Tag - capitalismo

La rivoluzione? Non c’è mai stata di Catherine Malabou
N el 1840 Pierre-Joseph Proudhon, studente di poverissime origini e perlopiù autodidatta, che può frequentare l’Accademia di Besançon solo grazie a una borsa di studio per giovani meritevoli, pubblica una risposta al quesito annuale posto dalla sua università, ovvero quali siano “le conseguenze economiche e morali che ha prodotto in Francia, e che sembra destinata a produrre in futuro, la legge sulla equa divisione dei beni tra i figli”. Il suo testo Che cos’è la proprietà, un classico del pensiero anarchico, si apre con la negazione perentoria della legittimità della proprietà. La proprietà, anzi, è furto, esattamente come la schiavitù è assassinio. L’equivalenza delle due affermazioni stabilisce subito il legame per lui essenziale tra possedere e asservire. Questa relazione è di immediata comprensione se calata nel contesto storico feudale, in cui il dominio economico coincide con quello politico, ma diventa più oscura e meno leggibile con la formulazione della proprietà privata come la conosciamo oggi: ben separata dal potere pubblico. Una simile demarcazione, che si cristallizza in Francia grazie alla Rivoluzione del 1789, porta con sé una promessa emancipatoria: l’uguaglianza tra i cittadini si ottiene attraverso il diritto universale alla proprietà. In questo passaggio Proudhon scorge però non la scomparsa bensì la metamorfosi del dominio, di cui la proprietà è l’estensione economica. > Partendo da due critiche alla proprietà privata (teoria dei beni comuni e > decoloniale), Malabou analizza il carattere “performativo” della proprietà, > per poi delineare una breve storia di furto, eredità e asservimento. Nel recente La rivoluzione? Non c’è mai stata (2025), la filosofa francese Catherine Malabou propone una critica alla proprietà, al dominio e alla servitù radicata in quella proudhoniana, con la duplice ambizione di espanderla alle forme contemporanee di asservimento e di metterla al riparo dalla vis polemica di uno dei primi ammiratori ma anche, in seguito, uno dei più feroci commentatori di Proudhon: il contemporaneo Karl Marx. Il volume si impegna quindi per prima cosa nell’analisi di due importanti critiche contemporanee alla proprietà privata, la teoria dei beni comuni e la teoria decoloniale, per poi entrare nel vivo della diatriba tra Marx e Proudhon, e infine stendere una breve storia del furto, del concetto di eredità e dell’asservimento dal feudalismo prerivoluzionario al neofeudalelismo odierno. Lo scopo: > interrogare gradualmente ‒ con Proudhon e oltre Proudhon ‒ l’amnesia generale > che colpisce l’origine della condizione servile, il modo in cui il discorso > repubblicano continua a occultare la memoria delle diverse tradizioni di > asservimento da cui il popolo proviene nella sua stragrande maggioranza. Le due prospettive critiche si rafforzano a vicenda. Affrontare le caustiche osservazioni di Marx permette infatti a Malabou di districare i nodi del testo di Proudhon. Al contempo, lo sviluppo delle tesi proudhoniane le consente di dimostrare come esse siano tutt’altro che generiche, né tantomeno dimentiche (se non addirittura ignare: questa l’accusa più seria mossa da Marx) delle condizioni storiche e sociali in cui il conflitto di classe si sviluppa. > Attingendo dal lavoro dello studioso Robert Nichols, Malabou evidenzia come la > colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e > distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”. L’intuizione di Proudhon è che sia il furto a precedere la proprietà, così inaugurandola, e non viceversa. Si tratta di un’affermazione contraddittoria sul piano cronologico, perché l’atto stesso del furto presuppone, o dovrebbe presupporre, che esista qualcosa da rubare: una proprietà, per l’appunto. Ma Proudhon si muove su un terreno logico e, ancora di più, ontologico e simbolico. Rovesciando il suo ragionamento si può sostenere che l’affermazione della proprietà altro non è che l’istituzionalizzazione del furto, ovvero che la proprietà si crea dichiarandola e che quindi essa non dispone che della propria autolegittimazione. Questa traiettoria è particolarmente chiara se