N el primo dei tre episodi che compongono il film Mystery Train di Jim Jarmusch
(1989), Mitsuko e Jun, una coppia di giovani giapponesi ossessionati da Elvis
Presley, giungono in un hotel di Memphis per intraprendere un pellegrinaggio
laico nei luoghi in cui è cresciuto il “re del rock and roll”. Quando arrivano,
è notte. Vengono accompagnati alla loro stanza dal facchino dell’albergo, posano
l’enorme valigia rossa sul letto ‒ l’unico bagaglio che hanno con sé ‒ e una
volta rimasti soli, si incagliano immediatamente in un tempo immobile, annoiato.
Seduta sul pavimento, Mitsuko si distrae incollando su un quadernetto immagini
di Elvis ritagliate da giornali, Jun comincia a scattare decine di fotografie
alla stanza. Incuriosita, Mitsuko gli chiede: “Perché fai foto solo alle stanze
in cui soggiorniamo e mai a quello che vediamo fuori mentre viaggiamo?” e Jun le
risponde: “Quelle altre cose sono nella mia memoria. Le camere d’albergo e gli
aeroporti sono le cose che dimenticherò”.
Luoghi e nonluoghi
Negli anni, non ho avuto la stessa lungimiranza di Jun e ho finito per
dimenticare molti luoghi. Come lui, mi riferisco alle camere d’albergo, così
come agli ostelli e agli Airbnb, ma più ci rifletto più mi accorgo di come
questa categoria di spazi abbia in tempi recenti cominciato a perdere la sua
specificità. Se un tempo rappresentavano un mondo a sé, quello della
transitorietà e della transazionalità dell’hospitality, oggi invece mi sembra si
confondano sempre più, almeno nella mia esperienza di vent’anni a zonzo per
l’Europa e non solo, con ciò che ho sempre identificato come “casa”‒ quel luogo
che, almeno sulla carta, dovrebbe incarnare un maggiore senso di appartenenza,
in qualità di spazio intimo, identitario.
Dopo aver rivisto Mystery Train, per giorni non ho potuto fare a meno di
ripensare alla filmografia di Jarmusch, e subito mi ha colpito la frequenza con
cui il regista, nei suoi primi film, abbia spesso scelto come ambientazione
spazi liminali: il taxi (Night on Earth, 1991), la prigione (Down by Law, 1986),
i motel, i bar e gli aeroporti (Stranger than Paradise, 1984). Il tipo di
luoghi, insomma, che Marc Augé mi ha educato dai tempi di un esame della
triennale a identificare come nonluoghi ‒ anche se è interessante notare come i
film appena menzionati siano antecedenti a questo concetto, visto che l’opera
del filosofo francese è stata pubblicata solo nel 1992. Questo mi ha fatto
pensare che Jarmusch avesse già intuito qualcosa su come alcuni luoghi non solo
rappresentino, ma inducano all’alienazione.
Naturalmente, le riflessioni sulla relazionalità degli spazi vissuti hanno
precedenti illustri. Penso agli spazi quotidiani dissezionati da Georges Perec,
alle eterotopie di Michel Foucault, alla liminalità dei luoghi rituali di Arnold
van Gennep prima, e Victor Turner poi: privato, politico, sociale. Tuttavia,
mentre proseguivo su questa linea di pensiero, qualcosa continuava a riportarmi
sulle stanze d’albergo e sull’idea di casa. Facendo avanti e indietro tra queste
due categorie distinte, questo andirivieni ha cominciato a sfumarne e consumarne
i contorni, e a renderle sempre meno distinte di quanto pensassi, per poi
cristallizzarsi in un sospetto: l’appartamento moderno sta forse sempre più
scivolando verso il nonluogo?
> L’appartamento moderno sta forse sempre più scivolando verso il nonluogo?
È una domanda audace, ne sono consapevole, ma nel porla mi avvalgo del benestare
di Marc Augé, secondo cui “la possibilità del nonluogo non è mai assente da
nessun luogo”, soprattutto nell’attuale surmodernità, o modernità eccessiva ‒ di
tempo, di spazio, di ego. Le premesse ci sono, quindi; ma andiamo con ordine.
