
differenze interne, non riconoscendo l’esistenza di un “Nord nel Sud e di un Sud
nel Nord”. Si noti come questo modo di porre la questione faccia de facto
coincidere la posizione decoloniale con quella, non a caso così frequentata
oggi, della geopolitica, che riduce quanto avviene del mondo a una serie di
posizioni, soggettività, interessi immediatamente statuali o al massimo
nazionali (trattando i popoli come soggettività monolitiche, indistinte, con una
volontà determinata a priori).
In questo contesto analitico si inserisce la critica all’utilizzo fatto dai
movimenti del concetto di resistenza, sia sul piano dell’analisi che su quello
degli slogan da utilizzare per inserirsi nel dibattito pubblico. Le autrici e
gli autori, innanzitutto, ricordano che “nella Terza guerra mondiale resistenza
vuol dire tante cose”. Peraltro, il concetto stesso di “resistenza” non ha fatto
parte del lessico comunista fino alla Seconda guerra mondiale (nel secolo
precedente a essa, infatti, il movimento comunista non è interessato a
resistere, ma ad attaccare): il suo significato emancipativo è stato dato dalla
modalità concreta, storicamente determinata, con cui le partigiane e i
partigiani hanno effettivamente resistito, prima, e da come è stato utilizzato
il termine, poi. Se si vuole continuare ad attuare la resistenza come forza di
opposizione (e non semplice opposizione a una forza), è necessario
disidentificare la resistenza con l’essere dalla parte giusta.
Resistere a una forza non significa essere nel giusto: l’Iran, sostengono le
autrici e gli autori, resiste alla NATO, ma opprime donne e minoranze.
Schierarsi dalla parte dello Stato iraniano per questo significa appunto cedere
al campismo, stabilire che si tratta di scegliere la resistenza “più forte”.
Significa porre una gerarchia delle oppressioni, in cui il diritto all’esistenza
delle donne e soggettività LGBTQ+ nate in Iran, ad esempio, deve essere messo da
parte per garantire la maggior gloria dell’“Asse della resistenza”, che va da
Pechino a Teheran, passando per le ville degli oligarchi russi che sostengono
Putin e i miliardari conti in banca dei leader di Hamas.
> La pace sociale è da sempre funzionale alla guerra reale.
Concludiamo dall’inizio del libro, sollevando la questione forse teoricamente
più rilevante di tutto il lavoro. Per le autrici e gli autori l’esito e allo
stesso tempo l’effetto della Terza guerra mondiale è il militarismo, che non è
un atteggiamento istituzionale e/o culturale, ma una modalità ideologica di
realizzare la riproduzione sociale. Il militarismo pervade le nostre società in
molti sensi: non solo “prepara alla guerra, ma abitua all’idea che essa sia in
qualche modo necessaria”. Da questo punto di vista il campismo è parte
integrante del militarismo per come lo intendono le autrici e gli autori. Esso è
quindi complice della restrizione dello spazio delle lotte che è ovvia
conseguenza dell’irrigidirsi dei fronti e della tolleranza spesso manifestata
anche dai movimenti verso forme di autoritarismo, patriarcato e razzismo dei
membri del campo che si è scelto. Ci si sacrifica, cioè, al proprio campo,
esattamente come le istituzioni del movimento operaio (con alcune lodevoli
eccezioni) sacrificarono sé stesse sull’altare della grandezza nazionale nel
1914.
Questa scelta politica, viene affermato nel libro, è intrinsecamente perdente,
non può che portare alla sconfitta e proseguire la disorganizzazione globale del
lavoro vivo (sulle forme possibili della quale, va detto, esse non dicono in fin
dei conti molto). Essa porta a sottomettere i sogni e le speranze di milioni di
migranti, donne, precari, operai, LGBTQ+ a soluzioni che non sono semplici
compromessi, ma sconfitte decisive che porterebbero il mondo in uno stato che
riproporrebbe all’infinito il ciclo di guerre, tregue e paci momentanee che
compongono la Terza guerra mondiale. Lo slogan che le autrici e gli autori
assumono concludendo il libro, cioè Strike the war, significa precisamente
questo: organizzare il conflitto socialmente, superando i blocchi che campismo e
multipolarismo vorrebbero imporre, rifiutando i genocidi e l’autoritarismo che
la militarizzazione delle nostre società sta imponendo. La pace sociale è da
sempre funzionale alla guerra reale. Spezzarla, cioè organizzare uno sciopero
transnazionale contro la guerra e il suo mondo, è l’obiettivo che ꭍconnessioni
precarie ritiene proprio di un movimento rivoluzionario. Caesarem vehis!
L'articolo Nella Terza guerra mondiale di ꭍconnessioni precarie proviene da Il
Tascabile.