si osservano quelle che Malabou chiama le “nuove enclosures”, come i tentativi di brevettare il genoma umano, il processo di privatizzazione dell’acqua, o la spartizione dell’Internet libera fra i giganti del tech. Lo stesso vale per lo spossessamento coloniale, un’appropriazione forzata di terre e risorse che prima dell’invasione europea non appartenevano a nessuno ed erano liberamente abitate e usate dalle popolazioni indigene. Attingendo da un importante lavoro dello studioso Robert Nichols, debitore di Proudhon già dal titolo Theft is property! (2019), Malabou evidenzia come la colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”: “La subordinazione a ‘élite imperialiste’ ha impedito loro di parlare le loro lingue, di praticare i loro culti; ha cambiato i loro nomi e li ha separati dai loro figli e da loro stessi”. Quest’ultima puntualizzazione le permette di preparare il terreno per alcuni ragionamenti successivi riguardo un aspetto fondamentale della proprietà, sia essa simbolica (identità culturale, genealogia familiare) o concreta: la capacità di riceverla e lasciarla in eredità. Malabou non tralascia qui di sottolineare la distinzione, spesso dimenticata o taciuta in malafede, tra la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi di consumo. Solo la prima è al centro delle critiche di Marx e Proudhon, in questo sostanzialmente allineati: il possesso individuale, fondato sull’uso, è del tutto legittimo e anzi minacciato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Non potrebbe essere altrimenti, visto che questa si radica sulla spoliazione e sullo sfruttamento del lavoro altrui. Il carattere performativo della proprietà, il fatto cioè che prenda forma attraverso dispositivi politici e giuridici, costituisce il punto di divergenza con il pensiero marxiano e una frattura di difficile ricomposizione fra i due campi. Per Marx la proprietà non è affatto “impossibile”, come sostiene Proudhon, ma costituisce una necessità storica perché derivante da un processo economico e materiale, quello dell’accumulazione originaria, che pone le basi per lo sviluppo del capitalismo. In questo senso la proprietà non dipende dalle forme arbitrarie del dominio politico, ma risponde piuttosto alle esigenze strutturali del capitale. Secondo i primi teorici anarchici, come lo stesso Proudhon e Kropotkin, gli strumenti della scienza economica impiegati da Marx sono invece insufficienti a spiegare le dinamiche politiche e simboliche che regolano il dominio e la proprietà. > Per Proudhon le promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono > servite ad abolire il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in > un’operazione che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e > proprio per questo naturale. Resta quindi da chiarire la natura del furto: una sottrazione non solo materiale ma soprattutto ideologica, un “trafugamento” del ricordo del dominio nella transizione tra ancien régime e periodo postrivoluzionario. Per Proudhon le promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono servite ad abolire il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in un’operazione di offuscamento che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e proprio per questo naturale. Questa eliminazione della coscienza del dominio si palesa nella questione dell’eredità e del diritto di albinaggio. In epoca feudale e prerivoluzionaria il signore ereditava automaticamente i beni degli stranieri che morivano nel suo territorio. Il legame tra proprietà ed estraneità alla vita civile si concretizza in questo dispositivo giuridico, che non a caso coinvolge anche i bastardi e i servi. L’incapacità di testare ed ereditare, di partecipare cioè alla trasmissione dei beni, delinea il perimetro dell’appartenenza alla condizione libera e crea fra i membri della società una gerarchia speculare a quella che il diritto di primogenitura stabilisce tra fratelli. > Dopo la Rivoluzione il diritto di spossessare si mantiene, traslandosi nel > meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice, > negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e tutto ciò che > consente di fare profitti a spese di