Estorsione, usura, associazione mafiosa e truffa ai danni dello Stato. Sono
alcune delle accuse con le quali il giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Lecce Alberto Maritati ha emesso 13 arresti in carcere e un’altra
misura di custodia cautelare, eseguite dai carabinieri di Brindisi nella stessa
provincia e in quelle di Lecce e Chieti, nei confronti di altrettanti soggetti
ritenuti affiliati al clan della Sacra corona unita “Pasimeni-Vitale-Vicentino”,
egemone nella città di Mesagne, dove l’associazione mafiosa pugliese affonda le
sue radici.
Nell’inchiesta della pm antimafia di Lecce, Carmen Ruggiero, sono contestati, a
vario titolo, anche i reati di concorso esterno, lesioni personali, detenzione
d’armi da sparo e associazione a delinquere finalizzata al traffico di
stupefacenti. Il giudice ha anche disposto il sequestro di un immobile e di
un’attività commerciale – per un valore di circa 600mila euro – che sarebbe
servita come base logistica e operativa del clan. Tra gli arrestati figura
Daniele Vicientino, detto “Il Professore”, volto storico della Scu mesagnese.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, a impartire gli ordini ai presunti
capi dei sottogruppi sarebbe stato il capo dell’organizzazione direttamente dal
carcere. Le indagini sono partite dal Nucleo Investigativo brindisino tra il
giugno 2020 e il giugno 2022, a seguito del ritorno in libertà di uno dei
presunti leader dell’organizzazione, Tobia Parisi. Stando all’inchiesta, anche
durante il tempo della sua detenzione, sarebbe rimasta pervasiva l’attività del
clan nel territorio interessato, in parte grazie all’aiuto di un soggetto
semi-esterno, operante sul territorio brindisino e al centro di un’altra
indagine della Procura e Squadra Mobile di Brindisi.
L’organizzazione dell’associazione – dalla ricostruzione – sarebbe stata questa:
il capo impartiva direttive dal carcere al nipote, presente nel territorio e
portavoce “ufficiale”. Il clan si sostentava in parte attraverso un codificato
sistema di estorsioni: riscosso il “punto” o “pensiero” dagli spacciatori
nell’area, cioè una sorta di tangente sugli stupefacenti smerciati, i fondi
venivano utilizzati per mantenere il boss e gli affiliati in cella e per
assicurare supporto economico alle loro famiglie. L’organizzazione era dedita
anche all’usura, concedendo prestiti a tassi altissimi, e al riciclaggio di
denaro attraverso reti di scommesse in canali non autorizzati.
Tutto ciò sarebbe stato accompagnato da metodi – chiaramente – non accomodanti:
pestaggi, estorsioni armate ai danni di imprenditori e commercianti e violente
intimidazioni sarebbero solo alcuni dei soprusi scoperchiati dall’indagine.
Sarebbero stati forti anche i rapporti con i capi di altri gruppi della
cosiddetta frangia dei “mesagnesi” e altri leader della Sacra Corona. I vari
vertici concordavano strategie comuni per la gestione di alcuni illeciti,
mantenendo separate le rispettive sfere di competenza territoriale.
L'articolo Brindisi, colpo alla Scu: 13 arresti, nel mirino il clan
Pasimeni-Vitale-Vicentino proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Mafia
Quindici anni per concorso esterno in associazione mafiosa. È la condanna
inflitta dal tribunale di Marsala ad Alfonso Tumbarello, il medico di Campobello
di Mazara che aveva seguito tutto l’iter delle cure di Matteo Messina Denaro
dopo la scoperta del tumore al colon, quando era ancora latitante. L’accusa
aveva chiesto una condanna a 18 anni di carcere. Tumbarello, massone iscritto al
Grande Oriente (poi sospeso), ex politico (consigliere provinciale e candidato
alle regionali con l’Udc), era finito in carcere meno di un mese dopo l’arresto
dell’ex boss di Castelvetrano, avvenuto il 16 gennaio del 2023. Dopo cinque mesi
era passato ai domiciliari per limiti di età (oggi ha 73 anni), mentre il tumore
alla fine ha ucciso Messina Denaro, in carcere, il 25 settembre del 2023, poco
più di nove mesi dopo l’arresto.
Il processo è iniziato nel dicembre del 2023 e per due anni l’accusa –
rappresentata in aula dal pm di Palermo, Gianluca De Leo – ha dibattuto con la
difesa – gli avvocati Gioacchino Sbacchi e Giuseppe Pantaleo -, per dimostrare
che Tumbarello fosse consapevole di aver firmato ben 147 prescrizioni per
Messina Denaro e non invece per Andrea Bonafede, l’alias usato dall’ex
latitante. De Leo ha anche portato due nuove evidenze al processo: un
certificato medico per accedere alle strutture sportive, emesso a stretto giro
assieme alla richiesta di day service per una seduta di chemioterapia, la
prescrizione di una compressa di Tavor il giorno prima di una risonanza. La
dimostrazione, in sostanza, che il medico facesse prescrizioni per due distinte
persone nonostante le generalità fossero le stesse: per il vero Bonafede, che
aveva normali necessità, e per Messina Denaro, che invece doveva sottoporsi alle
cure per il tumore. Tumbarello, dunque, era consapevole di avere in cura il boss
di Castelvetrano.
Il processo era arrivato alle battute finali già lo scorso maggio, ma ha subito
un rinvio perché il presidente del Tribunale, Vito Marcello Saladino (a latere
Francesca Maniscalchi e Andrea Agate), ha chiesto nuove perizie su questi
documenti. Nella requisitoria, De Leo ha anche ricordato quando nel 2004
Tumbarello fece da tramite per un incontro, presso il suo studio, tra l’ex
sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, e il fratello di Messina Denaro:
“Dovremmo ritenere che sia credibile che non sapesse che Salvatore Messina
Denaro nel 2004 era stato arrestato e già condannato per 416-bis, che Vaccarino
gli abbia chiesto in maniera generica soltanto se lo conoscesse?”, è la domanda
retorica posta da De Leo alla fine della sua requisitoria il 22 ottobre. Tutti
elementi contestati dalla difesa che ha sostenuto come Tumbarello avesse emesso
certificati e ricette convinto che fossero indirizzati ad Andrea Bonafede. E
quest’ultimo non si recava mai direttamente allo studio medico, per tenere
nascosto ai suoi parenti di essersi ammalato di tumore. Una tesi che non ha
convinto i giudici: per il tribunale, Tumbarello sapeva perfettamente di essere
il medico di Messina Denaro.
L'articolo Alfonso Tumbarello condannato, al medico di Messina Denaro 15 anni
per concorso esterno alla mafia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Maxi-operazione contro i clan mafiosi e il narcotraffico a Palermo. L’inchiesta
– coordinata dalla Dda del capoluogo siciliano guidata dal procuratore Maurizio
de Lucia – ha fatto luce su un vasto traffico di stupefacenti e ha svelato i
nuovi organigrammi di uno dei principali mandamenti mafiosi della città.
50 MISURE CAUTELARI
Eseguite dalla polizia misure cautelari nei confronti di 50 persone: sono
accusate, a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, intestazione
fittizia di beni, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti
e spaccio. Per 19 di loro il gip ha disposto la custodia cautelare in carcere,
per 6 gli arresti domiciliari mentre per gli altri 25 è stato emesso un
provvedimento di fermo. L’operazione ha visto impegnati oltre 350 agenti della
Polizia di Stato.
