di Antonello Pasini*
Recentemente, Federico Rampini, noto giornalista e opinionista molto ascoltato
in tv, sui giornali e sui social, ha pubblicato sulle pagine web del Corriere
della Sera un suo video dal titolo emblematico: “L’Apocalisse climatica che era
un falso”. Vi si parla di un articolo scientifico sui danni economici dei
cambiamenti climatici che si prospettano per il futuro a livello mondiale,
pubblicato un anno e mezzo fa sulla prestigiosa rivista scientifica
internazionale Nature e recentemente ritirato.
In poche parole, Rampini sostiene che era “pieno zeppo di dati falsi,
manipolati, truccati, in modo da ingigantire, appunto, i danni economici del
cambiamento climatico” e vuole proporre quella che chiama “una riflessione
adeguata sul perché sia stato possibile”, sostenendo che gli scienziati del
clima sono diventati “sacerdoti di una religione” che “sacrificano la verità”
per “rieducare un’umanità peccaminosa”. Infine, si inoltra in disquisizioni
psicologiche sul perché ciò sia stato possibile.
Ebbene, prima di tutto non si tratta di una frode, né di aver presentato dati
falsi, manipolati, truccati. Se si vanno a vedere su Nature le motivazioni per
il ritiro dell’articolo, si capisce subito che, dopo la pubblicazione
dell’articolo stesso, alcuni membri della comunità scientifica hanno fatto
notare agli autori che i dati relativi ad un singolo paese, l’Uzbekistan,
apparivano poco affidabili e non corretti nel periodo 1995-1999. Questo ha
indotto gli autori sia a rimuovere questo paese dall’analisi, sia a correggerne
i dati e vederne le influenze sui risultati. Ebbene, questi risultati cambiano,
ma di molto poco, lasciando valide le conclusioni sull’influsso molto forte dei
cambiamenti climatici sui danni economici e sulla caduta del Pil mondiale. Per
intendersi, si parla di passare da 38 mila miliardi di dollari all’anno di costi
economici a metà secolo a 32 mila miliardi di dollari, sempre una cifra enorme.
Inoltre, c’è ora una minore probabilità che i danni divergano tra i diversi
scenari di emissione entro il 2050: ma si scende appena dal 99% al 90% circa.
La rivista allora ha chiesto agli autori di correggere il proprio articolo, ma
gli autori hanno considerato che il lavoro da fare non fosse tale da consentire
la pubblicazione di un’immediata correzione e hanno preferito ritirare
l’articolo per poi ripresentarlo in seguito corretto.
Sacerdoti di una nuova religione? Non mi pare proprio. Questa è la dinamica
scientifica, che è molto diversa da quella degli opinionisti, questa sì
polarizzata e influenzata dalla peculiare visione del mondo che ognuno di essi
ha. Dove la trovi una dinamica che è talmente potente e rigorosa da
autocorreggersi se non nella ricerca scientifica?
Prima di parlare con certe considerazioni e certi toni, soprattutto se si vuole
fare una “riflessione adeguata”, ognuno dovrebbe guardare la realtà delle cose e
non stiracchiarla per corroborare la propria visione preconcetta e/o portare
avanti la propria narrazione della realtà. In questo senso, nonostante nei
giorni precedenti fosse apparso un articolo proprio sul Corriere dove si
discuteva più correttamente di questo ritiro dell’articolo di Nature, mi pare
proprio che Rampini abbia fornito informazioni fattualmente false, e questo è
grave. Confrontiamoci con i dati di fatto e allora potremo discutere seriamente
del problema del cambiamento climatico.
Di una cosa sono sicuro. Nonostante questo mondo attuale della comunicazione
“mordi e fuggi”, dove, con messaggi ipersemplificati e polarizzati, ognuno ha il
potere di distorcere i risultati scientifici per portare acqua a una certa
visione del mondo, la scienza farà il suo corso ineluttabile. Perché nella sua
dinamica ha gli anticorpi per debellare qualsiasi virus ideologico gli si
dovesse infiltrare.
Mi verrebbe da parafrasare un’espressione di Humphrey Bogart sul potere e
l’ineluttabilità del giornalismo, pronunciata nel film L’ultima minaccia mentre
la rotativa stampava il giornale con un’inchiesta contro un boss criminale che
aveva invece cercato di metterla a tacere: “That’s the press, baby!”. La scienza
andrà avanti comunque, ineluttabilmente, nonostante qualsiasi opinionista: “È la
scienza, bellezza!”.
*Fisico del clima, CNR
L'articolo L’Apocalisse climatica un falso? La scienza andrà avanti nonostante
le distorsioni di Rampini proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Cambiamenti Climatici
Avrete certamente sentito parlare della teoria di Elizabeth Kubler-Ross delle
“cinque fasi del lutto.” Quando ti capita qualcosa di brutto nella vita, le
reazioni tipiche sono: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e
accettazione. Queste fasi non sono in sequenza, possono coesistere o cambiare
l’ordine in cui compaiono, ma sono una buona approssimazione di quello che
succede quando ci troviamo di fronte a qualcosa di molto spiacevole.
E’ un modello che possiamo applicare alla questione del clima, a partire da
quando si è cominciato a parlarne come un problema importante, negli anni ’80.
Possiamo dire che la fase di negazione è cominciata quasi subito, non nel senso
di negare l’esistenza del riscaldamento globale, ma nel minimizzare l’impatto.
“Basterà qualche piccolo aggiustamento: doppi vetri alle finestre, tenere basso
il termostato, riusare gli asciugamani negli alberghi; questo tipo di cose.” In
sostanza, lucidare le maniglie del Titanic mentre affonda.
Qualcuno invece si è reso conto che bisognava fare qualcosa di più e questo ha
dato inizio alla fase di contrattazione con le varie “conferenze delle parti”,
le Cop, con l’idea di mettersi d’accordo per ridurre le emissioni di gas serra.
La prima Cop è stata a Berlino nel 1995; ora siamo arrivati alla Cop30, tenuta
da poco a Belém, in Brasile. Ci ricordiamo della conferenza di Kyoto, nel 1997,
che aveva generato il trattato di Kyoto, il primo accordo internazionale sul
clima della storia. L’altra Cop con qualche rilevanza è quella di Parigi del
2015, la Cop21, che produsse l’accordo di Parigi il 12 dicembre 2015, di cui in
questi giorni ricorre il decennale.
L’accordo di Parigi è stato un passo importante per varie ragioni. Una era la
sua universalità: raccoglieva le firme di 195 paesi. Altrettanto importante è il
fatto che era la prima volta che si proclamava un obbiettivo quantificato e
misurabile: mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei
2°C, se possibile limitarlo a 1,5°C. Si proponevano anche dei modi per
arrivarci: ogni stato doveva presentare e aggiornare ogni cinque anni i propri
Contributi Determinati a livello Nazionale (Ndc), ovvero piani volontari di
riduzione delle emissioni.
L’obbiettivo era corretto, ma il metodo per ottenerlo si è rivelato inefficace.
La prima valutazione dei risultati si è tenuta alla Cop28 del 2023, ed ha
concluso che il mondo è ancora lontano dagli obiettivi. Come del resto è
evidente se guardate la curva della concentrazione di CO2 nell’atmosfera: non
c’è traccia di un effetto dell’accordo di Parigi. Secondo l’Unep e il rapporto
del Global Stocktake 2023, per fare qualcosa di buono bisognerebbe triplicare
gli sforzi entro il 2030 e quintuplicarli entro il 2035. Ma ormai è comunque
troppo tardi per rimanere entro 1,5°C. E forse anche i 2°C sono un obbiettivo
troppo difficile.
