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Per la Danimarca gli Usa sono per la prima volta una potenziale minaccia: il report dei servizi segreti
“Gli Stati Uniti usano il potere economico, anche sotto forma di minacce di dazi elevati, per imporre la propria volontà e non escludono più l’uso della forza militare, anche contro gli alleati”. Queste parole provengono dai servizi segreti danesi e fanno parte del rapporto annuale sulla valutazione delle minacce: per la prima volta, gli Stati Uniti sono stati inseriti nel rapporto in quanto potenziale minaccia, come rivela il New York Times. La scelta è stata motivata dalla politica estera dell’amministrazione del presidente Donald Trump, contraddistinta da atti e dichiarazioni a sfavore dell’Unione europea e dei Paesi membri: un cambiamento nei rapporti che ha destato preoccupazione a Copenaghen, generando delle incertezze sulla sicurezza danese. Il riferimento, neanche troppo velato, è alla volontà espressa dagli Usa di voler conquistare la Groenlandia. Così come le tensioni geopolitiche per il controllo dell’Artico. Nonostante ciò, il capo del Servizio di intelligence della difesa danese (Ddis), Thomas Ahrenkiel, ha voluto sottolineare che gli Stati Uniti rimangono il partner e alleato più stretto della Danimarca. Insomma, i rapporti tra Ue e Trump si fanno sempre più tesi: qualche giorno fa, il tycoon ha rilasciato un’intervista a Politico che è diventata famosa per i toni aggressivi nei confronti dei leader europei. L'articolo Per la Danimarca gli Usa sono per la prima volta una potenziale minaccia: il report dei servizi segreti proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ucraina, la Danimarca taglia il fondo per gli aiuti. I socialdemocratici: “Presto sarà il turno di altri Paesi”
La Danimarca ridurrà gli aiuti finanziari e militari all’Ucraina nel 2026. Come riferisce la testata online del servizio pubblico danese DR, “il prossimo anno la Danimarca donerà 9,4 miliardi di corone” rispetto ai 16,5 miliardi del 2025 e ai quasi 19 miliardi del 2024. Il ridimensionamento riguarda infatti un Paese che dal 2022, anno dell’invasione russa, è stato tra i Paesi europei che hanno contribuito maggiormente alla difesa ucraina. La decisione sarebbe legata all’esaurimento del fondo speciale per l’Ucraina, istituito nel 2023, che ha già erogato circa 70 miliardi di corone in aiuti militari. Il primo ministro Mette Frederiksen (nella foto con Volodymyr Zelensky) aveva più volte sottolineato “quanto sia importante inviare fondi all’esercito ucraino” e in ottobre aveva esortato i partner europei ad “aumentare il nostro sostegno finanziario e militare all’Ucraina. (…) L’Ucraina è oggi la garanzia della sicurezza dell’Europa. Il nostro sostegno all’Ucraina è un investimento diretto nella nostra sicurezza. E quindi dobbiamo fornire finanziamenti a lungo termine alle forze armate ucraine”. Alcuni esponenti politici ritengono che non sia il momento di ridurre gli aiuti. Stinus Lindgreen, portavoce del partito social liberale Radikale Venstre per la difesa, ha dichiarato che “il problema è che da molto tempo non stanziamo nuovi fondi. Se riteniamo che sia così importante sostenere l’Ucraina, allora è ora di sederci al Folketing (il parlamento danese, ndr), e assicurarci di avere i fondi necessari”. Lindgreen ha aggiunto che gli importi degli ultimi due anni erano invece adeguati e sarebbe opportuno tornare a quel livello, utilizzando parte dei miliardi già destinati alla difesa: “Si tratterebbe di prelevare denaro che abbiamo già concordato di destinare alla difesa… già stanziato”. Ha inoltre sottolineato che “la situazione in Ucraina resta critica. Non è questo il momento di ridimensionare le nostre ambizioni. Né in Danimarca né a livello internazionale”. Volendo fare una comparazione, altri Paesi nordici aumentano o mantengono i loro contributi: la Norvegia ha stanziato 54,3 miliardi di corone per il 2026, la Svezia poco più di 27 miliardi. Secondo il Kiel Institut, la Danimarca rimane il Paese che ha fornito il maggior sostegno all’Ucraina rispetto al Pil. Simon Kollerup, portavoce dei Socialdemocratici per la difesa, ha dichiarato che “è naturale che il nostro sostegno si stia stabilizzando… Credo anche che sia giusto dire che si tratta di un sostegno che va ben oltre ciò che la nostra dimensione effettiva richiederebbe. Quindi penso che sia abbastanza naturale che il profilo del sostegno sia in calo”. Kollerup ha precisato che non è ancora stata presa una decisione definitiva sul