“STRETTO RAPPORTO TRA COSA NOSTRA E CAMORRA”
“È stato documentato un rapporto stretto tra i clan mafiosi di Palermo con un
clan della Camorra, da cui la mafia si riforniva per la droga”, ha detto il
procuratore aggiunto di Palermo Vito Di Giorgio nel corso della conferenza
stampa: “Siamo in presenza di organizzazioni fortemente strutturate capaci di
commerciare ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti anche in periodi di
tempo molto brevi”, ha aggiunto. Al centro ci sono due diverse inchieste della
sezione Antidroga della Squadra Mobile, coordinate dalla Dda. Tra ottobre 2022 e
agosto 2023 sono state individuate due le bande di narcos: una faceva base a
Palermo ed era caratterizzato da rapporti molto forti tra gli affiliati legati
da vincoli di parentela: l’altra, invece, operava in Campania e forniva la merce
ai siciliani. Alcuni componenti della banda campana tenevano rapporti con i
palermitani e trattavano anche per conto di un clan camorrista che ha riversato
importati quantitativi di droga non soltanto nella provincia di Palermo, ma
anche in quella di Catania. La seconda indagine dell’Antidroga ha portato alla
scoperta di una cellula criminale palermitana che ha organizzato un grosso
traffico di cocaina, hashish e marijuana tra Palermo e Trapani. La droga sarebbe
arrivata dalla zona di Marsala. Gli indagati apparterrebbero ad ambienti
criminali di rilevante caratura e già indagati per mafia: prova del ruolo svolto
dalle “famiglie” di Cosa nostra nell’approvvigionamento e nello smercio degli
stupefacenti. “Nel corso delle investigazioni, inoltre, sono stati messi a segno
sequestri per un totale di circa due quintali e mezzo di hashish e quattro
chilogrammi di cocaina, con conseguente arresto in flagranza di dodici persone”.
IL MANDAMENTO DELLA NOCE TRA VECCHI E NUOVI BOSS
Il maxiblitz di oggi “dimostra che Cosa nostra è tutt’altro che sconfitta” ha
detto il Procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia nel corso della
conferenza stampa. L’operazione ha colpito anche il mandamento mafioso
palermitano della Noce. L’indagine ha permesso di ricostruire posizioni e ruoli
nelle famiglie mafiose di Noce, Cruillas ed Altarello, e di ricostruire le
attività illecite nel territorio. Il vuoto di potere, generato dagli ultimi
arresti, avrebbe dato spazio a nuovi personaggi intenzionati a scalare le
posizioni di vertice del clan. Oltre agli aspiranti boss nel mirino degli
investigatori sono finiti nomi noti con curricula di tutto rispetto all’interno
di Cosa nostra. Tra loro un anziano boss, in grado di decidere le strategie del
clan. Identificato anche il nuovo capo del mandamento che avrebbe preso il
comando in virtù della sua parentela con un ex reggente: “In linea di continuità
familiare ad una trascorsa gestione, poiché risulta essere imparentato con un
già ‘reggente’, oggi in carcere”. Nelle casse delle cosche – ha accertato
l’indagine – continuano a finire i soldi delle estorsioni: sei quelle messe a
segno a carico di negozi e attività imprenditoriali della zona.
IL CANALE TELEGRAM CON LA FOTO DI SCARFACE
È stata scoperta anche una centrale di smercio virtuale, creata grazie ad un
canale Telegram e ritenuta più sicura dalla banda. Per accreditarsi e far capire
nel settore che i leader erano loro usavano sul profilo aperto sul canale la
foto di Al Pacino nel ruolo di Tony Montana nel film Scarface, dicono gli
investigatori. Gli indagati annotavano scrupolosamente in un “libro mastro” i
soldi incassati col narcotraffico: una contabilità precisa con tanto di appunti
sul tipo di stupefacenti, sui pagamenti delle partite di droga e sui compensi
settimanali di tutti gli associati. Materiale prezioso per gli investigatori.
L'articolo Maxi-operazione antimafia a Palermo, 50 misure cautelari: “Nel
traffico di droga rapporti stretti Cosa nostra-Camorra” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La pista nera che ipotizza un ruolo di Stefano Delle Chiaie nelle stragi del
1992? “Giudiziariamente vale zero tagliato“. Salvatore De Luca fa una pausa, poi
lo ripete ancora: “Zero tagliato“. È in quel preciso momento che a Chiara
Colosimo sembra scappare un sorriso. Insieme alla presidente della commissione
Antimafia, esultano anche vari esponenti di destra, come Maurizio Gasparri che
definisce l’audizione del procuratore di Caltanissetta come uno “scrigno di
verità” E pazienza se De Luca abbia anche puntualizzato come “siano ancora
aperti filoni di indagine su tutte le principali ipotesi riguardanti le cause o
i concorrenti esterni delle stragi del 1992”, compreso “un’ulteriore pista nera,
chiamiamola così, che potrebbe dare dei risultati, ma la stiamo ancora
approfondendo”. Va comunque detto che l’audizione del capo della procura
nissena, competente per le indagini sulle stragi di Capaci e di via d’Amelio,
rappresenta un punto a favore della maggioranza. De Luca, infatti, ha detto più
volte di ritenere “la gestione del filone Mafia e appalti presso la procura di
Palermo retta da Pietro Giammanco” come “una delle concause della strage di via
D’Amelio”. E ancora: “Allo stato noi non siamo in grado di escludere alcuna
concausa. Quella sulla quale abbiamo trovato maggiori elementi e maggiori
riscontri è Mafia e appalti”. Dichiarazioni che fanno esultare la destra, ma
provocano anche polemica nei ranghi dell’opposizione. Ma andiamo con ordine.
“MAFIA E APPALTI CONCAUSA DELLE STRAGI”
Il capo dell’ufficio inquirente nisseno è comparso a Palazzo San Macuto insieme
a due sostituti Davide Spina e Claudia Pasciuti. Alle spalle degli auditi,
custodita in una teca, c’è la valigetta di Paolo Borsellino, ancora
bruciacchiata dall’esplosione del 19 luglio 1992. “È un onore per noi, riferire
qui”, ha detto De Luca, alla fine di un intervento lungo quasi tre ore.
Un’audizione cominciata con una premessa: tutte le indagini di Caltanissetta
sono state portate avanti in “piena sintonia con la Procura nazionale
antimafia“. Che tipo di sintonia? “Prima di iniziare le indagini sul cosiddetto
filone di Mafia e appalti, ho ritenuto d’informare il procuratore nazionale
dottor Melillo, che è stato perfettamente d’accordo con noi”. Secondo la destra,
l’interesse di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per il dossier investigativo
del Ros dei carabinieri è il movente segreto delle stragi. Una ricostruzione che
sembra essere condivisa da De Luca. “Noi abbiamo in corso filoni di indagine
aperti su tutte le principali ipotesi riguardanti le cause o i concorrenti
esterni delle stragi del 1992 – ha premesso – Oggi parlerò principalmente del
cosiddetto filone Mafia e appalti, perché abbiamo ottenuto i migliori risultati
proprio in questo filone di indagine. Gli altri filoni sono ancora in corso in
una fase in cui è necessario attendere l’esito di ulteriori accertamenti prima
di potere delineare una ipotesi sufficientemente suffragata della pubblica
accusa”, ha detto, puntualizzando che “l’arco cronologico di rilievo secondo
l’ipotesi accusatoria che abbiamo formulato è quello in cui è stato procuratore
Pietro Giammanco“.
“NEL 1992 NON SI FATTO QUELLO CHE SI DOVEVA FARE”
Secondo l’ipotesi accusatoria, la procura di Palermo insabbiò l’indagine su Cosa
Nostra, l’imprenditoria e la politica. Una tesi che recentemente è stata
smentita dall’ex procuratore Gian Carlo Caselli, proprio in commissione
Antimafia. “Relativamente alle concause delle stragi del 1992, a parer nostro le
precondizioni sono l’isolamento prima di Giovanni Falcone e poi di Paolo
Borsellino nell’ambito della Procura di Palermo; la sovraesposizione prima di
Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino, presso la Procura di Palermo e non
solo. Poi riteniamo che vi siano molteplici e concreti indizi per affermare che
la gestione del filone Mafia e appalti presso la procura retta da Giammanco sia
una delle concause della strage di via D’Amelio, e vi sono elementi per ritenere
che sia anche una delle concause della strage di Capaci”, ha detto De Luca.
