di Andrea Boraschi*
Martedì l’Ue deciderà il futuro del settore auto europeo. La revisione della
normativa sulle emissioni di CO₂ delle auto, dunque la decisione di confermare o
meno l’obiettivo di vendere solo veicoli a zero emissioni dal 2035, ci dirà se
l’Europa è davvero intenzionata a competere con Cina e Stati Uniti o se, di
fatto, accetterà una prospettiva in cui il futuro dell’auto non è europeo.
L’industria automobilistica del continente e i suoi alleati politici, nonché le
lobby dell’oil&gas, hanno impegnato tutte le loro forze in questa battaglia. Ciò
che realmente vogliono – oltre il paravento fumoso della “neutralità
tecnologica” – è la possibilità di continuare a vendere auto endotermiche anche
dopo il 2035. E di lasciare maggiore spazio, da qui ad allora, a tecnologie e
carburanti assai lontani – per capacità di riduzione delle emissioni, per
efficienza, maturità tecnologica e sostenibilità – dalle prestazioni dell’auto
elettrica (BEV). Che sarà invece – per stessa ammissione dei carmaker – la
tecnologia dominante nei prossimi anni.
L’industria è molto abile, quando si tratta di addossare la responsabilità della
sua crisi sui regolatori e sulle politiche climatiche. La realtà, però, è che la
crisi dell’auto non ha nulla a che fare col 2035. Le vendite di auto in Europa
sono calate di tre milioni, rispetto al 2019, perché le case automobilistiche
hanno privilegiato margini di profitto più alti a scapito dei volumi. Tra il
2018 e il 2024 il prezzo medio di un’auto di massa è salito del 40%, passando da
22.000 a 30.700 euro. E sono stati anni in cui molti produttori hanno registrato
profitti record.
Queste decisioni stanno ora producendo effetti concreti. La maggior parte degli
europei non può più permettersi un’auto nuova, mentre in Cina i marchi europei
stanno cedendo mercato sotto la pressione della concorrenza locale sui veicoli
elettrici. Come se ne esce? La “soluzione magica” dei carmaker sarebbe di aprire
le porte ai biocarburanti e agli ibridi plug-in (PHEV) dopo il 2035. Un rimedio
effimero, volto a massimizzare nel breve termine la componente endotermica; e un
grave errore strategico nel medio-lungo termine, che rischia di condurre
l’industria europea in un vicolo cieco. Ecco perché.
La prospettiva industriale – Una prospettiva di decarbonizzazione chiara, dunque
obiettivi trasparenti e stabili, rappresenta la bussola degli investimenti e
della fiducia nel mercato. Indebolire il target del 2035 significherebbe mettere
a rischio centinaia di miliardi già impegnati nella filiera dell’elettrico:
batterie, reti di ricarica, elettronica di potenza e componenti. Non a caso,
oltre 200 CEO e leader del settore hanno scritto alla Commissione europea
esortandola a non toccare questi obiettivi.
La sostenibilità economica – Dietro lo slogan della “neutralità tecnologica” si
nascondono soluzioni costose per i consumatori. Le auto elettriche sono già le
più economiche, nell’intero ciclo di possesso e utilizzo, e presto saranno anche
le più convenienti da acquistare. Al contrario, gli ibridi plug-in costano in
media 15.000 euro in più delle elettriche; se ai costi di acquisto si sommano
quelli di utilizzo, le PHEV possono arrivare a costare fino al 18% in più per
veicoli nuovi, percentuali che salgono ulteriormente (fino al 29%) per l’usato.
Gli e-fuel – altra soluzione propugnata dall’industria – arriverebbero a costare
fino a 6-8 euro al litro. E anche i biocarburanti avanzati, tanto cari
all’Italia, sarebbero un’alternativa costosa a causa della loro scarsa
disponibilità.
L’avanzata dell’elettrico – La corsa globale verso l’elettrico, per contro, è in
atto e non da segni di inversione. Le vendite di veicoli elettrici crescono non
solo in Cina, ma anche in mercati emergenti come Thailandia e Vietnam. E anche
in Europa la transizione sta accelerando.
Lo scorso novembre, i veicoli elettrici hanno raggiunto un nuovo massimo
storico, con 160.000 unità vendute in sette mercati del continente europeo.
Dall’inizio dell’anno si registra una solida crescita del 30%: oggi in Francia
le BEV valgono il 26% del mercato, in Portogallo il 32%; nel Regno Unito
sfiorano il 26,5% e in Germania sono al 22%, massimo storico dopo la fine degli
incentivi nel 2023. In Italia, lo scorso novembre le elettriche hanno
rappresentato il 12% del mercato. Un risultato frutto degli incentivi, certo; ma
anche la dimostrazione ultima che i consumatori non disprezzano affatto l’auto
elettrica, hanno semmai bisogno di politiche di sostegno alla transizione.
Il declino inesorabile dei motori tradizionali – Sul fronte opposto, i motori
tradizionali sono in costante declino. Le vendite di auto a combustione interna
(ICE) non si sono mai riprese dal picco del 2019; da allora a oggi, ICE e ibride
(non plug in), sommate, hanno perso il 10% del mercato (mentre le elettriche ne
hanno conquistato il 15%).
La domanda complessiva di auto è diminuita – tra le altre cose – a causa di
stagnazione economica, inflazione e tassi d’interesse elevati. Ma quando i
clienti torneranno, troveranno un mercato dominato dalle elettriche, non dai
motori tradizionali. Chi scommette ancora sul ritorno dei veicoli a combustione
— biofuel costosi, e-fuel o veicoli ibridi, che fanno ancora in gran parte leva
sulla tecnologia endotermica — semplicemente si illude.
L’Europa è a un bivio – Solo mantenendo fermi gli obiettivi attuali il settore
auto europeo ha una reale possibilità di competere nel mercato globale dei
veicoli elettrici. Indebolirli significherebbe aggrapparsi a rendite di
posizione sempre più esili, e rimanere ancora più indietro in termini di
innovazione. In altre parole: rallentare la transizione non aiuta. Peggiora la
nostra posizione competitiva.
L’industria automobilistica europea si è resa conto tardi di essere indietro
rispetto alla Cina. Ma ogni esitazione, oggi, è un vantaggio ulteriore per
Pechino, che non rallenterà la corsa verso l’elettrico solo perché noi
prolunghiamo la vita dei motori endotermici. Mentre i consumatori europei, nel
frattempo, smetteranno di acquistare una tecnologia di qualità inferiore e già
oggi, in molti Paesi, più costosa. Se l’Ue fa marcia indietro ora, rischia di
perdere il più grande cambiamento industriale di questa generazione,
abbandonando l’ambizione di padroneggiare una delle tecnologie più importanti
del XXI secolo e i vantaggi industriali, economici e sociali che ne derivano.
Ora è il momento di mantenere la rotta e, per i decisori, di mostrare leadership
e visione. Puntare su e-fuel e biofuel, su ibridi e su veicoli a combustione
“efficienti” è la direzione certa per trasformare l’Europa in un museo
dell’auto.
*direttore T&E Italia
L'articolo Auto inquinanti dopo il 2035? Se l’Europa torna indietro
sull’elettrico, se ne avvantaggerà la Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Ambiente
Negli ultimi quattro anni, una pandemia invisibile sta decimando i ricci di mare
in vaste regioni del pianeta. Dai Caraibi al Mar Rosso, fino all’Oceano Indiano,
alcuni dei più importanti ingegneri degli ecosistemi marini stanno scomparendo
nel giro di poche ore, trasformando fondali un tempo dominati dai coralli in
distese di scheletri bianchi e alghe invasive. La nuova ondata registrata alle
Canarie tra il 2022 e il 2023 rappresenta una tappa critica di questa crisi
globale, con caratteristiche ancora in parte misteriose.
I ricci del genere Diadema svolgono un ruolo essenziale nel mantenere in
equilibrio gli ecosistemi costieri: brucano le alghe, impediscono che soffochino
i coralli, sostengono la biodiversità e regolano l’intero funzionamento del
reef. Ma quando un patogeno li colpisce, l’effetto è immediato e devastante. Lo
mostrano i dati raccolti da Iván Cano e colleghi, pubblicati su Frontiers in
Marine Science. Tra l’estate 2022 e il 2023, Diadema africanum ha cominciato a
morire in massa sulle coste delle isole occidentali dell’arcipelago delle
Canarie, per poi essere colpito su tutte le sette isole principali. Gli animali
smettevano di muoversi, perdevano le spine e la carne, fino a ridursi in pochi
giorni a gusci vuoti.