futuro del fondo: “Credo che daremo più soldi rispetto al profilo attuale. Ma ho qualche dubbio che saremo necessariamente in prima linea come abbiamo fatto in passato”. La maggior parte dei miliardi è stata spesa nei primi tre anni di guerra, “ma presto sarà il momento anche per altri Paesi di contribuire”. Perché, precisa, “siamo un piccolo paese con un’economia sana e un elevato potere decisionale… Ma credo anche che ci sia spazio per altri paesi di farsi avanti”. L’intenzione è dunque quella di un progressivo ridimensionamento del contributo, pur lasciando aperta la possibilità di ulteriori stanziamenti in base all’evoluzione della situazione ucraina. L'articolo Ucraina, la Danimarca taglia il fondo per gli aiuti. I socialdemocratici: “Presto sarà il turno di altri Paesi” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Le politiche di destra costano care ai socialdemocratici in Danimarca: persa Copenaghen dopo quasi un secolo
I Socialdemocratici in Danimarca perdono Copenaghen dopo 87 anni. Nelle elezioni regionali e comunali, infatti, il Partito Socialdemocratico guidato dalla premier Mette Fredriksen ha subito una dura botta, “maggiore di quanto ci aspettassimo”, ha ammesso la leader. Venstre, il partito liberale, attualmente in coalizione con Fredriksen in Parlamento, ha infatti sorpassato i Socialdemocratici per numero di sindaci eletti in Danimarca. Era dal 1938 che a Copenaghen era presente un sindaco socialdemocratico, ma questa volta è stato un flop: raccolti soltanto il 12,7% dei voti, molto indietro rispetto alla Lista dell’Unità (formazione rosso-verde) che ha ottenuto il 22,1% dei voti e al Partito Popolare Socialista, con il 17,9%, secondo i risultati ufficiali. La nuova sindaca è Sisse Marie Welling. Un risultato storico, ma in parte atteso. Da anni infatti i Socialdemocratici si stanno progressivamente spostando a destra, soprattutto per quanto riguarda le politiche sull’immigrazione, dove hanno un approccio molto restrittivo diventato un modello per la destra europea. “Abbiamo perso a Copenaghen, ed è davvero un peccato” ha dichiarato la candidata sindaca Pernille Rosenkrantz-Theil, ex ministra del governo Fredriksen, che ha lasciato il suo incarico per candidarsi a diventare sindaca della capitale danese. “Abbiamo deciso che se dovevamo perdere, avremmo lottato fino alla fine, ed è quello che abbiamo fatto”, ha aggiunto riportata dall’emittente di servizio pubblico danese DR. Si stanno ora svolgendo i negoziati tra i partiti di sinistra per formare una coalizione all’interno del consiglio comune di Copenaghen a cui i Socialdemocratici non sono stati invitati a partecipare. “Ci aspettavamo di perdere ma sembra che la sconfitta sia maggiore del previsto. Valuteremo le cause”, ha detto Frederiksen citando l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e lo squilibrio tra aree rurali e urbane come cause del calo di popolarità del suo partito. E tra meno di un anno ci saranno le elezioni parlamentari che si dovranno tenere entro ottobre 2026. L'articolo Le politiche di destra costano care ai socialdemocratici in Danimarca: persa Copenaghen dopo quasi un secolo proviene da Il Fatto Quotidiano.
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I futuri noti del fascismo
M ikkel Bolt Rasmussen, professore di estetica politica al Dipartimento di arte e studi culturali dell’Università di Copenhagen, in La controrivoluzione di Trump (2019) e Fasciocapitalismo (2024), produce un’analisi della politica (anche delle immagini) di Trump e in generale dei nuovi movimenti, partiti e leader neofascisti come una politica di alleanza rinnovata tra tardo-capitalismo e fascismo. Il suo obiettivo è trattare il fascismo all’insegna del suo adattamento, dunque come un’ideologia che ha aggiornato tanto gli strumenti quanto il fine. Il neofascismo può servirsi della democrazia liberale (nelle sue possibilità illiberali) per costruire un’utopia più modesta: la riproduzione della società del dopoguerra, più semplice e dunque più comprensibile, più spensierata, profondamente razziale, patriarcale. Insomma, i nuovi fascismi vogliono restringere il campo delle libertà e della partecipazione democratiche per difendere il benessere dei Paesi Occidentali, in un momento di crisi economica, politica, migratoria, bellica, climatica, sanitaria. Nei testi di Rasmussen non si trova, per programma, un approfondimento della politica danese, più volte invece portata ad esempio per descrivere il “razzismo di Stato liberale” delle democrazie