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Auto inquinanti dopo il 2035? Se l’Europa torna indietro sull’elettrico, se ne avvantaggerà la Cina
di Andrea Boraschi* Martedì l’Ue deciderà il futuro del settore auto europeo. La revisione della normativa sulle emissioni di CO₂ delle auto, dunque la decisione di confermare o meno l’obiettivo di vendere solo veicoli a zero emissioni dal 2035, ci dirà se l’Europa è davvero intenzionata a competere con Cina e Stati Uniti o se, di fatto, accetterà una prospettiva in cui il futuro dell’auto non è europeo. L’industria automobilistica del continente e i suoi alleati politici, nonché le lobby dell’oil&gas, hanno impegnato tutte le loro forze in questa battaglia. Ciò che realmente vogliono – oltre il paravento fumoso della “neutralità tecnologica” – è la possibilità di continuare a vendere auto endotermiche anche dopo il 2035. E di lasciare maggiore spazio, da qui ad allora, a tecnologie e carburanti assai lontani – per capacità di riduzione delle emissioni, per efficienza, maturità tecnologica e sostenibilità – dalle prestazioni dell’auto elettrica (BEV). Che sarà invece – per stessa ammissione dei carmaker – la tecnologia dominante nei prossimi anni. L’industria è molto abile, quando si tratta di addossare la responsabilità della sua crisi sui regolatori e sulle politiche climatiche. La realtà, però, è che la crisi dell’auto non ha nulla a che fare col 2035. Le vendite di auto in Europa sono calate di tre milioni, rispetto al 2019, perché le case automobilistiche hanno privilegiato margini di profitto più alti a scapito dei volumi. Tra il 2018 e il 2024 il prezzo medio di un’auto di massa è salito del 40%, passando da 22.000 a 30.700 euro. E sono stati anni in cui molti produttori hanno registrato profitti record. Queste decisioni stanno ora producendo effetti concreti. La maggior parte degli europei non può più permettersi un’auto nuova, mentre in Cina i marchi europei stanno cedendo mercato sotto la pressione della concorrenza locale sui veicoli elettrici. Come se ne esce? La “soluzione magica” dei carmaker sarebbe di aprire le porte ai biocarburanti e agli ibridi plug-in (PHEV) dopo il 2035. Un rimedio effimero, volto a massimizzare nel breve termine la componente endotermica; e un grave errore strategico nel medio-lungo termine, che rischia di condurre l’industria europea in un vicolo cieco. Ecco perché. La prospettiva industriale – Una prospettiva di decarbonizzazione chiara, dunque obiettivi trasparenti e stabili, rappresenta la bussola degli investimenti e della fiducia nel mercato. Indebolire il target del 2035 significherebbe mettere a rischio centinaia di miliardi già impegnati nella filiera dell’elettrico: batterie, reti di ricarica, elettronica di potenza e componenti. Non a caso, oltre 200 CEO e leader del settore hanno scritto alla Commissione europea esortandola a non toccare questi obiettivi. La sostenibilità economica – Dietro lo slogan della “neutralità tecnologica” si nascondono soluzioni costose per i consumatori. Le auto elettriche sono già le più economiche, nell’intero ciclo di possesso e utilizzo, e presto saranno anche le più convenienti da acquistare. Al contrario, gli ibridi plug-in costano in media 15.000 euro in più delle elettriche; se ai costi di acquisto si sommano quelli di utilizzo, le PHEV possono arrivare a costare fino al 18% in più per veicoli nuovi, percentuali che salgono ulteriormente (fino al 29%) per l’usato. Gli e-fuel – altra soluzione propugnata dall’industria – arriverebbero a costare fino a 6-8 euro al litro. E anche i biocarburanti avanzati, tanto cari all’Italia, sarebbero un’alternativa costosa a causa della loro scarsa disponibilità. L’avanzata dell’elettrico – La corsa globale verso l’elettrico, per contro, è in atto e non da segni di inversione. Le vendite di veicoli elettrici crescono non solo in Cina, ma anche in mercati emergenti come Thailandia e Vietnam. E anche in Europa la transizione sta accelerando. Lo scorso novembre, i veicoli elettrici hanno raggiunto un nuovo massimo storico, con 160.000 unità vendute in sette mercati del continente europeo. Dall’inizio dell’anno si registra una solida crescita del 30%: oggi in Francia le BEV valgono il 26% del mercato, in Portogallo il 32%; nel Regno Unito sfiorano il 26,5% e in Germania sono al 22%, massimo storico dopo la fine degli incentivi nel 2023. In Italia, lo scorso novembre le elettriche hanno rappresentato il 12% del mercato. Un risultato frutto degli incentivi, certo; ma anche la dimostrazione ultima che i consumatori non disprezzano affatto l’auto elettrica, hanno semmai bisogno di politiche di sostegno alla transizione. Il declino inesorabile dei motori tradizionali – Sul fronte opposto, i motori tradizionali sono in costante declino. Le vendite di auto a combustione interna (ICE) non si sono mai riprese dal picco del 2019; da allora a oggi, ICE e ibride (non plug in), sommate, hanno perso il 10% del mercato (mentre le elettriche ne hanno conquistato il 15%). La domanda complessiva di auto è diminuita – tra le altre cose – a causa di stagnazione economica, inflazione e tassi d’interesse elevati. Ma quando i clienti torneranno, troveranno un mercato dominato dalle elettriche, non dai motori tradizionali. Chi scommette ancora sul ritorno dei veicoli a combustione — biofuel costosi, e-fuel o veicoli ibridi, che fanno ancora in gran parte leva sulla tecnologia endotermica — semplicemente si illude. L’Europa è a un bivio – Solo mantenendo fermi gli obiettivi attuali il settore auto europeo ha una reale possibilità di competere nel mercato globale dei veicoli elettrici. Indebolirli significherebbe aggrapparsi a rendite di posizione sempre più esili, e rimanere ancora più indietro in termini di innovazione. In altre parole: rallentare la transizione non aiuta. Peggiora la nostra posizione competitiva. L’industria automobilistica europea si è resa conto tardi di essere indietro rispetto alla Cina. Ma ogni esitazione, oggi, è un vantaggio ulteriore per Pechino, che non rallenterà la corsa verso l’elettrico solo perché noi prolunghiamo la vita dei motori endotermici. Mentre i consumatori europei, nel frattempo, smetteranno di acquistare una tecnologia di qualità inferiore e già oggi, in molti Paesi, più costosa. Se l’Ue fa marcia indietro ora, rischia di perdere il più grande cambiamento industriale di questa generazione, abbandonando l’ambizione di padroneggiare una delle tecnologie più importanti del XXI secolo e i vantaggi industriali, economici e sociali che ne derivano. Ora è il momento di mantenere la rotta e, per i decisori, di mostrare leadership e visione. Puntare su e-fuel e biofuel, su ibridi e su veicoli a combustione “efficienti” è la direzione certa per trasformare l’Europa in un museo dell’auto. *direttore T&E Italia L'articolo Auto inquinanti dopo il 2035? Se l’Europa torna indietro sull’elettrico, se ne avvantaggerà la Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Una pandemia invisibile minaccia i ricci di mare e i reef globali: scheletri bianchi dalle Canarie fino all’Oceano Indiano