E ora? Ritornando agli stadi di Kubler Ross, stiamo rapidamente entrando nella
fase della “rabbia” con la ricerca di qualcuno o qualcosa da incolpare per il
disastro in cui ci ritroviamo. Sembrerebbe che i nostri leader attuali non
riescano a pensare a niente di meglio per risolvere il problema del clima che
una bella guerra; nucleare, se possibile.
Allo stesso tempo, la rassegnazione va molto di moda. Si si sente dire che non
c’è ragione di preoccuparsi. Dopotutto, al tempo dei dinosauri la concentrazione
di CO2 era molto più alta che oggi, faceva molto più caldo e i dinosauri stavano
benissimo. Sì, peccato però che noi non siamo dinosauri. Ci siamo evoluti in
un’epoca in cui la concentrazione di CO2 era bassa e non è affatto detto che
potremmo vivere respirando l’atmosfera che i dinosauri respiravano.
Ritorneremo all’epoca dei dinosauri, dunque? No, non necessariamente. Ma
dobbiamo trovare soluzioni migliori di trattati e infiniti ragionamenti sulle
riduzioni di emissioni. Come si suol dire, dobbiamo tagliare la testa al
brontosauro e azzerarle del tutto. Lo possiamo fare, abbiamo le tecnologie
necessarie: rinnovabili ed elettrificazione. Basta volerlo.
L'articolo Accordo di Parigi sul clima, dieci anni dopo nessun effetto concreto:
ora dobbiamo azzerare le emissioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
Ha senso dedicare una giornata alle montagne? Ha senso che ogni anno arrivi in
tutto il mondo un vento pieno di attenzioni e premure nei confronti delle terre
alte? O anche questa è l’ennesima celebrazione vuota e retorica per costruire
artificiosamente un senso comune senza fondamenti?
La storia della Giornata internazionale della montagna ha ormai 22 anni. Venne
istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel fatidico 2002, quando
l’intero anno era dedicato proprio ai monti della terra. Si disse, perché
dall’anno prossimo, ogni 11 dicembre, non facciamo proseguire le celebrazioni?
Un giorno ogni dodici mesi, per parlare di problemi, risorse, cultura dei
territori montani. Bell’idea, no? In quell’occasione vennero anche fornite
alcune cifre utili a capire l’entità dell’intero sistema montuoso terrestre. Si
disse che il 27 per cento del nostro pianeta è occupato da montagne, sulle quali
vive il 15 per cento della popolazione umana. Si disse anche che il 90 per cento
dei montanari si trova in una condizione economica fragile, all’interno di paesi
in via di sviluppo. Vale a dire: montagna uguale povertà e arretratezza.
Però, a dirla tutta, non si sa bene come questi dati siano stati assemblati,
visto che anche solo nella nostra piccola penisola si fatica ad arrivare a una
definizione geografica e politica su ciò che è davvero montagna. Figuriamoci nel
mondo! Da noi continuiamo a non saperlo, tanto è vero che la nuova Legge
Calderoli sulla Montagna varata lo scorso ottobre non potrà essere applicata
finché non verranno emessi i decreti attuativi che dovranno stabilire una
definizione precisa. Cos’è montagna? È forse ogni parte del territorio che sta
sopra la soglia altimetrica convenzionale dei seicento metri, come indicava la
vecchia dottrina geografica? No, sarebbe troppo facile: è una definizione
rigidamente positivista, datata, che non può rispecchiare la realtà di oggi.
Montagna è un complesso di fattori. Un insieme di elementi seducenti proprio
perché articolati e multiformi. Montagna è dove si trova massa orografica,
acclività, differenze di esposizione solare, successione di piani altitudinali,
e comprende anche i caratteri legati alle vicende umane, riscontrabili nella
peculiare costruzione dei paesaggi, nelle tecniche agro-silvo-pastorali, nella
difficoltà imposte alla vita. E proprio di quelle difficoltà ci parla la
Costituzione italiana, all’Articolo 44, dove viene specificato: “La legge
dispone provvedimenti a favore delle zone montane”. Da qui si deduce che le
‘zone montane’ sono sfavorite, e devono essere sostenute in quanto luoghi dove
la vita è più dura e svantaggiata.
Montagna è perciò prima di tutto un luogo duro, difficile, dove si vive
aggrappati al pendio, come alle Cinque Terre, che si trovano a quota zero,
eppure sono montagna a tutti gli effetti (forse più della luccicante Cortina coi
suoi 1200 metri di quota).
Oggi i territori montani hanno un ruolo importante nel preservare la
biodiversità e nel difendere le risorse naturali all’interno della grande
partita sul futuro del pianeta. Eppure, ha detto il Presidente Mattarella l’11
dicembre 2023: “È proprio negli spazi alpini e appenninici che emergono con
straordinaria puntualità sia i disagi derivanti dall’essere ‘periferie’, sia le
disuguaglianze nell’accesso ai servizi pubblici essenziali”. Le montagne sono
dunque “centrali” nella lotta al cambiamento climatico, ma “periferiche” nei
diritti di cittadinanza.
Non so se l’11 dicembre Giornata internazionale della Montagna, con la sua
declinazione di quest’anno che mette al centro “I ghiacciai”, abbia un senso. Di
sicuro, è arrivato il momento che i grandi media nazionali non ci raccontino più
solo la montagna-Cortina, patinata e minoritaria, ma neppure che la descrivano
come il luogo dei vinti da assistere, come un rimorchio passivo, luogo
dimenticato a cui guardare con benevolenza e rassegnazione.
L’obiettivo della politica dovrebbe essere scavare fino alle cause che hanno
creato spopolamento e arretratezza e cercare di rimuoverle, mentre con il solo
assistenzialismo non si va alla radice dei problemi. Ciò che manca è prima di
tutto l’erogazione dei servizi primari, scuola, mobilità, presidi sanitari.
Eppure oggi la congiuntura potrebbe essere favorevole al crearsi di un nuovo
modo di vivere nelle terre alte. I numeri lo confermano: 100mila nuovi abitanti
in più nel quinquennio 2019-2023, a cui si devono aggiungere altre circa 35mila
persone che hanno spostato la residenza in un comune montano nel solo 2024, così
ha fatto sapere l’Uncem (Unione nazionale comuni comunità enti montani). Sì,
esempi di speranza ci arrivano da Alpi e Appennini, soprattutto dove lo
spopolamento ha picchiato più duro a iniziare dall’epoca del Boom Economico.
Piccoli paesi tornano dunque a vivere, circondati da una ricchezza oggi sempre
più preziosa e ricercata. Sono i cosiddetti beni intangibili, come la salubrità,
lo spazio, il buio, il vasto silenzio rigeneratore. Beni che si trovano solo in
montagna. E che, in questo 11 dicembre, la definiscono più che mai nel profondo.
L'articolo Mettiamoci d’accordo su cos’è ‘montagna’: la patinata Cortina, un
luogo di spopolamento o altro? proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Antonietta Troisi (fonte: lavoce.info)
Il parere della Corte internazionale di giustizia e la pronuncia della
Cassazione segnano un cambio di passo sulla responsabilità giuridica in materia
di clima. Per la prima volta, è possibile promuovere azioni civili fondate su
obblighi internazionali
Un quadro giuridico che cambia
Due decisioni di rilievo, arrivate quest’estate a distanza di pochi giorni l’una
dall’altra, rilanciano il tema della responsabilità per i cambiamenti climatici,
delineando i contorni di un quadro giuridico in evoluzione. Si tratta della
pronunzia della Corte di Cassazione e del parere della Corte internazionale di
giustizia (Cig).