occidentali, nonostante un certo antirazzismo morale: la Danimarca, negli ultimi vent’anni, ha portato avanti politiche estremamente restrittive nei confronti delle persone ritenute straniere (con vere e proprie ghettizzazioni, incarcerazioni coatte, sfruttamento, eradicazione culturale) e per contrastare la migrazione, regolare o irregolare che sia (con addirittura l’esternalizzazione delle pratiche di richiesta d’asilo). Dal momento che la Danimarca viene più volte mobilitata come modello a cui aspirare nel contesto Europeo, in termini anche sociali, soprattutto in quanto avanguardia in sostenibilità e welfare (per le persone danesi), ho deciso di contattare direttamente Rasmussen, per ospitare qui la sua critica. Ne ho approfittato per chiedergli anche un aggiornamento della sua analisi su Trump, alla luce del secondo mandato. Ne viene fuori una sorta di profezia dei futuri noti (possibili) dei Paesi del Nord Globale e, ovviamente, anche dell’Italia. Il governo Meloni ha approvato una serie di decreti e disegni di legge culminata con il decreto sicurezza (risultato di una decretazione d’urgenza del precedente DDL), che secondo molti osservatori rappresenta un pacchetto repressivo verso il dissenso e oppressivo verso le persone marginalizzate. Per combattere le realizzazioni storiche del neofascismo nazionale, bisogna studiare le realizzazioni storiche in altri Paesi. PROFESSOR RASMUSSEN, NEI SUOI LIBRI, E ANCHE SU EFLUX, PARLA PER LA DANIMARCA DI “RAZZISMO DI STATO LIBERALE”, UN CONCETTO SIMILE, CREDO, A QUELLO DI “STATO RAZZIALE INTEGRALE” DI HOURIA BOUTELDJA, APPROFONDITO IN BEAUFS ET BARBARES (2023). STIAMO PARLANDO DI CONCEPIRE IL RAZZISMO COME UNO STRUMENTO SOCIOTECNICO (UN “COMPLESSO DI ATTIVITÀ PRATICHE E TEORICHE”) CON CUI L’ESTABLISHMENT “GIUSTIFICA E MANTIENE IL SUO DOMINIO” RIUSCENDO ANCHE A OTTENERE IL CONSENSO ATTIVO DEI GOVERNATI. MI PERMETTA UNA PROVOCAZIONE CHE POTREBBE ARRIVARE DA DESTRA: SE I RISULTATI DI QUESTE POLITICHE, PER ESEMPIO IN DANIMARCA, SONO “POSITIVI”, CIOÈ PORTANO BENESSERE DIFFUSO, SOPRATTUTTO PER QUELLA PORZIONE DI POPOLAZIONE RITENUTA “CITTADINA” LEGITTIMA, NON SI TRATTA FORSE DI POLITICHE A CUI ALTRI GOVERNI POTREBBERO O DOVREBBERO GUARDARE, VISTO CHE L’ALTERNATIVA È UNA RIVOLUZIONE CHE LO STESSO STATO DEMOCRATICO NON PUÒ VOLERE, OPPURE LA GUERRA CIVILE? La situazione danese rende manifesto che la riemersione del fascismo come fenomeno politico fa parte di una storia molto più lunga e complessa, che non può essere limitata alla gestione della crisi finanziaria da parte delle élite politiche delle nazioni europee, e sicuramente non a un presunto aumento del numero di migranti arrivati in Europa. Nel contesto danese, l’introduzione di politiche migratorie estremamente dure deve essere inquadrata in una traiettoria storica ben più lunga, che riguarda il modo in cui la classe lavoratrice è stata concettualizzata nelle prime fasi della costruzione della versione danese del cosiddetto Stato sociale scandinavo, cioè nel periodo tra le due guerre e nei primi anni del dopoguerra. Fin da subito, i socialdemocratici danesi identificarono la classe lavoratrice con la classe lavoratrice danese. Questa identificazione si consolidò dopo la Seconda guerra mondiale, quando le classi lavoratrici locali furono integrate nel processo di nazionalizzazione del popolo, un processo che ebbe luogo in tutta l’Europa occidentale, compresa la Danimarca, ma anche in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Italia. La combinazione tra democrazia nazionale e Stato costituzionale spostò il conflitto tra proletariato e borghesia ‒ che aveva caratterizzato la ‘guerra dei trent’anni’ del 20° secolo (dal 1914 al 1945) ‒ su un altro piano. Dopo il 1945, la relazione tra capitale e lavoro fu riorganizzata sulla base di un compromesso sociale in cui le masse lavoratrici non solo ottennero salari più alti, ma anche accesso a un’enorme varietà di beni di consumo, istruzione e cultura; ma, cosa importante, abbandonarono la precedente speranza in un mondo oltre il lavoro salariato. Questa è la storia dell’abbandono dell’internazionalismo da parte del movimento operaio consolidato. Possiamo raccontare questo sviluppo storico come la storia di una straordinaria conquista del movimento operaio occidentale, come fa ad esempio Geoff Eley in Forging Democracy: The History of the Left in Europe, 1850-2000 (2002). Ma è, ovviamente, anche la storia di come il movimento operaio dimenticò più o meno rapidamente la violenza razziale nelle colonie e il