Essendo l’appartamento uno spazio (e in quanto tale, direbbe Foucault,
“nell’esperienza occidentale ha una storia” fatta di regolamentazioni e
decodificazioni), per indagare il sospetto che stia diventando un nonluogo mi
trovo costretto ad avventurarmi in territori più impervi rispetto a quelli della
letteratura o del cinema. Territori come quello delle normative e delle leggi,
che in questo caso si rivelano sorprendentemente più eloquenti della
rappresentazione. È lì, infatti, che ritrovo quel possibile “intreccio fatale
del tempo con lo spazio” di cui parla Foucault, che è alla base di come
percepiamo i luoghi che abitiamo.
Normative e leggi
Un articolo del Corriere della Sera del 2024 sostiene che in Italia, secondo
la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto di un immobile
urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia, questa direttiva
sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al proprietario di casa
nello stipulare contratti molto più brevi: ‘contratti turistici’ di pochi
giorni, ‘contratti transitori’ che riducono la durata minima a un mese,
‘contratti studenteschi’ con durate anche di sei mesi. Generalmente, continua
l’articolo, la tipologia più popolare rimane quella del contratto ‘a canone
libero’, con durata di quattro anni prorogabili a discrezione del proprietario
di altri quattro (conosciuto anche come contratto 4+4).
Queste dinamiche rispecchiano mediamente i modi contrattuali diffusi nel resto
d’Europa, dove la durata degli affitti oscilla tra uno e tre anni. È quanto
accade anche in Germania, dove vivo dal 2013 e la legge sembra flessibile quanto
in Italia, permettendo ai proprietari degli immobili di modellare
arbitrariamente le condizioni che impongono agli affittuari. La normativa sugli
affitti tedeschi dice che i contratti devono avere una durata minima di due anni
e disdetta possibile solo a fronte di un preavviso di tre mesi. Il costo degli
affitti è regolamentato dal Mietpreisbremse (freno degli affitti), che non
consente di superare del 10% la media del quartiere (come spiega un articolo di
Rivista Studio, però, questa misura non si applica alle “case già arredate che
vengono messe in affitto per brevi periodi e per motivi di lavoro”). Un’altra
clausola comune è quella del sistema Staffelmiete che permette aumenti annuali
progressivi del costo dell’affitto fino a un massimo del 15% nell’arco di tre
anni.
Queste sono le condizioni standard, tuttavia le eccezioni sono all’ordine del
giorno, in Germania come in Italia come nel resto d’Europa. Ricordo tre anni fa
quando a Berlino mi fu proposto un contratto di affitto della durata di quattro
anni, senza possibilità di rinnovo, e ogni anno il costo sarebbe aumentato del
12%, in barba alla regolamentazione dello Staffelmiete. Quando il proprietario
me lo propose, aspettandosi che firmassi immediatamente, non esitai a fargli
notare che un aumento annuale simile era ridicolo. Lui rispose, “È assolutamente
normale, invece: è pensato per rispecchiare l’inflazione”. Forse pensava che
dietro la mia titubanza linguistica nel parlare tedesco burocratico si celasse
anche una certa titubanza di pensiero? Non riuscii a frenare una risata, “Sta
scherzando, vero? Un’inflazione del 12% annuo? Per quattro anni di fila?”
> In Italia, secondo la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto
> di un immobile urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia,
> questa direttiva sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al
> proprietario nello stipulare contratti molto più brevi.
Temporeggiai dicendogli che ci avrei pensato su. Ero disperato, avevo
assolutamente bisogno di un appartamento. Corsi immediatamente dal mio
Mieterverein (“associazione degli inquilini”), un’istituzione tutta tedesca che
tutela i diritti degli affittuari e fornisce consulenza legale gratuita ai soci
a fronte di una quota d’iscrizione annuale di circa 100 euro. Anche l’avvocato
del Mieterverein scoppiò a ridere leggendo il contratto e mi disse, “Certo,
firmalo pure, perché è completamente illegale. Appena firmato gli facciamo
causa. Tranquillo, i contratti con clausole illegali non sono validi.” Infine
non me la sentii di cominciare una relazione del genere con un nuovo
proprietario di casa, consapevole che sarebbe stata tossica fin dall’inizio.