Il 21 luglio 2025, le Sezioni unite della Suprema Corte hanno reso l’ordinanza
n. 20381/2025, nel procedimento intentato da Greenpeace, ReCommon e un gruppo di
cittadini contro Eni spa, il ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa
depositi e prestiti. Due giorni più tardi, la Corte dell’Aja ha pubblicato il
parere consultivo richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite,
chiarendo la portata degli obblighi internazionali degli stati in materia
climatica.
Eni e governance climatica sotto accusa
Nel caso che vede coinvolta l’Eni, gli attori hanno agito dinanzi al Tribunale
di Roma, contestando il disallineamento del piano di decarbonizzazione della
società rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi e ai rapporti dell’Ipcc.
Hanno inoltre chiamato in causa Mef e Cdp, in qualità di azionisti di
riferimento, per l’omesso esercizio dei poteri societari che avrebbero potuto
orientare la strategia climatica del gruppo.
La richiesta al Tribunale di Roma comprendeva l’accertamento della
responsabilità extracontrattuale ex artt. 2043 ss. cc, la condanna ad adottare
misure per allineare le strategie aziendali agli obiettivi di contenimento del
riscaldamento globale entro 1,5°C, nonché il risarcimento dei danni, anche in
forma specifica ai sensi art. 2058 cc. Di fronte alle eccezioni dei convenuti,
che hanno sollevato il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario,
è stato richiesto il regolamento preventivo alla Corte di Cassazione.
La decisione della Suprema Corte era particolarmente attesa, anche alla luce
della controversa pronuncia del Tribunale di Roma nel caso “Giudizio
Universale”. In quel precedente – promosso contro la presidenza del Consiglio
dei ministri per inadempienza agli obblighi derivanti dall’Accordo di Parigi –
il giudice di primo grado aveva pronunciato una declinatoria, rilevando il
difetto assoluto di giurisdizione e affermando che l’attuazione degli impegni
internazionali in materia climatica rientrasse nella sfera di insindacabile
discrezionalità politica. Una scelta interpretativa che, oltre a sollevare
perplessità sotto il profilo della compatibilità con la Cedu (Convenzione
europea dei diritti dell’uomo) e la Convenzione di Aarhus, è apparsa
disallineata rispetto a orientamenti giurisprudenziali maturati Oltralpe e
Oltreoceano, dove si è progressivamente affermata la giustiziabilità degli
obblighi climatici.
Per scongiurare analogo epilogo, i promotori della Giusta Causa hanno attivato
un regolamento preventivo di giurisdizione dinanzi alla Suprema Corte.
Con l’ordinanza n. 20381/2025, la Cassazione ha riconosciuto, per la prima
volta, che il giudice ordinario può conoscere di azioni risarcitorie fondate su
obblighi climatici internazionali, legittimando così l’accesso alla giustizia
civile in tema di climate change litigation. Come chiarito dalle Sezioni unite,
“il compito affidato al giudice consiste pertanto soltanto nel verificare se le
fonti internazionali e costituzionali invocate risultino idonee ad imporre un
dovere d’intervento direttamente a carico dei convenuti, tale da fondare una
responsabilità extracontrattuale degli stessi, e quindi da giustificarne la
condanna al risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ”.
In questa prospettiva, si esclude che l’azione intentata comporti un’ingerenza
indebita nella sfera di competenza del legislatore o dell’esecutivo. È stato
infatti evidenziato che, sebbene la questione climatica rientri anche tra le
materie di competenza degli altri poteri dello stato, può essere sottoposta al
sindacato giurisdizionale nella misura in cui incide su diritti fondamentali,
quali quelli tutelati dagli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost., dagli artt. 2 e 8 della
Cedu e dagli artt. 2 e 7 della Cdfue (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea), ritenuti dalla Corte astrattamente idonei a imporre obblighi di
condotta direttamente in capo ai convenuti.
Il parere della Cig: obblighi climatici come doveri giuridici
Con il parere del 23 luglio 2025, la Corte internazionale di giustizia ha
offerto una lettura sistematica e autorevole degli obblighi giuridici incombenti
sugli stati in materia di cambiamento climatico. Sebbene privo di effetti
formalmente vincolanti, il parere riveste un’importanza interpretativa di primo
piano, rafforzando la cornice giuridica entro cui valutare l’azione (o inerzia)
statale rispetto alla crisi climatica.
La Corte ha affermato che gli stati sono tenuti, in virtù del diritto
consuetudinario e convenzionale, ad adottare misure positive volte a prevenire
danni ambientali significativi, a cooperare tra loro e ad agire con la dovuta
diligenza. La violazione di tali obblighi, anche attraverso condotte omissive,
può configurare un illecito internazionale, dando luogo a obblighi di
cessazione, riparazione e garanzie di non ripetizione.
Un punto nodale del parere risiede nel superamento della visione compartimentata
della disciplina giuridica in materia di cambiamento climatico: la Corte ha
chiarito che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite (Unfccc), l’Accordo di
Parigi e i relativi strumenti attuativi non costituiscono una lex specialis
isolata, bensì vanno letti e applicati alla luce dei principi generali del
diritto internazionale. Tra questi, il principio di non arrecare danni
significativi all’ambiente (“Do No Significant Harm” il cosiddetto Dnsh), la
responsabilità comune ma differenziata, l’equità intergenerazionale, il
principio precauzionale e lo sviluppo sostenibile.
Tale impostazione rafforza la cogenza del quadro normativo e ne amplia la
portata anche nei confronti degli stati che non abbiano ratificato specifici
trattati, laddove siano vincolati da obblighi consuetudinari o erga omnes.
La Corte ha inoltre sottolineato la stretta connessione tra obblighi climatici e
tutela dei diritti umani: il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile
costituisce condizione abilitante per l’effettivo godimento di diritti
fondamentali quali la vita, la salute, l’abitazione e un’esistenza dignitosa.
La sfida dell’effettività
La valorizzazione dei principi di leale cooperazione tra stati, precauzione e
sostenibilità come criteri interpretativi consente di conferire contenuto
giuridico a obblighi climatici finora percepiti come generici o carenti di
cogenza. Resta tuttavia irrisolta la questione della loro effettività
applicativa: il riconoscimento formale, pur significativo, non garantisce un
automatico accesso alla giustizia, né assicura che gli obblighi siano
agevolmente invocabili in giudizio.
Il parere della Cig contribuisce al consolidamento della regolazione climatica,
offrendo una piattaforma argomentativa utile anche in sede giudiziaria.
Tuttavia, la giustizia climatica continua a scontrarsi con ostacoli strutturali:
difficoltà probatorie, incertezza normativa, strumenti processuali inadeguati.
La sfida dell’effettività resta dunque affidata alla capacità degli ordinamenti
interni di accogliere azioni complesse, fondate su diritti collettivi e
intergenerazionali.
