di Antonietta Troisi (fonte: lavoce.info)
Il parere della Corte internazionale di giustizia e la pronuncia della
Cassazione segnano un cambio di passo sulla responsabilità giuridica in materia
di clima. Per la prima volta, è possibile promuovere azioni civili fondate su
obblighi internazionali
Un quadro giuridico che cambia
Due decisioni di rilievo, arrivate quest’estate a distanza di pochi giorni l’una
dall’altra, rilanciano il tema della responsabilità per i cambiamenti climatici,
delineando i contorni di un quadro giuridico in evoluzione. Si tratta della
pronunzia della Corte di Cassazione e del parere della Corte internazionale di
giustizia (Cig).
Il 21 luglio 2025, le Sezioni unite della Suprema Corte hanno reso l’ordinanza
n. 20381/2025, nel procedimento intentato da Greenpeace, ReCommon e un gruppo di
cittadini contro Eni spa, il ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa
depositi e prestiti. Due giorni più tardi, la Corte dell’Aja ha pubblicato il
parere consultivo richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite,
chiarendo la portata degli obblighi internazionali degli stati in materia
climatica.
Eni e governance climatica sotto accusa
Nel caso che vede coinvolta l’Eni, gli attori hanno agito dinanzi al Tribunale
di Roma, contestando il disallineamento del piano di decarbonizzazione della
società rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi e ai rapporti dell’Ipcc.
Hanno inoltre chiamato in causa Mef e Cdp, in qualità di azionisti di
riferimento, per l’omesso esercizio dei poteri societari che avrebbero potuto
orientare la strategia climatica del gruppo.
La richiesta al Tribunale di Roma comprendeva l’accertamento della
responsabilità extracontrattuale ex artt. 2043 ss. cc, la condanna ad adottare
misure per allineare le strategie aziendali agli obiettivi di contenimento del
riscaldamento globale entro 1,5°C, nonché il risarcimento dei danni, anche in
forma specifica ai sensi art. 2058 cc. Di fronte alle eccezioni dei convenuti,
che hanno sollevato il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario,
è stato richiesto il regolamento preventivo alla Corte di Cassazione.
La decisione della Suprema Corte era particolarmente attesa, anche alla luce
della controversa pronuncia del Tribunale di Roma nel caso “Giudizio
Universale”. In quel precedente – promosso contro la presidenza del Consiglio
dei ministri per inadempienza agli obblighi derivanti dall’Accordo di Parigi –
il giudice di primo grado aveva pronunciato una declinatoria, rilevando il
difetto assoluto di giurisdizione e affermando che l’attuazione degli impegni
internazionali in materia climatica rientrasse nella sfera di insindacabile
discrezionalità politica. Una scelta interpretativa che, oltre a sollevare
perplessità sotto il profilo della compatibilità con la Cedu (Convenzione
europea dei diritti dell’uomo) e la Convenzione di Aarhus, è apparsa
disallineata rispetto a orientamenti giurisprudenziali maturati Oltralpe e
Oltreoceano, dove si è progressivamente affermata la giustiziabilità degli
obblighi climatici.
Per scongiurare analogo epilogo, i promotori della Giusta Causa hanno attivato
un regolamento preventivo di giurisdizione dinanzi alla Suprema Corte.
Con l’ordinanza n. 20381/2025, la Cassazione ha riconosciuto, per la prima
volta, che il giudice ordinario può conoscere di azioni risarcitorie fondate su
obblighi climatici internazionali, legittimando così l’accesso alla giustizia
civile in tema di climate change litigation. Come chiarito dalle Sezioni unite,
“il compito affidato al giudice consiste pertanto soltanto nel verificare se le
fonti internazionali e costituzionali invocate risultino idonee ad imporre un
dovere d’intervento direttamente a carico dei convenuti, tale da fondare una
responsabilità extracontrattuale degli stessi, e quindi da giustificarne la
condanna al risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ”.
In questa prospettiva, si esclude che l’azione intentata comporti un’ingerenza
indebita nella sfera di competenza del legislatore o dell’esecutivo. È stato
infatti evidenziato che, sebbene la questione climatica rientri anche tra le
materie di competenza degli altri poteri dello stato, può essere sottoposta al
sindacato giurisdizionale nella misura in cui incide su diritti fondamentali,
quali quelli tutelati dagli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost., dagli artt. 2 e 8 della
Cedu e dagli artt. 2 e 7 della Cdfue (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea), ritenuti dalla Corte astrattamente idonei a imporre obblighi di
condotta direttamente in capo ai convenuti.
