L’ intero universo e tutti i suoi fenomeni fisici possono essere ricondotti a un
unico modello matematico? C’è stato un tempo in cui ci si illuse che fosse
possibile, quando a Stephen Hawking veniva assegnata la cattedra, che in epoca
moderna era stata di Isaac Newton, all’Università di Cambridge. Nel 1979,
insieme al suo gruppo di ricerca, Hawking lavorava alla teoria del tutto,
chiamata anche TOE (Theory Of Everything). Quello stesso anno, si scatenò una
tempesta improvvisa, che nessuna stazione meteorologica era stata in grado di
prevedere. Nonostante l’attivazione di imponenti operazioni di soccorso, lo
scrittore irlandese James Gordon Farrell perse la vita nella Baia di Bantry. Era
l’autore della cosiddetta Trilogia dell’Impero (1970-1978), una serie di romanzi
sulle conseguenze del colonialismo britannico nel mondo. Qualche mese prima,
Margaret Thatcher vinceva le elezioni e diventava primo ministro del Regno
Unito, incarico che ricoprì per undici anni consecutivi.
Come Hawking, anche Thatcher aveva una sua teoria totalizzante e un metodo per
dimostrarla, ma anche uno scopo ben preciso da raggiungere. La teoria implica
che il capitalismo sia l’unico sistema economico praticabile, al quale non è
possibile contrapporre un’alternativa, ed è sintetizzata nello slogan “There is
no alternative”, contratto in TINA. Il metodo prevede l’attuazione di misure
come le privatizzazioni e il monetarismo, e l’obiettivo era quello di cambiare
la psicologia dei suoi conterranei per portarli a rivivere i grandi fasti del
passato, quando il Regno Unito era la più grande potenza al mondo.
Thatcher intendeva condurre il suo Paese verso il futuro, tornando al passato, e
rafforzare l’orgoglio identitario nazionale attraverso la promozione di una
società atomizzata e individualista. Secondo la sua prospettiva, i cittadini
britannici avrebbero dovuto emanciparsi dall’assistenzialismo statale a partire
dalla questione abitativa: ognuno avrebbe dovuto possedere una casa di proprietà
e questo sarebbe stato possibile attraverso l’erogazione di mutui a tasso
variabile. Nella sua visione, il mondo intero si riconduceva a un unico modello
economico, sociale e politico, secondo i precetti del conservatorismo.
Prometteva di cambiare tutto senza cambiare niente, glorificando le tradizioni e
feticizzando ciò che la storia avrebbe lasciato in eredità al suo popolo.
> Nell’ultima docuserie realizzata per la BBC, Shifty, Curtis mixa filmati
> d’archivio come tracce di un set di musica elettronica, caotico e stordente,
> ripercorrendo gli ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo
> millennio.
Per il giornalista e regista inglese Adam Curtis, Hawking e Thatcher sono due
delle personalità principali connesse dal filo conduttore che percorre gli
ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo millennio. Nell’ultima
docuserie realizzata per la BBC, Curtis mixa filmati d’archivio come tracce di
un set di musica elettronica, caotico e stordente, adottando il tipo di
montaggio caratteristico dei suoi ultimi lavori prodotti per la medesima
emittente. Si intitola Shifty (2025) e condensa in cinque episodi da circa
un’ora molti dei temi cari all’autore, approfonditi in altre produzioni come
HyperNormalisation (2016), il documentario nel quale sostiene che, dagli anni
Settanta in poi, governi, finanzieri e imprenditori dell’industria hi-tech
abbiano progressivamente rinunciato ad affrontare le complessità del reale,
scegliendo di fabbricare un mondo artificiale, più semplice da gestire e
rassicurante da abitare. L’idea di fondo è che la reiterazione di questa
finzione collettiva finisca per trasformarsi in una nuova normalità: un universo
al quale tutti si adeguano, pur di evitare il confronto con il disordine del
presente.
Il concetto di reiterazione (inteso come prassi per rafforzare l’immaginario
egemonico della società dei consumi) è stato indagato anche da Lauren Berlant
nel saggio Cruel Optimism (2011). L’autrice interpreta il presente storico come
un tempo sospeso in cui il desiderio di una “vita buona”, una vita normale, è
paradossalmente condizionato dalla sua impossibilità strutturale di essere
esaudito. L’ottimismo crudele, cifra della condizione neoliberale, nasce proprio
da questo cortocircuito: l’adesione alla normatività e la fede nelle sue
promesse, mantengono i soggetti ancorati a un presente logorante, fatto di
rituali ripetitivi e di speranze differite, come traguardi irraggiungibili e
lontani. In questo senso, sotto la lente di Berlant si teorizza la tenuta del
modello economico capitalistico e la sua forza conservatrice, capace di
perpetuarsi attraverso la produzione di affetti e aspettative.
Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro,
mostrato in Shifty da Curtis. Quando si producono orizzonti immaginifici, si
manipola anche la realtà, nella sua accezione, più prettamente umana di Storia.
Non a caso, il primo episodio della docuserie è intitolato The land of make
believe, il mondo delle favole, e mette al centro l’illusione politica con la
quale ha incantato i suoi elettori per un decennio. L’episodio si apre con una
breve sequenza, estrapolata dal vastissimo archivio della BBC, che mostra la
Thatcher sull’uscio di una sala da pranzo mentre incoraggia un gruppo di bambini
a entrare nella stanza, assieme a una celebrity discutibile: Jimmy Savile.
> Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
> immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
> leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro.
Si trattava di un personaggio vicino alla leader dei conservatori, il quale
aveva percorso una parabola che dalle miniere di carbone lo aveva portato a
diventare DJ, conduttore radiofonico e televisivo molto famoso nel Regno Unito.
Solo dopo la sua morte, emersero delle accuse di stupro che intaccarono la sua
memoria. Per molti aspetti, Jimmy Savile incarnava la storia del suo Paese: le
miniere di carbone vennero dismesse a partire dagli anni Ottanta, così come le
fabbriche e le industrie, per essere sostituite da un altro modello economico,
regolato dai mercati finanziari, basato sulla vendita di servizi e sulla
speculazione immobiliare. Era lo stadio germinale del sistema tardocapitalista
nel quale oggi sprofonda l’Occidente, trascinando con sé il resto del mondo.