Responsabilità extracontrattuale e danno climatico: nodi aperti
Entrambe le pronunce evidenziano un mutamento nella configurabilità della
responsabilità giuridica in materia climatica. Il danno antropogenico globale,
collettivo e intergenerazionale, sfugge ai tradizionali schemi della
responsabilità extracontrattuale, centrati su nesso causale diretto e danno
individuale. Ne derivano incertezze sulla legittimazione, sull’accertamento del
danno e sull’individuazione dei soggetti responsabili.
Il caso Eni, al pari di altre simili iniziative, sollecita un adattamento del
sistema civilistico alle sfide poste da obblighi climatici di matrice
sovranazionale. La complessità delle catene decisionali, specie in presenza di
gruppi multinazionali o partecipazioni pubbliche, solleva interrogativi
rilevanti su responsabilità da omissione o agevolazione.
La coincidenza temporale tra il parere della Corte internazionale di giustizia e
la pronuncia della Cassazione, per quanto fortuita, segna un cambio di passo.
Per la prima volta in Italia è ora possibile promuovere azioni civili fondate su
obblighi internazionali in materia climatica. Il 2025 si candida, in questo
senso, a rappresentare l’inizio effettivo del contenzioso climatico nel nostro
ordinamento.
L'articolo Così Cassazione e Corte dell’Aja segnano un cambio di passo sulla
giustizia climatica in Italia proviene da Il Fatto Quotidiano.
C’è una nuova generazione di avvocati che sta crescendo ai quattro angoli del
pianeta con in testa, ma soprattutto nel cuore, un obiettivo molto chiaro: fare
terra bruciata, professionalmente parlando, intorno all’industria fossile.
Possiamo chiamarli “avvocati per il clima”. A livello internazionale vengono di
solito indicati come climate conscious lawyers.
È un fenomeno che si sta sviluppando su sentieri per certi versi intrecciati con
quelli delle climate litigation, le cause climatiche. Quelle che hanno fatto sì
che il clima irrompesse nelle corti di giustizia di più alto grado del mondo,
come la Corte europea dei Diritti dell’Uomo o la Corte Internazionale di
Giustizia. Ma c’è molto di più. Perché l’impatto che avvocati e studi legali
hanno sulla società va evidentemente molto al di là delle aule dei tribunali.
Da tempo avevo maturato la convinzione che gli avvocati per il clima potessero
diventare un fattore (molto!) rilevante nella lotta alla crisi climatica. Ne
sono diventato ancora più convinto, e penso che potrebbe accadere più
rapidamente di quanto si possa pensare, dopo aver seguito un evento
incredibilmente stimolante organizzato da Lsca-Law Students for Climate
Accountability: è l’iniziativa, di cui ho già parlato su questo blog, con cui
una rete di studenti di legge statunitensi ha preso a monitorare e valutare le
relazioni fra i più grandi studi legali Usa e le società fossili. Il cui
business – repetita iuvant – è di gran lunga il principale responsabile del
collasso climatico in atto. Checché ne dica la signora Ursula von der Leyen, che
oltre a non aver mosso un dito per fermare il genocidio a Gaza se n’è uscita
giorni fa con un’affermazione che la dice lunga sul modo totalmente distorto in
cui intende la lotta alla crisi climatica: non dobbiamo combattere le fossili,
ipsa dixit, ma le emissioni. Per dirla con Al Gore, ci prende per stupidi?
Stendendo un pietoso velo su chi per nostra sciagura ci guida in Europa,
l’evento in questione è la zoomathon organizzata da Lsca il 17-18 novembre
scorsi in occasione del Global Day of Action for Climate Justice, un’iniziativa
lanciata nel 2019 dalla Baroness Hale Legal Clinic della York Law School. Un
evento di 25 ore filate, una sorta di giro del mondo virtuale (il programma è
recuperabile sull’account Instagram di Lsca) che ha dato voce alle tante
iniziative in essere di avvocati per il clima.
> Visualizza questo post su Instagram
>
>
>
>
> Un post condiviso da LSCA (@lawstudents4climate)
Lsca ha dichiarato che al centro dell’evento c’era la campagna con cui a suon di
lettere gli studenti di legge di mezzo mondo, specie di area anglosassone,
stanno pressando le organizzazioni di riferimento e le authority di settore
(International Bar Association, American Bar Association, la Solicitors
Regulation Authority britannica) per chiedere una cosa molto precisa: chiarire
le obbligazioni etiche, i doveri degli avvocati non solo verso i propri clienti
ma anche verso il pubblico, i tribunali, lo stato di diritto in generale, nel
contesto della crisi climatica. Detto altrimenti: cosa devono o non devono,
possono o non possono fare gli avvocati nell’era della crisi climatica
conclamata? Quanto è ampia la loro libertà di azione? Ci sono dei limiti? E se
sì, dove vanno posti?
Le realtà che hanno preso la parola durante l’evento provenivano da Europa,
Africa, Nord e Sud America, Sud-est asiatico, Australia. Stanno nascendo studi
legali specializzati sull’ambiente e il clima. Esistono già i capitoli di Lsca
in Australia e Sudafrica. L’ultimo report curato da LSCA, con la climate
scorecard degli studi legali Usa, è il primo con un respiro globale, perché
getta lo sguardo su cosa sta accadendo in quest’ambito in altre giurisdizioni:
Australia, Canada, Sudafrica e – in Europa – Francia, Germania, Olanda, Uk e
anche l’Italia. Di noi il report ricorda che siamo il Paese con di gran lunga il
maggior numero di avvocati al mondo, oltre 230mila (dati 2023). Un bacino in cui
potrebbero fiorire legioni di avvocati per il clima. E in cui, chissà, potrebbe
nascere il prossimo capitolo di Lsca.
Chapeau a studenti come quelli di Lsca. Com’è stato giustamente sottolineato
nella zoomathon, ci vuole grande coraggio a sfidare un settore, tra l’altro
assai potente e temibile, in cui si spera in futuro di trovare lavoro, lottando
perché contribuisca non ad esacerbare la crisi climatica ma a contrastarla.
Almeno, però, chi ha deciso che da grande sarà un climate conscious lawyer ha la
certezza granitica di stare dalla parte giusta della storia.
L'articolo Avvocati per il clima, i nuovi professionisti che sfidano l’industria
fossile: così BigOil trema proviene da Il Fatto Quotidiano.
Giobbe Covatta torna in scena con ‘6 gradi‘, lo spettacolo dedicato al
cambiamento climatico. L’appuntamento è per lunedì 1 dicembre all’EcoTeatro di
Milano e l’intero ricavato servirà a sostenere le missioni di salvataggio di
ResQ – People Saving People nel Mediterraneo. Uno spettacolo che quest’anno
compie dieci anni e si è evoluto insieme al pubblico, al modo con cui
affrontiamo temi come il riscaldamento globale, ma anche l’immigrazione.
Ambasciatore e testimonial di lunga data per Amref Health Africa, Covatta
smaschera le nostre ipocrisie, ma anche le semplici abitudini, i pregiudizi e le
paure indotte. Per lo più frutto di “ignoranza” perché, dice, il problema
dell’Italia “è che nessuno sa un cazzo”.
Visto dal palcoscenico come si è evoluto in 10 anni il tema del cambiamento
climatico?