chi non possiede nulla. La Rivoluzione spazza via l’insieme dei diritti feudali e con essi anche il diritto di primogenitura, eppure questa trasformazione formale non si traduce nell’uguale possibilità di possedere patrimoni e, di conseguenza, disporne in eredità. Al contrario, il diritto allo spossessamento si mantiene, traslandosi nel meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice, negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e in tutto ciò che consente ai proprietari di fare profitti a spese di chi non possiede nulla. La divisione tra chi sfrutta e chi viene sfruttato muta così nella forma ma non certo nella natura, né tantomeno nei suoi effetti, che hanno a che vedere non tanto, o non solo, con la deprivazione materiale di oggetti e denaro. La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire il signore feudale, così come la simile prassi contemporanea di sequestrare i pochi possedimenti dei migranti al loro arrivo in Europa non ha alcuno scopo economico. Si tratta piuttosto, allora come oggi, di una prova muscolare dell’autorità politica, che dimostra di poter arbitrariamente scaraventare chiunque entri nel suo raggio d’azione “ai margini del sociale”. > La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire > il signore feudale, così come la prassi contemporanea di sequestrare i pochi > possedimenti dei migranti al loro arrivo non ha alcuno scopo economico. Il capitalismo sopravvive dunque non malgrado il gesto rivoluzionario che vorrebbe superarlo, ma proprio in esso. Con questa premessa, Malabou non può che essere scettica nei confronti di alcune moderne teorie secondo cui il capitalismo possa autoregolarsi se non addirittura modificarsi nei suoi caratteri essenziali. Diverse pagine sono dedicate al lavoro dell’economista Jeremy Rifkin e in particolare al suo saggio del 2000 L’era dell’accesso. Secondo Rifkin l’economia contemporanea tende a spostarsi sempre di più dal possesso all’accesso: l’esplosione di servizi a noleggio o in abbonamento, l’intero settore della cultura e del divertimento, il turismo di massa, l’industria del benessere e del fitness descrivono a suo dire un nuovo modello economico che pone maggior rilievo all’esperire rispetto al possedere, e di conseguenza all’accesso (provvisorio e di certo non trasmissibile) piuttosto che allo scambio. Di conseguenza, possedere beni materiali è sempre meno importante fintanto che la possibilità di farne comunque uso resta garantita. Eppure, riflette Malabou, la proprietà delle infrastrutture che assicurano tale esperienza non scompare, e neanche lo spossessamento. L’autrice ha ulteriormente chiarito questo punto in un’intervista concessa a Philosophie Magazine: > Quando si guarda alla storia della proprietà privata, essa non è mai stata, > per la gente comune, un fattore di emancipazione. Piuttosto è il contrario. Si > deve pur vivere da qualche parte e, per chi voglia possedere quella “qualche > parte”, l’accesso alla proprietà avviene solitamente a costo di rinunce. Al > giorno d’oggi molti giovani preferiscono affittare piuttosto che acquistare. > C’è una vera crisi del mercato immobiliare e una sensibile restrizione dei > crediti bancari. Quanto ai beni di consumo: ne possediamo senza dubbio di più, > ma quanto valgono? Per la maggior parte nulla. Quando si perdono i genitori e > si svuota la loro casa, si scopre presto che i tre quarti degli oggetti non > hanno alcun valore, e quelli che forse ne hanno sono spesso privi di ogni > legame affettivo. Si eredita pochissimo. L’apparente abbondanza di beni > nasconde la futilità, la liquidità dei beni personali. Non è che la ricchezza, > la vera ricchezza, a determinare il senso e l’effettività dell’eredità. Secondo Malabou la proprietà non va quindi regolata: deve piuttosto essere abolita non solo sul piano materiale dei beni ma anche su quello simbolico, cioè dei meccanismi che legittimano il potere. In questa prospettiva, l’autrice si interroga sul ruolo dell’anarchismo in questo processo, esaminando le proposte del movimento politico e teorico dei beni comuni sul solco delle direzioni individuate da Proudhon (riconquista della forza collettiva, mutualismo, federalismo). Ma