Aggiungendo: “Credo che alcuni manifestino scetticismo riguardo Mafia e appalti
come concausa. Sinceramente non capisco perché”. Chiaro riferimento a Roberto
Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo e oggi senatore dei 5 stelle,
seduto tra i commissari presenti all’audizione. De Luca ha spiegato che le
indagini su Mafia e appalti partono solo dopo le stragi. “Nel 1992 non si fatto
quello che si doveva fare. Dopo la strage di Borsellino cambia l’Italia, perché
ci sono state due stragi e perché c’è la forza propulsiva di Mani pulite che
scompaginerà un intero sistema politico, cambia lo stesso gruppo imprenditoriale
Ferruzzi, cambia il procuratore. Ciò che era fattibile o, secondo la nostra
ipotesi, voleva la dirigenza della Procura fino al luglio 1992 cambia
decisamente già quando è stato sfiduciato Pietro Giammanco e a ancora di più
quando è arrivato il procuratore Caselli, che dà un nuovo impulso a certe
indagini, non ha alcun interesse politico personale a bloccare le indagini o a
rallentare o insabbiare le indagini su Mafia e appalti”. Poi, però, De Luca
critica la difesa operata da Caselli sull’intera gestione del dossier. “La
relazione della Procura di Palermo depositata nel 1999 è estremamente lacunosa e
manca di tutti quegli elementi che rendono problematica l’indagine da parte
della procura di Palermo. Il fatto che le cose si siano fatte dopo è un indice
del fatto che prima non si erano fatte”. Il riferimento è per il dossier
preparato proprio dalla procura di Caselli per spiegare come le indagini su
Mafia e appalti fossero sempre state regolari.
“PISTA NERA SU DELLE CHIAIE VALE ZERO TAGLIATO”
A proposito delle indagini sull’eversione di destra, De Luca ha detto di
considerare “singolare che si insista su un certo filone legato alla pista nera.
Mi riferisco alla pista di Stefano Delle Chiaie a seguito delle dichiarazioni
rese da Maria Romeo e anche dal luogotenente Walter Giustini. Se qualcuno vuole
approfondire, approfondiremo ma sinceramente mi sembra un’autentica perdita di
tempo e già ne abbiamo perso abbastanza su questa pista. Dalle dichiarazioni di
Romeo e Giustini e dalle presunte dichiarazioni del collaboratore Alberto
Cicero, che non ci sono mai state, viene fuori una pista che giudiziariamente
vale zero tagliato. Ripeto: zero tagliato. Non mi dilungo perché mi sembra di
farvi perdere tempo. C’è un’archiviazione tranciante del gip – ha aggiunto De
Luca – Un gip che fra parentesi non è certamente appiattito sulle nostre
posizioni”. Romeo e Giustini sono sotto processo con l’accusa di aver depistato
le indagini su via d’Amelio. “Questo filone – ha detto De Luca – ci era stato
prospettato dall’attuale senatore Scarpinato, proprio gli ultimi giorni prima di
andare in pensione. Appena abbiamo ricevuto gli atti, è successo tutto l’inverso
di Mafia e appalti. Siamo partiti con l’idea: qua c’è una pista eccezionale. Ma
guardando le carte ci siamo resi conto che si trattava di zero tagliato”.
“PIGNATONE E LE CASE COMPRATE DAI MAFIOSI”
Gran parte dell’audizione è stata dedicata al ruolo di Giammanco (deceduto nel
2018), di Giuseppe Pignatone e di Gioacchino Natoli. I due ex magistrati (il
primo è deceduto nel 2018) sono ancora sotto indagine da parte della procura di
Caltanissetta per favoreggiamento. La questione riguarda l’archiviazione di
un’indagine parallela a Mafia e appalti, nata su input della procura di Massa
Carrara nel 1991 e archiviata a Palermo l’anno dopo: riguardava il ruolo dei
fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, imprenditori mafiosi vicini a Totò Riina,
divenuti soci del gruppo Ferruzzi di Raul Gardini. Secondo i pm guidati da De
Luca, Pignatone e Natoli archiviarono con l’unico obiettivo di coprire i
Buscemi. “Non abbiamo prova che ci furono elementi corruttivi sul conto di
Pignatone e Giammanco. Ma alcuni collaboratori li hanno chiamati in causa.
Pignatone lo ha definito chiacchiericcio. E’ possibile che abbia ragione, ma
bisogna verificare se i dottori Pignatone e Giammanco, all’epoca sostituto e
procuratore capo, abbiano avuto comportamenti inopportuni. Ovvero comportamenti
che possano avere indotto i mafiosi a pensare che la procura di Palermo avesse
un vertice malleabile”, ha detto il capo dell’ufficio inquirente siciliano. Da
una parte, ha ricordato De Luca, “Giammanco ostentava l’amicizia con Mario
D’Acquisto (ex presidente della Regione ndr). E quando l’europarlamentare della
Dc Salvo Lima fu ucciso, nel marzo del ’92, Giammanco sarebbe voluto andare al
funerale e fu bloccato dai sostituti”. Il procuratore ha riferito che l’ex
procuratore “aveva un nipote a Bagheria, un imprenditore che è stato poi
condannato perché vicino a Bernardo Provenzano e già nel 1985 era indicato dai
carabinieri come un rampante collettore dei rapporti tra imprenditoria, politica
e mafia”. Riguardo Pignatone, invece, il procuratore nisseno ha detto che “negli
anni Ottanta la sua famiglia fa un grossissimo acquisto in un immobile in via
Turr venduto dalla Immobiliare Raffaello, cioè i Bonura, Francesco Buscemi e
Vincenzo Piazza. Si tratta di circa 26 immobili che comprendono non solo
appartamenti, ma anche garage a altro. Vi sono concreti indizi che Salvatore
Buscemi, Vincenzo Piazza, Francesco Bonura siano anche iscritti alla massoneria.
Sono tutti e tre saldamente intrecciati nel mondo imprenditoriale, tutti e tre
condannati per mafia e legati da legami di parentela. Bonura abita anche vicino
ai Piazza. Sono tutti e tre soci della Immobiliare Raffaello. Si tratta di una
immobiliare in cui se si riuniscono i soci diventa una riunione di Cosa nostra.
Ha un capomandamento, un capofamiglia e un associato. Una riunione di questa
società può comportare l’arresto in flagranza. Non è facile da trovare una
società del genere”. De Luca ha anche ricordato l’esistenza di una
intercettazione ambientale in cui “Bonura parlando con un’altra persona afferma
che la signora Pignatone (madre dell’ex procuratore di Roma) lo prendeva
sottobraccio, notando una certa confidenza. Che può derivare da una
frequentazione che non sia occasionale”. De Luca ha anche aggiunto che “nella
sua memoria difensiva Natoli afferma di aver pagato 20 milioni in nero per
l’acquisto della casa. Qui non si deve fare del mero moralismo, dobbiamo vedere
in che situazione di inopportunità si va ficcare una persona. Il dottore
Pignatone afferma, ed è l’ipotesi a lui più favorevole, di avere pagato 20
milioni o qualcosa di più in nero, al capo mandamento Salvatore Buscemi del
mandamento Uditore, Boccadifalco, Passo di Rigano. Non è reato, perché siamo
sotto soglia. Però è un illecito amministrativo”.
“NATOLI HA MENTITO DAVANTI AL CSM”
Natoli, invece, secondo il procuratore di Caltanissetta “ha mentito davanti al
Csm” a proposito dei rapporti tra Falcone e Giammanco. Il riferimento è alle
audizioni dei magistrati della procura di Palermo nei giorni immediatamente
successivi alla strage di via d’Amelio. “In particolare – ha ripercorso De Luca
– il dottor Natoli dinanzi al Csm, a domanda del Presidente ha dichiarato: ‘Sui
rapporti Giammanco-Falcone non posso dire nulla perché io arrivo alla procura di
Palermo quattro mesi dopo che Falcone è andato via, quindi non ho alcuna
conoscenza diretta del problema’. ‘E indiretta?’, gli chiede il presidente.