Le analisi condotte su 76 siti indicano che l’abbondanza attuale di D. africanum
è “ai minimi storici”, con popolazioni prossime all’estinzione locale: rispetto
al 2021, il calo è stato del 74% a La Palma e del 99,7% a Tenerife. Ancora più
preoccupante è il crollo della riproduzione: sulle coste orientali di Tenerife,
le trappole per larve hanno raccolto quantità “trascurabili”, e nelle zone di
insediamento non è stato trovato alcun giovane riccio. In pratica, la
popolazione non sta rimpiazzando le perdite.
Il quadro che emerge, però, non riguarda soltanto le Canarie. Gli autori
sottolineano che eventi simili sono stati osservati “approssimativamente nello
stesso periodo” nei Caraibi, nel Mediterraneo, nel Mar Rosso, nel Mare di Oman e
nell’Oceano Indiano occidentale. A differenza del caso canario — dove il
patogeno non è ancora identificato — altri studi hanno dimostrato che la
pandemia in corso in queste regioni è causata da uno scuticociliata parassita
del genere Philaster, capace di uccidere oltre il 90% degli individui colpiti. È
lo stesso agente responsabile delle morti nel Mar dei Caraibi nel 2022 e delle
più recenti morie nel Mar Rosso e a Réunion, come dimostrato dalle ricerche del
team dell’Università di Tel Aviv, pubblicate su Ecology e Current Biology.
Ciò che accomuna queste crisi è la rapidità dei focolai: spesso, in meno di 48
ore, intere popolazioni si trasformano in carcasse fragili sbriciolate dai
predatori. Le cause ambientali — tempeste, ondate anomale, cambiamenti nella
temperatura dell’acqua — potrebbero agire come fattori scatenanti, ma nel caso
delle Canarie la natura dell’agente rimane aperta. Precedenti eventi
nell’arcipelago erano stati associati ad amebe come Neoparamoeba branchiphila,
mentre altrove i responsabili sono ciliati. Senza un’analisi genetica, non è
possibile stabilire se la moria canaria sia parte della stessa pandemia globale.
Il risultato, però, è già visibile: la scomparsa di un regolatore ecologico
cruciale apre la strada all’espansione delle alghe, altera la struttura del reef
e può avviare una trasformazione irreversibile degli ecosistemi costieri. Per
gli scienziati, la priorità ora è duplice: chiarire la natura del patogeno alle
Canarie e monitorare in tempo reale la diffusione delle morie nel resto del
mondo. In mancanza di interventi tempestivi — e non esistendo alcuna cura per i
ricci infetti — interi tratti di fondale potrebbero cambiare volto per
generazioni.
Il team di Tel Aviv guidato da Bronstein ha sviluppato una nuova tecnologia di
campionamento genetico subacqueo. La tecnologia — un kit simile a un test COVID
per uso subacqueo — consente di prelevare campioni genetici dagli animali senza
danneggiarli e senza rimuoverli dal mare. Il metodo ha già permesso raccolte su
larga scala in Eilat, Gibuti e Réunion, offrendo uno strumento cruciale per
monitorare l’epidemia in tempo reale. Nella ricerca pubblicata su Ecology,
Bronstein e colleghi dimostrano geneticamente che lo stesso patogeno individuato
nel Mar Rosso e nei Caraibi è responsabile della mortalità registrata
nell’Oceano Indiano, in particolare a Réunion. Il team definisce la situazione
“un’estrema pandemia globale”, con mortalità superiori al 90% in regioni
critiche per le barriere coralline. Al momento non ci sono prove della presenza
del patogeno tra i ricci dell’Oceano Pacifico, ma sono in corso indagini
specifiche.
Lo studio su Current Biology ricostruisce in dettaglio la progressione
dell’epidemia nel Mar Rosso. Qui, l’agente patogeno ha sterminato intere
popolazioni di Diadema setosum in meno di 48 ore, trasformando gli individui in
“scheletri privi di tessuti e spine”, spesso divorati dai predatori prima della
morte. Le due specie un tempo dominanti nel Golfo di Aqaba “sono oggi
praticamente scomparse”.
Un elemento chiave è la possibile diffusione tramite il trasporto marittimo. I
ricercatori hanno documentato la propagazione del patogeno lungo rotte
commerciali, con un caso emblematico: il primo focolaio nel Sinai è apparso nel
porto di Nuweiba, dove attracca il traghetto da Aqaba, già colpita
dall’epidemia. Due settimane dopo, la malattia è stata rilevata a Dahab, 70
chilometri più a sud. Poco tempo dopo, come previsto dal gruppo, la pandemia è
comparsa anche in Africa occidentale, lungo le stesse rotte navali tra Caraibi,
Mediterraneo e Mar Rosso.
La pandemia ha ormai colpito Caraibi, Mar Rosso, Golfo di Aqaba, Mediterraneo
orientale, Isole Canarie, Madeira, Oceano Indiano. Per ora, il Pacifico sembra
essere l’unico grande bacino risparmiato, ma non ci sono garanzie che la
situazione duri. Le conseguenze ecologiche potrebbero essere enormi. In molte
regioni, come ricordano tutti gli studi, i ricci del genere Diadema sono “i
giardinieri dei reef”, gli unici in grado di controllare la crescita delle alghe
e permettere ai coralli di sopravvivere. La loro scomparsa può innescare un
collasso simile a quello dei Caraibi del 1983, dove un evento di mortalità
trasformò interi reef in campi di alghe — un cambiamento ancora irreversibile
dopo quarant’anni.
Non esistono cure o vaccini. I ricercatori stanno lavorando su due fronti:
prevenzione della diffusione tramite controlli sulle rotte marittime e creazione
di nuclei isolati di allevamento in strutture completamente scollegate dal mare,
come quello istituito di recente presso l’Aquarium di Gerusalemme. Il quadro che
emerge dai cinque studi è quello di una pandemia veloce, aggressiva e ancora
poco compresa, che rappresenta una minaccia senza precedenti per le barriere
coralline globali. Mentre la scienza sviluppa nuovi strumenti diagnostici e
modelli ecologici, la domanda cruciale resta aperta: capire perché la pandemia è
esplosa ora — e come impedirne l’arrivo nel Pacifico, dove si trovano gli
ecosistemi corallini più vitali del pianeta.
Foto: Università di Tel Aviv e Jean-Pascal Quod
L'articolo Una pandemia invisibile minaccia i ricci di mare e i reef globali:
scheletri bianchi dalle Canarie fino all’Oceano Indiano proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Dice un cartello ormai logoro e sbiadito, davanti alla recinzione dell’immensa
area di Brescello destinata, nell’ambizione dei proprietari, ad un grande polo
provinciale della logistica intermodale: “Costruire il domani”. Ma il domani è
un incubo per i cittadini della zona che si sono svegliati con la notizia del
sequestro e delle perquisizioni disposti dalla Procura di Reggio Emilia. Nella
spianata che si affaccia su via Peppone e Don Camillo (oltre 250mila metri
quadri di suolo) già sono visibili lo scheletro in cemento e la copertura dei
grandi capannoni che i proprietari della Dugara SpA, Franca Soncini e il figlio
Claudio Bacchi, sognano di rendere operativi almeno dal gennaio 2012, quando
iniziarono i lavori di urbanizzazione, mai conclusi correttamente, secondo la
procura.
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E sono ben visibili, gettando lo sguardo a terra, anche le scorie di acciaieria
e di fusione con cui è stata pavimentata l’area. Scorie e materiali che secondo
i magistrati Calogero Gaetano Paci (Procuratore) e Giulia Galfano (Sostituta
Procuratrice) sarebbero il frutto di uno smaltimento illecito. Più di 910mila
tonnellate di rifiuti, seppelliti sull’intera area e in parte ancora a cielo
aperto, con una conformazione granulare simile alle piccole pietre laviche. “Se
ci vai con una calamita – dice al ilfattoquotidiano.it un esperto – vedrai
quante se ne attaccano!”.
È però sotto terra che si sarebbero prodotti i danni maggiori, perché le
indagini effettuate dai Carabinieri dei Nuclei Radiomobile e Ambientale hanno
documentato concentrazioni di ferro e arsenico superiori “in modo rilevante” ai
limiti di legge. Non solo una discarica abusiva dunque, ma anche un
significativo inquinamento. Le acque sotterranee sono “compromesse e
deteriorate” secondo quando reso noto dalla Procura reggiana. A che profondità
ciò avvenga è la domanda fondamentale per la sicurezza dei cittadini e delle
attività nella zona. Il grande rettangolo di proprietà della famiglia Bacchi è
affiancato a est dalla sede brescellese di un consorzio agricolo che vende
frutta e verdura. A ovest, a duecento metri di distanza, un gruppo di abitazioni
con diverse famiglie non ha allacciamenti idrici con la rete provinciale e
l’acqua nelle tubature arriva da pozzi artesiani.