questo movimento, come ogni altro, si coagula attorno a un’idea di futuro, all’auspicio di un miglioramento delle condizioni presenti. Tale futuro e le sue caratteristiche non possono restare indeterminati perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli. In altre parole, lo slancio verso un futuro immaginato parte da un principio (in questo caso il comune) nel suo doppio significato di “idea centrale” e “cominciamento”: tutto ciò che l’an-archè (assenza di principio) rifiuta. Il principio si trova all’inizio e nel nucleo rovente della teoria e della pratica politica: tutto dovrà seguirlo ed essere in armonia con esso, pena lo snaturamento del progetto stesso. È qui che Malabou rileva un’insidia appostata: quella della gerarchia, rigida e intollerante. > Ogni movimento si coagula attorno a un’idea di futuro e a un auspicio di un > miglioramento delle condizioni presenti che non possono restare indeterminati, > perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli. È in questo spazio di tensione tra teoria e prassi che Malabou colloca la figura dell’anarchico. Lo spazio in cui agisce l’anarchico, per tradizione estraneo e sradicato, è infatti “incerto e pericoloso”. Qualsiasi tentativo di associarlo a un ideale politico univoco e definito comporterebbe la chiusura di questo spazio. Conviene allora usare l’anarchismo come Malabou si serve delle teorie proudhoniane: non un progetto politico di carattere normativo quanto un “quadro politico interpretativo” che consenta all’anarchico di > diventare il portavoce di ubenati, servi, bastardi e operai restando uno > straniero: interrogare la memoria rubata della servitù senza creare memoria > servile né discepoli obbedienti. Restare l’altro, improprio e > “improprietario”. L'articolo La rivoluzione? Non c’è mai stata di Catherine Malabou proviene da Il Tascabile.
Recensioni
saggistica francese
capitalismo
storia contemporanea
proprietà
Avvelenare il banchetto capitalista
L e prestigiose scuole di economia e management, culle per niente oniriche in cui vengono assemblate le menti secondo le regole della finanza, pare siano molto vicine all’introduzione di corsi dedicati all’organizzazione del piacere. Un solo obiettivo: sviluppare teorie e metodi che nascondano la diretta correlazione tra divertimento, consumo e guadagno. La profanazione di questo intreccio rivelerebbe una verità estremamente pericolosa: il tempo trascorso nei luoghi (reali e virtuali) del piacere o dello svago anestetizza gli utenti dell’inutilità del lavoro che, offrendo a chi lo svolge una rassicurante sussistenza quotidiana, arricchisce esclusivamente il sistema capitalistico. Come sostengono i filosofi postmarxisti del Ventunesimo secolo, tra i punti all’ordine del giorno del sistema di potere egemonico non è mai stato annoverato il miglioramento della condizione umana. Il verdetto è abbastanza intuitivo: il capitalismo avrebbe fatto benissimo a meno dell’esistenza del piacere ma, non essendoci le condizioni necessarie per l’abrogazione definitiva, ne ha elaborato una versione subordinata alla logica di mercato. Il piacere è stato riconfigurato come piacere produttivo: una forma ambigua di godimento indotto, orientata – direttamente o indirettamente – a produrre utile. Neutralizzando il potenziale sovversivo, il capitalismo ha reso il piacere un elemento funzionale alla formazione di soggettività standardizzate. > Il capitalismo avrebbe fatto benissimo a meno dell’esistenza del piacere ma, > non essendoci le condizioni necessarie per l’abrogazione definitiva, ne ha > elaborato una versione subordinata alla logica di mercato. La ricerca artistica e curatoriale di ATI suffix, collettivo interdisciplinare nato a Roma nel 2013, interroga e decostruisce le categorie di pensiero del sistema dominante. I progetti del collettivo, di cui fanno parte architett*, artist*, filosof* e ricercator*, sono accomunati da un’esasperazione critica e speculativa degli immaginari urbani, replicabili su scala globale. Attraverso installazioni, attraversamenti, azioni laboratoriali e pratiche performative, ATI suffix si insinua all’interno dei dispositivi di sorveglianza, oppressione e controllo disseminati