Negli ultimi quattro anni, una pandemia invisibile sta decimando i ricci di mare in vaste regioni del pianeta. Dai Caraibi al Mar Rosso, fino all’Oceano Indiano, alcuni dei più importanti ingegneri degli ecosistemi marini stanno scomparendo nel giro di poche ore, trasformando fondali un tempo dominati dai coralli in distese di scheletri bianchi e alghe invasive. La nuova ondata registrata alle Canarie tra il 2022 e il 2023 rappresenta una tappa critica di questa crisi globale, con caratteristiche ancora in parte misteriose. I ricci del genere Diadema svolgono un ruolo essenziale nel mantenere in equilibrio gli ecosistemi costieri: brucano le alghe, impediscono che soffochino i coralli, sostengono la biodiversità e regolano l’intero funzionamento del reef. Ma quando un patogeno li colpisce, l’effetto è immediato e devastante. Lo mostrano i dati raccolti da Iván Cano e colleghi, pubblicati su Frontiers in Marine Science. Tra l’estate 2022 e il 2023, Diadema africanum ha cominciato a morire in massa sulle coste delle isole occidentali dell’arcipelago delle Canarie, per poi essere colpito su tutte le sette isole principali. Gli animali smettevano di muoversi, perdevano le spine e la carne, fino a ridursi in pochi giorni a gusci vuoti. Le analisi condotte su 76 siti indicano che l’abbondanza attuale di D. africanum è “ai minimi storici”, con popolazioni prossime all’estinzione locale: rispetto al 2021, il calo è stato del 74% a La Palma e del 99,7% a Tenerife. Ancora più preoccupante è il crollo della riproduzione: sulle coste orientali di Tenerife, le trappole per larve hanno raccolto quantità “trascurabili”, e nelle zone di insediamento non è stato trovato alcun giovane riccio. In pratica, la popolazione non sta rimpiazzando le perdite. Il quadro che emerge, però, non riguarda soltanto le Canarie. Gli autori sottolineano che eventi simili sono stati osservati “approssimativamente nello stesso periodo” nei Caraibi, nel Mediterraneo, nel Mar Rosso, nel Mare di Oman e nell’Oceano Indiano occidentale. A differenza del caso canario — dove il patogeno non è ancora identificato — altri studi hanno dimostrato che la pandemia in corso in queste regioni è causata da uno scuticociliata parassita del genere Philaster, capace di uccidere oltre il 90% degli individui colpiti. È lo stesso agente responsabile delle morti nel Mar dei Caraibi nel 2022 e delle più recenti morie nel Mar Rosso e a Réunion, come dimostrato dalle ricerche del team dell’Università di Tel Aviv, pubblicate su Ecology e Current Biology. Ciò che accomuna queste crisi è la rapidità dei focolai: spesso, in meno di 48 ore, intere popolazioni si trasformano in carcasse fragili sbriciolate dai predatori. Le cause ambientali — tempeste, ondate anomale, cambiamenti nella temperatura dell’acqua — potrebbero agire come fattori scatenanti, ma nel caso delle Canarie la natura dell’agente rimane aperta. Precedenti eventi nell’arcipelago erano stati associati ad amebe come Neoparamoeba branchiphila, mentre altrove i responsabili sono ciliati. Senza un’analisi genetica, non è possibile stabilire se la moria canaria sia parte della stessa pandemia globale. Il risultato, però, è già visibile: la scomparsa di un regolatore ecologico cruciale apre la strada all’espansione delle alghe, altera la struttura del reef e può avviare una trasformazione irreversibile degli ecosistemi costieri. Per gli scienziati, la priorità ora è duplice: chiarire la natura del patogeno alle Canarie e monitorare in tempo reale la diffusione delle morie nel resto del mondo. In mancanza di interventi tempestivi — e non esistendo alcuna cura per i ricci infetti — interi tratti di fondale potrebbero cambiare volto per generazioni. Il team di Tel Aviv guidato da Bronstein ha sviluppato una nuova tecnologia di campionamento genetico subacqueo. La tecnologia — un kit simile a un test COVID per uso subacqueo — consente di prelevare campioni genetici dagli animali senza danneggiarli e senza rimuoverli dal mare. Il metodo ha già permesso raccolte su larga scala in Eilat, Gibuti e Réunion, offrendo uno strumento cruciale per monitorare l’epidemia in tempo reale. Nella ricerca pubblicata su Ecology, Bronstein e colleghi dimostrano geneticamente che lo stesso patogeno individuato nel Mar Rosso e nei Caraibi è responsabile della mortalità registrata nell’Oceano Indiano, in particolare a Réunion. Il team definisce la situazione “un’estrema pandemia globale”, con mortalità superiori al 90% in regioni critiche per le barriere coralline. Al momento non ci sono prove della presenza del patogeno tra i ricci dell’Oceano Pacifico, ma sono in corso indagini specifiche. Lo studio su Current Biology ricostruisce in dettaglio la progressione dell’epidemia nel Mar Rosso. Qui, l’agente patogeno ha sterminato intere popolazioni di Diadema setosum in meno di 48 ore, trasformando gli individui in “scheletri privi di tessuti e spine”, spesso divorati dai predatori prima della morte. Le due specie un tempo dominanti nel Golfo di Aqaba “sono oggi praticamente scomparse”. Un elemento chiave è la possibile diffusione tramite il trasporto marittimo. I ricercatori hanno documentato la propagazione del patogeno lungo rotte commerciali, con un caso emblematico: il primo focolaio nel Sinai è apparso nel porto di Nuweiba, dove attracca il traghetto da Aqaba, già colpita dall’epidemia. Due settimane dopo, la malattia è stata rilevata a Dahab, 70 chilometri più a sud. Poco tempo dopo, come previsto dal gruppo, la pandemia è comparsa anche in Africa occidentale, lungo le stesse rotte navali tra Caraibi, Mediterraneo e Mar Rosso. La pandemia ha ormai colpito Caraibi, Mar Rosso, Golfo di Aqaba, Mediterraneo orientale, Isole Canarie, Madeira, Oceano Indiano. Per ora, il Pacifico sembra essere l’unico grande bacino risparmiato, ma non ci sono garanzie che la situazione duri. Le conseguenze ecologiche potrebbero essere enormi. In molte regioni, come ricordano tutti gli studi, i ricci del genere Diadema sono “i giardinieri dei reef”, gli unici in grado di controllare la crescita delle alghe e permettere ai coralli di sopravvivere. La loro scomparsa può innescare un collasso simile a quello dei Caraibi del 1983, dove un evento di mortalità trasformò interi reef in campi di alghe — un cambiamento ancora irreversibile dopo quarant’anni. Non esistono cure o vaccini. I ricercatori stanno lavorando su due fronti: prevenzione della diffusione tramite controlli sulle rotte marittime e creazione di nuclei isolati di allevamento in strutture completamente scollegate dal mare, come quello istituito di recente presso l’Aquarium di Gerusalemme. Il quadro che emerge dai cinque studi è quello di una pandemia veloce, aggressiva e ancora poco compresa, che rappresenta una minaccia senza precedenti per le barriere coralline globali. Mentre la scienza sviluppa nuovi strumenti diagnostici e modelli ecologici, la domanda cruciale resta aperta: capire perché la pandemia è esplosa ora — e come impedirne l’arrivo nel Pacifico, dove si trovano gli ecosistemi corallini più vitali del pianeta. Foto: Università di Tel Aviv e Jean-Pascal Quod L'articolo Una pandemia invisibile minaccia i ricci di mare e i reef globali: scheletri bianchi dalle Canarie fino all’Oceano Indiano proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’inchiesta sulla maxi discarica abusiva a Brescello e i timori degli abitanti che chiedono chiarimenti: ma a rassicurarli è uno dei tecnici indagati
Dice un cartello ormai logoro e sbiadito, davanti alla recinzione dell’immensa area di Brescello destinata, nell’ambizione dei proprietari, ad un grande polo provinciale della logistica intermodale: “Costruire il domani”. Ma il domani è un incubo per i cittadini della zona che si sono svegliati con la notizia del sequestro e delle perquisizioni disposti dalla Procura di Reggio Emilia. Nella spianata che si affaccia su via Peppone e Don Camillo (oltre 250mila metri quadri di suolo) già sono visibili lo scheletro in cemento e la copertura dei grandi capannoni che i proprietari della Dugara SpA, Franca Soncini e il figlio Claudio Bacchi, sognano di rendere operativi almeno dal gennaio 2012, quando iniziarono i lavori di urbanizzazione, mai conclusi correttamente, secondo la procura. n E sono ben visibili, gettando lo sguardo a terra, anche le scorie di acciaieria e di fusione con cui è stata pavimentata l’area. Scorie e materiali che secondo i magistrati Calogero Gaetano Paci (Procuratore) e Giulia Galfano (Sostituta Procuratrice) sarebbero il frutto di uno smaltimento illecito. Più di 910mila tonnellate di rifiuti, seppelliti sull’intera area e in parte ancora a cielo aperto, con una conformazione granulare simile alle piccole pietre laviche. “Se ci vai con una calamita – dice al ilfattoquotidiano.it un esperto – vedrai quante se ne attaccano!”