legame tra questa violenza e quella fascista in Europa. Aimé Césaire e molti altri militanti anticoloniali cercarono disperatamente ‒ spesso dall’interno dei partiti comunisti delle nazioni dell’Europa occidentale ‒ di affermare che la spinta rivoluzionaria doveva affrontare due problemi e non solo uno. Lo sfruttamento era certamente l’alfa e l’omega, ma la questione coloniale non poteva essere ignorata e doveva anch’essa essere affrontata. Il fascismo era stato sconfitto in Europa ‒ e questo era ovviamente fondamentale ‒ ma era un errore considerare il fascismo come un’eccezione storica: esisteva un legame diretto tra la barbarie delle colonie e la violenza dei regimi fascisti dell’Europa tra le due guerre. Analizzare questo legame era cruciale. L’antifascismo “limitato” (nell’originale “limited anti-fascism”, ndr) che prevalse nell’Europa occidentale dopo il 1945 non collegò il fascismo come fenomeno politico alla persistenza della violenza razziale-coloniale nelle colonie, nelle ex colonie indipendenti e nelle metropoli occidentali, compresa la feroce opposizione ai movimenti anticoloniali. La prospettiva antinazionalista e internazionalista, cuore del marxismo rivoluzionario, fu soppiantata da vari tipi di nazionalismo. È questa una ragione storica per cui fu così facile per la maggior parte dei partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale abbandonare ogni forma di solidarietà internazionale, sia in tempi di crisi economica sia in tempi di crescita. Il periodo dalla fine degli anni Settanta in poi è stato caratterizzato da un’economia in declino nell’Europa occidentale, rispetto al boom del dopoguerra. L’epoca della globalizzazione neoliberale ha visto brevi fasi di crescita seguite da numerose crisi. Guardando da lontano e concentrandosi sulla riproduzione sociale, tutto il periodo dalla fine degli anni Settanta appare come un lento declino, anche in economie come quella danese. Un argomento brutalmente “materialista” potrebbe essere che, dopo un periodo di forte crescita negli anni Cinquanta e Sessanta, durante il quale l’economia danese ‒ come molte altre in Europa occidentale ‒ era in grado di integrare lavoratori migranti, l’economia in crisi della globalizzazione neoliberale è stata un’economia dell’espulsione o dell’assorbimento differenziato, in cui solo alcuni lavoratori stranieri più qualificati erano benvenuti, mentre molti altri no. Il primo cambiamento significativo nel contesto danese è avvenuto a metà degli anni Novanta: mentre rappresentanti della borghesia danese, tra cui i leader delle organizzazioni imprenditoriali nazionali, continuavano a sostenere la necessità di manodopera migrante, i politici iniziarono a opporsi. Inizialmente erano partiti marginali dell’estrema destra a opporsi a ciò che loro chiamavano “frontiere aperte” ‒ benché la Danimarca non abbia mai avuto frontiere aperte e, trovandosi nel Nord dell’Unione Europea, abbia ricevuto un numero significativamente più basso di rifugiati e migranti ‒, ma ben presto anche i partiti del centrodestra adottarono questa linea. Dopo alcune iniziali resistenze tra i leader socialdemocratici della vecchia generazione, anche il Partito socialdemocratico danese cominciò a competere per il voto razzista. Gli ultimi 25 anni sono stati un lungo spostamento verso destra. CON IL SECONDO E IL TERZO GOVERNO DI Lars Løkke Rasmussen (dal 2015 al 2019), leader del centrodestra, vengono intraprese politiche migratorie davvero securitarie: per dirne una, subito nel novembre 2015 sono state adottate 34 restrizioni all’asilo, tra cui il rinvio del diritto al ricongiungimento familiare. Per fare due esempi ancora più significativi, abbiamo la cosiddetta legge sui gioielli (Jewelery Law), che obbligava le persone migranti a consegnare beni di valore contestualmente alla richiesta di asilo; e il cosiddetto Piano ghetto (Ghetto Plan), che prevedeva controlli di polizia intensificati, sfratti e pene doppie nei quartieri con alta disoccupazione ed elevata presenza di minoranze etniche (una multa di 1000 corone danesi diventava automaticamente di 2000 se il reato avveniva in uno di quei “ghetti”, e lo stesso valeva per le pene detentive). PREVEDE ANCHE L’OBBLIGO PER I BAMBINI DI FREQUENTARE UN PROGRAMMA “PRESCOLARE” PER APPRENDERE LA LINGUA E I VALORI DANESI, OPPURE LA RIALLOCAZIONE DELLE PERSONE CONSIDERATE “STRANIERE” (PER “DE-GHETTIZZARE” IL QUARTIERE, CON ANNESSA RISTRUTTURAZIONE O RICOSTRUZIONE, PER FAVORIRE LA SPECULAZIONE IMMOBILIARE). IN ITALIA, IL GOVERNO MELONI