Curtis mostra agli spettatori il veloce declino politico della storia recente
del suo Paese, ma a differenza dei progetti precedenti, il commento del regista
alle riprese d’archivio non è in voice over, bensì sotto forma di didascalie
narrative. La tesi di fondo del regista è suggerita e mai davvero del tutto
approfondita: sfugge e si dissolve, esattamente come il sistema sociale che
racconta. Ne risulta un vortice caleidoscopico e stordente, accentuato da un
accompagnamento sonoro che va dai Joy Division a Gigi D’Agostino, passando dalla
guerra delle Falkland agli scontri con l’IRA e alla censura della BBC di Relax
(1984) dei Frankie Goes to Hollywood. I cinque episodi di Shifty tengono insieme
house party e storia economica, cultura pop e guerre imperialiste; accennano a
cospirazioni e segreti, massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false
promesse, come quelle di Thatcher ai suoi elettori, ma anche di Tony Blair e
Gordon Brown. Si allude anche alla “Stalker Inquiry”, la commissione
parlamentare istituita per indagare sugli abusi delle forze di polizia
britanniche in Irlanda del Nord, immediatamente archiviata. Dalla visione
dell’intera serie, si potrebbe dedurre che Curtis volesse trasferire al suo
pubblico il comune sentire di quelle due decadi di fine Novecento, sospese verso
un futuro inconsistente, vuoto come le ragioni che spinsero all’edificazione del
Millennium Dome, l’arena polifunzionale che fu costruita a Londra per ospitare
una grande esposizione celebrativa del terzo millennio.
> I cinque episodi di Shifty tengono insieme house party e storia economica,
> cultura pop e guerre imperialiste; accennano a cospirazioni e segreti,
> massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false promesse.
La docuserie è costellata di personalità ambigue, oggetto di scandali, come
Geoffrey Prime, un’ex spia britannica, condannato per abusi sessuali su minori e
per aver rivelato informazioni riservate all’Unione Sovietica. Curtis si
sofferma anche su Cecil Parkinson, segretario di Stato sotto il primo governo
Thatcher, costretto a dimettersi dall’incarico quando la sua relazione
extraconiugale venne a galla. Poi, la corruzione di alcuni esponenti dei Tory,
uno fra tutti Ian Greer, coinvolto in prima persona nel “cash-for-questions
affair” insieme all’imprenditore egiziano Mohamed Al-Fayed, che aveva rilevato
il famoso centro commerciale di lusso Harrods. Curtis si sofferma su Al-Fayed in
diversi episodi di Shifty e nell’ultimo monta un estratto di un’intervista
durante la quale l’imprenditore afferma, senza alcun rimpianto, di aver fatto
affari con Greer semplicemente perché voleva fare soldi. Infine, si autoassolve
e dichiara, con parecchio sdegno, che un grande paese come il Regno Unito si era
ridotto a essere amministrato da un gruppo di delinquenti senza morale né etica.
Oltre agli scandali, le clip selezionate da Curtis raccontano anche i grandi
eventi cardine del suo Paese alla fine del Novecento, come il Big Bang: il boom
dei consumi fondato sul debito e destinato a provocare molto presto l’ennesima
crisi delle borse britanniche. Un’altra tempesta violenta e improvvisa si
scatena sui cieli del Regno Unito, proprio quando la bolla esplode e arriva al
culmine con il Black Monday, uno dei crash finanziari più drammatici del
ventesimo secolo. La transizione verso i nuovi assetti economici e produttivi
non comporta una rivoluzione reale nelle configurazioni del potere, che resta
nelle mani di quelli che lo hanno sempre detenuto. Eppure, rispetto ai rapporti
di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è la cultura ad
allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte dell’industria del
tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. L’arte diventa merce e le
fabbriche sono trasformate in loft dagli imprenditori del mercato immobiliare.
Si gentrifica il sapere così come i quartieri, demolendo ricordi personali e
memoria collettiva per fare spazio alle catene della grande distribuzione
organizzata, come Netto e Tesco.
> Rispetto ai rapporti di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è
> la cultura ad allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte
> dell’industria del tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. Si
> gentrifica il sapere così come i quartieri.
Rispetto al ruolo dell’arte e della cultura, sia indipendente sia mainstream,
Curtis aveva esplorato tematiche affini nella docuserie Can’t Get You Out Of My
Head (2021), in cui l’attenzione si spostava sull’individuo occidentale odierno,
immerso in un mondo privo di grandi narrazioni collettive. L’emancipazione dai
miti, che in passato orientavano il senso di appartenenza al sistema sociale
egemonico, istiga i singoli individui a generare autonarrazioni proprie per
interpretare e condizionare la realtà. Tuttavia, queste storie personali non
sono mai totalmente originali; al contrario, restano intrecciate alle strutture
di potere e ai modelli del passato, mostrando come il soggetto atomizzato
continui a operare entro i limiti dei sistemi che lo trascendono.
Anche in questa docuserie, l’analisi di Curtis si muove a partire da una visione
materialista della storia: le trasformazioni dei rapporti di produzione e delle
dinamiche di potere globali costituiscono lo sfondo su cui si regge l’intero
racconto, articolato in otto ore di filmati d’archivio. Allo stesso tempo, il
regista non riduce la complessità degli ultimi decenni a un’etichetta unica come
“neoliberalismo”, preferendo argomentare come l’intera classe politica abbia
delegato progressivamente all’apparato finanziario il governo della società,
trasformando il denaro nell’unica misura possibile della realtà, anche in campo
artistico e culturale. In questo scenario, gli individui, pur credendo di essere
liberi, sono intrappolati in una gabbia entro la quale tutto è quantificato e
strumentalizzato secondo criteri economici e di utilità.
Dalla fine del Novecento a oggi, molte cose sono cambiate e la gabbia ha
cominciato a farsi sempre più stretta, inadatta a contenere la complessità della
realtà odierna, ossia quella di un mondo globalizzato e iperconnesso. La
frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata nel quarto episodio
di Shifty anche attraverso la messa in discussione della Teoria del tutto
elaborata da Hawking, superata da quella del multiverso. Secondo Curtis si può
evidenziare una corrispondenza dinamica fra le scoperte scientifiche e i sistemi
sociali che le generano: associa la rivoluzione scientifica a quella
industriale, la Theory of everything all’individualismo estremo della
massificazione dei costumi di fine Novecento, mentre la teoria del multiverso
riflette la complessità e la frammentazione del mondo contemporaneo segnato
dall’avvento di Internet.
