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Voci da Gaza
“H i, how are you?”. Non so cosa l’abbia portato a scrivermi. Quando gli rispondo non so nulla di lui. Per mesi l’algoritmo di Instagram ha continuato a suggerirmi i profili di giornalisti gazawi, quelli che negli ultimi due anni hanno lavorato sotto le bombe. Il peso emotivo della loro duplicità è enorme: il loro mestiere li costringeva a stare nello stesso tempo dentro e fuori dalla guerra. Uscivano a scattare e a intervistare, spostandosi a piedi per ore e ore per raccontare una storia, perché la benzina non c’era o costava troppo. Ma quando tornavano a casa e si liberavano del giubbotto antiproiettile non trovavano un posto sicuro. I bombardamenti e le sirene non erano meno lontani, bucavano le orecchie come di giorno, come quando si lavorava sul campo. Molti di loro hanno raccontato su Instagram e su Al Jazeera i loro stessi spostamenti forzati. Da Sud a Nord, e poi di nuovo da Nord a Sud, e poi chissà dove. I loro figli, gli oggetti lasciati a casa e quelli caricati nel retro di una macchina, la fame. Diventare target dei proiettili israeliani. La loro stessa vita quotidiana, nella sua concretezza, è diventata materiale giornalistico prezioso, in una lingua di terra blindata da tutti i lati, il cui accesso è interdetto da due anni a qualsiasi giornalista internazionale. Il suo profilo di Instagram mi sembra simile a quello di tanti giornalisti che ho incrociato durante questa guerra. “I’m fine”, gli rispondo. “Are you a journalist?” Mi dice che no, non è un giornalista. È uno studente. “Do you live in Gaza?”, gli chiedo ancora. “Yes, I am in Gaza”. Si chiama Malik, ha 17 anni. Probabilmente mi ha scritto per noia, perché deve essere impossibile vivere sotto assedio giorno dopo giorno, impossibile, in quelle condizioni, restare lucidi occupandosi solo dell’inferno immediatamente sotto il proprio sguardo. Stava cercando un varco, voleva intercettare qualcuno che vive fuori per stemperare il peso dell’angoscia. Da quel giorno è un amico di penna. Malik Abu Raida fa parte della generazione più giovane dei gazawi, quella sottoposta dalla nascita al blocco israeliano cominciato nel 2007. È originario di Bani Suheila, un’area nella regione di Khan Younis, nel sud della Striscia. La scuola è tra le prime cose che mi racconta. Il 7 ottobre 2023 aveva 15 anni. Gli piaceva studiare. Anche la sua scuola, come la sua casa, è stata rasa al suolo. Ne vedo le macerie nel reel che ha pubblicato mesi fa sul suo profilo. Lo scorso dicembre l’esercito israeliano ha ordinato l’evacuazione immediata di Bani Suheila. Nell’ultimo anno lui e la sua famiglia sono stati costretti più volte a prendere tutte le loro cose e a cercare un posto nuovo dove stare. Da est a ovest, dalla casa di famiglia a quella della nonna, semidistrutta dai raid israeliani. Da Rafah ad Al-Mawasi. Il “displacement”, lo sradicamento dalla propria terra per volere dell’esercito israeliano, è un trauma antico. I due terzi della popolazione di Gaza sono figli e nipoti di famiglie evacuate dalla Palestina storica durante la Nakba, l’esodo forzato della popolazione araba palestinese alla nascita dello Stato di Israele. I nonni di Malik sono originari di Jaffa, nella Palestina storica. Jaffa era una città importante per il popolo palestinese, è menzionata nella Bibbia e nella mitologia greca. Per i palestinesi più anziani è un punto di riferimento nella geografia fisica e in quella affettiva. > Si chiama Malik, ha 17 anni. Probabilmente mi ha scritto per noia, perché deve > essere impossibile vivere sotto assedio giorno dopo giorno. Impossibile, in > quelle condizioni, restare lucidi occupandosi solo dell’inferno immediatamente > sotto il proprio sguardo. Poi ci fu il 1948. Jaffa fu assorbita in quella che oggi è Tel Aviv, e i palestinesi rimasti subirono una damnatio memoriae: cancellata la loro identità, violata la loro storia, riscritta la loro geografia. Degli oltre 120.000 palestinesi di Jaffa, soltanto 3.900 sopravvissero alla pulizia etnica di Israele. Vennero confinati nel quartiere Ajami, nella parte meridionale della città, ed esclusi da qualunque processo decisionale. Prigionieri nella loro stessa terra d’origine. Per gli altri fu la diaspora: in Giordania, in Libano, in Siria, nella Striscia di Gaza, nei campi profughi. Ho chiesto a Malik di raccontarmi questa storia. Si è preso del tempo e mi ha lasciato un lungo messaggio pieno di dettagli, riportandomi i racconti del bisnonno e le proprie considerazioni su quello che è accaduto dopo la Nakba, dopo “la catastrofe”. Ibrahim, il nonno di sua madre, aveva 25 anni quando i primi ebrei arrivarono nell’area