La preoccupazione è legittima e una famiglia in prossimità della linea
ferroviaria Parma Suzzara, oltre la quale si apre la spianata della Dugara SpA,
ha raccontato a ilfattoquotidiano.it di avere telefonato giovedì 11 dicembre al
presidio territoriale di Arpae, l’ente pubblico della regione Emilia Romagna che
ha compiti di vigilanza, prevenzione e controllo sull’ambiente. Volevano
informazioni e hanno ottenuto rassicurazioni dal responsabile di zona (Novellare
– Re) sul fatto che l’acqua alle profondità in cui pescano i pozzi artesiani non
risulterebbe contaminata. Peccano che a darle, queste rassicurazioni, sia stato
uno dei cinque tecnici dell’Agenzia indagati dalla Procura. Dipendenti pubblici
che avrebbero attestato il falso nei rapporti conclusivi dei controlli
effettuati sulle acque sotterranee, scrivendo che i superamenti dei livelli
ammessi per ferro e arsenico, anche di rilevante entità, erano di origine
naturale, legati alle caratteristiche geochimiche del terreno e non alla
discarica abusiva. I cinque tecnici della sezione di Reggio Emilia sono accusati
di falso ideologico in atti pubblici, del concorso e della continuità nel reato,
con l’aggravante della violazione di norme a tutela dell’ambiente. Dovranno
rispondere anche di inquinamento ambientale assieme al professionista incaricato
dalla Dugara SpA di predisporre i piani di monitoraggio delle acque sotterranee.
L’altro tecnico indagato è l’architetto Fabrizio Bo, coordinatore della
progettazione del polo logistico nel 2012, incaricato da Claudio Bacchi e dalla
madre di scrivere gli atti da presentare al comune di Brescello per le opportune
concessioni. L’attuale sindaco Carlo Fiumicino prende decisamente le distanze
dal progetto del polo logistico sostenendo che la sua Amministrazione comunale
ha sempre espresso parere contrario perché il centro intermodale “sarebbe stato
la pietra tombale per il Comune, con infrastrutture stradali collassate di tir e
salute dei cittadini compromessa”.
Non la pensavano così amministratori del passato e di altri comuni emiliani e
mantovani a ridosso del fiume Po. I Bacchi e la storica azienda fondata da
Aladino (marito di Franca Soncini, deceduto nel 2015 a 99 anni) hanno fatto il
bello e il cattivo tempo lungo le rive del fiume scavando sabbia dal suo alveo,
nonostante le tantissime vicende giudiziarie contro le quali hanno inciampato.
L’interdittiva antimafia del prefetto Antonella De Miro, nel 2011, impediva di
fatto alla Bacchi SpA di lavorare per la costruzione della tangenziale di
Novellara (Re), ma l’allora presidente della Provincia Sonia Masini, colpevole
di avere emesso il provvedimento (dovuto) che recepiva quella interdittiva, subì
duri attacchi politici anche all’interno del suo partito (il Pd). E sull’altra
riva del Po, a Viadana, c’è un luogo tristemente noto come “Cava Caselli” dove
la Bacchi SpA estraeva sabbia per la tangenziale Cispadana, prima di
abbandonarlo al suo destino. Nonostante le tante denunce di un consigliere
comunale, Silvio Perteghella, e l’apertura di fascicoli giudiziari e
amministrativi, sono trascorsi già 26 anni senza che nessuno abbia realmente
pagato per il presunto danno ambientale prodotto in quella cava.
L'articolo L’inchiesta sulla maxi discarica abusiva a Brescello e i timori degli
abitanti che chiedono chiarimenti: ma a rassicurarli è uno dei tecnici indagati
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Manca la neve? Usiamo l’elicottero. Così hanno pensato sul Monte Bondone, in
provincia di Trento, visto che una concomitanza di cause atmosferiche aveva
creato problemi alle piste proprio durante il “ponte dell’Immacolata”. Qualche
scialpinista se n’è accorto, ha registrato un video e la notizia è arrivata
all’attenzione delle associazioni ambientaliste che hanno firmato una dura presa
di posizione.
La dichiarazione porta le firme di Extinction Rebellion Trentino, Wwf Trentino
Alto Adige, Circolo di Trento di Legambiente, Rete Climatica Trentina, Italia
Nostra – sezione trentina, Lipu sezione di Trento, Associazione per l’Ecologia,
Yaku, L’Ortazzo, Enpa del Trentino sezione di Rovereto, Acque Trentine, Mountain
Wilderness Italia: “E’ stato superato il limite: si tratta di un segnale
gravissimo e di un precedente pericoloso. Mentre il clima cambia sotto i nostri
occhi (oggi lo zero termico ha toccato i 3.500 metri), la risposta non può
essere quella di bruciare carburante per trasportare neve artificiale su una
montagna che, semplicemente, in quelle condizioni non può garantire ciò che
garantiva un tempo”. Hanno poi spiegato: “L’intervento è durato quasi 4 ore e ha
comportato l’emissione in atmosfera di almeno una tonnellata e mezzo di anidride
carbonica. La necessità di aprire almeno il 50 per cento delle piste per non
perdere clienti durante il ponte dell’Immacolata non può diventare un
lasciapassare per interventi che ignorano ciò che la montagna ci insegna da
sempre: la cultura del limite”.
La replica è venuta da Fulvio Rigotti, presidente di Trento Funivie: “Non c’è
stata altra scelta per alcune condizioni particolari che si sono verificate
negli scorsi giorni: abbiamo salvaguardato l’indotto della montagna. I danni
economici sarebbero stati molto maggiori e prolungati nel tempo. Trasportare la
neve accumulata dal Canalon al Palon avrebbe richiesto troppo tempo e numerosi
viaggi. In questa situazione di emergenza e nella necessità tanto di rispettare
gli accordi quanto di avere un’offerta di livello per il ponte dell’Immacolata,
si è reso necessario utilizzare l’elicottero”. È sempre una questione di soldi.
Secondo la stima di Rigotti, “il costo dell’elicottero per un paio di ore di
volo e di trasporto neve è stato di circa 6mila euro a fronte di un danno
quantificato in oltre mezzo milione tra skipass e indotto generale”.
Si tratta di un tema ambientale molto serio, come sta dimostrando anche la corsa
alla creazione di bacini artificiali e la moltiplicazione degli impianti di
innevamento, per le Olimpiadi Milano Cortina 2026. Mountain Wilderness ha
allargato l’orizzonte della critica. “Il percorso partecipato che aveva portato
al piano di gestione del patrimonio naturale Unesco delle Dolomiti si era chiuso
con un impegno chiaro: stop ai voli turistici sugli ecosistemi più fragili delle
Alpi. In attesa di una normativa nazionale più severa anche Veneto e Friuli
Venezia Giulia avrebbero adottato le stesse tutele già previste dalle Province
di Trento e Bolzano. A garantirne il rispetto doveva essere la Fondazione
Dolomiti Unesco. Oggi possiamo dirlo senza mezzi termini: quelle promesse sono
state tradite”. Non è solo questione di neve portata con l’elicottero. “La
Fondazione ha lasciato campo libero a ogni abuso. Sulle Dolomiti si vola come e
quando si vuole, senza controlli, senza limiti, senza alcun rispetto per la
fauna, per il diritto al silenzio, per chi vive e cammina in queste montagne. In
Trentino e in Veneto – dal Monte Bondone a Cortina – si arriva a portare neve in
quota con l’elicottero. In Alto Adige continuano i voli di eliturismo da
Corvara, e talvolta da Ortisei o passo Gardena, in violazione della stessa legge
provinciale. È la fotografia di un territorio dove l’arroganza umana sembra non
conoscere confini”. Appello finale: “Chiediamo che la montagna torni ad essere
ciò che è: un bene comune, non un parco giochi per elicotteri”.
L'articolo Elicottero trasporta neve in quota per le piste da sci del Monte
Bondone: “Superato il limite”. Il video proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Antonello Pasini*
Recentemente, Federico Rampini, noto giornalista e opinionista molto ascoltato
in tv, sui giornali e sui social, ha pubblicato sulle pagine web del Corriere
della Sera un suo video dal titolo emblematico: “L’Apocalisse climatica che era
un falso”. Vi si parla di un articolo scientifico sui danni economici dei
cambiamenti climatici che si prospettano per il futuro a livello mondiale,
pubblicato un anno e mezzo fa sulla prestigiosa rivista scientifica
internazionale Nature e recentemente ritirato.