Continuai la mia ricerca.
Affitti e subaffitti
Mentre visitavo un numero spropositato di appartamenti che non riuscivo ad
accaparrarmi (tra cui un tarkovskyano 40 metri quadrati senza cucina né
sanitari, di cui avrei dovuto farmi carico personalmente), trovai come soluzione
temporanea un meraviglioso appartamento di 70 metri quadrati in sublocazione per
otto mesi, nella bella Prenzlauer Berg. Dopodiché, mi spostai per tre mesi in un
50 metri quadrati in un angolo particolarmente caotico di Neukölln. E infine,
per due mesi soltanto in un minuscolo 30 metri quadrati a Kreuzberg. Per chi
vive o ha vissuto in qualsiasi grande città europea, questa storia vagamente
picaresca non è certo una novità.
Come racconta un articolo del novembre del 2023 apparso su The Berliner, il
problema dei contratti brevi è strettamente legato alla carenza di nuovi
appartamenti, a causa di un continuo incremento della popolazione: “Secondo
l’Ufficio di statistica di Berlino-Brandeburgo, alla fine del 2022 vivevano a
Berlino almeno 141.000 persone in più rispetto a cinque anni prima, e un piano
di sviluppo urbano della città pubblicato nel 2019 sostiene che Berlino ha ora
bisogno di almeno 194.000 appartamenti in più entro il 2030 per tenere il passo
con questa crescita demografica.” La carenza di alloggi rende il mercato degli
affitti della capitale tedesca sempre più competitivo e allo stesso tempo mette
nelle mani dei proprietari e delle agenzie immobiliari (Hausverwaltung) un
potere immenso.
In questo scenario sempre più distopico, i fortunati berlinesi che vantano un
vecchio contratto a tempo indeterminato (Unbefrister Mietvertrag) tendono a
tenerselo stretto, anche nel caso programmassero di lasciare la città per più o
meno lunghi periodi, e optano per il subaffitto, spesso in tutta segretezza,
senza coinvolgere il proprietario di casa o l’agenzia che gestisce l’immobile.
Questo ha dato origine, negli ultimi anni, a un mercato che “prospera grazie a
una massa involontaria di persone intrappolate in un circolo di alloggi a breve
termine, Airbnb prolungati e altri accordi temporanei”. Senza considerare che
queste soluzioni di subaffitto comportano spesso costi più elevati degli affitti
regolari ‒ perché vuoi non farci la cresta? ‒ e i disperati alla ricerca di un
tetto in molti casi devono accettare, per dividere le spese, di trovarsi uno o
più coinquilini.
> La carenza di alloggi rende il mercato degli affitti della capitale tedesca
> sempre più competitivo e allo stesso tempo mette nelle mani dei proprietari e
> delle agenzie immobiliari un potere immenso.
Per fortuna, da un paio d’anni mi sono svincolato, almeno temporaneamente, da
queste logiche, quando ho infine firmato un contratto d’affitto per
l’appartamento in cui risiedo ora, da solo. Il mio attuale proprietario mi
propose dapprima quattro anni con clausola di rescissione con due mesi di
preavviso (invece dei tre previsti per legge). Un anno dopo, mi concesse una
piccola grazia, comunicandomela con una lettera che cominciava così: “Visto che
ti considero un buon inquilino, ho deciso di proporti un prolungamento a otto
anni…” Lasciandomi però la sorpresa alla fine: uno Staffelmiete del 2% annuo.
Bene ma non benissimo, insomma. Senza considerare che comunque tra cinque anni,
se ancora vivrò a Berlino, mi ritroverò nella condizione di dover cercare casa
in un mercato immobiliare con molta probabilità più impossibile di quanto lo sia
oggi.
Occasioni ed erosioni
Quando ci si trova in balia di contratti sempre più restrittivi che impongono di
cambiare casa ogni pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli
appartamenti ammobiliati diventa inevitabile. Si impara presto, nell’innegabile
scomodità del dover traslocare di continuo, che gli appartamenti ammobiliati
offrono un servizio fondamentale. Con il loro particolare universo fatto di
arredi più o meno usurati, soprammobili e souvenir che raccontano storie non
nostre, materassi e cuscini ingialliti dal tempo e dai sudori notturni di chissà
chi, gli appartamenti prearredati offrono una straordinaria libertà: si possono
chiamare “casa” non appena si appoggiano le valigie a terra e li si può
dimenticare altrettanto facilmente, abbandonandoli in qualsiasi momento così
come li si è trovati.