di Jaffa. Allora i palestinesi lavoravano nelle coltivazioni di arance succosissime e la vita era semplice e meravigliosa. Ben presto i nuovi arrivati cominciarono a organizzarsi in gruppi violenti e a depredare, invadere città e villaggi, prendere possesso delle terre con l’uso della forza. I pionieri sionisti tentarono da subito di espandere il proprio territorio costruendo insediamenti aldilà dei confini proposti per lo Stato di Israele, con l’obiettivo di rivendicare tutta la Palestina per sé. I nativi palestinesi non avevano armamenti in grado di competere con la forza degli israeliani e non poterono fare altro che soccombere. Ma il diritto a ritornare è un sentimento di tutto coloro che hanno dovuto lasciare la propria casa, anche ora che, con il genocidio, lo sradicamento è diventato duplice o triplice. Dopo avergli raccontato questa storia, Ibrahim ha messo tra le mani del nipote la chiave della casa di Jaffa, lasciata per sempre durante la Nakba. La chiave di casa è il simbolo di quel diritto al ritorno che non può essere messo in discussione neanche dalla più atroce forma di violenza. Malik mi ha scritto: “Dobbiamo dirci chiaramente che lo Stato di Israele è nato sul sangue di bambini e donne e sul massacro di persone innocenti”. Le sue parole sono piene di rabbia, una rabbia fiera, consapevole. Gliela faccio notare, e lui mi chiede cosa penso di quella rabbia.  Penso che sia il suo modo di sfidare un presente che lo vorrebbe incatenato e passivo. Che sia ciò che restituisce dignità a un ragazzo in tempo di guerra, il modo in cui lo slancio vitale si conserva e continua a sollevare la polvere. Molti palestinesi esiliati nel 1948 ricordano la grande menzogna che la Nakba ha lasciato dietro di sé: la promessa che in pochi giorni sarebbero tornati nella loro terra non fu mai mantenuta, e non può esserlo ora più che mai. Quando Malik mi ha raccontato questa storia, mi ha scritto “stiamo ancora aspettando di tornare”. Ho pensato alla potenza di quel noi. Una storia così importante non può restare dentro i confini della pelle di chi l’ha subita, esonda nei corpi di figli e nipoti, trabocca fuori dall’individuo e diventa identità collettiva, un calco nell’anima di un popolo in grado di trapassare le generazioni, come la chiave di quella casa che non c’è più. > Il diritto a ritornare è un sentimento di tutti coloro che hanno dovuto > lasciare la propria casa, anche ora che, con il genocidio, lo sradicamento è > diventato duplice o triplice. E ora accade di nuovo. Quando Malik e la sua famiglia hanno lasciato Bani Suheila, non sapevano se sarebbero tornati a casa, né quando questo sarebbe accaduto. Hanno raccolto le cose essenziali e hanno lasciato il villaggio. “Quando ce ne siamo andati io mi sentivo morire in ogni istante”. Da nove mesi vivono in una tenda ad Al-Mawasi e aspettano. L’attesa è la cifra della loro esistenza. Il pensiero del ritorno a casa affiora anche adesso che quella casa è un cumulo di macerie. Si spera di tornare perché lì ci sono radici e legami, perché la terra che ci vede nascere non può essere sostituita da nessun altro rifugio, soprattutto se costruito nella precarietà, sotto costrizione, tra le bombe. Se la vita è ridotta all’attesa in una tenda fragile e nessuna routine è più praticabile, anche il pensiero è esule e non trova riposo. “Penso tanto e mi sento sopraffatto”, mi ha scritto. “Non riesco più a concentrarmi”. Conversazione dopo conversazione, sono entrata nella quotidianità ristretta dall’occupazione. Nell’area umanitaria di Al-Mawasi, le mattine di Malik sono dedicate allo studio: lascia la tenda troppo rumorosa, si siede in uno dei tanti “cafe” che punteggiano la costa e segue le lezioni online tenute da insegnanti di Gaza e della Cisgiordania. Da quando Gaza è sotto assedio non ci sono programmi scolastici strutturati e ognuno ha trovato il proprio modo per continuare a studiare. Da pochi giorni è stato ammesso nella scuola in presenza, nata vicino alla tendopoli in cui vive. C’era tanta gioia in questa notizia. Ha aspettato nove mesi prima di riuscire a entrare in quella lista di studenti, perché i ragazzi sono troppi e queste scuole di fortuna nate durante il genocidio troppo poche. Deve essere stato doloroso, per un ragazzo studioso come lui, rinunciare alla scuola e imparare a studiare da solo, come in un lockdown più crudele e imprevedibile. Ha imparato a fare i conti con la mancanza e la rinuncia forzata. Quando leggo le sue considerazioni, mi chiedo come faccia a conservare la lucidità nonostante ciò che ha dovuto vedere. Studia, procura il cibo per la famiglia, parla con le persone, pianifica il suo futuro. Si è fatto portavoce