‘Indiretta neppure perché, ripeto Falcone si era trasferito a Roma, ci si
sentiva telefonicamente e ci si vedeva di tanto in tanto a Palermo, ma
ovviamente l’intensità del rapporto è più tale quando ci vedevamo tutti i
giorni. E dice: ‘non posso dare nessun contributo né diretto né indiretto‘. Bene
nel corso dell’audizione giovani colleghi – segnatamente Antonella Consiglio, de
relato Domenico Gozzo, marito della Consiglio che ha avuto raccontato da lei
quanto ora riferirò e il collega Antonino Napoli – hanno dichiarato che nel
corso di una riunione del Movimento per la giustizia – di cui il dottor Natoli
era uno dei leader indiscussi – il dottor Giovanni Falcone, a richiesta dei
colleghi preoccupati dal fatto che stesse lasciando Palermo per andare al
ministero, ha dichiarato con molta chiarezza: non ci sono più le condizioni per
lavorare a Palermo, non posso più lavorare a Palermo’. Antonino Napoli ha avuto
anche con lui una conversazione privata sul punto in cui Falcone ha confermato
questa sua linea che se ne andava perché non riusciva più a lavorare”. De Luca
ha detto anche che “nel corso del suo interrogatorio il dottor Natoli ha
confermato di essere presente a tale riunione. Quindi, vi sono degli indizi ben
concreti per ritenere che il dottor Natoli dinanzi al Csm abbia mentito”.
“BORSELLINO NON SI FIDAVA DEL SUO CAPO”
A proposito dell’indagine sul dossier del Ros dei carabinieri, De Luca ha
definito come “sopravvalutata” la rilevanza della riunione del 14 luglio 1992
alla procura di Palermo. Il riferimento è al vertice dei magistrati, convocato
il giorno successivo la richiesta di archiviazione di alcuni indagati di Mafia e
appalti. Secondo il procuratore di Caltanissetta, “sembra corroborato da
numerosi indizi che in quella sede non si parlò di richiesta di archiviazione
del dossier su mafia e appalti”. Eppure il procuratore generale di Cagliari
Luigi Patronaggio , tra i presenti a quel vertice, ha raccontato proprio alla
commissione Antimafia di aver saputo della richiesta di archiviazione di Mafia e
appalti proprio durante la riunione del 14 luglio. Secondo De Luca “nella
riunione del 14 luglio non ci fu uno scontro tra Paolo Borsellino e la
dirigenza. La strategia e la personalità di Borsellino escludevano che si
arrivasse a uno scontro in quella sede. Borsellino aveva una mentalità di
rispetto e delle gerarchie negli ambiti ufficiali: per cui in sede privata,
nella riservatezza di una stanza poteva anche scontrarsi con il procuratore
Giammanco, ma davanti ai sostituti non lo avrebbe mai fatto. E questo ce lo dice
Antonio Ingroia. Attenzione, Borsellino non aveva paura di Giammanco, Borsellino
era un leone”. Per De Luca, “Paolo Borsellino nutriva una estrema diffidenza nei
confronti Di Giammanco, Natoli e Lo Forte”. Il fatto che il magistrato non si
fidasse dei suoi colleghi e del suo capo, secondo il procuratore di
Caltanissetta è confermato anche da un altro passaggio: “Dopo aver ascoltato il
pentito Gaspare Mutolo, che gli rivelò le collusioni con la mafia di Bruno
Contrada e del pm Domenico Signorino, Paolo Borsellino non ne parla con Lo Forte
e Natoli e neanche a Giammanco, ma riferisce quanto aveva appreso dal
collaboratore di giustizia a due colleghi non titolari dell’inchiesta, cioè
Vittorio Teresi e Ignazio De Francisci“.
LA DESTRA ESULTA, I 5 STELLE: “REQUISITORIA SENZA CONTRADDITORIO”
L’audizione del procuratore di Caltanissetta ha ovviamente provocato reazioni
politiche. I parlamentari di Fdi sottolineano come De Luca abbia “affermato in
maniera chiara e inequivocabile che la cosiddetta pista nera, ovvero l’ipotesi
giudiziaria di un coinvolgimento di Delle Chiaie nella strage di via d’Amelio,
vale zero tagliato. È un’affermazione che merita rispetto e attenzione, perché
proviene dall’autorità giudiziaria titolare delle indagini. Continuare a
insistere su un filone che, secondo la Procura, non presenta concreti elementi
probatori rischia di alimentare confusione e di allontanare la ricerca della
verità”. Al partito di Giorgia Meloni, replicano i parlamentari del Pd, che
ricordano come il procuratore abbia “affermato di non sentirsi di escluderè
altre piste, sulle quali sono ancora in corso indagini. Tra queste, ha
espressamente citato anche una pista nera. Alla luce di questo, appare
inquietante il comunicato del gruppo di Fratelli d’Italia, che esprime una sorta
di soddisfazione per una – arbitraria – interpretazione del ruolo delle piste
nere anche nelle stragi del 92-93, quasi con – inspiegabile – senso di
sollievo”. I 5 stelle, invece, definiscono quella di De Luca come “una
requisitoria senza contraddittorio con gli indagati e i loro avvocati, svolta in
una sede politico-parlamentare anziché nella fisiologica sede giudiziaria. De
Luca, a lungo invocato dalla maggioranza, non si è limitato a una sommaria
esposizione degli elementi su cui sta portando avanti la sua indagine seguendo
la pista mafia-appalti, ma ha esposto a lungo e senza secretazione
dell’audizione una analisi di svariati elementi processuali di dettaglio, alcuni
dei quali non sono nemmeno a conoscenza degli avvocati degli indagati, come le
dichiarazioni testimoniali del dottore Lo Forte”. Il riferimento è alle indagini
su Natoli e Pignatone. “Nella lunga audizione – continuano ancora i 5 stelle –
sono state implicitamente mosse anche accuse di aver detto il falso a magistrati
come Patronaggio, attuale procuratore generale di Cagliari, e Lo Forte. Il
primo, in commissione Antimafia, dove è stato chiamato dalla maggioranza, ha
detto che nella famosa riunione del 14 luglio 1992 si parlò della temporanea
archiviazione di un filone di mafia-appalti, quello che tra gli altri riguardava
Antonino Buscemi. Il secondo lo ha affermato sotto giuramento in pubblico
dibattimento. Oggi si è anche detto che quella archiviazione parziale di
mafia-appalti fu frutto di un mancato approfondimento della procura di Palermo
che avrebbe dovuto e potuto sollecitare il Ros affinché integrasse il suo primo
dossier che ometteva elementi importanti. Peccato che la richiesta di
approfondimento sia stata avanzata dalla Procura di Palermo con un’ampia delega
di indagine del 18 luglio 1991 e che la risposta del Ros sia arrivata solo il 5
settembre 1992, cioè dopo la Strage di via D’Amelio e dopo l’inevitabile
parziale richiesta di archiviazione formulata il 13 luglio ’92”.
L'articolo Il procuratore di Caltanissetta in Antimafia: “Inchiesta su Delle
Chiaie e le stragi? Vale zero. Indaghiamo su un’altra pista nera” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Il Gup di Firenze Fabio Gugliotta ha disposto l’arresto di Salvatore Baiardo
dopo l’udienza preliminare di oggi nel procedimento che vede indagato l’ex
gelataio di Omegna, già condannato per favoreggiamento dei boss mafiosi Giuseppe
e Filippo Graviano (da lui aiutati nella latitanza negli anni ’90) per
favoreggiamento e calunnia, anche ai danni di Massimo Giletti. Le contestazioni
sono aggravate dall’aver voluto favorire Cosa Nostra. I pm fiorentini Lorenzo
Gestri e Leopoldo De Gregorio avevano chiesto, oltre al rinvio a giudizio, anche
di sostituire gli arresti domiciliari per Baiardo con la detenzione in carcere.