. È però sotto terra che si sarebbero prodotti i danni maggiori, perché le indagini effettuate dai Carabinieri dei Nuclei Radiomobile e Ambientale hanno documentato concentrazioni di ferro e arsenico superiori “in modo rilevante” ai limiti di legge. Non solo una discarica abusiva dunque, ma anche un significativo inquinamento. Le acque sotterranee sono “compromesse e deteriorate” secondo quando reso noto dalla Procura reggiana. A che profondità ciò avvenga è la domanda fondamentale per la sicurezza dei cittadini e delle attività nella zona. Il grande rettangolo di proprietà della famiglia Bacchi è affiancato a est dalla sede brescellese di un consorzio agricolo che vende frutta e verdura. A ovest, a duecento metri di distanza, un gruppo di abitazioni con diverse famiglie non ha allacciamenti idrici con la rete provinciale e l’acqua nelle tubature arriva da pozzi artesiani. La preoccupazione è legittima e una famiglia in prossimità della linea ferroviaria Parma Suzzara, oltre la quale si apre la spianata della Dugara SpA, ha raccontato a ilfattoquotidiano.it di avere telefonato giovedì 11 dicembre al presidio territoriale di Arpae, l’ente pubblico della regione Emilia Romagna che ha compiti di vigilanza, prevenzione e controllo sull’ambiente. Volevano informazioni e hanno ottenuto rassicurazioni dal responsabile di zona (Novellare – Re) sul fatto che l’acqua alle profondità in cui pescano i pozzi artesiani non risulterebbe contaminata. Peccano che a darle, queste rassicurazioni, sia stato uno dei cinque tecnici dell’Agenzia indagati dalla Procura. Dipendenti pubblici che avrebbero attestato il falso nei rapporti conclusivi dei controlli effettuati sulle acque sotterranee, scrivendo che i superamenti dei livelli ammessi per ferro e arsenico, anche di rilevante entità, erano di origine naturale, legati alle caratteristiche geochimiche del terreno e non alla discarica abusiva. I cinque tecnici della sezione di Reggio Emilia sono accusati di falso ideologico in atti pubblici, del concorso e della continuità nel reato, con l’aggravante della violazione di norme a tutela dell’ambiente. Dovranno rispondere anche di inquinamento ambientale assieme al professionista incaricato dalla Dugara SpA di predisporre i piani di monitoraggio delle acque sotterranee. L’altro tecnico indagato è l’architetto Fabrizio Bo, coordinatore della progettazione del polo logistico nel 2012, incaricato da Claudio Bacchi e dalla madre di scrivere gli atti da presentare al comune di Brescello per le opportune concessioni. L’attuale sindaco Carlo Fiumicino prende decisamente le distanze dal progetto del polo logistico sostenendo che la sua Amministrazione comunale ha sempre espresso parere contrario perché il centro intermodale “sarebbe stato la pietra tombale per il Comune, con infrastrutture stradali collassate di tir e salute dei cittadini compromessa”. Non la pensavano così amministratori del passato e di altri comuni emiliani e mantovani a ridosso del fiume Po. I Bacchi e la storica azienda fondata da Aladino (marito di Franca Soncini, deceduto nel 2015 a 99 anni) hanno fatto il bello e il cattivo tempo lungo le rive del fiume scavando sabbia dal suo alveo, nonostante le tantissime vicende giudiziarie contro le quali hanno inciampato. L’interdittiva antimafia del prefetto Antonella De Miro, nel 2011, impediva di fatto alla Bacchi SpA di lavorare per la costruzione della tangenziale di Novellara (Re), ma l’allora presidente della Provincia Sonia Masini, colpevole di avere emesso il provvedimento (dovuto) che recepiva quella interdittiva, subì duri attacchi politici anche all’interno del suo partito (il Pd). E sull’altra riva del Po, a Viadana, c’è un luogo tristemente noto come “Cava Caselli” dove la Bacchi SpA estraeva sabbia per la tangenziale Cispadana, prima di abbandonarlo al suo destino. Nonostante le tante denunce di un consigliere comunale, Silvio Perteghella, e l’apertura di fascicoli giudiziari e amministrativi, sono trascorsi già 26 anni senza che nessuno abbia realmente pagato per il presunto danno ambientale prodotto in quella cava. 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Elicottero trasporta neve in quota per le piste da sci del Monte Bondone: “Superato il limite”. Il video
Manca la neve? Usiamo l’elicottero. Così hanno pensato sul Monte Bondone, in provincia di Trento, visto che una concomitanza di cause atmosferiche aveva creato problemi alle piste proprio durante il “ponte dell’Immacolata”. Qualche scialpinista se n’è accorto, ha registrato un video e la notizia è arrivata all’attenzione delle associazioni ambientaliste che hanno firmato una dura presa di posizione. La dichiarazione porta le firme di Extinction Rebellion Trentino, Wwf Trentino Alto Adige, Circolo di Trento di Legambiente, Rete Climatica Trentina, Italia Nostra – sezione trentina, Lipu sezione di Trento, Associazione per l’Ecologia, Yaku, L’Ortazzo, Enpa del Trentino sezione di Rovereto, Acque Trentine, Mountain Wilderness Italia: “E’ stato superato il limite: si tratta di un segnale gravissimo e di un precedente pericoloso. Mentre il clima cambia sotto i nostri occhi (oggi lo zero termico ha toccato i 3.500 metri), la risposta non può essere quella di bruciare carburante per trasportare neve artificiale su una montagna che, semplicemente, in quelle condizioni non può garantire ciò che garantiva un tempo”. Hanno poi spiegato: “L’intervento è durato quasi 4 ore e ha comportato l’emissione in atmosfera di almeno una tonnellata e mezzo di anidride carbonica. La necessità di aprire almeno il 50 per cento delle piste per non perdere clienti durante il ponte dell’Immacolata non può diventare un lasciapassare per interventi che ignorano ciò che la montagna ci insegna da sempre: la cultura del limite”. La replica è venuta da Fulvio Rigotti, presidente di Trento Funivie: “Non c’è stata altra scelta per alcune condizioni particolari che si sono verificate negli scorsi giorni: abbiamo salvaguardato l’indotto della montagna. I danni economici sarebbero stati molto maggiori e prolungati nel tempo. Trasportare la neve accumulata dal Canalon al Palon avrebbe richiesto troppo tempo e numerosi viaggi. In questa situazione di emergenza e nella necessità tanto di rispettare gli accordi quanto di avere un’offerta di livello per il ponte dell’Immacolata, si è reso necessario utilizzare l’elicottero”. È sempre una questione di soldi. Secondo la stima di Rigotti, “il costo dell’elicottero per un paio di ore di volo e di trasporto neve è stato di circa 6mila euro a fronte di un danno quantificato in oltre mezzo milione tra skipass e indotto generale”. Si tratta di un tema ambientale molto serio, come sta dimostrando anche la corsa alla creazione di bacini artificiali e la moltiplicazione degli impianti di innevamento, per le Olimpiadi Milano Cortina 2026. Mountain Wilderness ha allargato l’orizzonte della critica. “Il percorso partecipato che aveva portato al piano di gestione del patrimonio naturale Unesco delle Dolomiti si era chiuso con un impegno chiaro: stop ai voli turistici sugli ecosistemi più fragili delle Alpi. In attesa di una normativa nazionale più severa anche Veneto e Friuli Venezia Giulia avrebbero adottato le stesse tutele già previste dalle Province di Trento e Bolzano. A garantirne il rispetto doveva essere la Fondazione Dolomiti Unesco. Oggi possiamo dirlo senza mezzi termini: quelle promesse sono state tradite”. Non è solo questione di neve portata con l’elicottero. “La Fondazione ha lasciato campo libero a ogni abuso. Sulle Dolomiti si vola come e quando si vuole, senza controlli, senza limiti, senza alcun rispetto per la fauna, per il diritto al silenzio, per chi vive e cammina in queste montagne. In Trentino e in Veneto – dal Monte Bondone a Cortina – si arriva a portare neve in quota con l’elicottero. In Alto Adige continuano i voli di eliturismo da Corvara, e talvolta da Ortisei o passo Gardena, in violazione della stessa legge provinciale. È la fotografia di un territorio dove l’arroganza umana sembra non conoscere confini”. Appello finale: “Chiediamo che la montagna torni ad essere ciò che è: un bene comune, non un parco giochi per elicotteri”. L'articolo Elicottero trasporta neve in quota per le piste da sci del Monte Bondone: “Superato il limite”. Il video proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’Apocalisse climatica un falso? La scienza andrà avanti nonostante le distorsioni di Rampini