> La frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata anche attraverso
> la messa in discussione della Teoria del tutto elaborata da Hawking, superata
> da quella del multiverso, in una corrispondenza dinamica fra scoperte
> scientifiche e sistemi sociali.
L’ultimo episodio della serie termina con un estratto di un’intervista a David
Bowie, il quale sosteneva come almeno fino alla metà degli anni Settanta, la
percezione comune fosse quella di essere sotto l’egida di una società modellata
da una cultura di massa, monolitica e univoca. Verso gli anni Novanta, il
paradigma dominante iniziò a sgretolarsi in molteplici narrazioni. Rispetto a
Internet e alla sua diffusione, Bowie lo definì come una “forma di vita aliena”
dal potenziale “inimmaginabile, esaltante e terrificante” allo stesso tempo. Le
parole del Duca bianco si perdono nelle note di Absolute Beginners. La docuserie
termina con una successione di commenti scritti, nella forma di intertitoli, con
i quali il regista si domanda se l’individualismo nel quale la società
occidentale è stata catapultata sarà mai rovesciato dalle persone che
scopriranno un nuovo senso di unità; oppure se aspirare alla rivoluzione possa
essere solamente un retaggio nostalgico, innescato dal loop storico nel quale
oggi si trova l’umanità.
Nonostante l’ampia risonanza ottenuta, una parte della critica britannica ha
espresso giudizi più cauti su Shifty, ritenendola meno originale rispetto ai
lavori precedenti di Curtis. Alcuni hanno osservato che la docuserie non apporta
nuove prospettive, limitandosi a reiterare temi già esplorati. In alcuni
passaggi, la narrazione è risultata persino ingenua, specialmente quando il
regista si lascia andare ad affermazioni improbabili, come quando sentenzia che
le privatizzazioni sono state inventate dai nazisti. Altri interventi critici
più equilibrati hanno riconosciuto il valore estetico e simbolico della serie,
sottolineando la sua capacità di costruire suggestioni visive e sonore, ma ne
hanno comunque evidenziato la difficoltà nel produrre un discorso inedito
rispetto al corpus complessivo delle produzioni precedenti.
L’impressione generale è che Shifty riproponga un universo concettuale già noto
agli spettatori più avvezzi alle sue opere, senza offrire una vera e propria
evoluzione concettuale o teorica. Se non altro, l’ultima docuserie di Curtis ha
il merito di accendere l’attenzione su un tema: il capitalismo non è affatto il
sistema migliore possibile, da auspicare quasi come se fosse una conseguenza
necessaria nella progressione dei fatti storici. Credere che sia il modello più
efficace è semplicemente una credenza, un mito. Per certi aspetti, è esattamente
ciò che sosteneva Mark Fisher quando definiva il capitalismo come una forma di
dominio ideologico, capace di colonizzare ogni aspetto della vita.
> La docuserie di Curtis ha il merito di accendere l’attenzione su un tema: il
> capitalismo non è affatto il sistema migliore possibile, da auspicare quasi
> come se fosse una conseguenza necessaria nella progressione dei fatti storici.
E se persino la storiografia e l’analisi dei fatti storici fosse stata
colonizzata dal pensiero egemonico capitalista? L’antropologo David Graeber e
l’archeologo David Wengrow, autori di L’alba di tutto. Una nuova storia
dell’umanità (2021), riprendono la tesi dello storico delle religioni Mircea
Eliade secondo la quale la concezione lineare del tempo è un’invenzione
relativamente recente, che può essere ricondotta principalmente a due fattori
interconnessi: il pensiero escatologico delle religioni abramitiche residuale
nella concezione evoluzionistica della storia umana di derivazione positivista.
Parafrasando Eliade, Graeber e Wengrow sostengono che la prospettiva temporale
progressiva ha spodestato quella ciclica della filosofia greca antica e delle
“società tradizionali”, con “catastrofiche conseguenze sociali e psicologiche”.
Nella concezione lineare del tempo i fatti storici accadono come rivoluzioni che
irrompono e cambiano il corso degli eventi, come in un dipanarsi di “sequenze
cumulative” necessarie all’evoluzione della civiltà umana: si pensi alla
rivoluzione agricola del Neolitico, a quella scientifica in epoca illuminista o
a quella industriale di fine Ottocento. Descrivere la storia come un susseguirsi
di accadimenti radicali improvvisi ha delle conseguenze. La tesi di Graeber e
Wengrow è che questo tipo di approccio storiografico sia ideologico, per non
dire mitologico, e che abbia delle implicazioni politiche, rendendo l’umanità
meno capace di “affrontare le traversie della guerra, dell’ingiustizia e della
sfortuna, gettandoci invece in un’età di ansia senza precedenti e, a lungo
andare, di nichilismo”. Accettare la logica del dominio e considerare
inevitabile che la civiltà umana tenda verso l’accumulo di ricchezze significa
raccontare la specie umana come “molto meno premurosa, creativa e libera” di
quanto non lo sia.
L’ultimo capitolo del saggio L’alba di tutto si conclude con una serie di
considerazioni a proposito del nichilismo insito nella concezione lineare del
tempo, teso verso un progresso inesauribile. Una tale concezione inibisce la
possibilità di considerare la storia come l’insieme di scelte collettive, lente
e stratificate, attraverso le quali le comunità hanno deciso quali pratiche
adottare nella vita quotidiana e quali confinare alla sperimentazione o al rito.
Ciò che vale per la creatività tecnologica vale, naturalmente, ancora più per la
creatività sociale. Il dominio dell’uomo sulla natura, le società gerarchiche e
l’accumulo di ricchezze o la logica del profitto non erano inevitabili. Non è
affatto corretto sostenere che non esista un’alternativa; semmai, per dirla con
Graeber e Wengrow: “Se qualcosa è andato storto nella storia dell’umanità […]
forse prese a farlo proprio quando gli uomini persero la libertà di immaginare e
di attuare altre forme di esistenza sociale […] al punto che ora alcuni
ritengono che questo particolare tipo di libertà non ci sia mai stato, o non sia
mai stato esercitato, per quasi tutta la storia dell’umanità.”
> Descrivere la storia come un susseguirsi di accadimenti radicali improvvisi ha
> delle conseguenze. La tesi di Graeber e Wengrow è che questo tipo di approccio
> storiografico sia ideologico, per non dire mitologico, e che abbia delle
> implicazioni politiche.