HA SUGGERITO L’ISTITUZIONE DI “ZONE ROSSE” NELLE PRINCIPALI CITTÀ ITALIANE. IN QUESTI QUARTIERI, LE FORZE DELL’ORDINE HANNO POTERI SPECIALI E POSSONO AGIRE PER REPRIMERE LE PERSONE CONSIDERATE “PERICOLOSE” SECONDO CRITERI MOLTO VAGHI (CHE CON QUESTA DISCREZIONALITÀ SI PRESTANO DI FATTO A ESSERE APPLICATI A SOGGETTI RAZZIALIZZATI). OVVIAMENTE ANCHE CITTÀ AMMINISTRATE DA PARTITI DI SINISTRA (COME MILANO E ROMA) NON HANNO ESITATO AD ACCOGLIERE IL SUGGERIMENTO. È una tendenza naturale. Oggi tutti i partiti del Parlamento danese hanno di fatto adottato una posizione estremamente xenofoba nei confronti dei migranti. Incluso il partito di sinistra, l’Alleanza Rosso-Verde, che magari critica la retorica dei socialdemocratici, ma che comunque sostiene sempre il governo socialdemocratico, indipendentemente dalle politiche vili che adotta. Dai primi anni Duemila, vari governi di centrodestra e centrosinistra hanno portato avanti una lunga lista di misure muscolari finalizzate non solo a limitare il numero di persone migranti e rifugiate, ma a porre fine alla migrazione. Come ha detto la prima ministra Mette Frederiksen nel 2019: “Non possiamo promettere zero richiedenti asilo, ma possiamo sicuramente proporre una visione in tal senso£. Questa visione ha preso forma in una serie di iniziative bizzarre, tutte con l’obiettivo di stigmatizzare ed emarginare non solo migranti o richiedenti asilo, ma anche figli di migranti, cittadini danesi nati o cresciuti in Danimarca. Oggi è impossibile distinguere la posizione sull’immigrazione del Partito popolare danese (di stampo fascista) da quella dei socialdemocratici. Sono completamente allineati. E ciò non è un caso: è stata una strategia esplicita del Partito socialdemocratico adottare ogni proposta del Partito popolare danese, anche le più folli. Elettoralmente ha funzionato: oggi il Partito popolare danese ha meno del 5% dei voti, mentre in passato aveva oltre il 25%. Per decenni il Partito popolare danese ha parlato insistentemente di auto bruciate, pompieri attaccati e ragazze danesi stuprate da uomini musulmani. Oggi sono i socialdemocratici a portare avanti quella retorica, stigmatizzando continuamente gli “stranieri” e dipingendoli come una minaccia al futuro del Paese, arrivando perfino a suggerire che costituiscano un esercito segreto di infiltrati. Nel 2024, Frederik Vad, portavoce del Partito socialdemocratico sull’immigrazione, ha annunciato “un nuovo fronte nella politica migratoria” con l’obiettivo di combattere “gruppi di immigrati che minano a destabilizzare la società danese dall’interno”. Se fino ad allora i socialdemocratici avevano almeno cercato di distinguere tra “immigrati ben integrati” e “indesiderabili”, Vad ha abbandonato questa distinzione, dichiarando che non si può mai essere sicuri che un immigrato abbia realmente adottato i valori danesi. Anche se un immigrato conduce apparentemente “una vita normale”, facendo il medico o il poliziotto, come possiamo essere certi che non stia in realtà usando la sua posizione per minare la società danese? ESPRIMERE QUESTO DUBBIO SIGNIFICA AMMETTERE DI ESSERE RAZZISTI. “Una società parallela [così si definisce uno spazio in cui i musulmani ignorerebbero le regole e i valori danesi] non è più solo un quartiere residenziale a Ishøj [uno dei distretti etichettati come ghetto]. Può essere anche un tavolo della mensa in un’agenzia governativa. Può essere anche una farmacia in North Zeland”. Questa dichiarazione di Vad è stata solo l’ultima di una lista apparentemente infinita di affermazioni islamofobe e xenofobe, che non solo mettono in dubbio il valore morale di cittadini specifici, ma legittimano ogni tipo di politica escludente. Se un tempo la Danimarca veniva citata come uno dei migliori esempi di stato sociale socialdemocratico ‒ lo stesso Bernie Sanders, nel 2016, parlava con ammirazione della Danimarca durante la sua campagna elettorale ‒, oggi il Paese è all’avanguardia nella reazione nazionalista, ammirato da politici fascisti di tutta Europa ansiosi di imparare dal “modello danese”. NEL SUO LIBRO LA CONTRORIVOLUZIONE DI TRUMP LEI ANALIZZA LA CAMPAGNA ELETTORALE PARTENDO DAL PRIMO MANDATO DI TRUMP. GIÀ ALLORA, BEN PRIMA DELL’OPINIONE PUBBLICA, RICONOSCEVA IN TRUMP UN FASCISTA. IN QUESTO SECONDO MANDATO, GIÀ MOLTO PIÙ AGGRESSIVO, LA SUA ANALISI È CAMBIATA? Il periodo del compromesso sociale tra capitale e lavoro nei centri dell’accumulazione, sotto l’egemonia statunitense, è definitivamente finito. Siamo entrati in un periodo di transizione, in