Si è evoluto, ma in peggio. Quando ho scritto lo spettacolo la gente aveva
un’ansia per volta, mentre adesso ne ha dieci, con l’attenzione spostata su
guerre e paure immediate, quindi il clima è scivolato giù dalla lista. Intanto
continuiamo a fare le Conferenze sul clima, dove all’ultima non è successa una
minchia esattamente come in tutte le precedenti e tutti se ne vanno dicendo
“vabbè, ci aggiorniamo alla prossima”. C’è stato un momento entusiasmante in cui
i ragazzi di Fridays for Future sembravano aver riacceso la consapevolezza. Mi
ricordo quando a Roma scesero in piazza in 200, una cosa commovente, no? Poi,
due ore dopo, 100 mila stavano da McDonald’s. Non è polemica, non accuso
nessuno, dico solo che siamo fatti così: gridiamo al consumo energetico, ma col
cazzo che spegniamo l’aria condizionata. Compreso me: so che ogni 20 anni
raddoppiamo l’esigenza energetica, ma se sento caldo io l’appiccio.
Come stiamo messi col riscaldamento globale?
Male. Siamo a circa 1,7 gradi in più rispetto alla media di 14,9 dell’era
preindustriale. Oggi la temperatura media è vicina ai 16,5 gradi e la
concentrazione di CO₂ è passata da 300 a 430 parti per milione. E quelle mica
dicono “Ah, hanno spento tutto, ce ne andiamo”. Abbiamo immesso in atmosfera una
quantità enorme di gas che resterà lì: se da domani spegnessimo tutto, ma pure
le sigarette, servirebbero 150 anni per assorbirla. Quindi la temperatura
continuerà a salire comunque, anche nello scenario più ottimistico. Io sono
ottimista per natura, ma i numeri non è che proprio mi sostengano.
Cosa implica per le prossime generazioni?
Nel mio spettacolo metto l’aumento di 6 gradi in 100 anni per creare un legame
emotivo: in 100 anni uno fa in tempo a conoscere i suoi nipoti, i suoi bisnonni,
quindi diventa un fatto personale, capisci che la faccenda ti riguarda. Non so
se accadrà in 100 o 200 anni, ma cambia poco. Il dramma resta. E la cosa più
comica – si fa per dire – è che uno pensa: “C’è un problema enorme, ora
chiameranno gli scienziati”. E invece arrivano stormi di analfabeti che non
conoscono manco i dati.
Dalla solidarietà con le generazioni future a quella per chi ci vive accanto: lo
spettacolo sostiene la Onlus ResQ e la salvaguardia della vita dei migranti nel
Mediterraneo. Come sta la solidarietà?
Io credo che gli italiani restino un popolo solidale, il problema è che siamo
ignoranti. Ricordate i bambini del Biafra? Due generazioni cresciute con mamma
che diceva “Mangia tutto che i bambini del Biafra muoiono di fame”. Poi chiedi
dove sta il Biafra e nessuno lo sa. Oggi è uguale per le migrazioni, la
cooperazione, lo 0,7% del Pil da destinare all’aiuto dei paesi in via di
sviluppo che ci siamo dati come obiettivo (che l’Italia non raggiunge, ndr), il
Piano Mattei – che cazz’è ‘stu Piano Mattei? –, nessuno sa una mazza. Non c’è
cattiveria, manca proprio la conoscenza.
Cosa risponde a chi teme un’“invasione” dall’Africa?
Bisognerà avvertire Salvini che l’invasione ce l’abbiamo già in casa: siamo noi
settantenni. L’Africa non ci invade perché fa figli per venire in Europa, ma
perché i figli sono l’unica ricchezza, l’unico welfare possibile, la loro
pensione. In Africa si invecchia prima e se a 45 o 50 anni non ce la fai più, ti
sostengono i figli. È un modo di vivere completamente diverso dal nostro, ma ha
una sua logica. E non lo fanno per farci un dispetto, malgrado quello che
raccontano certi politici. Noi invece abbiamo invertito tutto e i nostri
trentenni devono lavorare come matti per mantenere una montagna di anziani.
Insomma, non è che noi siamo quelli furbi e gli altri sono per forza quelli
scemi.
L’Africa la conosce, ci è stato tante volte: perché le persone partono?
Perché non hanno alternative. E c’entra anche il clima e le terre che non sono
più coltivabili. E perché non sono più coltivabili? Quella di chi fugge non è
una scampagnata, non vengono mica per farsi un selfie con Salvini. Abbandonano
genitori, legami, radici per affrontare deserto, violenze, il Mediterraneo sulle
barchette, una follia. Non lo si fa a cuor leggero. È molto peggio di quando gli
italiani andavano in Belgio a fare i minatori: almeno loro un’idea del futuro ce
l’avevano. Oggi chi parte fa letteralmente un salto nel buio, non può essere
bollato semplicemente come rompicoglioni, “fuori dalle balle”.
E noi?
Ancora una volta, ti aspetti che chi governa si rivolga agli esperti e invece a
occuparsi di problemi enormi ti ritrovi un drappello di ignoranti che non sa
nemmeno di cosa parla. Bisognerebbe smetterla di raccontarci favole e iniziare a
studiare come stanno davvero le cose: clima, migrazioni, cooperazione. Le
risposte ci sono già, solo che nessuno si prende la briga di leggerle. Finché
restiamo nella superficialità, continuiamo a inseguire fantasmi e a ignorare i
drammi veri.
L'articolo “In Italia nessuno sa un ca**o”. Giobbe Covatta in scena tra clima e
migranti: “Invasione? Sì, di vecchi come me” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quella che si è appena conclusa a Belém, in Brasile, doveva essere la Conferenza
delle Parti sul Clima della concretizzazione. Non è stato così, certamente per
quanto riguarda la “transizione dalle fonti fossili”: è stato impossibile
mettere insieme 194 Paesi che, insieme, non hanno mai camminato e non lo faranno
nei prossimi decenni. Alla Cop30 molte maschere sono cadute, fuori e dentro
l’Europa. C’è una riorganizzazione di alleanze trasversali. Arabia Saudita,
Russia e gli altri petro-Stati, ormai non più padroni di casa delle Cop, si sono
opposti in modo palese a concreti passi in avanti. Altri 86 Paesi chiedevano una
roadmap, ossia una tabella di marcia chiara per l’uscita dai combustibili
fossili (neppure citati nel documento finale), iniziativa partita dal Brasile e
poi sostenuta anche dall’Unione europea, ma con una serie di nazioni restie a
prendere posizioni (come l’Italia), altre che prima si sono esposte e poi hanno
fatto dietrofront. Dopo un clima diventato sempre più teso, tra piogge
tropicali, manifestazioni con migliaia di persone in piazza, la protesta degli
indigeni che è arrivata fino alle sale dove si svolgono i negoziati, un incendio
tra i padiglioni e le aspettative – altissime – che mano a mano si abbassavano,
si è arrivati allo scontro. Duro e inevitabile. E altri Stati hanno puntato i
piedi. Sono quelli che hanno scritto alla presidenza della Cop30 ponendo un veto
sul riferimento esplicito alla roadmap, proposta che mette insieme Paesi ricchi
e in via di sviluppo, le principali nazioni europee ma, anche qui, non l’Italia.
E 24 nazioni hanno firmato l’iniziativa di Colombia e Paesi Bassi di organizzare
una prima conferenza internazionale ad hoc sulla transizione dai combustibili
fossili a Santa Marta, in Colombia, ad aprile 2025. Multilateralismo è stata una
parola chiave della Cop ma, se avrà un contenuto, è tutto da stabilire.