Lo stesso sistema neoliberista che incita al pensiero “out of the box”, che
invita a essere non convenzionali (“Stay hungry, stay foolish”), paradossalmente
impone una reductio ad unum, all’omologazione: “siate diversi tutti allo stesso
modo” è il vero slogan di questi tempi. Ancora, si tratta dello stesso sistema
che continua a ignorare proposte realmente alternative a quelle della narrazione
dominante, come il pensiero tentacolare, lo Chthulucene di Donna Haraway, e che
torna indietro invocando valori reazionari e antiscientifici.
Per uscire dal loop è necessario esercitare la libertà, a partire
dall’immaginazione. La vera domanda è se l’umanità possiede ancora le capacità
per farlo.
L'articolo Shifty. Cos’è andato storto? proviene da Il Tascabile.
Tag - storia contemporanea
N el 1840 Pierre-Joseph Proudhon, studente di poverissime origini e perlopiù
autodidatta, che può frequentare l’Accademia di Besançon solo grazie a una borsa
di studio per giovani meritevoli, pubblica una risposta al quesito annuale posto
dalla sua università, ovvero quali siano “le conseguenze economiche e morali che
ha prodotto in Francia, e che sembra destinata a produrre in futuro, la legge
sulla equa divisione dei beni tra i figli”. Il suo testo Che cos’è la proprietà,
un classico del pensiero anarchico, si apre con la negazione perentoria della
legittimità della proprietà. La proprietà, anzi, è furto, esattamente come la
schiavitù è assassinio.
L’equivalenza delle due affermazioni stabilisce subito il legame per lui
essenziale tra possedere e asservire. Questa relazione è di immediata
comprensione se calata nel contesto storico feudale, in cui il dominio economico
coincide con quello politico, ma diventa più oscura e meno leggibile con la
formulazione della proprietà privata come la conosciamo oggi: ben separata dal
potere pubblico. Una simile demarcazione, che si cristallizza in Francia grazie
alla Rivoluzione del 1789, porta con sé una promessa emancipatoria:
l’uguaglianza tra i cittadini si ottiene attraverso il diritto universale alla
proprietà. In questo passaggio Proudhon scorge però non la scomparsa bensì la
metamorfosi del dominio, di cui la proprietà è l’estensione economica.
> Partendo da due critiche alla proprietà privata (teoria dei beni comuni e
> decoloniale), Malabou analizza il carattere “performativo” della proprietà,
> per poi delineare una breve storia di furto, eredità e asservimento.
Nel recente La rivoluzione? Non c’è mai stata (2025), la filosofa francese
Catherine Malabou propone una critica alla proprietà, al dominio e alla servitù
radicata in quella proudhoniana, con la duplice ambizione di espanderla alle
forme contemporanee di asservimento e di metterla al riparo dalla vis polemica
di uno dei primi ammiratori ma anche, in seguito, uno dei più feroci
commentatori di Proudhon: il contemporaneo Karl Marx. Il volume si impegna
quindi per prima cosa nell’analisi di due importanti critiche contemporanee alla
proprietà privata, la teoria dei beni comuni e la teoria decoloniale, per poi
entrare nel vivo della diatriba tra Marx e Proudhon, e infine stendere una breve
storia del furto, del concetto di eredità e dell’asservimento dal feudalismo
prerivoluzionario al neofeudalelismo odierno. Lo scopo:
> interrogare gradualmente ‒ con Proudhon e oltre Proudhon ‒ l’amnesia generale
> che colpisce l’origine della condizione servile, il modo in cui il discorso
> repubblicano continua a occultare la memoria delle diverse tradizioni di
> asservimento da cui il popolo proviene nella sua stragrande maggioranza.
Le due prospettive critiche si rafforzano a vicenda. Affrontare le caustiche
osservazioni di Marx permette infatti a Malabou di districare i nodi del testo
di Proudhon. Al contempo, lo sviluppo delle tesi proudhoniane le consente di
dimostrare come esse siano tutt’altro che generiche, né tantomeno dimentiche (se
non addirittura ignare: questa l’accusa più seria mossa da Marx) delle
condizioni storiche e sociali in cui il conflitto di classe si sviluppa.
> Attingendo dal lavoro dello studioso Robert Nichols, Malabou evidenzia come la
> colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma intacchi e
> distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”.
L’intuizione di Proudhon è che sia il furto a precedere la proprietà, così
inaugurandola, e non viceversa. Si tratta di un’affermazione contraddittoria sul
piano cronologico, perché l’atto stesso del furto presuppone, o dovrebbe
presupporre, che esista qualcosa da rubare: una proprietà, per l’appunto. Ma
Proudhon si muove su un terreno logico e, ancora di più, ontologico e simbolico.
Rovesciando il suo ragionamento si può sostenere che l’affermazione della
proprietà altro non è che l’istituzionalizzazione del furto, ovvero che la
proprietà si crea dichiarandola e che quindi essa non dispone che della propria
autolegittimazione.
Questa traiettoria è particolarmente chiara se si osservano quelle che Malabou
chiama le “nuove enclosures”, come i tentativi di brevettare il genoma umano, il
processo di privatizzazione dell’acqua, o la spartizione dell’Internet libera
fra i giganti del tech. Lo stesso vale per lo spossessamento coloniale,
un’appropriazione forzata di terre e risorse che prima dell’invasione europea
non appartenevano a nessuno ed erano liberamente abitate e usate dalle
popolazioni indigene. Attingendo da un importante lavoro dello studioso Robert
Nichols, debitore di Proudhon già dal titolo Theft is property! (2019), Malabou
evidenzia come la colonizzazione non sia soltanto una questione materiale ma
intacchi e distrugga nei soggetti colonizzati la “sfera del sé”: “La
subordinazione a ‘élite imperialiste’ ha impedito loro di parlare le loro
lingue, di praticare i loro culti; ha cambiato i loro nomi e li ha separati dai
loro figli e da loro stessi”. Quest’ultima puntualizzazione le permette di
preparare il terreno per alcuni ragionamenti successivi riguardo un aspetto
fondamentale della proprietà, sia essa simbolica (identità culturale, genealogia
familiare) o concreta: la capacità di riceverla e lasciarla in eredità.