di Antonello Pasini* Recentemente, Federico Rampini, noto giornalista e opinionista molto ascoltato in tv, sui giornali e sui social, ha pubblicato sulle pagine web del Corriere della Sera un suo video dal titolo emblematico: “L’Apocalisse climatica che era un falso”. Vi si parla di un articolo scientifico sui danni economici dei cambiamenti climatici che si prospettano per il futuro a livello mondiale, pubblicato un anno e mezzo fa sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Nature e recentemente ritirato. In poche parole, Rampini sostiene che era “pieno zeppo di dati falsi, manipolati, truccati, in modo da ingigantire, appunto, i danni economici del cambiamento climatico” e vuole proporre quella che chiama “una riflessione adeguata sul perché sia stato possibile”, sostenendo che gli scienziati del clima sono diventati “sacerdoti di una religione” che “sacrificano la verità” per “rieducare un’umanità peccaminosa”. Infine, si inoltra in disquisizioni psicologiche sul perché ciò sia stato possibile. Ebbene, prima di tutto non si tratta di una frode, né di aver presentato dati falsi, manipolati, truccati. Se si vanno a vedere su Nature le motivazioni per il ritiro dell’articolo, si capisce subito che, dopo la pubblicazione dell’articolo stesso, alcuni membri della comunità scientifica hanno fatto notare agli autori che i dati relativi ad un singolo paese, l’Uzbekistan, apparivano poco affidabili e non corretti nel periodo 1995-1999. Questo ha indotto gli autori sia a rimuovere questo paese dall’analisi, sia a correggerne i dati e vederne le influenze sui risultati. Ebbene, questi risultati cambiano, ma di molto poco, lasciando valide le conclusioni sull’influsso molto forte dei cambiamenti climatici sui danni economici e sulla caduta del Pil mondiale. Per intendersi, si parla di passare da 38 mila miliardi di dollari all’anno di costi economici a metà secolo a 32 mila miliardi di dollari, sempre una cifra enorme. Inoltre, c’è ora una minore probabilità che i danni divergano tra i diversi scenari di emissione entro il 2050: ma si scende appena dal 99% al 90% circa. La rivista allora ha chiesto agli autori di correggere il proprio articolo, ma gli autori hanno considerato che il lavoro da fare non fosse tale da consentire la pubblicazione di un’immediata correzione e hanno preferito ritirare l’articolo per poi ripresentarlo in seguito corretto. Sacerdoti di una nuova religione? Non mi pare proprio. Questa è la dinamica scientifica, che è molto diversa da quella degli opinionisti, questa sì polarizzata e influenzata dalla peculiare visione del mondo che ognuno di essi ha. Dove la trovi una dinamica che è talmente potente e rigorosa da autocorreggersi se non nella ricerca scientifica? Prima di parlare con certe considerazioni e certi toni, soprattutto se si vuole fare una “riflessione adeguata”, ognuno dovrebbe guardare la realtà delle cose e non stiracchiarla per corroborare la propria visione preconcetta e/o portare avanti la propria narrazione della realtà. In questo senso, nonostante nei giorni precedenti fosse apparso un articolo proprio sul Corriere dove si discuteva più correttamente di questo ritiro dell’articolo di Nature, mi pare proprio che Rampini abbia fornito informazioni fattualmente false, e questo è grave. Confrontiamoci con i dati di fatto e allora potremo discutere seriamente del problema del cambiamento climatico. Di una cosa sono sicuro. Nonostante questo mondo attuale della comunicazione “mordi e fuggi”, dove, con messaggi ipersemplificati e polarizzati, ognuno ha il potere di distorcere i risultati scientifici per portare acqua a una certa visione del mondo, la scienza farà il suo corso ineluttabile. Perché nella sua dinamica ha gli anticorpi per debellare qualsiasi virus ideologico gli si dovesse infiltrare. Mi verrebbe da parafrasare un’espressione di Humphrey Bogart sul potere e l’ineluttabilità del giornalismo, pronunciata nel film L’ultima minaccia mentre la rotativa stampava il giornale con un’inchiesta contro un boss criminale che aveva invece cercato di metterla a tacere: “That’s the press, baby!”. La scienza andrà avanti comunque, ineluttabilmente, nonostante qualsiasi opinionista: “È la scienza, bellezza!”. *Fisico del clima, CNR L'articolo L’Apocalisse climatica un falso? La scienza andrà avanti nonostante le distorsioni di Rampini proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Accordo di Parigi sul clima, dieci anni dopo nessun effetto concreto: ora dobbiamo azzerare le emissioni
Avrete certamente sentito parlare della teoria di Elizabeth Kubler-Ross delle “cinque fasi del lutto.” Quando ti capita qualcosa di brutto nella vita, le reazioni tipiche sono: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. Queste fasi non sono in sequenza, possono coesistere o cambiare l’ordine in cui compaiono, ma sono una buona approssimazione di quello che succede quando ci troviamo di fronte a qualcosa di molto spiacevole. E’ un modello che possiamo applicare alla questione del clima, a partire da quando si è cominciato a parlarne come un problema importante, negli anni ’80. Possiamo dire che la fase di negazione è cominciata quasi subito, non nel senso di negare l’esistenza del riscaldamento globale, ma nel minimizzare l’impatto. “Basterà qualche piccolo aggiustamento: doppi vetri alle finestre, tenere basso il termostato, riusare gli asciugamani negli alberghi; questo tipo di cose.” In sostanza, lucidare le maniglie del Titanic mentre affonda. Qualcuno invece si è reso conto che bisognava fare qualcosa di più e questo ha dato inizio alla fase di contrattazione con le varie “conferenze delle parti”, le Cop, con l’idea di mettersi d’accordo per ridurre le emissioni di gas serra. La prima Cop è stata a Berlino nel 1995; ora siamo arrivati alla Cop30, tenuta da poco a Belém, in Brasile. Ci ricordiamo della conferenza di Kyoto, nel 1997, che aveva generato il trattato di Kyoto, il primo accordo internazionale sul clima della storia. L’altra Cop con qualche rilevanza è quella di Parigi del 2015, la Cop21, che produsse l’accordo di Parigi il 12 dicembre 2015, di cui in questi giorni ricorre il decennale. L’accordo di Parigi è stato un passo importante per varie ragioni. Una era la sua universalità: raccoglieva le firme di 195 paesi. Altrettanto importante è il fatto che era la prima volta che si proclamava un obbiettivo quantificato e misurabile: mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2°C, se possibile limitarlo a 1,5°C. Si proponevano anche dei modi per arrivarci: ogni stato doveva presentare e aggiornare ogni cinque anni i propri Contributi Determinati a livello Nazionale (Ndc), ovvero piani volontari di riduzione delle emissioni. L’obbiettivo era corretto, ma il metodo per ottenerlo si è rivelato inefficace. La prima valutazione dei risultati si è tenuta alla Cop28 del 2023, ed ha concluso che il mondo è ancora lontano dagli obiettivi. Come del resto è evidente se guardate la curva della concentrazione di CO2 nell’atmosfera: non c’è traccia di un effetto dell’accordo di Parigi. Secondo l’Unep e il rapporto del Global Stocktake 2023, per fare qualcosa di buono bisognerebbe triplicare gli sforzi entro il 2030 e quintuplicarli entro il 2035. Ma ormai è comunque troppo tardi per rimanere entro 1,5°C. E forse anche i 2°C sono un obbiettivo troppo difficile. E ora? Ritornando agli stadi di Kubler Ross, stiamo rapidamente entrando nella fase della “rabbia” con la ricerca di qualcuno o qualcosa da incolpare per il disastro in cui ci ritroviamo. Sembrerebbe che i nostri leader attuali non riescano a pensare a niente di meglio per risolvere il problema del clima che una bella guerra; nucleare, se possibile. Allo stesso tempo, la rassegnazione va molto di moda. Si si sente dire che non c’è ragione di preoccuparsi. Dopotutto, al tempo dei dinosauri la concentrazione di CO2 era molto più alta che oggi, faceva molto più caldo e i dinosauri stavano benissimo. Sì, peccato però che noi non siamo dinosauri. Ci siamo evoluti in un’epoca in cui la concentrazione di CO2 era bassa e non è affatto detto che potremmo vivere respirando l’atmosfera che i dinosauri respiravano. Ritorneremo all’epoca dei dinosauri, dunque? No, non necessariamente. Ma dobbiamo trovare soluzioni migliori di trattati e infiniti ragionamenti sulle riduzioni di emissioni. Come si suol dire, dobbiamo tagliare la testa al brontosauro e azzerarle del tutto. Lo possiamo fare, abbiamo le tecnologie necessarie: rinnovabili ed elettrificazione. Basta volerlo. L'articolo Accordo di Parigi sul clima, dieci anni dopo nessun effetto concreto: ora dobbiamo azzerare le emissioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Rapporto Ispra 2025 sui rifiuti urbani: ora sta alla politica e alle imprese fare la propria parte