Il parere della Cig: obblighi climatici come doveri giuridici
Con il parere del 23 luglio 2025, la Corte internazionale di giustizia ha
offerto una lettura sistematica e autorevole degli obblighi giuridici incombenti
sugli stati in materia di cambiamento climatico. Sebbene privo di effetti
formalmente vincolanti, il parere riveste un’importanza interpretativa di primo
piano, rafforzando la cornice giuridica entro cui valutare l’azione (o inerzia)
statale rispetto alla crisi climatica.
La Corte ha affermato che gli stati sono tenuti, in virtù del diritto
consuetudinario e convenzionale, ad adottare misure positive volte a prevenire
danni ambientali significativi, a cooperare tra loro e ad agire con la dovuta
diligenza. La violazione di tali obblighi, anche attraverso condotte omissive,
può configurare un illecito internazionale, dando luogo a obblighi di
cessazione, riparazione e garanzie di non ripetizione.
Un punto nodale del parere risiede nel superamento della visione compartimentata
della disciplina giuridica in materia di cambiamento climatico: la Corte ha
chiarito che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite (Unfccc), l’Accordo di
Parigi e i relativi strumenti attuativi non costituiscono una lex specialis
isolata, bensì vanno letti e applicati alla luce dei principi generali del
diritto internazionale. Tra questi, il principio di non arrecare danni
significativi all’ambiente (“Do No Significant Harm” il cosiddetto Dnsh), la
responsabilità comune ma differenziata, l’equità intergenerazionale, il
principio precauzionale e lo sviluppo sostenibile.
Tale impostazione rafforza la cogenza del quadro normativo e ne amplia la
portata anche nei confronti degli stati che non abbiano ratificato specifici
trattati, laddove siano vincolati da obblighi consuetudinari o erga omnes.
La Corte ha inoltre sottolineato la stretta connessione tra obblighi climatici e
tutela dei diritti umani: il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile
costituisce condizione abilitante per l’effettivo godimento di diritti
fondamentali quali la vita, la salute, l’abitazione e un’esistenza dignitosa.
La sfida dell’effettività
La valorizzazione dei principi di leale cooperazione tra stati, precauzione e
sostenibilità come criteri interpretativi consente di conferire contenuto
giuridico a obblighi climatici finora percepiti come generici o carenti di
cogenza. Resta tuttavia irrisolta la questione della loro effettività
applicativa: il riconoscimento formale, pur significativo, non garantisce un
automatico accesso alla giustizia, né assicura che gli obblighi siano
agevolmente invocabili in giudizio.
Il parere della Cig contribuisce al consolidamento della regolazione climatica,
offrendo una piattaforma argomentativa utile anche in sede giudiziaria.
Tuttavia, la giustizia climatica continua a scontrarsi con ostacoli strutturali:
difficoltà probatorie, incertezza normativa, strumenti processuali inadeguati.
La sfida dell’effettività resta dunque affidata alla capacità degli ordinamenti
interni di accogliere azioni complesse, fondate su diritti collettivi e
intergenerazionali.
Responsabilità extracontrattuale e danno climatico: nodi aperti
Entrambe le pronunce evidenziano un mutamento nella configurabilità della
responsabilità giuridica in materia climatica. Il danno antropogenico globale,
collettivo e intergenerazionale, sfugge ai tradizionali schemi della
responsabilità extracontrattuale, centrati su nesso causale diretto e danno
individuale. Ne derivano incertezze sulla legittimazione, sull’accertamento del
danno e sull’individuazione dei soggetti responsabili.
Il caso Eni, al pari di altre simili iniziative, sollecita un adattamento del
sistema civilistico alle sfide poste da obblighi climatici di matrice
sovranazionale. La complessità delle catene decisionali, specie in presenza di
gruppi multinazionali o partecipazioni pubbliche, solleva interrogativi
rilevanti su responsabilità da omissione o agevolazione.
La coincidenza temporale tra il parere della Corte internazionale di giustizia e
la pronuncia della Cassazione, per quanto fortuita, segna un cambio di passo.
Per la prima volta in Italia è ora possibile promuovere azioni civili fondate su
obblighi internazionali in materia climatica. Il 2025 si candida, in questo
senso, a rappresentare l’inizio effettivo del contenzioso climatico nel nostro
ordinamento.
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giustizia climatica in Italia proviene da Il Fatto Quotidiano.