La ragione sarebbe una presunta violazione cautelare. Baiardo sarebbe venuto
meno al divieto di incontro nel perimetro dell’abitazione siciliana dove stava
trascorrendo i domiciliari.
Domani mattina Baiardo quindi parteciperà come oggi all’udienza preliminare che
proseguirà davanti al Gup Gugliotta per decidere su due eccezioni preliminari
sollevate dalla difesa rappresentata dall’avvocato di Baiardo, Roberto
Ventrella. Stavolta però Baiardo non sarà a piede libero. Se il giudice
Gugliotta, all’esito delle questioni preliminari, disporrà il giudizio, si
annuncia un processo scoppiettante.
Oggi pomeriggio nell’udienza preliminare nel palazzo di giustizia di Firenze si
è costituito anche Massimo Giletti come parte civile contro Baiardo. Il gelataio
è stato infatti indagato per calunnia aggravata dall’agevolazione a Cosa Nostra
ai danni del conduttore televisivo per le sue dichiarazioni ai pm che negavano
di aver mostrato a Giletti la fantomatica fotografia che ritrarrebbe Silvio
Berlusconi, il generale Francesco Delfino e il boss Giuseppe Graviano nei primi
anni ’90. Baiardo è accusato anche di calunnia aggravata ai danni di un altro
soggetto, l’ex sindaco di un paese del Piemonte, Cesara, Giancarlo Ricca.
Massimo Giletti ha scelto come avvocato l’ex pm Antonio Ingroia. Il conduttore è
difeso anche dall’avvocato Mario Bovenzi, presente in aula oggi. Baiardo non ha
chiesto riti alternativi e dunque è probabile che, sempre se si terrà il
processo, saranno auditi come testimoni in aula vari personaggi famosi come
Antonino Di Matteo o Urbano Cairo, citati a sommarie informazioni nelle indagini
da parte dei pm.
L'articolo “Ha violato le prescrizione dei domiciliari”: arrestato Salvatore
Baiardo, il favoreggiatore dei fratelli Graviano proviene da Il Fatto
Quotidiano.
C’è il caso limite del Comune di Marano, 57 mila abitanti in provincia di
Napoli, che è stato sciolto per condizionamento mafioso ben cinque volte, di cui
tre negli ultimi nove anni. Ma sono tante le amministrazioni locali su cui la
scure della legge varata nel 1991 si è abbattuta a ripetizione. Ventidue Comuni
italiani sono stati sciolti tre volte, per esempio San Luca, paese aspromontano
considerato la culla della ‘ndrangheta, ma che fa 3300 abitanti, certo non tutti
mafiosi o complici. E sono ben 60 quelli sciolti due volte, fra i quali Casal di
Principe, Caivano, Nettuno… Numeri che suonano come un campanello d’allarme: il
commissariamento per mafia funziona davvero, se così spesso si riparte da zero?
Lo Stato può cancellare con un colpo di spugna un risultato elettorale, può
mandare a casa sindaco, giunta, e tutti i consiglieri comunali, di maggioranza e
di opposizione, collusi e no, se poi non riesce a garantire una svolta nel segno
della legalità? Proprio a San Luca, al commissariamento per mafia si è aggiunto
quello per la mancata presentazione di liste elettorali. Non si rischia di
allontanare ulteriormente i cittadini dalla politica?
Sono le domande che si pone Avviso pubblico, la rete degli enti locali contro le
mafie e la corruzione, che ha presentato a Roma oggi, martedì 2 dicembre, il
dossier Il male in Comune, ricco di dati e proposte per rendere più efficace
questa legge-bandiera del movimento antimafia. Dal 2 agosto 1991 al 30 settembre
2025 sono stati 402 gli scioglimenti di enti locali per infiltrazioni mafiose
decisi dal Consiglio dei Ministri e promulgati da decreti del Presidente della
Repubblica: in media uno al mese, per 34 anni. Tenendo conto dei citati
scioglimenti plurimi, sono stati colpiti 288 Comuni e 6 Aziende sanitarie
provinciali. Solo in 24 casi i giudici del Tar e del Consiglio di Stato hanno
annullato il provvedimento.
Altra nota dolente: ben 62 sindaci di Comuni sciolti sono tornati trionfalmente
sulla poltrona alle consultazioni successive: 31 di nuovo come sindaci, 29 come
consiglieri comunali, due come assessori. C’è poi un dato curioso. Indovinate
quali governi hanno “sciolto” di più, anche in relazione alla loro durata?
Quelli di Gentiloni e Monti, sostenuti da maggioranze trasversali. A proposito:
sull’insieme dei Comuni che hanno subito il provvedimento, il 50% era retto da
maggioranze civiche, il 28% dal centrodestra e il 22% dal centrosinistra.
Gli scioglimenti per mafia non fanno quasi più notizia, salvo qualche sussulto
quando toccano il Nord. Ma il 96% dei casi riguarda le quattro regioni d’origine
delle mafie tradizionali: Calabria, Sicilia, Campania e Puglia. E due terzi sono
concentrati in cinque sole province: Reggio Calabria, Napoli, Caserta, Palermo e
Vibo Valentia. Raramente la politica nazionale si scalda. È successo nel 2024
con Bari, quando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi insediò una
commissione d’accesso, a seguito di un’indagine antimafia, tre mesi prima del
voto amministrativo che vedeva favorito il centrosinistra (la cosa è finita in
nulla, quasi un anno dopo).
E su quello che succede al termine del commissariamento, di solito cala il
silenzio. “Nel caso dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria lo
scioglimento è stato inutile, in entrambe le occasioni, perché le commissioni
hanno solamente gestito il giornaliero, l’ordinario”, è la testimonianza di
Santo Gioffrè, medico e politico che nel 2015 è stato nominato commissario
straordinario dell’ente. “La situazione che hanno lasciato dopo i due
scioglimenti è rimasta immutata. Il rischio è che il commissariamento assomigli
a una foglia di fico, che non si risolve nessuna delle problematiche
strutturali. È un problema che si riscontra anche con alcuni Comuni”.
“Uno dei tratti ricorrenti in tutti i Decreti di scioglimento e nelle Relazioni
prefettizie analizzate sono le forme di sostegno elettorale da parte di
esponenti della criminalità organizzata“, si legge nel dossier. Qualche esempio?
Ad Aprilia (Latina) “tra i sottoscrittori delle liste figurano esponenti di
famiglie mafiose”; a Quindici (Avellino) è stato costruito “un sistema
fraudolento di false dichiarazioni di residenza per garantire il successo
elettorale”. Stando alle relazioni finali delle commissioni d’accesso, i settori
più condizionati dalle mafie sono gli appalti, la gestione del patrimonio
pubblico, l’urbanistica, il (mancato) contrasto all’abusivismo edilizio.
I motivi per “sciogliere” non mancano, ma secondo Avviso pubblico (e non solo,
vedi MillenniuM n. 95) è ora di mettere mano a una sostanziosa riforma. Del
resto, in quel lontano 1991 quella legge fu varata “di fretta perché, fu la
risposta emergenziale che il Governo dell’epoca diede alla cosiddetta ‘faida di
Taurianova‘”, scrive il sociologo Vittorio Mete. Al culmine della guerra fra due
‘ndrine rivali del paese in provincia di Reggio Calabria, una delle vittime finì
decapitata nella piazza principale. La storia fece il giro del mondo, anche
perché i giornali dell’epoca raccontarono che la testa mozzata venne lanciata in
aria e bersagliata di colpi in un macabro tiro a segno.