Malabou non tralascia qui di sottolineare la distinzione, spesso dimenticata o
taciuta in malafede, tra la proprietà dei mezzi di produzione e quella dei mezzi
di consumo. Solo la prima è al centro delle critiche di Marx e Proudhon, in
questo sostanzialmente allineati: il possesso individuale, fondato sull’uso, è
del tutto legittimo e anzi minacciato dalla proprietà privata dei mezzi di
produzione. Non potrebbe essere altrimenti, visto che questa si radica sulla
spoliazione e sullo sfruttamento del lavoro altrui.
Il carattere performativo della proprietà, il fatto cioè che prenda forma
attraverso dispositivi politici e giuridici, costituisce il punto di divergenza
con il pensiero marxiano e una frattura di difficile ricomposizione fra i due
campi. Per Marx la proprietà non è affatto “impossibile”, come sostiene
Proudhon, ma costituisce una necessità storica perché derivante da un processo
economico e materiale, quello dell’accumulazione originaria, che pone le basi
per lo sviluppo del capitalismo. In questo senso la proprietà non dipende dalle
forme arbitrarie del dominio politico, ma risponde piuttosto alle esigenze
strutturali del capitale. Secondo i primi teorici anarchici, come lo stesso
Proudhon e Kropotkin, gli strumenti della scienza economica impiegati da Marx
sono invece insufficienti a spiegare le dinamiche politiche e simboliche che
regolano il dominio e la proprietà.
> Per Proudhon le promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono
> servite ad abolire il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in
> un’operazione che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e
> proprio per questo naturale.
Resta quindi da chiarire la natura del furto: una sottrazione non solo materiale
ma soprattutto ideologica, un “trafugamento” del ricordo del dominio nella
transizione tra ancien régime e periodo postrivoluzionario. Per Proudhon le
promesse di uguaglianza della Rivoluzione francese non sono servite ad abolire
il dominio bensì a rimuoverlo dalla memoria collettiva, in un’operazione di
offuscamento che ha consolidato il potere rendendolo invisibile, non-creato e
proprio per questo naturale.
Questa eliminazione della coscienza del dominio si palesa nella questione
dell’eredità e del diritto di albinaggio. In epoca feudale e prerivoluzionaria
il signore ereditava automaticamente i beni degli stranieri che morivano nel suo
territorio. Il legame tra proprietà ed estraneità alla vita civile si
concretizza in questo dispositivo giuridico, che non a caso coinvolge anche i
bastardi e i servi. L’incapacità di testare ed ereditare, di partecipare cioè
alla trasmissione dei beni, delinea il perimetro dell’appartenenza alla
condizione libera e crea fra i membri della società una gerarchia speculare a
quella che il diritto di primogenitura stabilisce tra fratelli.
> Dopo la Rivoluzione il diritto di spossessare si mantiene, traslandosi nel
> meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice,
> negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e tutto ciò che
> consente di fare profitti a spese di chi non possiede nulla.
La Rivoluzione spazza via l’insieme dei diritti feudali e con essi anche il
diritto di primogenitura, eppure questa trasformazione formale non si traduce
nell’uguale possibilità di possedere patrimoni e, di conseguenza, disporne in
eredità. Al contrario, il diritto allo spossessamento si mantiene, traslandosi
nel meccanismo di estrazione di plusvalore ai danni della classe lavoratrice,
negli interessi sui prestiti, nelle rendite sugli immobili e in tutto ciò che
consente ai proprietari di fare profitti a spese di chi non possiede nulla.
La divisione tra chi sfrutta e chi viene sfruttato muta così nella forma ma non
certo nella natura, né tantomeno nei suoi effetti, che hanno a che vedere non
tanto, o non solo, con la deprivazione materiale di oggetti e denaro. La
confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire il
signore feudale, così come la simile prassi contemporanea di sequestrare i pochi
possedimenti dei migranti al loro arrivo in Europa non ha alcuno scopo
economico. Si tratta piuttosto, allora come oggi, di una prova muscolare
dell’autorità politica, che dimostra di poter arbitrariamente scaraventare
chiunque entri nel suo raggio d’azione “ai margini del sociale”.
> La confisca dei beni degli stranieri non è principalmente volta ad arricchire
> il signore feudale, così come la prassi contemporanea di sequestrare i pochi
> possedimenti dei migranti al loro arrivo non ha alcuno scopo economico.
Il capitalismo sopravvive dunque non malgrado il gesto rivoluzionario che
vorrebbe superarlo, ma proprio in esso. Con questa premessa, Malabou non può che
essere scettica nei confronti di alcune moderne teorie secondo cui il
capitalismo possa autoregolarsi se non addirittura modificarsi nei suoi
caratteri essenziali. Diverse pagine sono dedicate al lavoro dell’economista
Jeremy Rifkin e in particolare al suo saggio del 2000 L’era dell’accesso.
Secondo Rifkin l’economia contemporanea tende a spostarsi sempre di più dal
possesso all’accesso: l’esplosione di servizi a noleggio o in abbonamento,
l’intero settore della cultura e del divertimento, il turismo di massa,
l’industria del benessere e del fitness descrivono a suo dire un nuovo modello
economico che pone maggior rilievo all’esperire rispetto al possedere, e di
conseguenza all’accesso (provvisorio e di certo non trasmissibile) piuttosto che
allo scambio. Di conseguenza, possedere beni materiali è sempre meno importante
fintanto che la possibilità di farne comunque uso resta garantita. Eppure,
riflette Malabou, la proprietà delle infrastrutture che assicurano tale
esperienza non scompare, e neanche lo spossessamento. L’autrice ha ulteriormente
chiarito questo punto in un’intervista concessa a Philosophie Magazine:
> Quando si guarda alla storia della proprietà privata, essa non è mai stata,
> per la gente comune, un fattore di emancipazione. Piuttosto è il contrario. Si
> deve pur vivere da qualche parte e, per chi voglia possedere quella “qualche
> parte”, l’accesso alla proprietà avviene solitamente a costo di rinunce. Al
> giorno d’oggi molti giovani preferiscono affittare piuttosto che acquistare.
> C’è una vera crisi del mercato immobiliare e una sensibile restrizione dei
> crediti bancari. Quanto ai beni di consumo: ne possediamo senza dubbio di più,
> ma quanto valgono? Per la maggior parte nulla. Quando si perdono i genitori e
> si svuota la loro casa, si scopre presto che i tre quarti degli oggetti non
> hanno alcun valore, e quelli che forse ne hanno sono spesso privi di ogni
> legame affettivo. Si eredita pochissimo. L’apparente abbondanza di beni
> nasconde la futilità, la liquidità dei beni personali. Non è che la ricchezza,
> la vera ricchezza, a determinare il senso e l’effettività dell’eredità.