TENSIONE FINO ALL’ULTIMO MINUTO
La tensione è andata avanti fino all’ultimo minuto. I lavori della plenaria sono
stati sospesi dopo una rivolta da parte di delegati di alcuni Paesi che si sono
lamentati dell’approvazione di documenti senza un accordo. A vertice chiuso, il
presidente della Cop, André Correa do Lago, l’ha riaperta, dicendo di essere
stanco e scusandosi per non aver colto le obiezioni sollevate dalla Colombia e
da altri Paesi, tra cui Uruguay e Cile, riguardo il mancato inserimento di un
obiettivo definito per l’abbandono dei combustibili fossili nel testo delle
conclusioni. Do Lago ha spiegato di aver consultato gli avvocati, i quali
affermano che l’accordo che è stato approvato non può essere riaperto per
inserire un linguaggio più forte sui combustibili fossili. Ma la Colombia è
determinata e ha fatto sapere che consulterà i propri avvocati.
PASSI IN AVANTI SULL’ADATTAMENTO
La Cop30 è stato il primo vertice sul clima dopo che il mondo ha registrato un
intero anno con temperature superiori a 1,5 °C. E forse anche questo ha pesato
su uno dei pochi risultati concreti. Riguardo alla finanza climatica, infatti, i
paesi ricchi si sono impegnati a triplicare i finanziamenti per l’adattamento
nell’ambito del Nuovo obiettivo di finanza climatica (NCQG) deciso alla Cop 29,
da 300 miliardi di dollari entro il 2035. I Paesi in via di sviluppo avrebbero
preferito entro il 2030, resta il fatto che si tratta di circa 120 miliardi di
dollari dell’obiettivo di 300 miliardi destinati a misure di adattamento nei
paesi più vulnerabili. Alla Cop 30, poi, sono stati promessi 135 milioni di
dollari al Fondo per l’adattamento. Mentre la Roadmap Baku-Belem ha definito un
piano per aumentare i finanziamenti globali per il clima al almeno 1,3 trilioni
di dollari all’anno entro il 2035 (obiettivo già concordato a Baku). Sono stati
poi promessi 300 milioni di dollari per il Piano d’Azione Sanitario di Belém per
sostenere l’adattamento del settore sanitario ai cambiamenti climatici.
NON C’È ACCORDO SULL’USCITA DALLE FOSSILI, MA PASSI IN AVANTI SU ADATTAMENTO
È difficile dire che cosa voglia davvero dire il presidente brasiliano, Luiz
Inácio Lula da Silva, affermando che alla Cop30 “la scienza ha prevalso, il
multilateralismo ha vinto”. Certo è che, a dieci anni dall’Accordo di Parigi e a
due anni dal testo finale della Cop23 di Dubai, con cui tutti i Paesi si
impegnavano per una graduale “transizione dai combustibili fossili”, alla Cop30
organizzata in un paese amazzonico non si riescono neppure a citare i
combustibili fossili nel documento finale, la Mutirão Decision. Non è stato
accolto l’appello del presidente Lula e di oltre 80 Paesi per una roadmap su
fossili e deforestazione ma – con una scelta controversa e contraddittoria – si
conferma la traiettoria tracciata nel documento finale (e storico) del 2023, nel
quale per la prima volta si citavano eccome i combustibili fossili. Sembra un
secolo fa. A mettersi di traverso, a quanto pare, gli altri Paesi Brics (in
primis Russia e India) e dei Paesi del Golfo. Venerdì, la prima doccia fredda.
Perché dopo l’accelerata che la presidenza sembrava voler dare a questa
Conferenza delle Parti sul clima, nel giorno che avrebbe dovuto chiudere la Cop
sono invece arrivate le versioni aggiornate dei testi negoziali, compresa la
bozza della Mutirão Decision. Un testo che ha scontentato tutti i Paesi più
ambiziosi perché, già quello, non citava la tabella di marcia. La situazione non
è cambiata più di tanto. Alla fine, dunque, nessuna roadmap per i 194, ma alla
Cop si concorda per l’avvio di nuovi processi per accelerare la transizione
energetica, come il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5.
La prima però, è un’iniziativa volontaria sotto la guida delle presidenze delle
prossime due Cop (quindi un processo biennale) per discutere di come aumentare
l’implementazione di Ndc, i Contributi determinati a livello nazionale sulla
mitigazione e Nap, ossia i piani per l’adattamento. La Belém Mission to 1.5,
sotto la guida della Cop30 e delle successive due, servirà a capire come
accelerare l’implementazione, la cooperazione internazionale e gli investimenti
nei piani nazionali.
LA POSIZIONE DI PICHETTO E DI MELONI (AL G20 ININFLUENTE)
“La tabella di marcia sulla transizione dai combustibili fossili non è parte del
documento della Cop30 perché metà dei paesi sinceramente non condividevano
questa posizione. Noi, nel merito, valutando poi i contenuti, abbiamo dichiarato
la nostra adesione a sederci e vedere il percorso” ha dichiarato il ministro
dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, parlando con i giornalisti, ribadendo
che, anche all’interno dell’Unione europea ci sono Paesi “per cui il percorso di
transizione dai combustibili fossili è più facile” rispetto all’Italia, perché
possono contare su altre fonti in misura maggiore “dalle rinnovabili come la
Spagna, al nucleare come la Francia”. Nel frattempo, era partito anche il G20 a
Johannesburg, in Sud Africa. Lo scorso anno, il G20 in Brasile non aveva aiutato
la Cop di Baku, in Azerbaigian, ma la speranza era che l’incontro tra Lula, la
presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il presidente
francese Macron e quello sudafricano, Cyril Ramaphosa, potesse aiutare ad aprire
un dialogo con i leader di Paesi come Arabia Saudita e India. Non è andata per
nulla così. Le parole della presidente della Commissione europea, Ursula von der
Leyen, non hanno certo giocato la partita dei Paesi più ambiziosi: “Non stiamo
combattendo i combustibili fossili, quanto le emissioni che derivano dai
combustibili fossili” ha dichiarato, nel chiaro intento di non scontentare
nessuno. E Giorgia Meloni ha dato l’affondo: “Dobbiamo abbandonare una volta per
tutte un dogmatismo ideologico che sta provocando più danni che benefici. In
Europa, ad esempio, sono state fatte in passato scelte che hanno messo in
ginocchio interi settori produttivi, e senza che questo producesse un beneficio
reale sulle emissioni globali”.
L'articolo Alla Cop30 nessuna roadmap sull’addio ai combustibili fossili
(neppure citati). Giù le maschere: Paesi a diverse velocità proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La crisi climatica non è neutra. Il genere conta. Perché quando i raccolti
bruciano a causa della siccità prolungata e bisogna camminare chilometri per
trovare acqua che si può bere, oppure quando gli uomini migrano cercando un
posto di lavoro, a portare il peso più grande della crisi climatica sono donne e
ragazze. Lavorano di più e riposano di meno. Anche se sono in gravidanza.
Esposte alle violenze, a gravidanze precoci e matrimoni forzati, con accesso
limitato a cure mediche, cibo, autonomia economica e diritti sul proprio corpo.
Strade e ponti danneggiati, infatti, rendono difficile raggiungere ospedali e
centri sanitari. Nei giorni della Cop 30 di Belém, dove la voce degli indigeni
ha avuto un ruolo e una potenza inediti, arrivano proprio dal Brasile, ma anche
dal Kenya e dalla Tanzania le storie di queste donne. Le ha raccontate nel
rapporto “On our lands, on our bodies” – realizzato in collaborazione con il
centro di ricerca Arco – l’organizzazione umanitaria WeWorld, membro italiano di
ChildFund Alliance, rete globale impegnata nella tutela dei diritti
dell’infanzia.