Quando emerse che uno dei boss ammazzati era consigliere comunale della
Democrazia cristiana, ecco la corsa ad approvare la nuova normativa. Che,
secondo Mete, “non dà gli strumenti necessari per adempiere alla promessa di
ripristinare la legalità e scacciare dal Comune i mafiosi e altri affaristi. Una
commissione straordinaria – che a dispetto del nome che porta non ha più poteri
di quelli ordinariamente assegnati al Consiglio, alla Giunta e al Sindaco – e
che resta in carica al massimo per un paio di anni, fa quel che può”. Un
“provvedimento tampone” che può avere un’efficacia immediata contro
l’infiltrazione mafiosa, “ma arranca quando si tratta di metter mano alle sue
cause”, chiarisce lo studioso. Così succede che “commissaria oggi, commissaria
domani” i cittadini si stufino e dicano in sostanza: “Governate voi che avete il
bollino dello Stato e lasciateci in pace”. Come a San Luca.
Il dossier, curato da Claudio Forleo e Marco De Pasquale dell’Osservatorio
Parlamentare di Avviso pubblico, raccoglie numerose proposte di riforma. Per
esempio, introdurre la possibilità di licenziare i dipendenti comunali “dei
quali è stata acclarata chiaramente infedeltà e coinvolgimento grave”, scrive
Antonio Reppucci, prefetto e commissario straordinario proprio del Comune di San
Luca. I comuni commissariati per mafia sono spesso in dissesto finanziario, e
per marcare davvero la differenza fra il prima e il dopo lo Stato dovrebbe
fornire “risorse umane e finanziarie” eccezionali. Terminato il
commissariamento, sarebbe poi utile un monitoraggio in collaborazione fra
prefettura, forze di polizia e i nuovi organismi politici eletti.
Altre proposte vanno da una riorganizzazione dei tempi dell’intervento, per non
lasciare un comune per tre mesi nell’incertezza se sarà sciolto o meno, a una
migliore selezione del personale prefettizio, oggi attuata con “criteri
burocratici”, scrivono i giuristi amministrativi Renato Rolli e Dario Samarro,
mentre potrebbe avvenire pescando “da un albo nazionale di commissari
specializzati”, con “competenze specifiche nel contrasto alla criminalità
organizzata”. Il dossier sottolinea infine che i documenti relativi allo
scioglimento e al lavoro dei commissari prefettizi sono riservati. Rendere
pubblici, per quanto possibile, i problemi più seri incontrati nella macchina
comunale e le soluzioni adottate rinsalderebbe il rapporto coi cittadini. Che
spesso vedono i commissari come corpi estranei.
L'articolo Comuni sciolti per mafia, una legge da riformare: “Licenziare i
dipendenti collusi, informare di più i cittadini” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Immobili e soldi in contanti per oltre 3 milioni di euro sono l’ultimo strascico
del lungo romanzo criminale di Roma. Sono stati sequestrati a un uomo di 83
anni, accusato di usura e riciclaggio, attività che avrebbe svolto sin
dall’inizio degli Anni settanta per conto di organizzazioni mafiose e della
Banda della Magliana.
L’attività investigativa chiude parzialmente l’operazione Ragnatela del 2021,
con cui la Divisione Anticrimine ha ricostruito la carriera criminale e la
posizione di due persone e le rispettive famiglie, indagando sui loro fondi
economici e patrimoniali. Il provvedimento è stato emesso dal Tribunale di Roma
ed eseguito dalla stessa Divisione dopo la sentenza della Cassazione.
L’uomo svolgeva attività di usura anche per conto di ‘ndrangheta, Camorra e di
Cosa Nostra e di un calabrese della zona dei Castelli Romani, inserito in
pericolosissimi contesti di criminalità organizzata di matrice ‘ndranghetista,
operante nel mandamento tirrenico, che face capo alla cosca Piromalli di Gioia
Tauro. L’uomo aveva investito i proventi dei reati di bancarotta fraudolenta e
delle seriali intestazioni fittizie di beni con finalità elusive o agevolative,
in complessi immobiliari.
L'articolo Confiscati a Roma 3 milioni di euro ad un anziano usuraio vicino a
mafia e banda della Magliana proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Se da un lato non mancano figure ecclesiastiche che hanno ceduto alla paura o
al compromesso, dall’altro ci sono sacerdoti che, vivendo il Vangelo fino in
fondo, hanno interferito con gli affari e le logiche di potere delle mafie,
pagando talvolta con la vita la loro fedeltà alla giustizia”. A parlare è don
Marcello Cozzi, sacerdote lucano che, impegnato da sempre nella difesa dei più
fragili e nella denuncia delle ingiustizie, ha fatto della sua missione un
cammino dentro le zone d’ombra della società. Nel suo libro Non interferite. Il
sangue dei preti sull’altare delle mafie (Edizioni San Paolo) racchiude le
storie di sacerdoti che non hanno avuto paura della criminalità organizzata,
invitando tutti a non restare indifferenti dinanzi al male che cerca di
infiltrarsi nei luoghi della fede e della vita civile.
Don Cozzi, cosa le ha fatto sentire l’urgenza di scrivere questo libro?
Innanzitutto, la necessità di ricordare che don Pino Puglisi e don Peppe Diana
non sono stati gli unici preti ad essere stati ammazzati dalle mafie, ma anche
tanti altri, dei quali non si conoscono i nomi e le storie. Quindi ci ho tenuto
a restituire dignità a tutti quei preti invisibili che lottano contro le mafie
e, in questa guerra, ci hanno rimesso la vita, non ricordati da nessuno. In tal
modo attesto che c’è sempre stata anche una Chiesa martire, simbolo di quella
foresta che cresce in silenzio a dispetto del rumore di un albero che cade.
Il rapporto tra Chiesa e mafia ha origini fortemente radicate nel passato?
È una storia antica di connivenze, ma anche di contrasti. Affonda le sue radici
nell’antichità stessa del fenomeno mafioso, non solo per la necessità che da
sempre le organizzazioni criminali hanno avuto di accreditarsi anche
culturalmente e religiosamente presso la Chiesa, ma anche per il controllo che
hanno voluto esercitare su di essa, come su ogni altra dimensione della società.
Questi sacerdoti che, sin dall’Ottocento, hanno combattuto contro ogni forma di
mafia – e a causa del loro impegno e del loro rifiuto di ogni compromesso sono
stati ammazzati – hanno rappresentato una sorta di guida per il suo cammino
sacerdotale?
Indubbiamente le storie di don Puglisi e don Diana, nel mio percorso
ecclesiastico, hanno rappresentato un importante punto di riferimento. Però,
quando ho iniziato ad approfondire le storie di questi preti che, già secoli
prima, lottavano contro la prepotenza criminale e mafiosa per difendere poveri e
oppressi di vario tipo, è come se fossi stato travolto da una montagna di
testimonianze sacerdotali che, indubbiamente, mi hanno arricchito non solo per
il loro impegno, ma anche per la loro profonda spiritualità.
Ha deciso di ripercorrere le loro battaglie per celebrarli giustamente, ma anche
per ricordare alle nuove generazioni qual è la strada della giustizia da
intraprendere, per mostrare vite da emulare?
Indubbiamente sì, urge diffondere la cultura della legalità e della solidarietà
tra i giovani. Ma non nascondo che mi piacerebbe far conoscere queste storie
anche all’interno del mondo ecclesiale, per dimostrare che non esistono preti
antimafia. Sono preti e basta, come diceva don Puglisi, che hanno semplicemente
vissuto e annunciato il Vangelo della liberazione dall’oppressione mafiosa, e
per questa interferenza sono stati ammazzati.
Nel suo piccolo sente di aver raccolto il loro testimone?