In poche parole, Rampini sostiene che era “pieno zeppo di dati falsi,
manipolati, truccati, in modo da ingigantire, appunto, i danni economici del
cambiamento climatico” e vuole proporre quella che chiama “una riflessione
adeguata sul perché sia stato possibile”, sostenendo che gli scienziati del
clima sono diventati “sacerdoti di una religione” che “sacrificano la verità”
per “rieducare un’umanità peccaminosa”. Infine, si inoltra in disquisizioni
psicologiche sul perché ciò sia stato possibile.
Ebbene, prima di tutto non si tratta di una frode, né di aver presentato dati
falsi, manipolati, truccati. Se si vanno a vedere su Nature le motivazioni per
il ritiro dell’articolo, si capisce subito che, dopo la pubblicazione
dell’articolo stesso, alcuni membri della comunità scientifica hanno fatto
notare agli autori che i dati relativi ad un singolo paese, l’Uzbekistan,
apparivano poco affidabili e non corretti nel periodo 1995-1999. Questo ha
indotto gli autori sia a rimuovere questo paese dall’analisi, sia a correggerne
i dati e vederne le influenze sui risultati. Ebbene, questi risultati cambiano,
ma di molto poco, lasciando valide le conclusioni sull’influsso molto forte dei
cambiamenti climatici sui danni economici e sulla caduta del Pil mondiale. Per
intendersi, si parla di passare da 38 mila miliardi di dollari all’anno di costi
economici a metà secolo a 32 mila miliardi di dollari, sempre una cifra enorme.
Inoltre, c’è ora una minore probabilità che i danni divergano tra i diversi
scenari di emissione entro il 2050: ma si scende appena dal 99% al 90% circa.
La rivista allora ha chiesto agli autori di correggere il proprio articolo, ma
gli autori hanno considerato che il lavoro da fare non fosse tale da consentire
la pubblicazione di un’immediata correzione e hanno preferito ritirare
l’articolo per poi ripresentarlo in seguito corretto.
Sacerdoti di una nuova religione? Non mi pare proprio. Questa è la dinamica
scientifica, che è molto diversa da quella degli opinionisti, questa sì
polarizzata e influenzata dalla peculiare visione del mondo che ognuno di essi
ha. Dove la trovi una dinamica che è talmente potente e rigorosa da
autocorreggersi se non nella ricerca scientifica?
Prima di parlare con certe considerazioni e certi toni, soprattutto se si vuole
fare una “riflessione adeguata”, ognuno dovrebbe guardare la realtà delle cose e
non stiracchiarla per corroborare la propria visione preconcetta e/o portare
avanti la propria narrazione della realtà. In questo senso, nonostante nei
giorni precedenti fosse apparso un articolo proprio sul Corriere dove si
discuteva più correttamente di questo ritiro dell’articolo di Nature, mi pare
proprio che Rampini abbia fornito informazioni fattualmente false, e questo è
grave. Confrontiamoci con i dati di fatto e allora potremo discutere seriamente
del problema del cambiamento climatico.
Di una cosa sono sicuro. Nonostante questo mondo attuale della comunicazione
“mordi e fuggi”, dove, con messaggi ipersemplificati e polarizzati, ognuno ha il
potere di distorcere i risultati scientifici per portare acqua a una certa
visione del mondo, la scienza farà il suo corso ineluttabile. Perché nella sua
dinamica ha gli anticorpi per debellare qualsiasi virus ideologico gli si
dovesse infiltrare.
Mi verrebbe da parafrasare un’espressione di Humphrey Bogart sul potere e
l’ineluttabilità del giornalismo, pronunciata nel film L’ultima minaccia mentre
la rotativa stampava il giornale con un’inchiesta contro un boss criminale che
aveva invece cercato di metterla a tacere: “That’s the press, baby!”. La scienza
andrà avanti comunque, ineluttabilmente, nonostante qualsiasi opinionista: “È la
scienza, bellezza!”.
*Fisico del clima, CNR
L'articolo L’Apocalisse climatica un falso? La scienza andrà avanti nonostante
le distorsioni di Rampini proviene da Il Fatto Quotidiano.
Avrete certamente sentito parlare della teoria di Elizabeth Kubler-Ross delle
“cinque fasi del lutto.” Quando ti capita qualcosa di brutto nella vita, le
reazioni tipiche sono: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e
accettazione. Queste fasi non sono in sequenza, possono coesistere o cambiare
l’ordine in cui compaiono, ma sono una buona approssimazione di quello che
succede quando ci troviamo di fronte a qualcosa di molto spiacevole.
E’ un modello che possiamo applicare alla questione del clima, a partire da
quando si è cominciato a parlarne come un problema importante, negli anni ’80.
Possiamo dire che la fase di negazione è cominciata quasi subito, non nel senso
di negare l’esistenza del riscaldamento globale, ma nel minimizzare l’impatto.
“Basterà qualche piccolo aggiustamento: doppi vetri alle finestre, tenere basso
il termostato, riusare gli asciugamani negli alberghi; questo tipo di cose.” In
sostanza, lucidare le maniglie del Titanic mentre affonda.
Qualcuno invece si è reso conto che bisognava fare qualcosa di più e questo ha
dato inizio alla fase di contrattazione con le varie “conferenze delle parti”,
le Cop, con l’idea di mettersi d’accordo per ridurre le emissioni di gas serra.
La prima Cop è stata a Berlino nel 1995; ora siamo arrivati alla Cop30, tenuta
da poco a Belém, in Brasile. Ci ricordiamo della conferenza di Kyoto, nel 1997,
che aveva generato il trattato di Kyoto, il primo accordo internazionale sul
clima della storia. L’altra Cop con qualche rilevanza è quella di Parigi del
2015, la Cop21, che produsse l’accordo di Parigi il 12 dicembre 2015, di cui in
questi giorni ricorre il decennale.
L’accordo di Parigi è stato un passo importante per varie ragioni. Una era la
sua universalità: raccoglieva le firme di 195 paesi. Altrettanto importante è il
fatto che era la prima volta che si proclamava un obbiettivo quantificato e
misurabile: mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei
2°C, se possibile limitarlo a 1,5°C. Si proponevano anche dei modi per
arrivarci: ogni stato doveva presentare e aggiornare ogni cinque anni i propri
Contributi Determinati a livello Nazionale (Ndc), ovvero piani volontari di
riduzione delle emissioni.
L’obbiettivo era corretto, ma il metodo per ottenerlo si è rivelato inefficace.
La prima valutazione dei risultati si è tenuta alla Cop28 del 2023, ed ha
concluso che il mondo è ancora lontano dagli obiettivi. Come del resto è
evidente se guardate la curva della concentrazione di CO2 nell’atmosfera: non
c’è traccia di un effetto dell’accordo di Parigi. Secondo l’Unep e il rapporto
del Global Stocktake 2023, per fare qualcosa di buono bisognerebbe triplicare
gli sforzi entro il 2030 e quintuplicarli entro il 2035. Ma ormai è comunque
troppo tardi per rimanere entro 1,5°C. E forse anche i 2°C sono un obbiettivo
troppo difficile.
E ora? Ritornando agli stadi di Kubler Ross, stiamo rapidamente entrando nella
fase della “rabbia” con la ricerca di qualcuno o qualcosa da incolpare per il
disastro in cui ci ritroviamo. Sembrerebbe che i nostri leader attuali non
riescano a pensare a niente di meglio per risolvere il problema del clima che
una bella guerra; nucleare, se possibile.
Allo stesso tempo, la rassegnazione va molto di moda. Si si sente dire che non
c’è ragione di preoccuparsi. Dopotutto, al tempo dei dinosauri la concentrazione
di CO2 era molto più alta che oggi, faceva molto più caldo e i dinosauri stavano
benissimo. Sì, peccato però che noi non siamo dinosauri. Ci siamo evoluti in
un’epoca in cui la concentrazione di CO2 era bassa e non è affatto detto che
potremmo vivere respirando l’atmosfera che i dinosauri respiravano.
Ritorneremo all’epoca dei dinosauri, dunque? No, non necessariamente. Ma
dobbiamo trovare soluzioni migliori di trattati e infiniti ragionamenti sulle
riduzioni di emissioni. Come si suol dire, dobbiamo tagliare la testa al
brontosauro e azzerarle del tutto. Lo possiamo fare, abbiamo le tecnologie
necessarie: rinnovabili ed elettrificazione. Basta volerlo.