Secondo Malabou la proprietà non va quindi regolata: deve piuttosto essere
abolita non solo sul piano materiale dei beni ma anche su quello simbolico, cioè
dei meccanismi che legittimano il potere. In questa prospettiva, l’autrice si
interroga sul ruolo dell’anarchismo in questo processo, esaminando le proposte
del movimento politico e teorico dei beni comuni sul solco delle direzioni
individuate da Proudhon (riconquista della forza collettiva, mutualismo,
federalismo).
Ma questo movimento, come ogni altro, si coagula attorno a un’idea di futuro,
all’auspicio di un miglioramento delle condizioni presenti. Tale futuro e le sue
caratteristiche non possono restare indeterminati perché devono orientare
l’azione politica che mira a conseguirli. In altre parole, lo slancio verso un
futuro immaginato parte da un principio (in questo caso il comune) nel suo
doppio significato di “idea centrale” e “cominciamento”: tutto ciò che
l’an-archè (assenza di principio) rifiuta. Il principio si trova all’inizio e
nel nucleo rovente della teoria e della pratica politica: tutto dovrà seguirlo
ed essere in armonia con esso, pena lo snaturamento del progetto stesso. È qui
che Malabou rileva un’insidia appostata: quella della gerarchia, rigida e
intollerante.
> Ogni movimento si coagula attorno a un’idea di futuro e a un auspicio di un
> miglioramento delle condizioni presenti che non possono restare indeterminati,
> perché devono orientare l’azione politica che mira a conseguirli.
È in questo spazio di tensione tra teoria e prassi che Malabou colloca la figura
dell’anarchico. Lo spazio in cui agisce l’anarchico, per tradizione estraneo e
sradicato, è infatti “incerto e pericoloso”. Qualsiasi tentativo di associarlo a
un ideale politico univoco e definito comporterebbe la chiusura di questo
spazio. Conviene allora usare l’anarchismo come Malabou si serve delle teorie
proudhoniane: non un progetto politico di carattere normativo quanto un “quadro
politico interpretativo” che consenta all’anarchico di
> diventare il portavoce di ubenati, servi, bastardi e operai restando uno
> straniero: interrogare la memoria rubata della servitù senza creare memoria
> servile né discepoli obbedienti. Restare l’altro, improprio e
> “improprietario”.
L'articolo La rivoluzione? Non c’è mai stata di Catherine Malabou proviene da Il
Tascabile.
T utto ciò che so dei Novanta non l’ho vissuto, mi ha impregnato come un residuo
ectoplasmatico, attraverso i palinsesti televisivi e i VHS graffiati dal
Telefunken di mio padre. Ciò che possiedo non è memoria, si tratta piuttosto di
possessione, di un corpo estraneo che mi abita. Per questa ragione Novanta
(2025) di Valerio Mattioli ha agito sul mio immaginario come un esorcismo,
perché è stato capace di sottrarre quegli anni all’iconografia stantia a cui li
ha relegati la retorica ufficiale.
Novanta non accetta la liturgia storico-mediatica che comprime il decennio tra
il 9 novembre 1989 e l’11 settembre 2001; segue infatti un’altra logica, senza
filtrare gli anni Novanta italiani con i grandi eventi globali, ma con il lavoro
di una generazione che ha reinventato il conflitto e ne ha spettacolarizzato la
forma. Se da una parte la storia ufficiale sembrava essersi interrotta con la
fine della guerra fredda, dall’altra parte, come in una dimensione parallela,
riemergeva dalle nebbie del passato una controstoria che con pratiche, gesti,
linguaggi, era pronta a edificare un altro mondo sulle ceneri di un’altra epoca.
Quelle pratiche e quei linguaggi attraversano ancora oggi il nostro presente,
continuano a pulsare, vivi, come un’eredità che reclama attenzione e
riconoscimento. Il risultato del libro è un’archeologia del recente passato che
rimette in moto correnti sotterranee date per disperse.
> Seguendo lo sprofondamento psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i
> conti con un decennio fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una
> realtà brulicante di sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai
> movimenti successivi.
Ma il decennio dimenticato non è possibile da decifrare se non si fanno i conti
con la sua preistoria, il lungo Sessantotto, il decennio bandito, i Settanta.
Mattioli li descrive come la preistoria del Movimento. Il biennio 1977-78
rappresentava un nodo irrisolto della storia e della controstoria italiana.
Un’epoca di gioia feroce e di rigetto dell’autoritarismo, che vide la
convergenza tra studenti e operai, veniva ridotta in superficie ai toni grigi
scuri di La notte della Repubblica di Sergio Zavoli. Seguendo lo sprofondamento
psicoanalitico di Novanta si è costretti a fare i conti con un decennio
fondativo, solare; il lungo Sessantotto è stato una realtà brulicante di
sperimentazioni che faranno da terreno di coltura ai movimenti successivi. Gli
anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante degli
“anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo
rituale” dei Novanta stessi.
È nella preistoria dei Novanta che nacquero i centri sociali autogestiti (CSA)
come il Leoncavallo a Milano e furono proprio i CSA, pur con le loro profonde
divergenze di vedute, a tenere insieme le due età. Funzionarono come dispositivi
politici e culturali, come comuni eterodosse dentro fabbriche dismesse, furono
laboratori di musica e militanza, zone di sperimentazione a partire dalle quali
si è tentato di assaltare il cielo della cultura mainstream.
Le due anime che caratterizzano la geografia dei centri sociali furono la
militanza e la controcultura, due direttrici che si sono incontrate e scontrate.
La militanza di chi è cresciuto nei Novanta risaliva all’eredità dell’Autonomia
del 1977: la Pantera ad esempio, il movimento studentesco che da Palermo unirà
l’Italia in una intensa opposizione alla riforma Ruberti dell’università. Le
università occupate faranno infiammare la ferita mai sanata del potere
costituito, obbligato dal trauma a vivere quella eco come un ritorno del
rimosso, con le sirene spiegate della paranoia, dell’allarme e della
repressione. Ma sebbene negli anni Novanta i CSA attingessero abbondantemente al
lessico e alle pratiche dell’Autonomia, da cui derivavano specificamente il
rifiuto del lavoro, l’ironia, l’azione diretta e l’uso creativo dei media, anche
e soprattutto attraverso la provocazione, il decennio dimenticato, ironia del
destino, era “profondamente estraneo” a sentimenti quali la “nostalgia”, per cui
il legame con il passato diventava più una riserva di carburante “necessaria a
proiettarsi a velocità supersonica verso il futuro”.
