Doveva essere una svolta storica: per la prima volta un grande paese africano
alla guida del G20, con l’obiettivo di mettere al centro le priorità del
continente e del Sud globale. Invece, la presidenza sudafricana si è trasformata
in un test durissimo sull’ordine multilaterale, messo a dura prova dal
boicottaggio americano e culminato con l’annuncio che Pretoria, secondo la
richiesta americana, non sarà invitata al G20 del 2026 a Miami.
Fin da subito, l’agenda sudafricana incentrata su “solidarietà, uguaglianza,
sostenibilità” è stata etichettata dalla Casa Bianca come “anti-americana”,
troppo concentrata su inclusione e clima. Il boicottaggio del vertice di
Johannesburg è stato giustificato rilanciando la falsa narrativa, priva di basi
solide, di un presunto “genocidio dei bianchi” e di una sistematica
discriminazione contro gli agricoltori afrikaner, spostando lo scontro su un
piano puramente simbolico.
Nel frattempo, dazi al 30% sulle esportazioni sudafricane, tra i più alti
imposti all’Africa, e canali di cooperazione congelati. Il messaggio è chiaro:
chi osa sfidare Washington paga il prezzo, anche solo provando a riequilibrare
l’agenda globale. Parallelamente, l’episodio sudafricano accelera lo spostamento
verso format alternativi – dai Brics ad altre piattaforme sud-sud – dove i paesi
del Sud globale percepiscono minore rischio di umiliazione e maggiore margine di
influenza.
Ma Pretoria non ha solo incassato i colpi. Di fronte al rifiuto americano di
partecipare e alla richiesta di bloccare qualsiasi dichiarazione congiunta, il
governo sudafricano ha scelto di andare avanti, con il sostegno di Cina, paesi
del Sud globale e diversi partner europei. Essere riusciti comunque ad approvare
una dichiarazione sul debito e due testi ambientali rappresenta sul piano
politico un segnale: un paese africano alla guida del G20 può imporre un’agenda
propria e costruire coalizioni, anche in contesto ostile. Ed è proprio questo
che l’amministrazione Trump vuole punire. Pretoria resta formalmente membro, ma
viene messa in “quarantena diplomatica”, esclusa dagli spazi decisionali del
foro. Una sanzione politica unilaterale mascherata da decisione multilaterale.
Questo braccio di ferro crea un precedente pericoloso. Se il paese ospitante può
usare il ruolo di “padrone di casa” per escludere un membro sgradito, domani la
stessa logica può essere usata contro qualsiasi governo non allineato. Il
rischio è che il G20, nato per gestire crisi globali attraverso il dialogo, si
trasformi in un club condizionato dall’umore politico della Casa Bianca.
Per chi guarda all’Africa come soggetto politico e non come oggetto di decisioni
altrui, la domanda è netta: che senso ha parlare di “ordine multilaterale” se un
membro del foro può essere messo al bando per aver rappresentato le istanze del
proprio continente? La risposta oggi passa da Johannesburg. Ma riguarda tutte le
capitali del Sud globale che, guardando a Miami 2026, si chiedono se sedersi al
tavolo significhi davvero partecipare, o solo accettare le regole scritte da
cowboy americani.
L'articolo G20 Johannesburg, il Sudafrica non sarà invitato a Miami 2026: chi
osa sfidare Washington paga il prezzo proviene da Il Fatto Quotidiano.