L'articolo Accordo di Parigi sul clima, dieci anni dopo nessun effetto concreto:
ora dobbiamo azzerare le emissioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
Rifiuti Urbani 2025 da Ispra: i cassonetti deficienti sono la “zavorra” del
riciclo nonostante la raccolta differenziata (RD) aumenti al 67,7%. La RD
aumenta quindi di più di un punto percentuale, ma il riciclo si ferma quindici
punti indietro perché le RD sono “sporche”, soprattutto se fatte con i
cassonetti stradali, compresi quelli a tessera e/o a calotta.
In questo quadro dove si cerca di imporre i cassonetti “deficienti” (finanziati
addirittura con il Pnrr) aumentano anche i rifiuti (arrivati a 29.900.000
tonnellate e cioè 2,3% in più rispetto al 2023, ben oltre lo striminzito aumento
del Pil allo 0,7%). Vuol dire che non ci sono organiche politiche di prevenzione
dei rifiuti, di riparazione e riuso. A partire dagli imballaggi in plastica che
senza plastic tax crescono in uno scenario in cui molti impianti di riciclo
delle plastiche stanno chiudendo per effetto della sleale concorrenza della
plastica vergine; che in Italia, a differenza di Spagna e Francia, non viene
contrastata e rispetto alla quale, anzi, i cittadini italiani sono chiamati a
pagare salate multe europee per la mancata applicazione del principio di
Responsabilità Estesa del Produttore (Epr).
Paradigma di questo sistema distorto è proprio l’Emilia Romagna che ha la più
alta RD con il 78,9%, ma anche la più alta produzione di rifiuti in assoluto
(oltre 650 kg a testa) “denunciando” che laddove vengono fatte RD con i
cassonetti deficienti (e costosissimi), si possono anche raggiungere elevate
percentuali; ma esse, risultando sporche con oltre il 40% di impurità,
rappresentano un riciclo di almeno 30 punti percentuali in meno. Il porta a
porta è invece (come perseguito in Veneto e in Sardegna) la via maestra per
ottenere alte rese di RD e di riciclo, in quanto le materie raccolte sono pulite
e utili ad applicare l’economia circolare.
L’unica nota positiva è che il sud, da sempre vessato da pregiudizi in ultima
analisi razzisti, non solo produce ben al di sotto della media nazionale dei
rifiuti (507 kg a testa) attestandosi ben sotto (454 kg pro capite) ma
raggiunge, inclusa la Sicilia, il 60% accorciando il divario con il nord, il
maggiore responsabile dell’aumento dei rifiuti.
Gli inceneritori decrescono ancora sia nel numero (da 36 del 2023 a 35 nel 2024)
che nel flusso trattato (circa il 18%) da cui derivano ben 1.415.000 tonnellate
tra scorie speciali e ceneri tossiche. A questo flusso si aggiungono anche se
con peso minore 12 “coinceneritori” (cementifici e centrali termo elettriche).
In proposito dobbiamo respingere senza mezzi termini l’imbarazzante peana
lanciato dal dirigente di Ispra Aprile a favore dell’inceneritore di Roma
imposto con procedure dittatoriali e dei due inceneritori altrettanto imposti
dall’alto in Sicilia (ma che non è detto che riescano a realizzare!).
Le discariche, ormai, ospitano solo circa il 15% dei rifiuti urbani. Adesso ci
attendiamo “criteri di efficienza” (Arera, se ci sei batti un colpo!) che
disincentivino i cassonetti deficienti e favoriscano raccolte porta a porta
sempre più “selettive” anche attraverso l’applicazione delle direttive Ue che
impongono di rimborsare di almeno l’80% le spese sostenute per la RD degli
imballaggi.
Il problema principale sono gli imballaggi plastici, che entro il 2030 l’Ue
vuole che siano diminuiti di almeno il 5% e che invece da noi continuano ad
aumentare. Occorre applicare il Deposit System per lattine e bottiglie in Pet
(c’è già a Malta e a Cipro oltre che in tre quarti di Ue… cosa aspettiamo ad
applicarlo?). Se non facciamo così – magari confrontandoci bene con il dramma
del tessile che aumenta esponenzialmente – e se non applichiamo il “diritto a
riparare” (in Italia si continuano ad incentivare Black Friday e
“rottamazioni”!), nel 2026 (l’anno prossimo) non riusciremo a raggiungere quel
55% di riciclo effettivo che l’Ue ci chiede. E se così fosse (ma noi lavoriamo
perché ciò non avvenga) ci sarebbe oltre il danno la beffa, visto che i
cittadini che pure fanno ottime RD si troverebbero a pagare salate multe europee
a causa della mancanza del raggiungimento dell’obiettivo minimo di riciclo.
Meno discorsi sulla “Italia che ricicla bene” (che in parte è vero, ma grazie ai
cittadini che differenziano e non certo alle imprese e ai governi che fanno di
tutto per non applicare davvero gli oneri derivanti dalla Responsabilità estesa
dei produttori)! Ora sta alla politica e alle imprese fare la propria parte
riducendo a monte i rifiuti.
L'articolo Rapporto Ispra 2025 sui rifiuti urbani: ora sta alla politica e alle
imprese fare la propria parte proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sono 4.682 i campioni analizzati tra frutta, ortaggi, cereali, prodotti
trasformati e alimenti di origine animale, con risultati preoccupanti. Perché se
oltre la metà di quelli provenienti da agricoltura convenzionale risulta priva
di pesticidi (50,94%, meno però dell’anno prima, 57,32%), dall’altro il 48%
contiene tracce di uno (il 17,33%) o più fitofarmaci: questi ultimi
rappresentano ben il 30,6% del campione (con un incremento del 14,93% rispetto
all’anno precedente). È quanto emerge dal dossier “Stop pesticidi nel piatto
2025 di Legambiente”, realizzato con il sostegno di AssoBio e Consorzio Il
Biologico.
E proprio sull’effetto “cocktail” si concentra l’allarme degli esperti,
nonostante la percentuale di irregolarità rispetto ai limiti UE appaia bassa
(1,47%). Perché le autorizzazioni sono calcolate sostanza per sostanza, mentre
l’esposizione reale è quasi sempre combinata, con effetti cumulativi su
ecosistemi e salute. “Ciò che desta maggiore allarme”, spiega Fiorella Belpoggi,
direttrice scientifica emerita dell’Istituto Ramazzini,“è il fatto che molti
pesticidi si accumulino. E non è vero che spariscano poi dall’ambiente. Esiste
inoltre l’effetto deriva: a seconda delle condizioni atmosferiche i pesticidi
possono andare anche molto lontano dalla zona in cui ce n’è bisogno: da studi
recenti si è visto che addirittura solo il 10% arriva direttamente sulle piante
trattate e il resto può finire in mezzo alle case, ai giardini dove giocano i
bambini, ai limiti di scuole e ospedali, nelle zone pedonali diserbate. Un
esempio e viene dalle rotaie delle ferrovie che sono pesantemente trattate e si
trovano spesso vicinissime ad abitazioni o a campi destinati al pascolo o a
produzioni agricole”.
AGRUMI E PEPERONI, ALIMENTI PIÙ CONTAMINATI
Il Rapporto analizza in dettaglio gli alimenti più contaminati da insetticidi e
fungicidi come Acetamiprid, Boscalid, Pirimetanil, Azoxystrobin, Fludioxonil, ma
anche molecole tossiche vietate da decenni come il Tetramethrin e il DDT. La
frutta è il comparto più a rischio: tre campioni su 4, ovvero il 75,57%
contengono multiresiduo e il 2,21% risulta non conforme ai livelli di legge. In
particolare, ad essere preoccupanti sono soprattutto i campioni della categoria
agrumi (solo il 13,5% è privo di residui). Vanno meglio i prodotti orticoli,
sempre con residui nel 40,17% dei casi.
Tra gli alimenti più a rischio ci sono il peperone, con solo il 30,07% di
campioni regolari, e i pomodori con il 41,82% di campioni privi di residui.
Vanno meglio i prodotti trasformati (32,89% con residui) e infine il settore
animale, con 88% di campioni totalmente esenti (ma non è inclusa la ricerca di
antibiotici). “Insomma, per dare una sintesi del Rapporto”, spiega Angelo
Gentili, responsabile Legambiente Agricoltura e co-curatore, “possiamo dire che
conferma la situazione che c’era lo scorso anno, con una spinta un po’ più
negativa: abbiamo il 75,5% della frutta e oltre il 40% della verdura contaminate
da uno o più residui, con effetti che si sommano nel nostro organismo. Il danno
è anche per l’ambiente, perché se si aumenta l’uso dei fertilizzanti si crea una
situazione gravissima dal punto di vista della fertilità del suolo, mentre le
piante diventano meno resistenti”.
