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Il musical cult “The Book of Mormon” sbarca a Milano: due giovani missionari mormoni in Uganda entrano in contatto con la povertà e la loro fede vacilla
Nel mondo è un musical di grande successo e riempie i cartelloni dei teatri. Così “The Book of Mormon” arriva in Italia con la prima assoluta dello spettacolo si terrà al TAM Teatro Arcimboldi Milano dal 10 al 21 dicembre. È una delle opere più irriverenti, intelligenti e provocatorie del teatro contemporaneo. “The Book of Mormon” nasce dall’incontro di Trey Parker e Matt Stone, autori della serie televisiva “South Park” con Robert Lopez, autore dei brani dei film Disney “Frozen” e “Coco”. Dopo il debutto nel 2011 all’Eugene O’Neill Theatre di New York, dove ha vinto nove Tony Awards, incluso Miglior Musical, il musical ha sbancato i botteghini dei teatri, raggiungendo il record storico di incassi a New York, Londra, Melbourne, Sydney e in molte città degli Stati Uniti. La produzione londinese, che ha debuttato nel febbraio 2013 al Prince of Wales Theatre, dove ha stabilito il record per il maggior numero di biglietti venduti in un singolo giorno nella storia del West End, per poi vincere quattro Olivier Awards, incluso Miglior Nuovo Musical. Il musical racconta la storia di due giovani missionari mormoni, Elder Price ed Elder Cunningham, inviati in Uganda per convertire gli abitanti del villaggio al mormonismo. Ma, la realtà che incontrano, segnata da povertà, guerra, malattie e disperazione, mette alla prova le loro convinzioni religiose e li costringe a confrontarsi con la distanza tra la dottrina idealizzata e la vita reale. Il musical ha sbancato i botteghini dei teatri, raggiungendo il record storico di incassi a New York, Londra, Melbourne, Sydney e in molte città degli Stati Uniti. L'articolo Il musical cult “The Book of Mormon” sbarca a Milano: due giovani missionari mormoni in Uganda entrano in contatto con la povertà e la loro fede vacilla proviene da Il Fatto Quotidiano.
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The Rocky Horror Show al Brancaccio, cinquant’anni dopo diverte e scandalizza ancora
Per il cinquantesimo anniversario dell’avvento sconvolgente di The Rocky Horror Picture Show sul grande schermo, una nuova (benché sostanzialmente fedele) versione dello spettacolo originale, da cui il film fu tratto, è giunta nei teatri italiani. Il film, firmato da Jim Sharman, basato ovviamente sull’opera originale di Richard O’Brien, si è imposto in mezzo secolo di culto come un monumento all’oltraggio, un’ode alla diversità, al vizio, all’eccesso, alla trasgressione. Una coppia di giovani sposini, goffi e ingenui si perde “in una notte buia e tempestosa” e trova rifugio in un inquietante castello à la Dracula, accolti da un inquietante maggiordomo deforme. Sarà l’ingresso in una soglia iniziatica infernale: si ritroveranno coinvolti in un rituale orgiastico, in cui un fascinoso vampiro transessuale alieno (Frank N Furter, interpretato storicamente dall’indimenticabile Tim Curry) sta per mettere al mondo una sorta di toy boy versione Frankenstein per il suo folle piacere. O’Brien ha orchestrato una sinfonia di omaggi, parodistici quanto appassionati, a tutti gli stereotipi della (in)gloriosa tradizione dei B-Movie: vampiri e alieni, nani, statue romane, motociclisti violenti, cannibalismo, deflorazioni, scienziati nazisti, complotti della CIA, suggestioni orientali, voyeurismo, UFO, armi laser, King Kong e dive del cinema muto. L’apoteosi del gusto camp, del kitsch, del glam. Tutto ciò che il giovane O’Brien poteva vedere ammirato nei cinema a orari improbabili con la popolare formula double feature (due al prezzo di uno), celebrata nella famosissima sigla iniziale del film. Rocky Horror è la summa delle subculture del dopoguerra: dal rockabilly al nascente punk, dall’evocativo fascino del burlesque al gusto orrorifico dello splatter, dal gusto vintage al ruggente mod, fino alle suggestioni hippie-orientali che arredano l’atmosfera, e a un irresistibile amore per l’estetica trash. Tutto funziona perché come collante stilistico di questi stili contrastanti c’è l’eleganza eccessiva del gusto glam, nella sua forma più pura: lo spettacolo debutta nel 1973 al teatro londinese di Royal Court a Sloane Square, lo stesso anno in cui sul palco dell’Hammersmith Odeon, a venti minuti di distanza, David Bowie “ucciderà”, all’apice del successo, il proprio doppelgänger Ziggy Stardust. Questo spiega perché, dopo il fiasco al botteghino iniziale, dopo cinquant’anni i teatri sono pieni, in tutto il mondo, di persone che sanno tutto lo spettacolo a memoria nell’originale inglese. Molto positiva la prima romana al Teatro Brancaccio del 26 novembre, a cui ho assistito nel doppio ruolo di critico e fan: da una parte la comunità di aficionados che, come il sottoscritto, interveniva rispondendo agli attori (come nella tradizione da avanspettacolo, i botta e risposta con il pubblico sono ormai divenuti parte integrante della sceneggiatura), portandosi da casa il kit da fan con gli oggetti di scena per interagire durante lo spettacolo (un giornale da mettere in testa durante la scena della pioggia, torce e carte da gioco per accompagnare canzoni a tema, coriandoli e cotillon per il momento del matrimonio etc.); dall’altra le signore abbonate al teatro, tra il divertito e lo scandalizzato, che non comprendevano cosa stesse succedendo, anche perché lo spettacolo era interamente in inglese. Mi sono divertito durante la pausa tra i due atti a fare da traduttore ed esegeta per i novizi, spiegando genesi e senso delle bizzarre interazioni di metà del pubblico. Rientro brevemente nei panni del critico: la versione portata in scena da Christopher Luscombe è molto buona (non travolgente come quella di Sam Buntrock che vidi esattamente dieci anni fa), supportata anche dalla prova orchestrale della band, che ha riproposto fedelmente gli arrangiamenti originali, con qualche minima variazione tra reggae e funky; molto convincente Stephen Webb nei panni del protagonista, nel canto forse più simile a Robbie Williams che all’originale sintesi di Bowie e Jagger trovata da Curry; convincenti Haley Flaherty nel ruolo di Janet (che segnò l’esordio sulle scene di Susan Sarandon) e James Bisp come Brad. Del resto del cast segnaliamo la sensualità di Laura Bird come Magenta, la difficile sfida di Daisy Steere come Columbia, Edward Bullingham bravo nel doppio ruolo di Rocky e Dr.Scott (“Wooh!”), Ryan Carter-Wilson abile nel canto anche senza il, peculiare, physique du rôle di Riff Raff. Andate al Brancaccio fino a domenica 30 novembre se volete ballare “the Time Warp again!”. L'articolo The Rocky Horror Show al Brancaccio, cinquant’anni dopo diverte e scandalizza ancora proviene da Il Fatto Quotidiano.
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