negli spazi di aggregazione quotidiana, di lavoro e di piacere. In questo senso, i progetti del collettivo possono essere considerati come pratiche di invasione, destabilizzazione, apparizione imprevista. Prima possibilità per attivare il piacere (strategia a lungo termine) Pensare alla concessione di tempo libero, a cui è possibile accedere esclusivamente dopo aver prestato servizio a una qualsiasi società che concorra al raggiungimento degli obiettivi del capitalismo. In questo orizzonte, ogni soggettività agente è caldamente invitata a esercitare attivamente e senza tregua il ruolo di lavoratore e di consumatore, oscillando tra due condizioni che si fagocitano a vicenda. > Per lungo tempo il desiderio di svago estivo è stato il principale incentivo > al lavoro. Lavorare per le vacanze. Lavorare per l’estate. Lavorare per la > spiaggia. Oggi il capitalismo ha messo la sabbia al servizio della produzione. > La rilevanza fisica degli spazi concepiti per preparare cittadini/consumatori > all’estate è chiara a tutti. Dalle palestre ai cantieri, la città si trasforma > in un UrbanBeachScape. Il progetto, sviluppato al Columbia Global Centers di Istanbul nel 2015, è concepito come un’installazione site specific per il quartier generale della società Borusan, tra le principali produttrici di tubi in acciaio nel mondo. UrbanBeachScape contesta le reti transnazionali dello sponsor della mostra esplorando il valore della sabbia nel traffico di denaro. Seconda risorsa naturale più sfruttata dopo l’acqua, la sabbia viene estratta a una velocità molto maggiore rispetto al tempo necessario affinché si rinnovi. Il valore economico della sabbia sul mercato globale determina un forte attrito rispetto all’immaginario esotico pubblicizzato dai resort di lusso. Il testo curatoriale, redatto nella forma di manifesto programmatico, insiste sulle logiche pubblicitarie del capitalismo: sigle e acronimi per abbreviare il tempo della lettura e facilitare il processo di memorizzazione. > UBS è un business, perché il capitale mette in produzione il desiderio di > spiaggia > UBS è edilizia, perché la sabbia è la seconda risorsa naturale più utilizzata > UBS è estetica, perché i corpi urbani sono sempre pronti per la spiaggia > UBS è sfruttamento, perché le spiagge scompaiono mentre le città crescono.    Scrive Giorgio Agamben in Mezzi senza fine (1996), “la società nel suo insieme è consegnata irrevocabilmente alla forma della società di consumo e di produzione orientata al solo fine del benessere”. Spargendo oltre trenta tonnellate di sabbia nell’atrio della multinazionale, UrbanBeachScape celebra la relazione segreta tra sfruttamento e benessere. Una lettera firmata da un immaginario Beach Liberation Front mette in guardia dalla tentazione di godere del sole artificiale: non è possibile che alcun sogno appartenga al presente. Chi si sottrae volontariamente al gioco del capitale rinuncia all’immaginazione normativa del tempo libero. Eppure anche sviluppare una strategia per garantirsi l’accesso al futuro senza pagare il dazio del lavoro è un’attitudine produttiva di stampo capitalista. Non c’è via d’uscita. La spiaggia è una gabbia che incastra i corpi. > Spargendo oltre trenta tonnellate di sabbia nell’atrio della multinazionale, > UrbanBeachScape celebra la relazione segreta tra sfruttamento e benessere. Il futuro, come raccoglitore di ambizioni, è uno specchio che riflette ed esalta i bisogni vitali del sistema: poiché siamo condannati ad avere un futuro, siamo condannati a lavorare, e viceversa. La realizzazione dei sogni – accettando l’accezione materialista che il capitalismo ha affidato al sogno – dipende dalla fedeltà al lavoro. Attraverso un monumento effimero realizzato nella forma di inciampo all’abituale fruizione dello spazio aziendale, ATI suffix ritrae il dark side del capitalismo. Seconda possibilità per attivare il piacere (strategia a breve termine) Risolvere i disturbi causati dal tempo del dovere attraverso espedienti simbolici e/o concreti messi a disposizione a basso costo dall’efficiente sistema di produzione. > White Sheep, una bevanda arricchita di melatonina, si confronta con l’insonnia > indotta e la seduzione