GLIFOSATO E PESTICIDI ILLEGALI, DUE MOTIVI DI ALLARME
Un capitolo particolarmente delicato riguarda il glifosato. La sua
autorizzazione nell’UE è stata rinnovata fino al 15 dicembre 2033, a seguito di
un procedimento concluso nel 2023, ma le criticità che ne mettono in discussione
la legittimità nel quadro della tutela degli ecosistemi e della salute pubblica
sono numerosi e preoccupanti. In particolare la European Food Safety Authority
(EFSA) e la European Chemicals Agency (ECHA) sono state incaricate dalla
Commissione Europea di valutare nuovi studi, fra cui quelli dell’Istituto
Ramazzini. “Di recente abbiamo pubblicato lo studio di cancerogenesi sul
glifosato, l’erbicida più utilizzato al mondo (Global Glyphosate Study, =GGS) –
spiega la dottoressa Belpoggi – si tratta dello studio tossicologico più
completo mai condotto sul glifosato e sugli erbicidi correlati. Il GGS ha
evidenziato effetti cancerogeni, in particolare sull’insorgenza di leucemia
precoci, anche a dosi oggi considerate ‘sicure’. Auspichiamo che si possa
arrivare a un bando o almeno a un forte contenimento dell’uso del glifosato.
Purtroppo, ci sono comuni come quello di Vercelli ed altri che avevano scelto di
non utilizzarlo più nei luoghi sensibili come scuole, parchi, campi sportivi
dove stazionano bambini e adolescenti, categorie più a rischio, ma dopo il
rinnovo dell’autorizzazione per 10 anni, recentemente hanno deciso di
riutilizzarlo per comodità e vantaggi economici”.
Un altro motivo di allarme è l’aumento preoccupante del commercio di pesticidi
illegali. Dal Rapporto emerge come siano state sequestrate oltre 450 tonnellate
di sostanze illegali destinate all’agricoltura e pericolose per la salute, per
un valore commerciale di circa 15 milioni di euro. Nel 2024, i controlli
sull’uso dei 42 pesticidi in agricoltura sono stati 2.113. Le attività
investigative hanno portato all’accertamento di 407 reati e illeciti
amministrativi (+24,1%), alla denuncia di 341 persone (+13,7%) e a 54 sequestri,
più che raddoppiati rispetto all’anno precedente.
BIOLOGICO: RESIDUI RIDOTTI AL MINIMO
A fronte di questo quadro del tutto diversi sono i dati del settore biologico:
secondo il Rapporto, l’87,7% dei campioni è del tutto privo di residui, il 7,69%
per cento ne contiene uno solo, comunque entro i limiti di legge (il dato si
spiega con il fenomeno della deriva di pesticidi dalle aree limitrofe ai campi).
Per fortuna, inoltre, il biologico cresce, aumentano le superfici certificate e
si consolidano i biodistretti (una forma che mette insieme territorio,
agricoltura, turismo, enti locali, vendita). La superficie agricola utilizzata
(SAU) condotta con metodo biologico raggiunge 2,51 milioni di ettari, +2,4%
rispetto al 2023 e +68% nell’ultimo decennio, avvicinandosi all’obiettivo del
25% fissato dal Green Deal europeo al 2030 (la leadership è del Mezzogiorno,
seguito dal Centro e dal Nord). Crescono i prodotti vegetali ma anche animali:
+31% di bovini biologici in sette anni e quasi un raddoppio degli avicoli
(+97%). Aumentano anche le importazioni di prodotti biologici extra-Ue del 7,1%,
mentre l’export agroalimentare bio italiano raggiunge 3,9 miliardi di euro (+7%
sul 2023).
Il biologico mostra come esistano alternative concrete in chiave agroecologica
all’utilizzo di pesticidi: l’adozione diffusa di tecniche di biocontrollo, con
sostanze naturalmente presenti in natura in grado di eliminare infestanti in
modo alternativo rispetto al Glyphfosate, come l’acido pelargonico, l’adozione
di rotazioni colturali e sovesci (è una pratica agronomica consistente
nell’interramento di materiale vegetale, ndr ), che ripristinano fertilità e
interrompono i cicli di parassiti; la tutela degli insetti impollinatori; la
protezione della biodiversità agricola e naturale. Accanto a questo, l’impiego
di filiere corte e trasparenti e l’abolizione del modello della monocoltura, che
sta creando pesanti criticità di alcuni territori come la zona del Prosecco, le
mele in Trentino o il nocciolo del viterbese.
L’URGENZA DI UN NUOVO PIANO NAZIONALE PESTICIDI
C’è poi il fronte normativo. L’ultima versione del PAN, Piano d’Azione Nazionale
sui pesticidi, risale al 2014 ed è scaduto nel 2019. Il Regolamento SUR, lo
strumento europeo che avrebbe dovuto fissare obiettivi vincolanti al 2030, ha
subito rinvii ancora irrisolti. “Chiediamo l’approvazione urgente del SUR in
Europa e del PAN in Italia”, afferma Gentili, “il potenziamento del
monitoraggio, misure penali chiare contro i pesticidi illegali, il supporto agli
agricoltori nella transizione verso il biologico, come sgravi fiscali e
semplificazioni, un’Iva ridotta sui prodotti bio e sostenibili e una promozione
di mense biologiche in scuole e ospedali”. Purtroppo, mentre la futura PAC
(Politica Agricola Comune) 2028-2034 sembra andare verso una maggiore
flessibilità per i singoli stati, in Europa, “è in discussione un regolamento
Omnibus che sta per liberalizzare i pesticidi ed esiste una raccolta firme di
scienziati indipendenti per fermarlo”, denuncia Belpoggi. “D’altronde
alternative al glifosato ce ne sono a centinaia, ma la produzione è bassa e
quindi i prezzi non scendono”. Le stesse strategie europee Farm to Fork e
Biodiversity 2030 offrono obiettivi chiari da raggiungere entro il 2030: ridurre
del 50% i pesticidi, del 20% i fertilizzanti, del 50% gli antibiotici in
zootecnia, arrivare al 25% di superficie agricola biologica e destinare almeno
il 10% dei terreni agricoli alle infrastrutture verdi e alle aree ad alta
biodiversità.
Cosa si può fare invece livello individuale? Ovviamente la prima leva è
l’acquisto di prodotti biologici, agroecologici e provenienti da filiere che
riducono drasticamente l’uso della chimica di sintesi, imparando a leggere le
etichette. “Scegliendo biologico si va sul sicuro”, spiega Fiorella Belpoggi.
“Poi certo si può togliere la buccia, ma proprio quella contiene polifenoli e
altre sostanze importanti per la nostra salute. E poi faccio l’esempio delle
banane: basta toccare la buccia e poi la banana, magari per darla a un bambino,
per contaminarla”. Ci sono poi le scelte che non si compiono da soli: sostenere
biodistretti, gruppi di acquisto solidale, mercati contadini e reti locali che
promuovono l’agroecologia. “Siamo senza dubbio in una fase molto complessa, in
cui anche i cambiamenti climatici stanno mettendo in seria difficoltà la nostra
agricoltura, generando danni rilevanti, favorendo la proliferazione di
micropatologie e insetti alieni, e causando forti diminuzioni delle rese e del
reddito agricolo”, conclude Gentili. “Ma l’unica strada possibile, non c’è
dubbio, è quella dell’agroecologia”.
L'articolo Il dossier sui pesticidi di Legambiente: frutta e ortaggi ancora a
rischio. Il 48% dei prodotti esaminati contiene uno o più fitofarmaci proviene
da Il Fatto Quotidiano.
In Italia aumentano produzione di rifiuti urbani e raccolta differenziata, per
la quale il Sud accorcia le distanze con Nord e Centro. Esiste però, un gap tra
il tasso di raccolta e quello di riciclo. Su questo fronte, la percentuale nel
2024 si attesta al 52,3%, ma entro il 2025 è previsto si raggiunga il 55%.