cui è difficile avere una visione d’insieme. Le certezze precedenti stanno scomparendo, e non è chiaro cosa ci attende. Trump è una scorciatoia per questo cambiamento. Molti concetti politici tradizionali chiaramente non funzionano più, ed è difficile applicarli. Per questo tante persone fanno riferimento alle frasi di Gramsci sull’interregno, in cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è ancora nato. Con Stuart Hall, che si ispirava molto a Gramsci ma combinava le sue teorie con quelle di Althusser e altri, possiamo forse comprendere la situazione storica attuale come una congiuntura, cioè una situazione storica specifica, aperta, che richiede un’analisi dettagliata, focalizzata sulle caratteristiche del momento presente, ma radicata in un processo storico più lungo. Questo tipo di analisi della situazione è ciò che ho cercato di sviluppare in La controrivoluzione di Trump, dove mi sono concentrato sugli elementi distintamente nuovi del fenomeno Trump, indicando al contempo le condizioni storiche che lo hanno reso possibile e ciò di cui può essere considerato una continuazione. Mi sono mosso quindi tra l’analisi della congiuntura, di un periodo e del modo di produzione capitalistico. È per questo che è diventata una descrizione del ritorno di una nuova forma paradossale di fascismo, ciò che chiamo fasciocapitalismo (late capitalism fascism) sullo sfondo del crollo della globalizzazione neoliberale e di una crisi profonda e persistente dell’economia globale. Una delle sfide poste da fenomeni politici come Trump, nel 2016 e ora di nuovo nel 2024-2025, è che egli è chiaramente un fascista – la sua politica è un ultranazionalismo palingenetico, nei termini di Roger Griffin – ma non rientra in tutte le caratteristiche che comunemente associamo ai movimenti fascisti dell’epoca tra le due guerre. È quindi importante sviluppare nuovi concetti per descrivere il nuovo fascismo, per cogliere ciò che c’è di nuovo nel fascismo contemporaneo. Per questo dedico un intero capitolo alla lettura del discorso inaugurale di Trump in La controrivoluzione di Trump. Cerco di analizzare i tropi fondamentali della sua visione politica, per quanto incoerente possa apparire. Questa analisi ravvicinata si radica in un’analisi di un processo politico ed economico più ampio, caratterizzato da una lunga crisi delle economie dei Paesi avanzati, soprattutto degli Stati Uniti. Mi rifaccio a Ernst Mandel e Loren Goldner, e descrivo gli ultimi 50 anni come un lungo atterraggio forzato economico, in cui il boom del dopoguerra è stato sostituito dalla globalizzazione neoliberale sotto forma di delocalizzazione, privatizzazioni, ritorno del lavoro precario e crescita del credito e del debito. COME RIESCE TRUMP IN QUESTA CONTRORIVOLUZIONE? HA AVUTO UN RUOLO L’AMMINISTRAZIONE BIDEN? E LA CANDIDATURA DI HARRIS? Trump riconosce e indica costantemente la miseria economica che molti americani vivono. La crisi finanziaria ha messo in evidenza una tendenza fatta di decenni di tagli alla riproduzione sociale negli Stati Uniti. Per lungo tempo, questa realtà è stata mascherata da debiti e prestiti, ma dopo la crisi finanziaria è diventato evidente che l’economia cresceva sempre meno, e soprattutto quanto fosse distribuita in modo ineguale la ricchezza, e quanto fosse difficile per molte famiglie arrivare a fine mese. Mentre Obama, Clinton, Biden e Harris continuavano a ripetere che andava tutto bene e che si sarebbe proseguito con le stesse politiche per altri quattro anni, Trump gridava che tutto stava andando in malora – e molti americani si identificavano in questa percezione. È così che si vive in molte città di cui i media americani ed europei parlano raramente. Nell’elezione del 2024, l’inflazione è stata un tema centrale per molti, ma l’inflazione maschera una tendenza più lunga di declino e di collasso. Trump ha parlato costantemente di questo collasso. Indubbiamente lo sta accelerando, ma lo ha indicato e riconosciuto. I democratici no. Le soluzioni proposte da Trump sono guerre commerciali e protezionismo, ma ancora di più l’attacco a specifici gruppi di persone identificati come nemici della comunità nazionale. Make America Great Again è la visione di un popolo minacciato che deve tornare forte attraverso l’esclusione e il ripiegamento su sé stesso, politicamente, culturalmente ed economicamente. I nemici di questa comunità sono gli stranieri, dai messicani ai cinesi, ma anche i “leftist” e le persone transgender, chiunque possa essere rappresentato come una