ALLA COP30, LA VOCE DELLE DONNE CHE PAGANO IL PREZZO DELLA CRISI
E alla Cop le ha portate Lydia Wanja Kingeru, attivista e ricercatrice keniana,
insieme all’attivista indigena brasiliana Glaubiana Alves, una delle voci della
ricerca. “La ricerca analizza come il cambiamento climatico influenzi la salute
sessuale e riproduttiva delle donne, in particolare nelle comunità indigene e
rurali. Si concentra su esperienze provenienti da Brasile, Kenya e Tanzania,
dove le trasformazioni ambientali stanno modificando profondamente la vita
quotidiana” spiega Martina Albini, coordinatrice del Centro studi di WeWorld.
Alla Cop, tra l’altro, c’è chi conosce bene il prezzo pagato dalle donne per il
cambiamento climatico. Certamente lo conosce la ministra dell’Ambiente del
Brasile, Marina Silva, nata in un villaggio dell’entroterra amazzonico. Figlia
di raccoglitori di gomma, è stata analfabeta fino ai 17 anni quando, trasferita
in città, ha iniziato a combattere per i diritti dei raccoglitori. Il Fondo
delle Nazioni Unite per la popolazione, ha lanciato di recente un appello:
“Quando il fiume sale, le cliniche devono restare aperte”. Proprio ciò che non
accade in molti dei Paesi più a rischio. In questo modo le donne non hanno un
posto sicuro dove cercare aiuto e diventano irraggiungibili il presidio
sanitario che può fornire la contraccezione, le cure prenatali, quelle dopo uno
stupro. Ma l’azione climatica dimentica la salute e i diritti sessuali e
riproduttivi delle donne.
STORIE DAL BRASILE: “CAMMINAVAMO PER ORE CON I VESTITI IN TESTA DA LAVARE”
In Brasile, lo studio condotto nelle comunità indigene del Ceará, evidenzia come
il cambiamento climatico stia ridefinendo le dinamiche di potere all’interno
delle famiglie. Il degrado ambientale minaccia i mezzi di sussistenza
tradizionali e i sistemi alimentari, mentre gli eventi climatici estremi e le
infrastrutture danneggiate limitano l’accesso ai servizi sanitari. “La mia
infanzia e adolescenza non sono esistite, le ho trascorse prendendomi cura dei
miei fratelli più piccoli. Ero la maggiore di dieci fratelli – racconta una
delle donne indigene del Ceará – e la mia comunità era piena di sofferenza e
senza opportunità. La situazione idrica era terribile: dovevamo camminare per
ore con i vestiti in testa da lavare, e tornavamo con il collo dolorante”. Ma
non c’era acqua corrente, solo pozzi salmastri: “Ci rendevano la pelle grigia.
Usavamo l’olio da cucina per idratarci”. Le donne indigene stanno assumendo
ruoli di leadership all’interno delle famiglie e delle comunità “ma il peso
delle norme patriarcali e la fragilità delle reti di supporto femminile –
denuncia WeWorld – rendono necessario un intervento mirato e sensibile al
contesto locale”.
STORIE DAL KENYA: “LE DONNE SVOLGONO PIÙ LAVORI PESANTI”
In Kenya, la ricerca condotta in tre contee, Narok, Isiolo e Kwalesu, sottolinea
come i fattori legati al cambiamento climatico influiscono sulla salute
riproduttiva e delle madri. Siccità, inondazioni e ondate di calore estremo,
compromettono l’accesso all’acqua: il 91 per cento delle donne intervistate
segnala una riduzione dell’accesso ai servizi sanitari, l’89 per cento riferisce
di impatti negativi durante la gravidanza e l’83 per cento riscontra
peggioramenti nella gestione della salute durante il ciclo mestruale. In queste
contee, le donne lavorano di più e riposano di meno. La scarsità d’acqua e di
cibo aumenta anche il carico di lavoro domestico e agricolo, con conseguenze
sulla salute fisica e mentale. “La situazione è aggravata dalla struttura
patriarcale della proprietà terriera – è il racconto di un’altra donna – sono
gli uomini a decidere come utilizzare la terra, anche per piccoli orti. Tante
donne sono costrette a lavorare nei campi altrui solo per guadagnare qualcosa”.
STORIE DELLA TANZANIA: “VULNERABILI DAVANTI A VIOLENZE E MATRIMONI PRECOCI”
In Tanzania, l’indagine è stata condotta sull’isola di Pemba, nelle aree di
Konde, Micheweni e Majenzi. Qui l’accesso all’acqua rappresenta una sfida
critica: il 58% delle donne segnala difficoltà e l’81% è costretto a percorrere
lunghe distanze per procurarsela, con rischi per la salute e per la sicurezza.
L’insicurezza alimentare causata dal cambiamento climatico influisce
negativamente sulla nutrizione materna e sull’allattamento: oltre la metà delle
donne (56%) ha difficoltà ad accedere a cibi nutrienti. Lo stress ambientale
influenza le decisioni sulla pianificazione familiare. Le difficoltà economiche
e lo stress causati dai rischi climatici rendono donne e ragazze più vulnerabili
alla violenza di genere, inclusi matrimoni forzati, violenza sessuale e
domestica.
LE POLITICHE DA ATTUARE (CHE L’UNIONE EUROPEA SMANTELLA)
L’indagine di WeWorld si conclude con una sezione di raccomandazioni per
orientare politiche e pratiche che promuovano l’equità di genere, la salute e la
giustizia sessuale e riproduttiva. Le raccomandazioni sono indirizzate ai
diversi attori coinvolti: donatori e finanziatori internazionali, decisori
politici, organizzazioni della società civile. “On Our Lands, On Our Bodies”
approfondisce gli effetti della crisi climatica sulle comunità rurali e
indigene, ma WeWorld ha condotto anche ricerche sulla filiera agroalimentare,
per comprendere come il clima influenzi l’agricoltura locale e i mezzi di
sussistenza, con particolare attenzione alle donne. L’organizzazione sostiene
iniziative di Disaster Risk Reduction, promuovendo sistemi locali di allerta e
piani di emergenza e, a livello istituzionale, porta avanti iniziative di
advocacy per influenzare le politiche climatiche e sociali, come il lavoro sulla
direttiva Due diligence presso l’Unione Europea, per promuovere responsabilità
sociale e tutela dei diritti nelle filiere produttive. Proprio in questi giorni,
tra l’altro, è partito il negoziato interno all’Unione europea, dopo che il
Parlamento Ue ha votato la sua posizione negoziale, indebolendo il pacchetto di
misure che obbligano le aziende a rispondere delle violazioni dei diritti umani
e ambientali nelle loro catene di approvvigionamento.
Fotocredits: WeWorld
L'articolo Crisi climatica, le donne pagano il prezzo più alto. Le storie
(portate alla Cop30) da Brasile, Kenya e Tanzania proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Ora che dai piani alti di Milano s’intravede la prima neve che ha spruzzato un
po’ di bianco persino sulle vicine montagne del gruppo delle Grigne, le menti
sottili che stanno organizzando la trepidante attesa pubblica delle Olimpiadi
avranno tirato un sospiro di sollievo. Adesso tutti quei murales e quei
monumenti simbolici davanti a Palazzo Marino, nonché tutto il battage mediatico,
sembreranno magari meno assurdi.