Mi sono illuso per anni che questa libertà mi rappresentasse e un po’ mi
piacesse: come per la sindrome di Stoccolma, chiamiamola rassegnazione. L’idea
di dover lasciare qualsiasi posto da un momento all’altro, sempre pronto a
impacchettare tutto in poche ore e partire. Dove sarei andato? Una soluzione
l’avrei trovata: si trova sempre. Ero libero, libero di andare dove volevo,
ovunque e all’improvviso.
Solo recentemente ho capito che non si trattava affatto di libertà, ma del suo
esatto opposto. Come sostiene James Greig in un articolo per Dazed, “la crisi
abitativa comporta una ‘disastrosa perdita di libertà’ […] Abbiamo meno libertà
di scegliere dove vivere, meno libertà di sentirci sicuri e di vivere vite
dignitose. Oggi, tutti tranne i giovani più benestanti sono soggetti alla
precarietà abitativa in qualche forma (il che comprende avere difficoltà a
pagare l’affitto, il sovraffollamento, dover traslocare frequentemente, o
spendere un’alta proporzione del proprio reddito per l’alloggio)”.
> Quando ci si trova in balia di contratti che impongono di cambiare casa ogni
> pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti
> ammobiliati diventa inevitabile.
Greig si riferisce a quanto accade in Regno Unito, dove è ancora in vigore ‒
almeno per ora ‒la discussa Section 21, una norma tutta britannica che consente
dai tempi dell’Housing Act 1988 ai proprietari di casa di sfrattare gli
inquilini con contratti a breve termine presentando un preavviso di soli due
mesi, senza dover fornire alcuna motivazione (la cosiddetta no-fault eviction).
La Section 21 è uno strumento che rende il mercato degli affitti infinitamente
più instabile per gli inquilini, che finiscono così per sentirsi sempre di
passaggio, ospiti temporanei, o meglio utenti, consumatori di uno spazio
trasformato in servizio, che si riceve soltanto in prestito e che non offre
neppure, scrive Greig, “la garanzia che non venga strappato via da sotto i
piedi” prima del termine concordato:
> Questo tipo di precarietà causa un’ansia ambientale cronica. Rende più
> difficile rilassarsi, godersi il tempo che si ha nel posto in cui si vive […]
> Si avverte un senso di nostalgia anticipatoria, aspettando il giorno in cui si
> verrà cacciati. Permettere a sé stessi di provare qualsiasi tipo di
> attaccamento sembra inutile: perché preoccuparsi di legare con la propria
> comunità locale quando si sa di essere lì in prestito? Non c’è da
> meravigliarsi che la solitudine sia così comune quando le persone sono
> disincentivate dal mettere radici nelle aree in cui vivono. Una casa dovrebbe
> fornire sicurezza, protezione, qualche tipo di barriera dal mondo esterno. Se
> funzioni realmente così in pratica, non ne sono sicuro, ma la sua assenza può
> certamente essere sentita.
L’idea di appartamento rischia di perdere l’aspetto intimo e identitario, caldo
e generativo, che siamo soliti attribuirgli e cercarvi: quel senso originale di
‘casa’ che, trasloco dopo trasloco, ho finito col non aspettarmi più.
Dev’essere, credo, un po’ come succede con le delusioni d’amore: si impara a
ridimensionarsi, si rimpiccioliscono le aspettative ‒ rubando le parole a Garth
Greenwell di Purezza ‒ “attraverso un’erosione forse necessaria alla
sopravvivenza, e di cui forse devi ancora pentirti”.
