C’è un paradosso che in Italia facciamo finta di non vedere: lo Stato racconta
la confisca antimafia come la grande vittoria della legalità, ma troppo spesso
chi ha subito il reato resta fuori dalla porta. Prima vengono il sequestro, la
misura di prevenzione, le conferenze stampa, i beni “liberati” consegnati a enti
e istituzioni; solo dopo ci si accorge che le vittime sono rimaste senza
risarcimento, perché il patrimonio è stato inghiottito dal circuito pubblico.
La sentenza delle Sezioni Unite dello scorso 14 novembre 2025, n. 37200, prova a
mettere un freno a questa schizofrenia: in questa materia e art. 52 del Codice
antimafia, la Cassazione dice che il credito della vittima non può essere
cancellato solo perché la macchina della prevenzione corre più veloce della
giustizia ordinaria. Non è un colpo alla confisca, né un regalo al garantismo di
maniera: è il contrario, è il tentativo di renderla più solida e meno
attaccabile.
Il caso è minuscolo nei numeri ma enorme nei principi: una vittima di furto, un
credito di 4.000 euro, i beni del proposto sotto sequestro di prevenzione. Il
tribunale esclude il credito dal passivo perché, pur essendo il fatto anteriore
al sequestro, la decisione che accerta il danno arriva dopo la misura. Lettura
rigidissima dell’art. 52: conta solo ciò che “risulta da atti aventi data certa
anteriore al sequestro”. Le Sezioni Unite ribaltano la prospettiva: il credito
della vittima deve nascere prima della misura (cioè dal fatto illecito già
consumato), ma può essere accertato anche dopo, purché entro i termini per
l’ammissione al passivo; in sede penale occorre una decisione definitiva, in
sede civile basta una pronuncia provvisoriamente esecutiva.
Più rigido, invece, il regime per le spese giudiziali, che devono essere
liquidate in una decisione precedente al sequestro. Tradotto: il diritto della
vittima non nasce il giorno in cui il giudice trova posto in ruolo per firmare
la sentenza, ma nel momento del reato. Se lo Stato pretende di aggredire i
patrimoni senza aspettare la condanna definitiva, non può nello stesso tempo
usare i ritardi del processo come arma contro chi è stato danneggiato.
L’art. 52 diventa davvero una clausola di compensazione del potere ablativo
della prevenzione: la confisca resta, e deve restare, ma non può schiacciare in
blocco i terzi incolpevoli. Proprio perché nessuno che conosca i territori mette
in discussione la necessità di colpire i patrimoni mafiosi, è essenziale che le
regole siano chiare: altrimenti si buttano argomenti in mano a chi sogna il
ritorno all’intangibilità dei patrimoni criminali.
La sentenza parla anche a un altro equivoco: la prevenzione patrimoniale non è
solo duello fra Stato e mafie, è anche il luogo dove si decide il destino delle
vittime, dei creditori, dei lavoratori. Ed è qui che entra in gioco il riuso
sociale. Da anni celebriamo il mantra “i beni dei boss tornano ai cittadini”:
associazioni, cooperative, enti locali che subentrano in ville, aziende,
terreni. È una narrazione importante, che va difesa, ma va resa coerente. Questo
significa ridisegnare piani economici, ricalibrare destinazioni, assumersi la
responsabilità di scelte che non si consumano sul palco di una conferenza stampa
ma nelle stanze in cui si fa contabilità e si decidono, silenziosamente, chi
viene pagato e chi no.
Non siamo alla rivoluzione, ma è un passo importante. È lavoro duro, poco
fotogenico, ma è esattamente la frontiera dove si misura la serietà del sistema.
Detto questo, sarebbe ingenuo leggere le Sezioni Unite come il lieto fine della
storia. La sentenza disegna un bilanciamento sotto la pressione di un sistema
giudiziario che resta lentissimo e diseguale. Perché la vittima possa entrare
nel passivo, non basta che il suo credito sia sorto prima del sequestro: occorre
che riesca a ottenere un provvedimento di condanna (o una sentenza civile
provvisoriamente esecutiva) entro i termini per l’ammissione ordinaria o
tardiva. In altre parole, la tutela funziona se la vittima ha la forza
economica, culturale, organizzativa di mettere in moto un’azione civile o penale
e portarla rapidamente a decisione. Chi è assistito da un buon avvocato, chi ha
la capacità di muoversi in fretta, di monitorare i termini e presentare in tempo
la domanda, entra. Chi è povero, disorientato, lasciato solo – e spesso sono
proprio le vittime dei reati di matrice mafiosa – rischia di arrivare fuori
tempo massimo, quando il bene è già stato stabilmente assorbito nel circuito
della prevenzione e del riuso sociale.
Il filtro temporale, così come disegnato, è un filtro anche per censo
processuale. Ma assumere questo dato non significa depotenziare le confische:
significa chiedere allo Stato di mettere le vittime in condizione di giocare
davvero la partita, con difesa tecnica, informazioni tempestive, accompagnamento
nei labirinti del procedimento a partire, però, da un punto fermo che troppo
spesso viene eluso: la confisca di prevenzione – e in generale la confisca
“senza condanna” – non è una pena mascherata. È un istituto diverso, che si
muove su un binario autonomo rispetto al giudizio di colpevolezza penale della
persona, e che colpisce un’altra cosa: non la responsabilità per un fatto
tipico, ma la pericolosità sociale espressa da un certo modo di accumulare e
usare ricchezza.
È lo strumento che consente di aggredire i patrimoni che vivono stabilmente
nella zona grigia tra illecito penale, elusione, intestazioni fittizie, reti
societarie che rendono impossibile o inefficace la via della condanna. Se noi la
confisca senza condanna la trasformiamo, anche solo nel linguaggio, in “pena
patrimoniale”, facciamo esattamente il gioco di chi vuole riportarci all’epoca
dei patrimoni intoccabili: basterà non arrivare mai a una condanna definitiva
perché il sistema collassi. Dentro questo quadro, la sentenza numero 37200/2025
va collocata, dunque, al suo giusto posto.
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