minaccia alla supremazia maschile bianca o che faccia sentire insicuri gli uomini bianchi. Nel libro, affianco alle analisi del neoliberismo anche spunti da varie generazioni di analisi marxiste del fascismo, che sottolineano la connessione tra capitalismo come sistema politico-economico e totalità sociale, e fascismo come movimento politico e culturale che emerge in situazioni di crisi per evitare un cambiamento socio-materiale – in altre parole, per evitare una rivoluzione. La dimensione controrivoluzionaria di Trump è diventata ancora più evidente da quando ho scritto La controrivoluzione di Trump. Ricordiamo quanto furono grandi le proteste dopo l’uccisione di George Floyd nell’estate 2020: sono state le più estese proteste nella storia americana degli ultimi decenni. Le immagini della stazione di polizia in fiamme a Minneapolis hanno profondamente spaventato la classe dirigente statunitense. Più di duemila grandi città sono state teatro di manifestazioni e rivolte. Interi quartieri sono stati liberati dalla polizia. È stata una protesta che ha messo in discussione l’ordine dominante. Come ha descritto anche Idris Robinson, la folla che ha partecipato alle proteste era molto più eterogenea rispetto al passato. Occupy era un movimento composto perlopiù da studenti bianchi delle grandi città; BLM (Black Lives Matter) nel 2013 e 2014 era principalmente afroamericano. Le proteste del 2020 sono state sicuramente guidate da neri americani, ma hanno coinvolto una moltitudine di persone. La rivolta per George Floyd ha mostrato la possibilità di una rottura radicale. Ogni analisi della rielezione di Trump nel 2024 deve tenere conto di quella rivolta. Seguendo Karl Korsch e Amadeo Bordiga, in La controrivoluzione di Trump descrivo la politica di Trump come una controrivoluzione preventiva, volta a far deragliare una potenziale rivoluzione. Il progetto è bloccare la formulazione di una nuova visione. Impedire che prenda forma e diventi un’alternativa. Non siamo ancora a quel punto; non abbiamo un movimento rivoluzionario, e difficilmente sappiamo cosa significhi oggi “rivoluzione”, né teoricamente né praticamente. Questo è, naturalmente, uno dei maggiori problemi. Ma il secondo mandato di Trump serve soprattutto a evitare che ciò accada, a impedire l’emersione di un’altra partizione del sensibile, come direbbe Jacques Rancière. IL RUOLO DI MUSK QUAL È? Centrale. La dimensione controrivoluzionaria era già evidente nel 2016, e oggi lo è ancora di più. Come il fascismo interbellico, Trump si nutre di disgregazione e resistenza, ma le devia verso altrove. Cerca di presentarsi come un’alternativa a Washington D.C., come un outsider rispetto alla classe politica, e in questo modo cerca di cannibalizzare e mediare l’enorme insoddisfazione e paura che permeano la società americana. Vuole «prosciugare la palude», come dice lui. Gli attacchi di Trump ai media mainstream americani, come CNN e MSNBC, sono ora qualificati come illegali da lui stesso, parte di una lotta contro i tribunali, e il progetto DOGE (Department of Government Efficiency) di Musk è la forma che sta assumendo questa lotta. Nel suo primo mandato era relativamente impreparato, anche se all’inizio aveva Stephen Bannon al suo fianco. Ma ora è molto più preparato. Il Project 2025 della Heritage Foundation sembra un vero e proprio manuale operativo; nel primo mese del secondo mandato Trump ha emesso una raffica di ordini esecutivi che anticipano espulsioni di massa e guerre commerciali. Allo stesso tempo, Musk e la sua task force DOGE stanno facendo irruzione nella macchina dello Stato federale per cercare modi di tagliare il bilancio statale e licenziare dipendenti pubblici. L’obiettivo è minare il funzionamento standard dello Stato americano. L’amministrazione americana deve essere distrutta, sia concretamente sia simbolicamente. Il contributo di Trump al movimento controrivoluzionario è che esiste una sorta di contrappeso integrato nella democrazia nazionale che permette l’introduzione di uno stato d’emergenza. Per questo non basta rispolverare un antifascismo d’altri tempi che si oppone al fascismo e alla democrazia nazionale. Dobbiamo anche parlare di capitalismo – come ha detto emblematicamente Horkheimer nel 1939 – e di anticapitalismo. Ecco perché insisto nell’includere l’intero nuovo ciclo di proteste dal 2011 in poi. Una delle costanti di queste proteste è il rifiuto della violenza poliziesca. Molte proteste sono scoppiate dopo l’uccisione da parte della polizia dell’ennesima