Questa erosione, nel mio caso, ha finito per dare forma al tipo di rapporto
particolare che instauro con gli appartamenti: una relazione simile in tutto e
per tutto a quelle situationship distaccate, più o meno etiche, più o meno
consapevoli ‒ caratterizzata, anche questa, da un’uguale quantità di attrazione
e fastidio, e che richiede un’immensa, sempre rinnovata forza di accettazione e
perseveranza. La perseveranza nel dire “benvenuto”, e ogni volta crederci
davvero in quella parola, rivolta a un gran numero di appartamenti che sono
consapevole fin dall’inizio saranno soltanto temporanei; e l’accettazione,
infine, dell’addio rivolto a quello stesso numero di appartamenti, vicinati,
quartieri, città, che finisco sempre per lasciare alle spalle, proprio come una
stanza d’albergo alla fine di una vacanza.
L'articolo Situationship immobiliare proviene da Il Tascabile.
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T ra il 1966 e il 1967 lo scrittore palestinese Mourid Al-Barghouti si
trasferisce in Egitto per completare il suo percorso universitario. Gli mancano
pochi esami e, a Ramallah, la madre lo aspetta, impaziente di vedere finalmente
l’unico dei suoi figli laurearsi. Nelle prime pagine del suo testo più celebre,
Ho visto Ramallah (2003), emerge da subito un’immagine familiare: quella delle
pareti di casa, dove – a università terminata – si appende il diploma in bella
mostra. Ma nel giugno 1967 ha inizio una nuova guerra, passata poi alla storia
nel mondo arabo come Naksa, ovvero ‘ricaduta’. Israele occupa anche i territori
della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, aggravando la crisi dei rifugiati
iniziata con la Nakba del 1948: centinaia di migliaia di palestinesi sono
nuovamente sfollati.
> Mi consegnarono il diploma in Lingua e Letteratura inglese, ma non avevo più
> una parete a cui appenderlo. La città era caduta e non avrei mai potuto
> tornarvi.
Ho visto Ramallah è la storia del ritorno, dopo trent’anni, dell’ormai adulto
Al-Barghouti nella sua città natale. Un ritorno segnato dalla sofferenza di chi
ha vissuto la ghurba, l’esilio.
Una volta che l’hai provata, ne resti segnato per sempre. La ghurba “è come
un’asma”, come una malattia di cui si inizia a soffrire e dalla quale non si può
guarire. Introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la vita di una
casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché un dovere di
memoria da custodire.
Elisabetta Bartuli in The Passenger. Palestina (2023), sottolinea come,
“nonostante le enormi diversità nelle condizioni di vita, di contesto
amministrativo ed economico di cui raccontano” i romanzi degli scrittori
palestinesi presentino caratteristiche comuni che li rendono “un unicum compatto
e coeso all’interno della letteratura araba”. Ecco: la casa, come luogo
simbolico di identità e appartenenza, è precisamente uno dei topoi che danno
coerenza a questo unicum; un motivo ricorrente che la letteratura palestinese ha
contribuito, insieme ad altri, a consolidare, e attraverso cui si esprimono
significati che arrivano fino a questi giorni.
> La ghurba, l’esilio, introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la
> vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché
> un dovere di memoria da custodire.
Nel tema della diaspora, la casa diventa simbolo di quell’intimità familiare –
fatta di oggetti, gesti quotidiani, odori – che l’occupazione e la guerra hanno
interrotto in modo fulmineo e traumatico. Con fatica si riesce a immaginare una
simile condizione: da un momento all’altro, senza preavviso, abbandonare la
propria casa senza potervi più fare ritorno.
> Umm ‘Issa nei suoi ultimi giorni di vita non parlava che di un’unica cosa: il
> tegame di zucchine. Aveva dovuto abbandonare casa sua, nel quartiere Qatamùn a
> Gerusalemme, senza avere il tempo di spegnere il fuoco sotto il tegame di
> zucchine.
Elias Khoury, recentemente scomparso, è stato uno scrittore e intellettuale
libanese tra i più autorevoli del mondo arabo. Il suo romanzo, La porta del sole
(2004), è stato definito un’epopea del popolo palestinese. Intorno alla vicenda
principale e ai suoi protagonisti si affollano numerose voci e storie. E in
molti di questi racconti – anche nei più brevi, affidati a personaggi secondari
– si rincorrono immagini di case abbandonate in tutta fretta.