Non spetta a me dirlo, però finora ho vissuto il Vangelo come impegno al fianco
delle persone svantaggiate, quindi sento di far parte della stessa grande storia
che mira ad annunciare la liberazione. Qui in Basilicata la presenza mafiosa non
si percepisce nel modo più convenzionale, quindi è più complesso l’impegno per
l’affermazione della giustizia.
Qual è stato l’avvenimento che ha avviato questo suo impegno?
In particolar modo, l’incontro, nel 1991, con una ragazza che si faceva di
eroina. Un giorno, raccontandosi, mi mise per iscritto l’organigramma di chi le
procurava la droga, le piazze di spaccio, i nomi di chi stava all’apice. In quel
momento ho capito che non potevo approcciarmi al problema della
tossicodipendenza solo dal punto di vista del disagio sociale, dovevo mettere
mano a quella macchina nascosta che speculava sulla fragilità di tanti giovani.
La droga era ed è un business di mafia, non potevo voltarmi dall’altra parte.
In quello stesso anno, quando era prete da meno di un anno, incontrò anche una
vittima di usura.
Sono certo che il Padreterno, attraverso certi incontri, ci indichi la rotta. Ai
tempi non sapevo niente di usura, ma percepii subito che quella persona non era
libera, viveva oppressa dai debiti e strangolata da chi approfittava della sua
condizione di fragilità. Sentii che quella persona mi apparteneva e con lei
tutti quelli che vivevano quella schiavitù.
Per tale motivo, anni dopo, ha fondato la Fondazione antiusura “Interesse uomo”?
In seguito a quell’incontro e ad altre storie simili, in collaborazione con la
Provincia di Potenza, nel 2002, costituii questa fondazione che, attraverso
sportelli attivi in tutta Italia, aiuta economicamente coloro che non hanno più
accesso al credito ordinario – soprattutto imprenditori e commercianti –
evitando che finiscano nella morsa degli usurai.
Volge lo sguardo anche all’educazione alla legalità, infatti ha fondato e guida
l’Istituto di ricerca e formazione interdisciplinare sulle mafie. Qual è il suo
obiettivo?
L’Irfi è nato due anni fa, con la benedizione del cardinale Mimmo Battaglia, con
l’intento di aiutare le nostre Chiese, particolarmente nel Sud Italia, ad
affrontare i fenomeni mafiosi. Non si tratta solo di avviare ricerche sul
rapporto tra Vangelo e religiosità mafiosa, ma creiamo anche strategie pastorali
affinché, in certi contesti particolarmente aggrediti dalla presenza mafiosa, le
comunità parrocchiali e gli stessi preti possano essere sostenuti.
È impegnato anche nell’accompagnamento spirituale dei collaboratori di
giustizia. Com’è iniziato questo percorso?
Nel 2000, ricevetti una telefonata dalla compagna di un collaboratore di
giustizia che voleva parlarmi, da lì è partito questo mio delicato impegno. In
questi anni avrò incontrato più di un centinaio di collaboratori di giustizia,
tutte storie diverse, segnate da violenza e morte. Per me è importante che
questi accompagnamenti siano un incontro tra umanità, non per mettere la
bandierina della redenzione a un peccatore incallito che mi chiama per essere
confessato. Ho imparato ad ascoltare e a non fermarmi alla superficie, con la
consapevolezza di avere davanti una persona che, nel ridurre a brandelli
l’umanità di altri, ha distrutto anche la propria. Sono sempre più convinto che,
per rendere efficace la lotta alla mafia, bisogna scendere in quell’inferno,
parlare con il suo ventre molle, incontrare queste persone normali che hanno
commesso azioni mostruose, senza mai smettere di chiedersi il motivo. Proprio
come feci con uno dei più noti pentiti, Giovanni Brusca.
Secondo la sua esperienza, cosa servirebbe per annientare l’”interferenza” tra
Chiesa e mafia e far prevalere la giustizia?
Una volta a un collaboratore di giustizia calabrese chiesi cosa, secondo lui,
avrebbe potuto fare la Chiesa per contrastare le mafie. Mi rispose che dobbiamo
parlarne di più, dobbiamo denunciare maggiormente, in quanto loro spesso hanno
approfittato dei nostri silenzi e a volte li hanno percepiti come consensi.
Dobbiamo uscire da certe ambiguità, andando nelle periferie. Credo che, oggi più
di prima, la Chiesa sia chiamata a stare qui, dove, come diceva Papa Francesco,
c’è cecità che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni.
L'articolo “Un pentito mi disse: la più grande arma contro la mafia? Parlatene
di più”: la Chiesa che si batte contro la criminalità nel libro di don Marcello
Cozzi proviene da Il Fatto Quotidiano.
A Bologna va in onda la seconda giornata del convegno sul Diritto alla Verità,
organizzato dal movimento delle Agende Rosse di Salvatore Borsellino. “Il
diritto alla verità deve essere affermato a livello normativo”, ha detto il
fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio al Fatto Quotidiano. Dopo la
prima giornata segnata dagli interventi di Roberto Scarpinato, di Gaetano
Azzariti e della vicedirettrice del Fatto Quotidiano Maddalena Oliva (si possono
rivedere qui), all’interno della Sala Borsa si confronteranno avvocati come
Fabio Anselmo, magistrati come Luca Tescaroli, storici come Angelo Ventrone.
Alla fine della giornata, l’intervento dei familiari delle vittime della mafia e
terrorismo e dell’avvocato Fabio Repici. Il convegno gode del patrocinio del
comune di Bologna. Trasmettiamo in diretta la seconda giornata dell’evento.
DOMENICA 30 NOVEMBRE 2025
ore 9.30 – Avvocati – Coordinatore Fabio Repici (Avvocato):
* Fabio Anselmo – Avvocato;
* Giancarlo Maniga – Avvocato;
* Ettore Zanoni – Avvocato.
ore 11.30 – Magistrati – Coordinatrice Elena Marchili (Magistrato Ordinario in
Tirocinio):
* Roberto Giovanni Conti – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Giuseppe Gennari – Giudice presso il Tribunale di Milano;
* Raffaello Magi – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Luca Tescaroli – Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato.
ore 13.30 – pausa pranzo
ore 15.30 – Storici – Coordinatrice Antonella Beccaria (Giornalista e Storica):
* Davide Conti – Storico e consulente della procura di Bologna e di Brescia;
* Antonella Salomoni – Professoressa ordinaria di Storia della Shoah e dei
genocidi presso l’Università di Bologna;
* Angelo Ventrone – Professore ordinario di Storia contemporanea presso
l’Università di Macerata;
* Cinzia Venturoli – Professoressa a contratto di Storia contemporanea presso
l’Università di Bologna.
ore 17.30: intervento di Daniela Marcone – Vicepresidente di Libera
ore 17.40 – Familiari delle vittime – Coordinatore Nino Morana (nipote di Nino
Agostino):
* Sergio Amato – Figlio del Magistrato Mario Amato;
* Salvatore Borsellino – Fratello del Giudice Paolo Borsellino e Fondatore del
Movimento Agende Rosse;
* Daniele Gabbrielli – Vice-presidente dell’Associazione tra i familiari delle
vittime della strage di via dei Georgofili;
* Sonia Zanotti – Sopravvissuta alla strage di Bologna.