Rifiuti Urbani 2025 da Ispra: i cassonetti deficienti sono la “zavorra” del riciclo nonostante la raccolta differenziata (RD) aumenti al 67,7%. La RD aumenta quindi di più di un punto percentuale, ma il riciclo si ferma quindici punti indietro perché le RD sono “sporche”, soprattutto se fatte con i cassonetti stradali, compresi quelli a tessera e/o a calotta. In questo quadro dove si cerca di imporre i cassonetti “deficienti” (finanziati addirittura con il Pnrr) aumentano anche i rifiuti (arrivati a 29.900.000 tonnellate e cioè 2,3% in più rispetto al 2023, ben oltre lo striminzito aumento del Pil allo 0,7%). Vuol dire che non ci sono organiche politiche di prevenzione dei rifiuti, di riparazione e riuso. A partire dagli imballaggi in plastica che senza plastic tax crescono in uno scenario in cui molti impianti di riciclo delle plastiche stanno chiudendo per effetto della sleale concorrenza della plastica vergine; che in Italia, a differenza di Spagna e Francia, non viene contrastata e rispetto alla quale, anzi, i cittadini italiani sono chiamati a pagare salate multe europee per la mancata applicazione del principio di Responsabilità Estesa del Produttore (Epr). Paradigma di questo sistema distorto è proprio l’Emilia Romagna che ha la più alta RD con il 78,9%, ma anche la più alta produzione di rifiuti in assoluto (oltre 650 kg a testa) “denunciando” che laddove vengono fatte RD con i cassonetti deficienti (e costosissimi), si possono anche raggiungere elevate percentuali; ma esse, risultando sporche con oltre il 40% di impurità, rappresentano un riciclo di almeno 30 punti percentuali in meno. Il porta a porta è invece (come perseguito in Veneto e in Sardegna) la via maestra per ottenere alte rese di RD e di riciclo, in quanto le materie raccolte sono pulite e utili ad applicare l’economia circolare. L’unica nota positiva è che il sud, da sempre vessato da pregiudizi in ultima analisi razzisti, non solo produce ben al di sotto della media nazionale dei rifiuti (507 kg a testa) attestandosi ben sotto (454 kg pro capite) ma raggiunge, inclusa la Sicilia, il 60% accorciando il divario con il nord, il maggiore responsabile dell’aumento dei rifiuti. Gli inceneritori decrescono ancora sia nel numero (da 36 del 2023 a 35 nel 2024) che nel flusso trattato (circa il 18%) da cui derivano ben 1.415.000 tonnellate tra scorie speciali e ceneri tossiche. A questo flusso si aggiungono anche se con peso minore 12 “coinceneritori” (cementifici e centrali termo elettriche). In proposito dobbiamo respingere senza mezzi termini l’imbarazzante peana lanciato dal dirigente di Ispra Aprile a favore dell’inceneritore di Roma imposto con procedure dittatoriali e dei due inceneritori altrettanto imposti dall’alto in Sicilia (ma che non è detto che riescano a realizzare!). Le discariche, ormai, ospitano solo circa il 15% dei rifiuti urbani. Adesso ci attendiamo “criteri di efficienza” (Arera, se ci sei batti un colpo!) che disincentivino i cassonetti deficienti e favoriscano raccolte porta a porta sempre più “selettive” anche attraverso l’applicazione delle direttive Ue che impongono di rimborsare di almeno l’80% le spese sostenute per la RD degli imballaggi. Il problema principale sono gli imballaggi plastici, che entro il 2030 l’Ue vuole che siano diminuiti di almeno il 5% e che invece da noi continuano ad aumentare. Occorre applicare il Deposit System per lattine e bottiglie in Pet (c’è già a Malta e a Cipro oltre che in tre quarti di Ue… cosa aspettiamo ad applicarlo?). Se non facciamo così – magari confrontandoci bene con il dramma del tessile che aumenta esponenzialmente – e se non applichiamo il “diritto a riparare” (in Italia si continuano ad incentivare Black Friday e “rottamazioni”!), nel 2026 (l’anno prossimo) non riusciremo a raggiungere quel 55% di riciclo effettivo che l’Ue ci chiede. E se così fosse (ma noi lavoriamo perché ciò non avvenga) ci sarebbe oltre il danno la beffa, visto che i cittadini che pure fanno ottime RD si troverebbero a pagare salate multe europee a causa della mancanza del raggiungimento dell’obiettivo minimo di riciclo. Meno discorsi sulla “Italia che ricicla bene” (che in parte è vero, ma grazie ai cittadini che differenziano e non certo alle imprese e ai governi che fanno di tutto per non applicare davvero gli oneri derivanti dalla Responsabilità estesa dei produttori)! Ora sta alla politica e alle imprese fare la propria parte riducendo a monte i rifiuti. L'articolo Rapporto Ispra 2025 sui rifiuti urbani: ora sta alla politica e alle imprese fare la propria parte proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il dossier sui pesticidi di Legambiente: frutta e ortaggi ancora a rischio. Il 48% dei prodotti esaminati contiene uno o più fitofarmaci
Sono 4.682 i campioni analizzati tra frutta, ortaggi, cereali, prodotti trasformati e alimenti di origine animale, con risultati preoccupanti. Perché se oltre la metà di quelli provenienti da agricoltura convenzionale risulta priva di pesticidi (50,94%, meno però dell’anno prima, 57,32%), dall’altro il 48% contiene tracce di uno (il 17,33%) o più fitofarmaci: questi ultimi rappresentano ben il 30,6% del campione (con un incremento del 14,93% rispetto all’anno precedente). È quanto emerge dal dossier “Stop pesticidi nel piatto 2025 di Legambiente”, realizzato con il sostegno di AssoBio e Consorzio Il Biologico. E proprio sull’effetto “cocktail” si concentra l’allarme degli esperti, nonostante la percentuale di irregolarità rispetto ai limiti UE appaia bassa (1,47%). Perché le autorizzazioni sono calcolate sostanza per sostanza, mentre l’esposizione reale è quasi sempre combinata, con effetti cumulativi su ecosistemi e salute. “Ciò che desta maggiore allarme”, spiega Fiorella Belpoggi, direttrice scientifica emerita dell’Istituto Ramazzini,“è il fatto che molti pesticidi si accumulino. E non è vero che spariscano poi dall’ambiente. Esiste inoltre l’effetto deriva: a seconda delle condizioni atmosferiche i pesticidi possono andare anche molto lontano dalla zona in cui ce n’è bisogno: da studi recenti si è visto che addirittura solo il 10% arriva direttamente sulle piante trattate e il resto può finire in mezzo alle case, ai giardini dove giocano i bambini, ai limiti di scuole e ospedali, nelle zone pedonali diserbate. Un esempio e viene dalle rotaie delle ferrovie che sono pesantemente trattate e si trovano spesso vicinissime ad abitazioni o a campi destinati al pascolo o a produzioni agricole”. AGRUMI E PEPERONI, ALIMENTI PIÙ CONTAMINATI Il Rapporto analizza in dettaglio gli alimenti più contaminati da insetticidi e fungicidi come Acetamiprid, Boscalid, Pirimetanil, Azoxystrobin, Fludioxonil, ma anche molecole tossiche vietate da decenni come il Tetramethrin e il DDT. La frutta è il comparto più a rischio: tre campioni su 4, ovvero il 75,57% contengono multiresiduo e il 2,21% risulta non conforme ai livelli di legge. In particolare, ad essere preoccupanti sono soprattutto i campioni della categoria agrumi (solo il 13,5% è privo di residui). Vanno meglio i prodotti orticoli, sempre con residui nel 40,17% dei casi. Tra gli alimenti più a rischio ci sono il peperone, con solo il 30,07% di campioni