> Sono andato nella casa […]. Era deserta. Sono entrato. Delle coperte per
> terra, dei sacchi di plastica, delle pentole e odore di cibo ammuffito. Come
> se avessero sgomberato in fretta e furia, senza tempo sufficiente per
> organizzare il viaggio. […] Sono entrato e mi sono reso conto che stavo
> piangendo. Ero nel mezzo del nulla, in mezzo alle lacrime. E ho capito che era
> perduta.
Nella letteratura palestinese delle origini, il topos della casa è centrale nel
raccontare il trauma dell’esilio e della perdita inflitti dalla Nakba. In questa
fase, è spesso ancora il fulcro di una nostalgia nella quale struggersi. Della
propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne ricopriva
le pareti. E alla casa si desidera soltanto fare ritorno. Anche se ne fosse
rimasta solo una pietra.
> Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne
> ricopriva le pareti. La casa non è un’idea astratta. Non è una metafora, è
> questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute.
Ghassan Kanafani è stato tra i maggiori esponenti della narrativa della
resistenza, assassinato nel 1972 a Beirut da un’autobomba del Mossad. Nel suo
Ritorno a Haifa (2001), Said e Safiyya sono una coppia palestinese che, dopo
vent’anni di esilio forzato, torna a Haifa: la città da cui erano stati cacciati
e nella quale avevano dovuto abbandonare il figlio neonato, Khaldun. Quando
tornano, scoprono che il figlio è stato adottato da un’ebrea sopravvissuta
all’Olocausto, che ora vive nella casa che un tempo era loro. Il figlio, che ora
si chiama Dov, milita nell’esercito israeliano, e rifiuta ogni legame con i suoi
genitori naturali.
Poco prima che il racconto sveli questa sua sconvolgente verità, è descritto il
momento in cui Said e Safiyya salgono le scale della loro vecchia casa. Said non
vuole dare alla moglie, e neppure a sé stesso, “la possibilità di osservare
quelle piccole cose che – lo sapeva – lo avrebbero commosso: il campanello, il
pomello di ottone alla porta, gli scarabocchi di matita sul muro, il contatore
dell’elettricità, il quarto scalino rotto nel mezzo…”.
La casa non è un simbolo, non è un’idea astratta. Non è una metafora, è questo
luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Entrando, Said riesce ancora a
vedere in casa sua “molte cose che un tempo gli erano state familiari e che
anche quel giorno continuava a considerare tali: cose intime, private”, che mai
avrebbe pensato che qualcuno potesse toccare o guardare: una fotografia di
Gerusalemme, un piccolo tappeto di Damasco. Said ritrova “le sue cose” ma,
guardandole, le vede mutate. Come se a osservarle fossero due paia di occhi
diversi: quelli del passato e quelli di un presente che non gli appartiene più.
Lo stesso accade, in La porta del sole, a Umm Hasan.
> Umm Hasan, come tutti coloro che sono tornati a vedere le loro case, diceva:
> “Ogni cosa era al suo posto, ogni cosa era rimasta com’era. Persino la brocca
> di terracotta.”
> — La brocca.
> — L’ho trovata qui. Non la uso. La prenda, se la vuole.
> — No, grazie.
Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei
significati.
Da simbolo di perdita e sradicamento – da cui deriva anche il più famoso simbolo
delle chiavi lasciate sulla porta – la casa diventa un topos per esplorare la
realtà dell’occupazione e della guerra e, da qui, la condizione di estraneità e
d’incertezza esistenziale, la frammentazione identitaria, a cui il popolo
palestinese è stato condannato. Lì, proprio nel perimetro della casa, dove si
tocca “l’essenza più profonda della vita” (Nour Abuzaid), qualcun altro si è
insediato con la forza.
> Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei
> significati. Lì, proprio nel perimetro della casa, qualcun altro si è
> insediato con la forza.
È Israele che “con la scusa del cielo, ha occupato la terra”. Il contatore
dell’elettricità è al solito posto, la brocca e il tappeto di Damasco anche.
Eppure, non si riesce a riconoscerli. Come accade quando, a forza di guardare
troppo a lungo una cosa, o di ripetere insistentemente una parola, se ne perde
l’essenza: il suono si svuota, l’immagine si spegne.
Ora anche chi riesce a tornare a casa si sente fuori posto. Un estraneo.