Presentando il dossier sui Rifiuti Urbani, l’Istituto superiore per la
protezione e la ricerca ambientale pone l’accento su quanto fatto finora, ma
anche sulle questioni più critiche. Per quanto riguarda il riciclo degli
imballaggi, per la prima volta lo scorso anno anche la plastica ha superato il
target del 50% previsto per il 2025, ma i prossimi obiettivi sono ambiziosi e
lontani e l’Italia si trova a fare i conti con diversi problemi legati alla
gestione dei rifiuti. A iniziare dalla questione del blocco degli impianti di
riciclo e degli effetti a monte, sulla differenziata (Leggi l’approfondimento).
Un tema legato a quello della carenza di impianti in alcune regioni. Ma Ispra
sottolinea anche un altro nodo, ossia quello delle discariche. Perché
considerando anche i rifiuti urbani sottoposti alle operazioni di smaltimento
attraverso l’incenerimento, destinati poi alle discariche, in questi siti arriva
il 15,5% dei rifiuti urbani prodotti. La direttiva quadro definisce l’obiettivo
chiave del 10% entro il 2035 e, dal 2030, vieta lo smaltimento in discarica di
rifiuti idonei al riciclaggio o ad altro tipo di recupero. E l’Italia, come
certificato dalla Commissione europea nel quarto Environmental Implementation
Review, ha già pagato 270 milioni di euro per la mancata bonifica delle
discariche, che le sono costate più di un’infrazione. Tutto accade, tra l’altro,
nelle ore in cui l’Emilia Romagna è scossa da un’inchiesta su una maxi-discarica
abusiva a Brescello, dove sarebbero state accumulate oltre 900mila tonnellate di
scorie di acciaieria non trattate e di fusione che avrebbe compromesso e
deteriorato le acque sotterranee.
AUMENTA LA PRODUZIONE DI RIFIUTI URBANI. E PURE LA RACCOLTA DIFFERENZIATA
La strada da compiere, dunque, è ancora complessa. Anche perché la produzione di
rifiuti continua ad aumentare. Nel 2024, la produzione nazionale dei rifiuti
urbani è stata di poco più di 29,9 milioni di tonnellate, in aumento del 2,3%
(664mila tonnellate in più rispetto al 2023). Sale del 3,7% al Nord, che produce
quasi 14,7 milioni di tonnellate, dell’1,2% al Centro (circa 6,3 milioni di
tonnellate) e dello 0,8% al Sud (poco meno di 9 milioni di tonnellate). Il costo
medio nazionale annuo pro capite di gestione dei rifiuti urbani è di 214,4 euro
per abitante (nel 2023 era 197) in aumento di 17,4 euro. Al Centro il costo più
elevato (256,6 euro ad abitante), segue il Sud (229,2) e, infine, il Nord
(187,2). Nel 2024 è cresciuta anche la raccolta differenziata: nel 2024 ha
raggiunto il 67,7% della produzione nazionale con 755mila tonnellate in più,
raggiungendo un totale di quasi 20,3 milioni di tonnellate. Con percentuali del
74,2% al Nord, del 63,2% al Centro e del 60,2% al Sud. Il Mezzogiorno, di fatto,
continua a ridurre il divario con Centro e Nord.
Tra i rifiuti differenziati, l’organico si conferma la frazione più raccolta in
Italia (37,8% del totale), seguita dalla carta e cartone, con il 19,5%, dal
vetro (11,3%) e plastica (8,8%). Il 96% dei rifiuti plastici raccolti in modo
differenziato è costituito da imballaggi.
LA CLASSIFICA DELLE REGIONI E DEI COMUNI
Le percentuali più alte di raccolta si registrano in Emilia-Romagna (78,9%), che
registra il maggior aumento, in Veneto (78,2%), Sardegna (76,6%), Trentino-Alto
Adige (75,8%), Lombardia (74,3%) e Friuli-Venezia Giulia (72,7%). Superano
l’obiettivo del 65% anche Marche (71,8%), Valle d’Aosta (71,7%), Umbria (69,6%),
Piemonte (68,9%), Toscana (68,1%), Basilicata (66,3%) e Abruzzo (65,7%). Nel
complesso, più del 72% dei comuni ha conseguito una percentuale di raccolta
differenziata superiore al 65%. Nell’ultimo anno, l’89,7% dei comuni intercetta
oltre la metà dei propri rifiuti urbani in modo differenziato. Tra le città con
oltre 200.000 abitanti, i livelli più alti di raccolta differenziata sono a
Bologna (72,8%), Padova (65,1%), Venezia (63,7%) e Milano (63,3%). Seguono
Firenze (60,7%), Messina (58,6%), Torino e Verona (57,4%). Più indietro, seppure
in crescita, Genova (49,8%), Roma (48%), Bari (46%) e Napoli (44,4%).
IL GAP TRA LA DIFFERENZIATA E IL RICICLO DI RIFIUTI
Altro tema, però, è quello del riciclo. Per la percentuale di preparazione per
il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti urbani, la direttiva del 2008 fissava
un target del 50% in peso entro il 2020, nel 2018 sono stati aggiunti altri
target al 2025 (del 55%), al 2030 (60%) e al 2035 (65%). Ma se per il
raggiungimento dell’obiettivo del 50% si potevano usare diversi criteri di
calcolo, per i nuovi obiettivi – come raccontato da ilfattoquotidiano.it (Leggi
l’approfondimento) questi sono più rigidi per garantire che le percentuali siano
effettivamente rappresentative della reale capacità di riciclaggio. Secondo la
nuova metodologia, dunque, Ispra calcola che la percentuale di riciclaggio dei
rifiuti urbani nel 2024 si attesta al 52,3%. In crescita rispetto al 50,8% del
2023, ma mancano ancora 2,7 punti percentuali per raggiungere il target del 55%
previsto per il 2025. E proprio Ispra fa notare che, rispetto al tasso di
raccolta differenziata, c’è una differenza significativa di 15,4 punti
percentuali. “A riprova del fatto che la raccolta – spiega l’Istituto superiore
per la protezione e la ricerca ambientale – pur costituendo un passaggio
fondamentale, non può limitarsi al solo raggiungimento di tassi elevati, ma deve
garantire anche un’elevata qualità delle differenti frazioni intercettate al
fine di consentirne l’effettivo riciclo”. A tutto ciò si aggiungono altri
problemi, come quelli che affliggono da mesi il settore e che, dopo il blocco
degli impianti di riciclo annunciato a novembre dall’Associazione nazionale dei
riciclatori e rigeneratori di materie plastiche (Assoripam), rischia di
paralizzare a monte anche la raccolta, come già sta avvenendo in Sicilia (Leggi
l’approfondimento).
GLI IMBALLAGGI: LA PLASTICA RAGGIUNGE L’OBIETTIVO, MA IL BLOCCO NON AIUTA
Ed è un tema che riguarda anche il flusso degli imballaggi. Nel 2024, l’immesso
al consumo sul mercato nazionale si attesta a quasi 14 milioni di tonnellate, in
lieve aumento rispetto al 2023 e in linea con l’andamento degli indicatori
socioeconomici. Un incremento che riguarda tutte le filiere, compresa quella
della plastica (+0,8%). Il Regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di
imballaggio, che si applicherà a partire dal 12 agosto 2026, introduce misure
stringenti e obiettivi di riciclaggio al 2025 e al 2030 molto ambiziosi per gli
imballaggi. A che punto è l’Italia? Se nel 2024 è stato recuperato all’86,4%
dell’immesso al consumo (85,3% nel 2023), la carta è la frazione maggiormente
recuperata, con il 40,6% del totale, seguita dal legno (19,8%), dalla plastica
(18%) e dal vetro (17,4%). Ed è anche quella più commercializzata, con il 35,7%
del mercato interno, seguita dal legno (24,7%), dal vetro (18,8%) e dalla
plastica (16,5%). Tutti i materiali di imballaggio hanno già raggiunto i target
2025: anche la plastica nel 2024 ha superato per la prima volta l’obiettivo,
arrivando al 51,1% rispetto al 50% previsto. Anche se tutte le altre frazioni
hanno già superato anche l’obiettivo del 55% al 2030. “Rimane in ogni caso
prioritario incrementare il riciclaggio della frazione plastica in vista
dell’obiettivo del 55% – spiega Ispra – anche attraverso lo sviluppo di nuove
tecnologie di trattamento, soprattutto per quelle tipologie di rifiuti che sono
attualmente difficilmente recuperabili mediante processi di tipo meccanico”.