regolari, e i pomodori con il 41,82% di campioni privi di residui. Vanno meglio i prodotti trasformati (32,89% con residui) e infine il settore animale, con 88% di campioni totalmente esenti (ma non è inclusa la ricerca di antibiotici). “Insomma, per dare una sintesi del Rapporto”, spiega Angelo Gentili, responsabile Legambiente Agricoltura e co-curatore, “possiamo dire che conferma la situazione che c’era lo scorso anno, con una spinta un po’ più negativa: abbiamo il 75,5% della frutta e oltre il 40% della verdura contaminate da uno o più residui, con effetti che si sommano nel nostro organismo. Il danno è anche per l’ambiente, perché se si aumenta l’uso dei fertilizzanti si crea una situazione gravissima dal punto di vista della fertilità del suolo, mentre le piante diventano meno resistenti”. GLIFOSATO E PESTICIDI ILLEGALI, DUE MOTIVI DI ALLARME Un capitolo particolarmente delicato riguarda il glifosato. La sua autorizzazione nell’UE è stata rinnovata fino al 15 dicembre 2033, a seguito di un procedimento concluso nel 2023, ma le criticità che ne mettono in discussione la legittimità nel quadro della tutela degli ecosistemi e della salute pubblica sono numerosi e preoccupanti. In particolare la European Food Safety Authority (EFSA) e la European Chemicals Agency (ECHA) sono state incaricate dalla Commissione Europea di valutare nuovi studi, fra cui quelli dell’Istituto Ramazzini. “Di recente abbiamo pubblicato lo studio di cancerogenesi sul glifosato, l’erbicida più utilizzato al mondo (Global Glyphosate Study, =GGS) – spiega la dottoressa Belpoggi – si tratta dello studio tossicologico più completo mai condotto sul glifosato e sugli erbicidi correlati. Il GGS ha evidenziato effetti cancerogeni, in particolare sull’insorgenza di leucemia precoci, anche a dosi oggi considerate ‘sicure’. Auspichiamo che si possa arrivare a un bando o almeno a un forte contenimento dell’uso del glifosato. Purtroppo, ci sono comuni come quello di Vercelli ed altri che avevano scelto di non utilizzarlo più nei luoghi sensibili come scuole, parchi, campi sportivi dove stazionano bambini e adolescenti, categorie più a rischio, ma dopo il rinnovo dell’autorizzazione per 10 anni, recentemente hanno deciso di riutilizzarlo per comodità e vantaggi economici”. Un altro motivo di allarme è l’aumento preoccupante del commercio di pesticidi illegali. Dal Rapporto emerge come siano state sequestrate oltre 450 tonnellate di sostanze illegali destinate all’agricoltura e pericolose per la salute, per un valore commerciale di circa 15 milioni di euro. Nel 2024, i controlli sull’uso dei 42 pesticidi in agricoltura sono stati 2.113. Le attività investigative hanno portato all’accertamento di 407 reati e illeciti amministrativi (+24,1%), alla denuncia di 341 persone (+13,7%) e a 54 sequestri, più che raddoppiati rispetto all’anno precedente. BIOLOGICO: RESIDUI RIDOTTI AL MINIMO A fronte di questo quadro del tutto diversi sono i dati del settore biologico: secondo il Rapporto, l’87,7% dei campioni è del tutto privo di residui, il 7,69% per cento ne contiene uno solo, comunque entro i limiti di legge (il dato si spiega con il fenomeno della deriva di pesticidi dalle aree limitrofe ai campi). Per fortuna, inoltre, il biologico cresce, aumentano le superfici certificate e si consolidano i biodistretti (una forma che mette insieme territorio, agricoltura, turismo, enti locali, vendita). La superficie agricola utilizzata (SAU) condotta con metodo biologico raggiunge 2,51 milioni di ettari, +2,4% rispetto al 2023 e +68% nell’ultimo decennio, avvicinandosi all’obiettivo del 25% fissato dal Green Deal europeo al 2030 (la leadership è del Mezzogiorno, seguito dal Centro e dal Nord). Crescono i prodotti vegetali ma anche animali: +31% di bovini biologici in sette anni e quasi un raddoppio degli avicoli (+97%). Aumentano anche le importazioni di prodotti biologici extra-Ue del 7,1%, mentre l’export agroalimentare bio italiano raggiunge 3,9 miliardi di euro (+7% sul 2023). Il biologico mostra come esistano alternative concrete in chiave agroecologica all’utilizzo di pesticidi: l’adozione diffusa di tecniche di biocontrollo, con sostanze naturalmente presenti in natura in grado di eliminare infestanti in modo alternativo rispetto al Glyphfosate, come l’acido pelargonico, l’adozione di rotazioni colturali e sovesci (è una pratica agronomica consistente nell’interramento di materiale vegetale, ndr ), che ripristinano fertilità e interrompono i cicli di parassiti; la tutela degli insetti impollinatori; la protezione della biodiversità agricola e naturale. Accanto a questo, l’impiego di filiere corte e trasparenti e l’abolizione del modello della monocoltura, che sta creando pesanti criticità di alcuni territori come la zona del Prosecco, le mele in Trentino o il nocciolo del viterbese. L’URGENZA DI UN NUOVO PIANO NAZIONALE PESTICIDI C’è poi il fronte normativo. L’ultima versione del PAN, Piano d’Azione Nazionale sui pesticidi, risale al 2014 ed è scaduto nel 2019. Il Regolamento SUR, lo strumento europeo che avrebbe dovuto fissare obiettivi vincolanti al 2030, ha subito rinvii ancora irrisolti. “Chiediamo l’approvazione urgente del SUR in Europa e del PAN in Italia”, afferma Gentili, “il potenziamento del monitoraggio, misure penali chiare contro i pesticidi illegali, il supporto agli agricoltori nella transizione verso il biologico, come sgravi fiscali e semplificazioni, un’Iva ridotta sui prodotti bio e sostenibili e una promozione di mense biologiche in scuole e ospedali”. Purtroppo, mentre la futura PAC (Politica Agricola Comune) 2028-2034 sembra andare verso una maggiore flessibilità per i singoli stati, in Europa, “è in discussione un regolamento Omnibus che sta per liberalizzare i pesticidi ed esiste una raccolta firme di scienziati indipendenti per fermarlo”, denuncia Belpoggi. “D’altronde alternative al glifosato ce ne sono a centinaia, ma la produzione è bassa e quindi i prezzi non scendono”. Le stesse strategie europee Farm to Fork e Biodiversity 2030 offrono obiettivi chiari da raggiungere entro il 2030: ridurre del 50% i pesticidi, del 20% i fertilizzanti, del 50% gli antibiotici in zootecnia, arrivare al 25% di superficie agricola biologica e destinare almeno il 10% dei terreni agricoli alle infrastrutture verdi e alle aree ad alta biodiversità. Cosa si può fare invece livello individuale? Ovviamente la prima leva è l’acquisto di prodotti biologici, agroecologici e provenienti da filiere che riducono drasticamente l’uso della chimica di sintesi, imparando a leggere le etichette. “Scegliendo biologico si va sul sicuro”, spiega Fiorella Belpoggi. “Poi certo si può togliere la buccia, ma proprio quella contiene polifenoli e altre sostanze importanti per la nostra salute. E poi faccio l’esempio delle banane: basta toccare la buccia e poi la banana, magari per darla a un bambino, per contaminarla”. Ci sono poi le scelte che non si compiono da soli: sostenere biodistretti, gruppi di acquisto solidale, mercati contadini e reti locali che promuovono l’agroecologia. “Siamo senza dubbio in una fase molto complessa, in cui anche i cambiamenti climatici stanno mettendo in seria difficoltà la nostra agricoltura, generando danni rilevanti, favorendo la proliferazione di micropatologie e insetti alieni, e causando forti diminuzioni delle rese e del reddito agricolo”, conclude Gentili. “Ma l’unica strada possibile, non c’è dubbio, è quella dell’agroecologia”. L'articolo Il dossier sui pesticidi di Legambiente: frutta e ortaggi ancora a rischio. Il 48% dei prodotti esaminati contiene uno o più fitofarmaci proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Aumentano i rifiuti, cresce ancora la raccolta differenziata, ma il riciclo non tiene il passo: il paradosso Italia. Che paga milioni per il troppo smaltimento in discarica | I grafici