In La porta del sole c’è un passaggio importante in cui Nahila, rimasta a vivere
nel suo villaggio diventato territorio israeliano, si oppone con forza al marito
Yunis, che invece è un combattente della resistenza e vive in clandestinità
dentro le grotte. Alla retorica del sacrificio e del martirio, alle storie di
eroismo, che trasfigurano la sofferenza vissuta in mito, Nahila rivendica le
vere storie. Quelle che raccontano che le persone sono divenute estranee persino
a sé stesse. E che, pur non impugnando le armi, si fanno portavoce di una
resistenza più silenziosa e quotidiana.
> Tu non sai niente. Secondo te la vita sono queste distanze che attraversi per
> arrivare qui col tuo odore di foresta. […] Che storie sono queste dell’odore
> di lupo, del profumo del timo selvatico, dell’olivo romano? Sai chi siamo?
La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di
occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il
rimanere diventa una forma di esilio. Uscire di casa non è un gesto neutro, ma
può diventare una scommessa sul ritorno e un desiderio di tornare “per intero”,
senza scontare la dispersione dell’identità, la frammentazione del sé che
l’occupazione impone ogni giorno.
> La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di
> occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il
> rimanere diventa una forma di esilio.
Lo scrive con spietata chiarezza Maya Al-Hayat, poetessa palestinese nata a
Beirut e cresciuta a Gerusalemme Est, oggi tra le voci più incisive della
letteratura contemporanea, capace di raccontare con feroce semplicità l’intimità
stravolta del vivere sotto l’occupazione.
> Ogni volta che esco di casa
> è un suicidio
> e ogni ritorno, un tentativo fallito. […]
> Voglio tornare a casa intera.
Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte ultimo
dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di stoffa
esposta al vento. Scrive Yousef Elquedra, in una poesia dedicata agli
accampamenti della zona umanitaria di al-Mawasi:
> La tenda è un corpo fragile […]
> La tenda non è una casa
> è una promessa di attesa
> e ogni impeto di vento
> ti ricorda che sei di passaggio
> su una terra che non porta il tuo nome.
Anche la tenda, come la casa, è esposta poi al rischio dell’esproprio. “Ci
rendete stranieri nella nostra terra” si sente dire nel documentario No Other
Land (2024) di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal. Anche se
“la distanza tra due case è a una fila di alberi”, ci si sente trattati come
estranei e persino la lingua madre, che è “tutto ciò che resta a colui che è
privato della sua patria” (Friedrich Hölderlin), punto massimo di contatto con
le proprie radici e “casa” simbolica` alla quale tornare quando il resto è
perduto, è costantemente posta sotto assedio.
> Lasciatemi parlare la mia lingua Araba
> prima che occupino anche quella.
> Lasciatemi parlare la mia madrelingua
> prima che colonizzino anche la sua memoria.
Così la poetessa e attivista Rafeef Ziadah, nota per la sua poesia performativa,
in cui parole e musica si fondono in un atto di resistenza per denunciare
l’oppressione e l’oblio.
> Mia madre è nata sotto un albero di ulivo
> su una terra che dicono non essere più mia.
L’ulivo: più di ogni altra, la pianta della Palestina. Cresce nei giardini delle
case, le famiglie ne tramandano la cura da generazioni. Le olive si offrivano in
dono; con l’olio, le nonne bagnavano il pane per sfamare i nipoti. E con lo
stesso olio – fonte di ogni cura – si curavano le malattie.
> Noi viviamo di olio. Siamo il popolo dell’olio. Loro invece tagliano gli olivi
> e piantano palme. Hanno sradicato gli olivi. Non so perché odiano gli olivi e
> piantano le palme.
> (La Porta del Sole).
Gli olivi si scorgono anche sullo sfondo di un celebre video, diventato virale,
in cui la giornalista e attivista Muna Al-Kurd, ferma con i piedi nei confini
del suo giardino, grida contro un colono israeliano: “Stai rubando la mia casa.”