persona proletaria. Abbiamo una sequenza che va da Mohamed Bouazizi in Tunisia nel 2010 a Mark Duggan in Inghilterra nel 2011, da Eric Garner negli Stati Uniti nel 2014 a George Floyd nel 2020, Giovanni López in Messico nello stesso anno, fino a Nahel Merzouk in Francia nel 2023. Le nuove proteste rifiutano l’apparato repressivo dello Stato. Anche perché, più le economie si restringono, più devono controllare chi è destinato a sopravvivere ai margini delle stesse. Oggi, sempre più proletari si scontrano direttamente con lo Stato. P erò abbiamo tutti grande difficoltà nel dire Trump un fascista, se guardiamo ai leader del fascismo della prima metà del Novecento. Se confrontiamo Trump con i leader fascisti interbellici come Hitler e Mussolini, Trump appare stranamente vuoto. È così contraddittorio che è difficile attribuirgli una ideologia politica coerente. Naturalmente dobbiamo ricordare che anche il fascismo interbellico era già caratterizzato da contraddizioni e frammentazioni. Il fascismo era sia moderno sia nostalgico, prendeva in prestito elementi estetici dal movimento operaio pur combattendolo con ogni mezzo. La paura del comunismo giocò un ruolo importante per Mussolini e Hitler. Ma mentre il fascismo italiano riuscì ad assorbire buona parte dell’impulso rivoluzionario e a parassitarlo, il nazismo tedesco era finale [Rasmussen scrive letteralmente “was final”: intende dire che giunse al potere alla fine di un processo di crisi durante il quale l’impulso rivoluzionario era già parzialmente esaurito,  ndr] e dovette confrontarsi con una profonda crisi economica. Ma allora come oggi il fascismo è un fenomeno della sovrastruttura, cioè si manifesta soprattutto come progetto politico-culturale. Ed è per questo che oggi è così politicamente efficace. La lunga depoliticizzazione neoliberale, per cui la democrazia rappresentativa nazionale è stata svuotata di contenuto e trasformata in amministrazione, fornisce un terreno fertile ai nuovi fascisti, che – come pochi altri – sanno mobilitare elettori che faticano a vedere differenze tra i partiti tradizionali, che da decenni si alternano nell’imporre politiche di austerità. Oggi, solo i fascisti riescono ad attivare le masse. MA INSOMMA, QUAL È L’OBIETTIVO DI TRUMP? Trump vuole salvare la democrazia, la vera democrazia, ovviamente. Una democrazia che negli Stati Uniti non include tutti. Molte persone devono essere eliminate. Devono finire a Guantanamo o semplicemente essere espulse. Perché tutto – dai migranti agli attivisti pro-Palestina – è una minaccia per la democrazia americana, e quindi va deportato. È per questo che l’ICE (Immigration and Customs Enforcement) detiene Mahmoud Khalil e deporta 238 venezuelani in El Salvador, appellandosi a vecchie leggi usate solo in tempi di guerra, per esempio durante la Seconda guerra mondiale. Con Claude Lefort possiamo comprendere il fenomeno Trump come una risposta totalitaria al paradosso fondamentale della democrazia: il fatto che il luogo del potere sia vuoto. La democrazia è caratterizzata dalla sospensione di ogni nozione tradizionale di gerarchia naturale e di criteri di inclusione. Quando si decapita il re, nessuno può più rivendicare un diritto speciale al potere. Ma in situazioni di crisi, questo vuoto diventa un problema, che si tenta di risolvere attraverso una scorciatoia totalitaria, per cui un leader invoca un principio di identificazione per colmare quel vuoto. È ciò che vediamo nella retorica stranamente autoerotica che Trump articola costantemente: Trump è ricco quindi può rendere forte l’America; l’America è forte perché Trump è forte e sa fare buoni affari; gli americani amano Trump perché è forte; gli altri stanno imbrogliando l’America, quindi Trump deve ripulire e costruire muri; Trump è accusato di tutto perché gli altri vogliono mantenere l’America debole, ecc. L’America è la comunità immaginaria che permette a Trump di unire gli opposti. Riesce a rappresentare sia gran parte della classe operaia americana, sia quella che Davis ha chiamato «classe media lumpen», che trae reddito da immobili, casinò, compagnie di sicurezza e prestiti privati, e ovviamente parti significative della classe capitalista come quella a capo dell’industria dell’energia, delle armi e ora della tecnologia. Parla a tutti quei lavoratori che si identificano nell’immagine del lavoratore bianco, anche se non sono razzializzati come bianchi. L'articolo I futuri noti del fascismo proviene da Il Tascabile.
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