della produttività. La bevanda è disponibile tramite un > distributore automatico posizionato in uno spazio pubblico ad Amsterdam. White Sheep è un’installazione nello spazio pubblico, realizzata per Amsterdam Light Festival nel 2017. Il progetto assume la forma di un distributore di bibite alla melatonina, caratterizzate da un design patinato che ammicca a quello delle più famose bevande energetiche. Il rebranding speculativo sovverte la fascinazione per la cessazione del sonno adottando l’estetica del distributore h24. Sotto forma di piacere, ovvero bevanda al gusto di caramelle alla fragola, il capitalismo genera comportamenti che si trasformano in abitudini e che deformano i corpi. I supporti energetici a cui si fa affidamento, inizialmente proposti come soluzione rapida per mantenere alte le prestazioni di uno stile di vita animato dalla concorrenza, mirano a trasformarsi in un’esigenza radicale. La diffusione di tisane con polveri di melatonina rappresenta il collasso dello stesso sistema. Allegoria di una classe di lavoratori e lavoratrici intrappolate tra le maglie di un sistema claustrofobico e ripiegato su sé stesso, White Sheep è un progetto segretamente disturbante che ammicca ed esalta lo stesso immaginario che contesta. > Il progetto White Sheep assume la forma di un distributore di bibite alla > melatonina, caratterizzate da un design patinato che ammicca a quello delle > più famose bevande energetiche: un rebranding speculativo che sovverte la > fascinazione per la cessazione del sonno. Una simile ambiguità caratterizza La manipolazione onirica del Carrefour, azione collettiva e performativa realizzata per il festival di teatro Contrabbando di Roma, nel 2017. > Con la sua intrusione capillare, il capitalismo sta velocemente erodendo forme > di comunità ed espressione politica, utilizzando come mezzo di controllo > l’abolizione della naturale alternanza giorno/notte. Un tempo senza ritmo, > senza pause, senza sonno. Probabilmente il più grande desiderio del capitalismo è fare in modo che si realizzi l’astensione completa dal sonno e che assuma la forma di abdicazione di massa, scrive Jonathan Crary in 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (2015). Dopo aver individuato nelle sostanze energizzanti un rimedio istantaneo a questa disfunzione ereditaria che “affligge” la specie umana, il sistema inventa degli spazi collettivi in cui sviluppare esercizi notturni di divertimento e consumo. Tra questi, i supermercati h24 rappresentano il modello più riuscito. La manipolazione onirica del Carrefour guida i partecipanti attraverso un esercizio di concentrazione e critica collettiva dedicata alla non banalità del potere decisionale che possiamo esercitare sulle azioni routinarie. Rifiutando la velocità che i pavimenti sempre lucidi dei supermercati impongono alle suole delle scarpe da trekking urbano, la performance è un attraversamento lento dei corridoi infestati da trame di potere e sfruttamento interspecie attuato su scala globale. Percorrere senza fretta uno spazio pensato esclusivamente per l’acquisto e uscire a mani vuote è un atto di boicottaggio. > La manipolazione onirica del Carrefour guida i partecipanti attraverso un > esercizio di concentrazione e critica collettiva dedicata alla non banalità > del potere decisionale che possiamo esercitare sulle azioni routinarie. Dopo la spedizione al Carrefour, la performance si conclude con un rituale onirico nella sala teatrale del Cinema Palazzo. Il sonno, dopo aver abbandonato la dimensione intima, si rivela ora nella sua temporalità imperitura del 24/7. La manipolazione onirica del Carrefour assalta i vessilli del capitalismo applicando segrete e impercettibili modifiche che alterano temporaneamente il funzionamento. La prefigurazione di immaginari che alterano la scissione disciplinata tra utopia e distopia è un gesto politico. Epilogo (stare in guardia) L’esistenza del tempo libero è incerta. L’induzione del disturbo del sonno aumenta la capacità estrattiva. Il benessere concorre al raggiungimento della massimizzazione del profitto. L'articolo Avvelenare il banchetto capitalista proviene da Il Tascabile.
Linguaggi
capitalismo
consumismo