E il colono risponde freddamente: “Perché mi urli contro? Se non lo faccio io,
lo farà qualcun altro”. Qualcuno potrebbe obiettare: è la guerra. Ma questa è
una guerra che mira a cancellare le tracce, a riscrivere la geografia della
memoria, e che non si accontenta di distruggere, ma vuole sradicare. Estirpare
con la forza cieca di una ruspa. La stessa che ancora campeggia, inquietante,
come immagine-simbolo sulla locandina di No Other Land.
> Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte
> ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di
> stoffa esposta al vento.
Nel tentativo di spezzare l’intreccio tra le persone e i luoghi, tra la lingua e
le radici, si inserisce anche il grottesco video generato dall’intelligenza
artificiale e diffuso da Trump, dove Gaza è ridotta a un resort. Un luogo
artificiale su un lungomare costellato di palme. Palme al posto degli olivi. Ma
gli alberi, in Palestina, non sono solo alberi. Sono “costole d’infanzia”, come
scrive Mahmoud Darwish. E la rimozione dell’olivo non è solo distruzione
agricola: è simbolo di perdita radicale. È la cancellazione della storia, della
terra e soprattutto dei diritti che vi erano radicati. In La porta del sole
Yunis attraversa l’oliveto di Tarshìha e si rende conto che il “suo” olivo
romano, testimone di ogni momento importante della sua vita e di quella dei suoi
avi, non c’è più. Con l’albero antichissimo, cade anche la memoria viva della
terra.
> Yunis indossò il lutto per l’albero.
Un sentimento di disorientamento, impotenza politica e frustrazione emerge
quando si cerca di comprendere la realtà che stiamo vivendo. La maggior parte di
noi non sa cosa possa significare “mettersi la guerra in bocca come fosse una
gomma da masticare” quando sei poco più che un ragazzo. Questa distanza non si
risolve informandosi o nel tentativo di partecipare al dibattito pubblico.
Specialmente di fronte alla questione palestinese, la distanza tra ciò che si
legge e ciò che realmente si riesce a comprendere sembra incolmabile. Per questo
motivo, la letteratura diventa una risorsa, una “porta del sole” verso la
complessità del mondo. Un modo per affinare empatia e consapevolezza, per
esplorare ciò che travalica il nostro vissuto personale.
La letteratura restituisce profondità a ciò che il discorso mediatico tende a
semplificare e uniformare. Scrive Mourid Al-Barghouti che “a forza di sentire
certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, si finisce per pensare ai
Territori Occupati “come a un luogo immaginario alla fine del mondo”. E ci si
convince che non esista nessun modo per raggiungerlo. Al-Barghouti rivendica con
forza la necessità di non ridurre la Palestina a una pura astrazione. Ci ricorda
come i palestinesi siano prima di tutto degli individui. L’occupazione ha creato
“intere generazioni che non hanno un luogo in cui ricordare suoni e profumi”,
generazioni “che non hanno mai coltivato, né costruito, né commesso neppure il
più piccolo errore umano nella propria terra”, e ha trasformato la patria in un
simbolo inchiodato al passato. Ma la patria non è un arancio, non è un ulivo. La
patria è fatta di persone.
> “A forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, alla
> fine si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario
> alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per
> raggiungerlo.
Un popolo, scrive ancora Al-Barghouti, cui sono stati tolti diritti e futuro, e
a cui è stata “bloccata l’evoluzione delle società e delle vite”, impedendo lo
sviluppo. La Palestina non è (o non è solo) “la questione inserita nei programmi
dei partiti politici, non è un argomento di discussione”. Non è “la catenina che
adorna il collo delle donne in esilio”. Non è “la prima pagina di apertura di un
giornale”. Non è l’anguria esposta a una manifestazione. È invece un luogo
“concreto come uno scorpione”, che ha “i suoi colori, una temperatura, e arbusti
che crescono spontanei”. E gli insediamenti non sono costruzioni “fatte da
bambini con i Lego”. Sono invece la diaspora palestinese.
In La porta del sole c’è un passo in cui si dice che gli scrittori e gli
intellettuali non combattono, ma piuttosto “osservano la morte, scrivono, e
credono di morire”. È vero, la guerra ci passa accanto e noi, forse, ci
“aggrappiamo a una poesia”. Pure, questa rimane ancora una forma importante per
la verifica delle nostre qualità umane. Una risposta che possiamo darci alla
domanda “Se questo è un uomo”.
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