Fabio Repici – Proposte conclusive e progetto normativo all’esito del confronto
e delle idee raccolte
Salvatore Borsellino – Conclusioni del convegno e messaggio alla società e alle
istituzioni
L'articolo Diritto alla verità, la diretta tv del convegno delle Agende rosse di
Borsellino con Anselmo, Tescaroli e Repici proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cinque colpi in faccia sparati da trenta centimetri di distanza: così moriva il
23 febbraio 2000 Nicola Vivaldo, trafficante di droga, secondo i magistrati,
vicino alla cosca Gallace di Guardavalle e alla locale di ‘ndrangheta di Rho in
provincia di Milano. Venticinque anni dopo il pm della Dda lombarda Alessandra
Cerreti e il Nucleo investigativo dei carabinieri di via Moscova agli ordini del
colonnello Antonio Coppola, hanno chiuso il caso sull’esecuzione mafiosa
avvenuta a Mazzo di Rho in via Balzarotti con sei arresti eclatanti e un movente
chiaro: Vivaldo, pur vicino alla ‘ndrangheta, era accusato dai boss di essere un
confidente dei carabinieri, tanto da aver fatto arrestare, secondo la
ricostruzione della Procura, il latitante Francesco Aloi, genero di Vincenzo
Gallace. La misura cautelare firmata dal gip Tommaso Perna che in una prima
versione del luglio scorso l’aveva rigettata, riguarda il capo della potente
cosca di Guardavalle Vincenzo Gallace e con lui il fratello Bruno, accusato di
aver fornito le pistole per l’omicidio. Misura, quella per Vincenzo, consegnata
in carcere al 41 bis, come al carcere duro sta il secondo destinatario: Vincenzo
Rispoli, boss della locale di Lonate Pozzolo, già coinvolto nell’inchiesta
Infinito. Esecutore materiale, secondo la Procura, è Massimo Rosi, oggi imputato
nel processo Hydra sul nuovo sistema mafioso lombardo, ed erede di Rispoli
(anche lui imputato) nella gestione della locale. Carcere per omicidio aggravato
dall’aver favorito la mafia, anche per Stefano Sanfilippo, già capo della locale
di Rho, grande amico di Vivaldo nonché padrino di battesimo del figlio che
informò il commando mafioso degli spostamenti della vittima. Commando di cui
faceva parte Stefano S. e soprattutto Emanuele De Castro, già viceré della
‘ndrangheta nel Varesotto, braccio destro di Rispoli e poi collaboratore di
giustizia. Sono infatti le sue parole che danno benzina all’inchiesta, i cui
atti da ieri sono stati depositati nel maxi-processo sul consorzio mafioso tra
Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra romana. Metterà a verbale De Castro nel 2019:
“Ho saputo che le dritte gliele aveva date Stefano Sanfilippo. Riguardo al
movente, mi fu detto che questo qua era un confidente. E tra l’altro l’omicidio
partiva da Guardavalle, dai Gallace. Che Vivaldo fosse un confidente lo appresi
da Rispoli”. Della volontà dei Gallace di uccidere Vivaldo, spiegherà il
collaboratore, era stato informato anche Carmelo Novella, all’epoca capo del
mandamento lombardo e fautore di un’autonomia importante dalla Calabria. Una
scelta scissionista che otto anni dopo, nel 2008, gli costò la vita, su mandato
anche dello stesso Vincenzo Gallace e per mano del poi pentito Antonino Belnome.
“Con Nunzio Novella – dice De Castro – ci arrivò questa ambasciata. Nunzio lo
disse a Massimo Rosi”. L’omicidio dunque è deciso. De Castro recupera le armi,
due calibro 765 silenziate e una 38, procurate da Bruno Gallace e ritirate
sull’autostrada Milano-Como. Rispoli, che per il pm condivide il pensiero dei
Gallace, si occupa di procurare il gruppo di fuoco. Si sceglie Massimo Rosi,
all’epoca portaborse del boss: “Rispoli – prosegue De Castro – mi disse se
volevo partecipare a questa cosa, perché lui non si fidava tanto di Massimo
Rosi, mi disse: ‘Fammi la cortesia, vai pure tu e partecipa pure tu a sta cosa’.
Perciò vado. Prima di andare di ‘sta cosa ne parlammo anche con Nunzio, con
Carmelo Novella, un giorno mi sembra a casa, ne abbiamo parlato e Carmelo ci
confermò ‘sta cosa che era un confidente, dicevano che era un confidente e che
doveva essere ucciso”.
Nel 1997 Francesco Aloi sarà arrestato latitante a Milano. In quel periodo
frequentava il bar Snoopy di Rho riferibile a Nicola Vivaldo. E dunque, annotano
i carabinieri, “emerge chiaramente che l’arresto derivava da una notizia appresa
da fonte confidenziale”. Nel primo fascicolo sull’omicidio è stato poi
recuperato un appunto di un investigatore che riporta le dichiarazione di un
confidente. Si legge: “E’ successo tutto questo perché Nicola si stava
comportando male … ha fatto arrestare troppe persone”. Non solo, durante il
matrimonio del figlio di Stefano Sanfilippo, quest’ultimo “non guardò né rivolse
lo sguardo a Nicola; anzi i due si scambiarono sguardi di provocazione”.
Così la sera del 23 febbraio 2000, il commando si apposta vicino a casa di
Vivaldo. Su una Golf attendono De Castro, Rosi e Stefano S. “Vedemmo scendere
una persona – dice De Castro – , quando andò via questa persona raggiungemmo
l’auto e, giunti vicino alla portiera, fu Massimo Rosi che sparò due o tre colpi
mentre lui era ancora seduto. Io aprii la porta e basta. Massimo Rosi subito
dopo scappò in macchina, mentre io mi assicurai che fosse morto. Eravamo
entrambi armati. Avevamo due 7.65”. Rosi sparò “da 50 centimetri, mi ricordo io
ho aperto lo sportello, mi ha spostato Rosi con la mano e subito ha sparato.
Parrebbe a bruciapelo, ha messo la mano quasi a bruciapelo perché si è messo
vicino erano attaccati, 50/30 centimetri”. Cinque colpi, quattro a segno e al
volto. Oggi Massimo Rosi si trova in carcere per l’inchiesta Hydra. Per lui la
Procura ha chiesto 20 anni di pena.
In galera si trovava anche nel 2019, quando la notizia del pentimento di De
Castro viene pubblicata sui giornali locali. Intercettato a colloquio dirà: “Se
questo parla, mi fa fare il segno della croce. Se parla questo ci vuole la…”. E
ancora: “Dice un sacco di … poi c’è quello, già arrestano normalmente, adesso li
portano via tutti quanti. Il resto posso immaginarlo che mi ricordo una cosa
(…). Cose che abbiamo fatto una vita insieme (…). Guarda sto bastardio qua”.
Sempre in carcere chiede ai parenti di trovargli un lavoro temporaneo solo per
uscire: “Digli che è una cosa provvisoria mi serve solo per farmi uscire di qui,
poi io me ne vado! Non è che sto là, certo! Tanto me ne sbatto le scatole non è
che ci penso tanto!”. Qualche anno dopo, quando Rosi torna libero e finisce
indagato nel procedimento sul Consorzio mafioso con ruolo di vertice e
rappresentante degli interessi della ‘ndrangheta di Lonate Pozzolo, fa capire di
volersi dare latitante: “Mia moglie mi fa, stamattina alle sei e mezza, quando
ci siamo alzati, mi fa ‘ma lo sai cosa hai detto nel sonno?’. Che cosa ho detto?
Le ho detto: ‘qualche film’. Mi fa ‘no, che stavi parlando col bastardo di
Emanuele De Castro, adesso dobbiamo raccogliere un po’ di soldi perchè me ne
devo andare’, così parlavo. Io adesso vedo com’è il processo, finché non siamo
persi me ne vado”. Dunque, cerchio chiuso per la Procura. Dopo l’omicidio chi
piange Nicola Vivaldo? Solo la famiglia, perché amici e compari non si fanno più
sentire. Dirà la moglie: “Dopo la morte di mio marito, nessuno degli amici di
Guardavalle di Nicola si è fatto vivo con me e nessuno è venuto al funerale”.
***
Nella foto in alto | A sinistra la capa della Dda di Milano Alessandra Dolci
L'articolo Cold case di ‘ndrangheta, cinque spari per il narcos a Rho: 6 arresti
dopo 25 anni. Nell’inchiesta anche i vertici del Consorzio mafioso in Lombardia
proviene da Il Fatto Quotidiano.