In Italia aumentano produzione di rifiuti urbani e raccolta differenziata, per la quale il Sud accorcia le distanze con Nord e Centro. Esiste però, un gap tra il tasso di raccolta e quello di riciclo. Su questo fronte, la percentuale nel 2024 si attesta al 52,3%, ma entro il 2025 è previsto si raggiunga il 55%. Presentando il dossier sui Rifiuti Urbani, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale pone l’accento su quanto fatto finora, ma anche sulle questioni più critiche. Per quanto riguarda il riciclo degli imballaggi, per la prima volta lo scorso anno anche la plastica ha superato il target del 50% previsto per il 2025, ma i prossimi obiettivi sono ambiziosi e lontani e l’Italia si trova a fare i conti con diversi problemi legati alla gestione dei rifiuti. A iniziare dalla questione del blocco degli impianti di riciclo e degli effetti a monte, sulla differenziata (Leggi l’approfondimento). Un tema legato a quello della carenza di impianti in alcune regioni. Ma Ispra sottolinea anche un altro nodo, ossia quello delle discariche. Perché considerando anche i rifiuti urbani sottoposti alle operazioni di smaltimento attraverso l’incenerimento, destinati poi alle discariche, in questi siti arriva il 15,5% dei rifiuti urbani prodotti. La direttiva quadro definisce l’obiettivo chiave del 10% entro il 2035 e, dal 2030, vieta lo smaltimento in discarica di rifiuti idonei al riciclaggio o ad altro tipo di recupero. E l’Italia, come certificato dalla Commissione europea nel quarto Environmental Implementation Review, ha già pagato 270 milioni di euro per la mancata bonifica delle discariche, che le sono costate più di un’infrazione. Tutto accade, tra l’altro, nelle ore in cui l’Emilia Romagna è scossa da un’inchiesta su una maxi-discarica abusiva a Brescello, dove sarebbero state accumulate oltre 900mila tonnellate di scorie di acciaieria non trattate e di fusione che avrebbe compromesso e deteriorato le acque sotterranee. AUMENTA LA PRODUZIONE DI RIFIUTI URBANI. E PURE LA RACCOLTA DIFFERENZIATA La strada da compiere, dunque, è ancora complessa. Anche perché la produzione di rifiuti continua ad aumentare. Nel 2024, la produzione nazionale dei rifiuti urbani è stata di poco più di 29,9 milioni di tonnellate, in aumento del 2,3% (664mila tonnellate in più rispetto al 2023). Sale del 3,7% al Nord, che produce quasi 14,7 milioni di tonnellate, dell’1,2% al Centro (circa 6,3 milioni di tonnellate) e dello 0,8% al Sud (poco meno di 9 milioni di tonnellate). Il costo medio nazionale annuo pro capite di gestione dei rifiuti urbani è di 214,4 euro per abitante (nel 2023 era 197) in aumento di 17,4 euro. Al Centro il costo più elevato (256,6 euro ad abitante), segue il Sud (229,2) e, infine, il Nord (187,2). Nel 2024 è cresciuta anche la raccolta differenziata: nel 2024 ha raggiunto il 67,7% della produzione nazionale con 755mila tonnellate in più, raggiungendo un totale di quasi 20,3 milioni di tonnellate. Con percentuali del 74,2% al Nord, del 63,2% al Centro e del 60,2% al Sud. Il Mezzogiorno, di fatto, continua a ridurre il divario con Centro e Nord. Tra i rifiuti differenziati, l’organico si conferma la frazione più raccolta in Italia (37,8% del totale), seguita dalla carta e cartone, con il 19,5%, dal vetro (11,3%) e plastica (8,8%). Il 96% dei rifiuti plastici raccolti in modo differenziato è costituito da imballaggi. LA CLASSIFICA DELLE REGIONI E DEI COMUNI Le percentuali più alte di raccolta si registrano in Emilia-Romagna (78,9%), che registra il maggior aumento, in Veneto (78,2%), Sardegna (76,6%), Trentino-Alto Adige (75,8%), Lombardia (74,3%) e Friuli-Venezia Giulia (72,7%). Superano l’obiettivo del 65% anche Marche (71,8%), Valle d’Aosta (71,7%), Umbria (69,6%), Piemonte (68,9%), Toscana (68,1%), Basilicata (66,3%) e Abruzzo (65,7%). Nel complesso, più del 72% dei comuni ha conseguito una percentuale di raccolta differenziata superiore al 65%. Nell’ultimo anno, l’89,7% dei comuni intercetta oltre la metà dei propri rifiuti urbani in modo differenziato. Tra le città con oltre 200.000 abitanti, i livelli più alti di raccolta differenziata sono a Bologna (72,8%), Padova (65,1%), Venezia (63,7%) e Milano (63,3%). Seguono Firenze (60,7%), Messina (58,6%), Torino e Verona (57,4%). Più indietro, seppure in crescita, Genova (49,8%), Roma (48%), Bari (46%) e Napoli (44,4%). IL GAP TRA LA DIFFERENZIATA E IL RICICLO DI RIFIUTI Altro tema, però, è quello del riciclo. Per la percentuale di preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti urbani, la direttiva del 2008 fissava un target del 50% in peso entro il 2020, nel 2018 sono stati aggiunti altri target al 2025 (del 55%), al 2030 (60%) e al 2035 (65%). Ma se per il raggiungimento dell’obiettivo del 50% si potevano usare diversi criteri di calcolo, per i nuovi obiettivi – come raccontato da ilfattoquotidiano.it (Leggi l’approfondimento) questi sono più rigidi per garantire che le percentuali siano effettivamente rappresentative della reale capacità di riciclaggio. Secondo la nuova metodologia, dunque, Ispra calcola che la percentuale di riciclaggio dei rifiuti urbani nel 2024 si attesta al 52,3%. In crescita rispetto al 50,8% del 2023, ma mancano ancora 2,7 punti percentuali per raggiungere il target del 55% previsto per il 2025. E proprio Ispra fa notare che, rispetto al tasso di raccolta differenziata, c’è una differenza significativa di 15,4 punti percentuali. “A riprova del fatto che la raccolta – spiega l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – pur costituendo un passaggio fondamentale, non può limitarsi al solo raggiungimento di tassi elevati, ma deve garantire anche un’elevata qualità delle differenti frazioni intercettate al fine di consentirne l’effettivo riciclo”. A tutto ciò si aggiungono altri problemi, come quelli che affliggono da mesi il settore e che, dopo il blocco degli impianti di riciclo annunciato a novembre dall’Associazione nazionale dei riciclatori e rigeneratori di materie plastiche (Assoripam), rischia di paralizzare a monte anche la raccolta, come già sta avvenendo in Sicilia (Leggi l’approfondimento). GLI IMBALLAGGI: LA PLASTICA RAGGIUNGE L’OBIETTIVO, MA IL BLOCCO NON AIUTA Ed è un tema che riguarda anche il flusso degli imballaggi. Nel 2024, l’immesso al consumo sul mercato nazionale si attesta a quasi 14 milioni di tonnellate, in lieve aumento rispetto al 2023 e in linea con l’andamento degli indicatori socioeconomici. Un incremento che riguarda tutte le filiere, compresa quella della plastica (+0,8%). Il Regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, che si applicherà a partire dal 12 agosto 2026, introduce misure stringenti e obiettivi di riciclaggio al 2025 e al 2030 molto ambiziosi per gli imballaggi. A che punto è l’Italia? Se nel 2024 è stato recuperato all’86,4% dell’immesso al consumo (85,3% nel 2023), la carta è la frazione maggiormente recuperata, con il 40,6% del totale, seguita dal legno (19,8%), dalla plastica (18%) e dal vetro (17,4%). Ed è anche quella più commercializzata, con il 35,7% del mercato interno, seguita dal legno (24,7%), dal vetro (18,8%) e dalla plastica (16,5%). Tutti i materiali di imballaggio hanno già raggiunto i target 2025: anche la plastica nel 2024 ha superato per la prima volta l’obiettivo, arrivando al 51,1% rispetto al 50% previsto. Anche se tutte le altre frazioni hanno già superato anche l’obiettivo del 55% al 2030. “Rimane in ogni caso prioritario incrementare il riciclaggio della frazione plastica in vista dell’obiettivo del 55% – spiega Ispra – anche attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie di trattamento, soprattutto per quelle tipologie di rifiuti che sono attualmente difficilmente recuperabili mediante processi di tipo meccanico”. IMPIANTI INSUFFICIENTI IN ALCUNE REGIONI Ed è un tema che si aggancia alla necessità di un adeguato sistema impiantistico di gestione. Nel 2024 sono stati operativi 625 impianti per la gestione dei rifiuti urbani (325 al Nord, 118 al Centro e 182 al Sud), oltre la metà dedicati alla frazione organica. Tra gli altri fattori, però, anche l’aumento della raccolta differenziata ha determinato, negli anni, una crescente richiesta di nuovi impianti di trattamento e non tutte le regioni dispongono di strutture sufficienti a trattare