> Gli anni Novanta furono un esorcismo collettivo della memoria ingombrante
> degli “anni di piombo”, così come il libro di Mattioli è “l’ennesimo esorcismo
> rituale” dei Novanta stessi.
La controcultura d’altra parte non sbucò dal nulla e risaliva anch’essa alle
esperienze di estrema sperimentazione degli anni Settanta, centrali per
l’intersezione tra psichedelia e rivoluzione La politica rivoluzionaria e
l’underground artistico finirono per toccarsi, generando una iridescenza
difficile da classificare. Riviste come Re Nudo organizzarono festival
all’aperto che somigliavano a grandi comuni temporanee: “La Festa del
proletariato giovanile” era un happening hippie rivestito di parole d’ordine
marxiste, un luogo dove l’etica operaia si sgretolava davanti al richiamo del
piacere immediato. L’idea del “tutto subito”, nel suo mix di edonismo e
militanza, lasciò una scia che avrebbe continuato a brillare sotterranea per
decenni.
Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in
particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la repressione
svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere accesa quella
brace. L’anarcopunk, con spazi come il Virus di Milano, recuperò principi della
controcultura hippie, dall’ecologismo al pacifismo, traducendoli però in un
ethos separatista, rigido, antisistema fino al midollo. Poco dopo, il circuito
post-punk e industrial legato all’Helter Skelter nel Leoncavallo avviò
un’operazione quasi archeologica: riportare in vita l’eredità psichedelica degli
anni Settanta e farne materia di nuove comunità, nuove estetiche, nuove liturgie
del “vivere insieme”. La memoria hippie veniva riscritta attraverso suoni più
cupi, macchine rumorose e visioni distopiche, ma il nucleo rimaneva quello,
l’idea che un’altra forma di società fosse possibile.
> Per certi versi la controcultura tenne in vita la fiamma della militanza, in
> particolare negli anni Ottanta: mentre il riflusso dell’eroina e la
> repressione svuotavano le piazze, alcune sottoculture riuscirono a tenere
> accesa quella brace.
Questa danza tra arte e politica si slanciò nello scontro diretto contro
l’ordine globale attraverso il rituale dello scontro di piazza brevettato dalle
Tute bianche, emerse a metà degli anni Novanta, nella Padova di Toni Negri e del
postoperaismo, che si proposero come diretti eredi della militanza. Vestiti come
“fantasmi”, le Tute bianche avevano come obiettivo il superamento della
dimensione intermittente dell’agire politico e affermare il principio di
“conflitto e consenso”, preparando la strada per le contestazioni globali di
fine decennio. Nella continua dialettica tra militanza e controculture
artistiche riprese corpo il Movimento, con la sua denuncia-profezia del
capitalismo della sorveglianza, le lotte per il reddito di base universale, il
rifiuto del lavoro, i pericoli dell’abbraccio morale tra nuove tecnologie e
ideologie ultraliberiste.
La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione culturale.
Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e l’Onda Rossa
Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento. Militant A, una
delle anime del gruppo, cercava una moralità superiore e l’euforia collettiva
che aveva animato il movimento degli anni Settanta. Il libro è inevitabilmente
anche una storia del panorama underground legato ai CSA e delle sue incursioni
nel mondo commerciale. Dal rap in italiano al tarantamuffin, dalla techno del
“suono di Roma” alla teoria della pompa suprema di Lori D., i capitoli del libro
sembrano i quadri di Hieronymus Bosch, carichissimi di personaggi e situazioni,
di cui rimangono impresse le pennellate con cui vengono dipinte la rabbia
militante e di provincia dell’abruzzese Lou X, lo stile bolognese di Dee Mò e
dell’Isola Posse All Star, fino a SxM, l’album di culto dei Sangue Misto. Si
trattò di strumenti di lotta ed egemonia, parti di una guerra asimmetrica
diffusa e capillare, condotta da “coindividui” come Luther Blissett, ed
esperienze radicali come la rivista Torazine e lo sfondo queer e transfemminista
che le aveva rese possibili.
> La militanza politica venne tradotta in nuove forme di contestazione
> culturale. Sotto la spinta all’azione diretta nacque l’hip hop militante e
> l’Onda Rossa Posse tra 1989 e il 1990 incarnò la voce dell’intero movimento.
Dopo l’ennesimo tentativo di sgombero del Leoncavallo nel 1994, i movimenti
sembravano sempre più un unico Movimento, riuscendo a trarre una lezione
importante dai femminismi degli anni Settanta e dalla loro avversione al
maschiocentrismo della sinistra rivoluzionaria. Dopo che certi steccati furono
scavalcati, la lotta sembrava unire personaggi diversissimi tra loro,
darkettoni, militanti nerd, profeti con il microfono in mano, attivisti
transgender e teorici della lotta omossessuale marxista.
Novanta potrebbe valere come appendice dell’Escatologia occidentale, scritta dal
rabbino Jacob Taubes. Eredi di una tradizione che, come nota Taubes, si muove
sul crinale dove apocalittica e gnosi si incontrano, sotto la superficie delle
occupazioni, dei cortei, delle comuni fricchettone, pulsa la stessa corrente
che, nei secoli, ha animato profeti, settari, comunità perseguitate. I festival
di Re Nudo, le comuni, la psichedelia, e poi la Pantera, con il suo improvviso
accendersi e il suo immediato propagarsi, ha qualcosa delle ondate messianiche
luriane: un’energia collettiva che prende fuoco perché riconosce nel presente la
stanchezza di un eone in dissoluzione. Il cyberpunk di Decoder, con il suo “i
piedi sulla strada, la testa nei computer”, aggiorna l’antico dualismo gnostico:
materia e spirito, corpo e rete, qui e altrove. I rave illegali, contaminati
dalle tribù tekno-travellers, recuperano la matrice nomade e comunitaria degli
antichi movimenti ereticali, dal manicheismo fino ai Mandei. La militanza degli
anni Novanta, dal rap militante dell’Onda Rossa Posse alle Tute bianche,
riprende un’eredità che ricorda da vicino la dialettica di Münzer o degli
spirituali francescani: la convinzione che un altro ordine sia possibile non per
evoluzione graduale, ma per rottura.
Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai rave,
dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un episodio
della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano l’eone
presente e tentano di costruire un regno a venire. In questa luce, i centri
sociali assumono un profilo quasi conventuale: piccoli laboratori di apocalissi
quotidiane, dove la vita comune è un gesto di opposizione e insieme di attesa.
Come nelle comunità gnostiche, la salvezza non è rimandata al futuro: si pratica
nel qui e ora, nella condivisione dei mezzi, dei linguaggi, dei corpi. È questa
la ragione profonda per cui vengono percepiti come minaccia: come gli eretici
medievali, i movimenti degli anni Novanta non contestano solo il potere, ma la
forma stessa del mondo.
L’epica tragica di Novanta mi ha riportato in mente un cult videoludico della
seconda metà degli anni Novanta, la saga per Playstation Legacy of Kain. Nel
1999 il secondo capitolo della storia ci introduce a Raziel, il
vampiro-lieutenant di Kain, il “padre” tirannico che lo punisce per la sua
superbia, gettandolo nel lago dei morti. Contro ogni aspettativa, Raziel
riemerge come wraith: un essere spettrale, nutrito e manipolato dal Dio anziano,
una divinità lovecraftiana degli abissi, che rende il protagonista capace di
oscillare tra il piano materiale, corrotto e decadente, e quello spettrale, un
piano dimensionale capovolto, dove l’acqua perde consistenza e il tempo scorre
più lentamente. Quando il protagonista ritorna nel piano materiale, Nosgoth, un
tempo impero vampirico, è ora una landa desolata, in rovina, i clan e i fratelli
di Raziel che la reggevano si erano dissolti in orrende mutazioni, le sue terre
desolate erano state ferite dall’equilibrio spezzato dalla hybris di Kain.
> Ogni movimento descritto, dal 1977 agli anni Novanta, dalle occupazioni ai
> rave, dalle autoproduzioni alla controinformazione digitale, funziona come un
> episodio della stessa storia lunga, la storia delle minoranze che rifiutano
> l’eone presente e tentano di costruire un regno a venire.
Più ci penso e più i centri sociali mi appaiono come “regni vampirici” dove si
praticavano riti di resistenza collettiva contro il capitalismo neoliberale.
Erano luoghi di iniziazione politica, con musica underground, rave, assemblee e
azioni dirette che incarnavano una controcultura viva. Ma come Raziel questo
movimento si spinse troppo vicino al sole: la proclamazione di guerra consegnata
alla stampa dalle Tute bianche al Genoa Social Forum all’alba di un appuntamento
con la storia che avrebbe dovuto certificare la forza del movimento fu l’apice
della hybris della militanza degli anni Novanta.
Furio Jesi nel suo saggio sulla metamorfosi del vampiro nella cultura tedesca
contenuto in L’accusa del sangue, vede nel vampiro un aspetto che va oltre il
mostro folkloristico puro, interpretandolo come un’immagine mitologica distorta
imposta come marchio su quei movimenti ereticali combattuti dall’ortodossia
cristiana. Sconfitti e repressi, gli eretici sono diventati “mostri” notturni,
residuati di pratiche rese incomprensibili dopo che il potere costituito ha
pronunciato la sua damnatio memoriae. Il vampiro jesiano diventa il volto
sfregiato dell’Iniziato, colui che, in società arcaiche, attraversava prove di
morte e rinascita per accedere a un piano superiore di conoscenza o potere. La
volontà di sfondare la mitologica “zona rossa”, cuore dell’ordine mondiale,
portarono rapidamente al crollo di quella fase della storia del panorama
antagonista. Il movimento si frantumò e l’equilibrio precario tra autonomia e
integrazione si corruppe in un paesaggio di rovine, monumenti di una crisi
identitaria, simboli di cooptazione da parte del mainstream, o semplice oblio
degli anni Duemila. Come Nosgoth dopo la corruzione di Kain, l’Italia post-G8
vide i suoi “pilastri” crollare in un’era di sorveglianza e securitarismo,
oramai non più allucinazioni dei collettivi eretici degli anni Novanta ma realtà
effettive.
Come già in Remoria (2019), in cui la città di Remo ha la sua occasione di
emergere a discapito della città di Romolo, Valerio Mattioli riusa questo schema
di ribaltamento negromantico della damnatio memoriae e assume le sembianze del
Dio anziano di Legacy of Kain, diventando un narratore sotterraneo, manipolatore
di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie della retorica
ufficiale. Lo trasforma così in un’arma vendicativa atta a mondare il
doppelganger edonista e berlusconiano del decennio perduto. Mattioli è capace di
liberare il lettore dal piano spettrale, l’immagine ufficiale degli anni
Novanta, fatta di MTV, consumismo e pacificazione, per farlo riemergere sul
piano materiale, ossia la memoria militante dei riti sotterranei di resistenza,
le lotte dimenticate.
> Come già in Remoria Valerio Mattioli riusa lo schema del ribaltamento
> negromantico della damnatio memoriae, diventando un narratore sotterraneo,
> manipolatore di memorie, che risveglia il lettore dal torpore delle litanie
> della retorica ufficiale.
Mentre il tempo culturale sta iniziando a rigettare il decennio perduto per
produrre cultura rediviva, il lettore di Novanta dovrebbe oggi porsi un
interrogativo dirimente: questa rinascita culturale è vera redenzione o solo un
altro ciclo di predazione mitica? Di sicuro libri come quelli di Mattioli devono
essere visitati non come mausolei della storia antiquaria, perché si tratta
piuttosto di modi per comprendere come ciò che è accaduto nel tempo sociale può
sempre accadere di nuovo. Novanta è un atto di vendetta che rimette in piedi uno
Sheol, la cui geometria costituisce un itinerario di attimi messianici che
rendono il passato ancora rivedibile e a disposizione del presente. Il libro
riattiva presenze sepolte, restituisce corpo alle possibilità negate, riaccende
lampi di un’epoca che non ha mai davvero smesso di bussare. Nei raver che
assaltano lo Spaziokamino, nella techno come tamburo di guerra, nelle T.A.Z. di
Bey, si intravede un’idea impossibile che ritorna, stavolta non come fantasma,
ma come promessa.
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