IMPIANTI INSUFFICIENTI IN ALCUNE REGIONI
Ed è un tema che si aggancia alla necessità di un adeguato sistema impiantistico
di gestione. Nel 2024 sono stati operativi 625 impianti per la gestione dei
rifiuti urbani (325 al Nord, 118 al Centro e 182 al Sud), oltre la metà dedicati
alla frazione organica. Tra gli altri fattori, però, anche l’aumento della
raccolta differenziata ha determinato, negli anni, una crescente richiesta di
nuovi impianti di trattamento e non tutte le regioni dispongono di strutture
sufficienti a trattare i quantitativi prodotti. Analizzando i flussi di matrici
organiche selezionate avviati fuori regione, i maggiori quantitativi derivano
dalla Campania (544 mila tonnellate, pari al 25,8% del totale), dal Lazio (circa
303 mila tonnellate, pari al 14,3% del totale) e dalla Toscana (circa 210 mila
tonnellate, pari al 9,9% del totale), in parte dotate di infrastrutture obsolete
e con una capacità di trattamento inadeguata alla gestione dei propri rifiuti
organici.
IL NODO DELLE DISCARICHE. SONO ANCORA TROPPE
Agli impianti di recupero di materia per il trattamento delle raccolte
differenziate viene inviato il 54% dei rifiuti prodotti, il 18% viene
incenerito, mentre l’1% viene inviato ad impianti produttivi come cementifici e
centrali termoelettriche per produrre energia. Un altro 2% viene utilizzato per
la ricopertura delle discariche, il 5% dei rifiuti (che arriva da impianti di
trattamento meccanico o meccanico-biologico), viene destinato alla raffinazione
per la produzione di combustibile solido secondario (Css) o biostabilizzazione,
il 4% è esportato (circa 1,3 milioni di tonnellate) e l’1% viene gestito
direttamente dai cittadini attraverso il compostaggio domestico (316mila
tonnellate). I rifiuti urbani smaltiti in discarica rappresentano il 14,8% dei
rifiuti prodotti (in termini quantitativi, oltre 4,4 milioni di tonnellate, in
calo del 3,7% rispetto al 2023).
Ma nel calcolo dei rifiuti totali smaltiti non sono stati conteggiati quelli
utilizzati a copertura delle discariche in operazioni di recupero ambientale.
Perché si tratta di un quantitativo parziale, in quanto rilevato solamente per
28 impianti su 101. Di fatto, corrisponde ad altre 468mila tonnellate (57,3% al
Nord, 40,6% al Centro e 2,2% al Sud). “L’analisi dei dati evidenzia la necessità
di garantire un ulteriore miglioramento del sistema di gestione” spiega Ispra,
sottolineando che “lo smaltimento in discarica dovrà essere ulteriormente
ridotto per garantire il raggiungimento dell’obiettivo del 10%”. Un target che
l’Italia dovrà raggiungere entro il 2035. Solo che a questo calcolo
contribuiscono anche le quote di rifiuti urbani sottoposti alle operazioni di
smaltimento attraverso l’incenerimento, destinati poi alle discariche. E si
tratta di 206mila tonnellate (dato del 2024), che sommate ai quantitativi di
rifiuti urbani avviati allo smaltimento, portano a una percentuale complessiva
pari al 15,5%. Insomma, ancora più lontana dal target.
L'articolo Aumentano i rifiuti, cresce ancora la raccolta differenziata, ma il
riciclo non tiene il passo: il paradosso Italia. Che paga milioni per il troppo
smaltimento in discarica | I grafici proviene da Il Fatto Quotidiano.
Ha senso dedicare una giornata alle montagne? Ha senso che ogni anno arrivi in
tutto il mondo un vento pieno di attenzioni e premure nei confronti delle terre
alte? O anche questa è l’ennesima celebrazione vuota e retorica per costruire
artificiosamente un senso comune senza fondamenti?
La storia della Giornata internazionale della montagna ha ormai 22 anni. Venne
istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel fatidico 2002, quando
l’intero anno era dedicato proprio ai monti della terra. Si disse, perché
dall’anno prossimo, ogni 11 dicembre, non facciamo proseguire le celebrazioni?
Un giorno ogni dodici mesi, per parlare di problemi, risorse, cultura dei
territori montani. Bell’idea, no? In quell’occasione vennero anche fornite
alcune cifre utili a capire l’entità dell’intero sistema montuoso terrestre. Si
disse che il 27 per cento del nostro pianeta è occupato da montagne, sulle quali
vive il 15 per cento della popolazione umana. Si disse anche che il 90 per cento
dei montanari si trova in una condizione economica fragile, all’interno di paesi
in via di sviluppo. Vale a dire: montagna uguale povertà e arretratezza.
Però, a dirla tutta, non si sa bene come questi dati siano stati assemblati,
visto che anche solo nella nostra piccola penisola si fatica ad arrivare a una
definizione geografica e politica su ciò che è davvero montagna. Figuriamoci nel
mondo! Da noi continuiamo a non saperlo, tanto è vero che la nuova Legge
Calderoli sulla Montagna varata lo scorso ottobre non potrà essere applicata
finché non verranno emessi i decreti attuativi che dovranno stabilire una
definizione precisa. Cos’è montagna? È forse ogni parte del territorio che sta
sopra la soglia altimetrica convenzionale dei seicento metri, come indicava la
vecchia dottrina geografica? No, sarebbe troppo facile: è una definizione
rigidamente positivista, datata, che non può rispecchiare la realtà di oggi.
Montagna è un complesso di fattori. Un insieme di elementi seducenti proprio
perché articolati e multiformi. Montagna è dove si trova massa orografica,
acclività, differenze di esposizione solare, successione di piani altitudinali,
e comprende anche i caratteri legati alle vicende umane, riscontrabili nella
peculiare costruzione dei paesaggi, nelle tecniche agro-silvo-pastorali, nella
difficoltà imposte alla vita. E proprio di quelle difficoltà ci parla la
Costituzione italiana, all’Articolo 44, dove viene specificato: “La legge
dispone provvedimenti a favore delle zone montane”. Da qui si deduce che le
‘zone montane’ sono sfavorite, e devono essere sostenute in quanto luoghi dove
la vita è più dura e svantaggiata.
Montagna è perciò prima di tutto un luogo duro, difficile, dove si vive
aggrappati al pendio, come alle Cinque Terre, che si trovano a quota zero,
eppure sono montagna a tutti gli effetti (forse più della luccicante Cortina coi
suoi 1200 metri di quota).
Oggi i territori montani hanno un ruolo importante nel preservare la
biodiversità e nel difendere le risorse naturali all’interno della grande
partita sul futuro del pianeta. Eppure, ha detto il Presidente Mattarella l’11
dicembre 2023: “È proprio negli spazi alpini e appenninici che emergono con
straordinaria puntualità sia i disagi derivanti dall’essere ‘periferie’, sia le
disuguaglianze nell’accesso ai servizi pubblici essenziali”. Le montagne sono
dunque “centrali” nella lotta al cambiamento climatico, ma “periferiche” nei
diritti di cittadinanza.
Non so se l’11 dicembre Giornata internazionale della Montagna, con la sua
declinazione di quest’anno che mette al centro “I ghiacciai”, abbia un senso. Di
sicuro, è arrivato il momento che i grandi media nazionali non ci raccontino più
solo la montagna-Cortina, patinata e minoritaria, ma neppure che la descrivano
come il luogo dei vinti da assistere, come un rimorchio passivo, luogo
dimenticato a cui guardare con benevolenza e rassegnazione.
L’obiettivo della politica dovrebbe essere scavare fino alle cause che hanno
creato spopolamento e arretratezza e cercare di rimuoverle, mentre con il solo
assistenzialismo non si va alla radice dei problemi. Ciò che manca è prima di
tutto l’erogazione dei servizi primari, scuola, mobilità, presidi sanitari.
Eppure oggi la congiuntura potrebbe essere favorevole al crearsi di un nuovo
modo di vivere nelle terre alte. I numeri lo confermano: 100mila nuovi abitanti
in più nel quinquennio 2019-2023, a cui si devono aggiungere altre circa 35mila
persone che hanno spostato la residenza in un comune montano nel solo 2024, così
ha fatto sapere l’Uncem (Unione nazionale comuni comunità enti montani). Sì,
esempi di speranza ci arrivano da Alpi e Appennini, soprattutto dove lo
spopolamento ha picchiato più duro a iniziare dall’epoca del Boom Economico.
Piccoli paesi tornano dunque a vivere, circondati da una ricchezza oggi sempre
più preziosa e ricercata. Sono i cosiddetti beni intangibili, come la salubrità,
lo spazio, il buio, il vasto silenzio rigeneratore. Beni che si trovano solo in
montagna. E che, in questo 11 dicembre, la definiscono più che mai nel profondo.
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luogo di spopolamento o altro? proviene da Il Fatto Quotidiano.