Appena poche ore fa, però, c’era quasi da ridere – se non fosse che sarebbe da
piangere – anche solo ad ascoltare le prime parole dei commentatori televisivi
della seconda gara di Coppa del Mondo dello Sci, che si è svolta a Levi, nel
comprensorio d’impianti di risalita più importante del Nord, nella Lapponia
finlandese, circa 180 km a nord-ovest del Circolo Polare Artico. Si sentiva
prima di tutto giustificare la non particolare presenza di pubblico all’arrivo,
per via delle temperature rigide della mattina, intorno ai meno 16, ma poi ecco
che gli esperti viravano subito sul tecnico, esaltando le perfette delle
condizioni della neve.
Ohibò, ci sarà pure la neve buona da sciare almeno oltre il circolo polare
artico, veniva da pensare. E invece no: le piste di Levi erano in ottime
condizioni per la puntuale preparazione del manto di ‘snowfarm’ con i vari
macchinari come i gatti delle nevi e i rasaghiaccio nonché un tot di iniezioni
di liquidi chimici. Vale a dire che ormai, persino dove s’immagina vivano Babbo
Natale e le sue renne, si comincia a sciare a novembre perché è stata
immagazzinata e conservata la neve della stagione invernale precedente, quando
non viene prodotta ad hoc. E i costi e gli sprechi energetici connessi
all’innevamento programmato sono soltanto una parte del regalino ecologico del
circo bianco: va poi considerato tutto quello che comporta far viaggiare avanti
e indietro per mezzo mondo atleti e accompagnatori, apparati televisivi e
sportivi legati alle gare di sci. Ogni anno è la stessa solfa, anche nelle
nostre Alpi.
Parliamo di uno spreco che rasenta la follia, tutto alimentato con soldi
pubblici anche se poi a guadagnarci sono soltanto aziende private che peraltro
non avrebbero certo bisogno. Ma nessuno si stupisce più di nulla, nel pieno del
menefreghismo negazionista climatico di ritorno. Questo fenomeno di rigetto
etero-diretto delle istanze ecologiste si combina perfettamente all’ormai
definitiva accettazione delle logiche del turbo-capitalismo finanziario, per cui
nessuno più si scandalizza nemmeno se viene già pubblicizzata con enfasi, per
esempio, la notizia che per le Olimpiadi del 2026 il costo medio del
pernottamento alberghiero a Milano sarà di 459 euro. Per non dire poi della fu
perla delle Dolomiti, Cortina, con appartamenti affittati a 25mila euro per le
due settimane olimpiche!
Le anime belle che sono scese in piazza per l’Europa appena eletto ‘Orco Trump’
a presidente degli Stati Uniti, votano magari per i complici principali dello
scempio olimpico invernale prossimo venturo. E non hanno battuto ciglio nemmeno
quando la Commissione Von der Leyen ha stipulato un accordo kamikaze sui dazi
che prevede un impegno colossale di denaro pubblico europeo da destinare
all’acquisto di petrolio ed altra energia sporca nonché di armi e sistemi per la
difesa americani. Dovrebbe pure manifestare di nuovo, gli pseudo-neo-europeisti,
adesso che il governo Ue s’è s’è accomodato in Parlamento a prendere proprio i
voti dei nazionalisti populisti e dei conservatori, pur di decretare un pesante
stop al caro vecchio strombazzato piano per il Green New Deal, che già aveva
intaccato appena la follia dei finanziamenti diretti e indiretti ai trust delle
energie fossili, e pur di dirottare tranquillamente enormi risorse ex novo su un
cinico e tragico piano di riarmo generalizzato.
Si vis pace para bellum, ha ripetuto la ministra Ue Kaja Kallas all’ultimo
convegno dei pacifinti della Cisl. Già, se la sinistra e i progressisti vogliono
ripartire da qualche parte, invece di chiudersi nei partiti e nella lotta tra
correnti e pseudo-leader, possono farlo soltanto preparando una guerra politica
seria sui grandi temi come la svolta ecologica e più che mai la deriva mostruosa
del riarmo generalizzato, piuttosto che la lotta contro il lavoro povero e le
nuove forme di schiavitù – fenomeno poi è strettamente conseguente alla
globalizzazione incontrollata e alla lotta di facciata all’emigrazione, che ha
creato di fatto una massa di disperati disposta a tutto. Forse invece di
strepitare in piazza e nei convegni sempre soltanto contro il regime neo-post
fascista di Giorgia Meloni, sarebbe ora di prendere coscienza che anche la ‘sua’
amica Ursula ha gettato definitivamente la maschera pseudo-democratica
cristiana, che quanto fosse fasulla per un’aristocratica di rango lo si poteva
pure intuire anche solo quando non ha esitato a far declassificare i lupi dalle
razze di animali ‘rigorosamente protetti’ solo perché un grande esemplare
affamato, censito come GW950m, nella regione di Hannover aveva assalito uno dei
suoi amati Pony, Dolly, in un castello di famiglia del marito.
Anche se poi alla fine, più truci e orribili di tutti i governanti che comandano
a bacchetta, sono gli spietati accumulatori di grandi capitali a cui ora
s’uniscono volentieri in Europa i nuovi Signori della Guerra, che almeno in
Germania hanno un nome e cognome, come Armin Papperger di Rheinmetall, che ora
produrrà carri armati come noccioline per tutti i governi europei. Ma che,
peggio ancora, nella nostra ipocrita e sfacciata Italia sono perlopiù ex
politici, anche di sinistra, che siedono sulle poltrone chiave di società
pubbliche come Leonardo, non a caso oggi guidata dall’ex ministro della
Transizione ecologica del governo Draghi, per cui Beppe Grillo in persona si
scomodò ad approvare il nuovo governo tecnico.
L'articolo Pure in Lapponia serve neve artificiale, figuriamoci a
Milano-Cortina. Uno spreco che rasenta la follia proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Momenti di paura alla Cop 30 del Brasile: un incendio è divampato nello spazio
della Zona Blu, dove si svolgono i negoziati che si stanno portando avanti – tra
mille difficoltà – a Belém. È accaduto intorno alle 18 (alle 14 ora locale), in
quella che dovrebbe essere la giornata che precede la chiusura. Le fiamme e il
fumo si sono propagati nella zona dei padiglioni dei vari Paesi, proprio dietro
il padiglione dell’Italia, nei pressi dell’ingresso della Cop. I partecipanti al
vertici sono stati fatti evacuare verso la Green Zone, dall’altra parte del
complesso che ospita la Conferenza delle Parti sul clima. Evacuata anche la sala
stampa dove stavano lavorando reporter provenienti da tutto il mondo. Tra loro
anche diversi giornalisti italiani. Contemporaneamente agenti della sicurezza e
personale delle Nazioni Unite sono intervenuti, cercando di spegnere le fiamme
con gli estintori. Sul posto anche i vigili del fuoco, che hanno messo in
sicurezza l’area. Intorno alle 14.30, il ministro del Turismo brasiliano, Celso
Sabino, ha dichiarato che l’incendio era sotto controllo. Il governo di Pará,
invece, ha riferito che non ci sono stati feriti, ma non sono ancora note le
cause che hanno provocato l’incendio.
Video X e @andre_grieco
L'articolo Paura alla Cop 30 del Brasile, incendio nella zona dei padiglioni dei
Paesi: partecipanti evacuati, nessun ferito proviene da Il Fatto Quotidiano.