i quantitativi prodotti. Analizzando i flussi di matrici organiche selezionate avviati fuori regione, i maggiori quantitativi derivano dalla Campania (544 mila tonnellate, pari al 25,8% del totale), dal Lazio (circa 303 mila tonnellate, pari al 14,3% del totale) e dalla Toscana (circa 210 mila tonnellate, pari al 9,9% del totale), in parte dotate di infrastrutture obsolete e con una capacità di trattamento inadeguata alla gestione dei propri rifiuti organici. IL NODO DELLE DISCARICHE. SONO ANCORA TROPPE Agli impianti di recupero di materia per il trattamento delle raccolte differenziate viene inviato il 54% dei rifiuti prodotti, il 18% viene incenerito, mentre l’1% viene inviato ad impianti produttivi come cementifici e centrali termoelettriche per produrre energia. Un altro 2% viene utilizzato per la ricopertura delle discariche, il 5% dei rifiuti (che arriva da impianti di trattamento meccanico o meccanico-biologico), viene destinato alla raffinazione per la produzione di combustibile solido secondario (Css) o biostabilizzazione, il 4% è esportato (circa 1,3 milioni di tonnellate) e l’1% viene gestito direttamente dai cittadini attraverso il compostaggio domestico (316mila tonnellate). I rifiuti urbani smaltiti in discarica rappresentano il 14,8% dei rifiuti prodotti (in termini quantitativi, oltre 4,4 milioni di tonnellate, in calo del 3,7% rispetto al 2023). Ma nel calcolo dei rifiuti totali smaltiti non sono stati conteggiati quelli utilizzati a copertura delle discariche in operazioni di recupero ambientale. Perché si tratta di un quantitativo parziale, in quanto rilevato solamente per 28 impianti su 101. Di fatto, corrisponde ad altre 468mila tonnellate (57,3% al Nord, 40,6% al Centro e 2,2% al Sud). “L’analisi dei dati evidenzia la necessità di garantire un ulteriore miglioramento del sistema di gestione” spiega Ispra, sottolineando che “lo smaltimento in discarica dovrà essere ulteriormente ridotto per garantire il raggiungimento dell’obiettivo del 10%”. Un target che l’Italia dovrà raggiungere entro il 2035. Solo che a questo calcolo contribuiscono anche le quote di rifiuti urbani sottoposti alle operazioni di smaltimento attraverso l’incenerimento, destinati poi alle discariche. E si tratta di 206mila tonnellate (dato del 2024), che sommate ai quantitativi di rifiuti urbani avviati allo smaltimento, portano a una percentuale complessiva pari al 15,5%. Insomma, ancora più lontana dal target. L'articolo Aumentano i rifiuti, cresce ancora la raccolta differenziata, ma il riciclo non tiene il passo: il paradosso Italia. Che paga milioni per il troppo smaltimento in discarica | I grafici proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Mettiamoci d’accordo su cos’è ‘montagna’: la patinata Cortina, un luogo di spopolamento o altro?
Ha senso dedicare una giornata alle montagne? Ha senso che ogni anno arrivi in tutto il mondo un vento pieno di attenzioni e premure nei confronti delle terre alte? O anche questa è l’ennesima celebrazione vuota e retorica per costruire artificiosamente un senso comune senza fondamenti? La storia della Giornata internazionale della montagna ha ormai 22 anni. Venne istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel fatidico 2002, quando l’intero anno era dedicato proprio ai monti della terra. Si disse, perché dall’anno prossimo, ogni 11 dicembre, non facciamo proseguire le celebrazioni? Un giorno ogni dodici mesi, per parlare di problemi, risorse, cultura dei territori montani. Bell’idea, no? In quell’occasione vennero anche fornite alcune cifre utili a capire l’entità dell’intero sistema montuoso terrestre. Si disse che il 27 per cento del nostro pianeta è occupato da montagne, sulle quali vive il 15 per cento della popolazione umana. Si disse anche che il 90 per cento dei montanari si trova in una condizione economica fragile, all’interno di paesi in via di sviluppo. Vale a dire: montagna uguale povertà e arretratezza. Però, a dirla tutta, non si sa bene come questi dati siano stati assemblati, visto che anche solo nella nostra piccola penisola si fatica ad arrivare a una definizione geografica e politica su ciò che è davvero montagna. Figuriamoci nel mondo! Da noi continuiamo a non saperlo, tanto è vero che la nuova Legge Calderoli sulla Montagna varata lo scorso ottobre non potrà essere applicata finché non verranno emessi i decreti attuativi che dovranno stabilire una definizione precisa. Cos’è montagna? È forse ogni parte del territorio che sta sopra la soglia altimetrica convenzionale dei seicento metri, come indicava la vecchia dottrina geografica? No, sarebbe troppo facile: è una definizione rigidamente positivista, datata, che non può rispecchiare la realtà di oggi. Montagna è un complesso di fattori. Un insieme di elementi seducenti proprio perché articolati e multiformi. Montagna è dove si trova massa orografica, acclività, differenze di esposizione solare, successione di piani altitudinali, e comprende anche i caratteri legati alle vicende umane, riscontrabili nella peculiare costruzione dei paesaggi, nelle tecniche agro-silvo-pastorali, nella difficoltà imposte alla vita. E proprio di quelle difficoltà ci parla la Costituzione italiana, all’Articolo 44, dove viene specificato: “La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”. Da qui si deduce che le ‘zone montane’ sono sfavorite, e devono essere sostenute in quanto luoghi dove la vita è più dura e svantaggiata. Montagna è perciò prima di tutto un luogo duro, difficile, dove si vive aggrappati al pendio, come alle Cinque Terre, che si trovano a quota zero, eppure sono montagna a tutti gli effetti (forse più della luccicante Cortina coi suoi 1200 metri di quota). Oggi i territori montani hanno un ruolo importante nel preservare la biodiversità e nel difendere le risorse naturali all’interno della grande partita sul futuro del pianeta. Eppure, ha detto il Presidente Mattarella l’11 dicembre 2023: “È proprio negli spazi alpini e appenninici che emergono con straordinaria puntualità sia i disagi derivanti dall’essere ‘periferie’, sia le disuguaglianze nell’accesso ai servizi pubblici essenziali”. Le montagne sono dunque “centrali” nella lotta al cambiamento climatico, ma “periferiche” nei diritti di cittadinanza. Non so se l’11 dicembre Giornata internazionale della Montagna, con la sua declinazione di quest’anno che mette al centro “I ghiacciai”, abbia un senso. Di sicuro, è arrivato il momento che i grandi media nazionali non ci raccontino più solo la montagna-Cortina, patinata e minoritaria, ma neppure che la descrivano come il luogo dei vinti da assistere, come un rimorchio passivo, luogo dimenticato a cui guardare con benevolenza e rassegnazione. L’obiettivo della politica dovrebbe essere scavare fino alle cause che hanno creato spopolamento e arretratezza e cercare di rimuoverle, mentre con il solo assistenzialismo non si va alla radice dei problemi. Ciò che manca è prima di tutto l’erogazione dei servizi primari, scuola, mobilità, presidi sanitari. Eppure oggi la congiuntura potrebbe essere favorevole al crearsi di un nuovo modo di vivere nelle terre alte. I numeri lo confermano: 100mila nuovi abitanti in più nel quinquennio 2019-2023, a cui si devono aggiungere altre circa 35mila persone che hanno spostato la residenza in un comune montano nel solo 2024, così ha fatto sapere l’Uncem (Unione nazionale comuni comunità enti montani). Sì, esempi di speranza ci arrivano da Alpi e Appennini, soprattutto dove lo spopolamento ha picchiato più duro a iniziare dall’epoca del Boom Economico. Piccoli paesi tornano dunque a vivere, circondati da una ricchezza oggi sempre più preziosa e ricercata. Sono i cosiddetti beni intangibili, come la salubrità, lo spazio, il buio, il vasto silenzio rigeneratore. Beni che si trovano solo in montagna. E che, in questo 11 dicembre, la definiscono più che mai nel profondo. L'articolo Mettiamoci d’accordo su cos’è ‘montagna’: la patinata Cortina, un luogo di spopolamento o altro? proviene da Il Fatto Quotidiano.
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