di Gaza per giornalisti internazionali che gli hanno chiesto delle interviste. Lo ha fatto con gentilezza, ma anche con quella rabbia quieta e lucida. Una rabbia che non fa sconti e mette al muro anche me. Mi ha raccontato della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), l’organizzazione con sede nel Delaware, sostenuta da Stati Uniti e Israele, che lo scorso maggio ha criminalmente monopolizzato la distribuzione di cibo nella Striscia, sopprimendo tutte le altre associazioni umanitarie (circa 200) con l’obiettivo di gestire a proprio modo la faccenda degli aiuti, per centellinare le calorie ammesse nella Striscia e proseguire il programma di affamamento della popolazione di Gaza. Le attività della fondazione sono partite con uno scopo programmatico chiaro: soddisfare il bisogno di cibo a Gaza. Ma per tutti i mesi in cui l’organizzazione ha operato sono rimaste molte opacità: non sono mai state chiarite le fonti di finanziamento, né perché abbia impiegato dei contractor americani armati per delle attività di natura ufficialmente umanitaria. Il meccanismo di distribuzione degli aiuti, inoltre, è avvenuto con l’uccisione sistematica dei palestinesi che si dirigevano verso gli hub della fondazione: per tutto il periodo in cui la GHF ha operato, dallo scorso 27 maggio, i soldati israeliani hanno sparato in maniera indiscriminata sui civili accalcati, con l’obiettivo dichiarato di disperdere la folla che cresceva quando i siti di distribuzione venivano aperti. Secondo fonti palestinesi, tra il 27 maggio e il 20 giugno attorno ai siti della GHF sono stati contati circa trecento morti. La Striscia di Gaza ha un’area complessiva di circa 400 chilometri quadrati. Su questo territorio, prima dell’arrivo della GHF erano distribuiti circa 400 siti di aiuti umanitari adesso chiusi. Con l’inizio delle attività della GHF, i siti di distribuzione si sono ridotti a quattro, tutti controllati dai militari, e nessuno dei quali nel nord della Striscia: questo ha precluso l’accesso al cibo a una porzione non indifferente della popolazione che è morta di fame o si è ammalata per denutrizione. > Da quando Gaza è sotto assedio non ci sono programmi scolastici strutturati e > ognuno ha trovato il proprio modo per continuare a studiare. Uno dei quattro siti della GHF è nei pressi di Al-Mawasi. Malik ci è andato più volte, spinto dalla fame della sua famiglia. È il più grande dei fratelli e sente un forte senso di responsabilità verso di loro. In questi casi ha trascorso la notte in spiaggia per poter raggiungere il sito il prima possibile il giorno dopo, prima del levare del sole. La regola delle grandi distribuzioni della GHF è “first come first served”, perciò occorre arrivare il prima possibile, anche rinunciare a dormire per l’intera notte se necessario. “La prima volta che ci sono andato non avevo idea di cosa mi aspettava ed è stato tragico”, mi ha raccontato. Mi manda i video che ha fatto. “Quando sono arrivato, ho visto che continuavano a sparare. Hanno sparato alla testa della persona che mi stava accanto”. Conosco tutto questo attraverso l’informazione italiana, ma quando il suo racconto arriva, dal corpo di un sopravvissuto a quel laboratorio di massacri, mi trova impreparata. Per un tragico effetto domino, la fame e l’insufficienza degli aiuti hanno generato altre dinamiche nella Striscia. Ad esempio il mercato di cibo illegale. C’è chi riesce a fare scorta di cibo dalla GHF e rivende quanto ottenuto a prezzi altissimi. Dal momento che non ci sono banche aperte, anche il prelievo di denaro da conto bancario avviene tramite intermediari che impongono commissioni altissime. Nel periodo peggiore, durante la carestia dello scorso inverno, Malik ha visto le commissioni arrivare al 53%. Quando siamo stanchi di parlare di guerra giochiamo al “question game”: una domanda per ciascuno, a cui dobbiamo rispondere in maniera secca e sincera. Gli chiedo di dirmi uno dei suoi più grandi sogni. Mi risponde senza esitazione. “La fine della guerra, lasciare Gaza”. Probabilmente avrebbe amato vivere per tutta la vita a Khan Younis, a pochi passi dal mare. Mi chiede quanto tempo passerà prima di riabituarsi alla vita dopo questa lunga apnea di annullamento. Se lasciasse Gaza si porterebbe dietro il peso della doppia assenza, l’inevitabile marchio del rifugiato, che lo renderebbe estraneo alla propria terra di origine una volta partito, e che lo renderebbe estraneo al Paese di arrivo perché nulla sarà mai come Gaza, né come gli anni dell’infanzia trascorsi a Bani Suheila, tra la scuola, la strada e la moschea, quando il pensiero della morte non aveva un odore conosciuto. È difficile immaginare un “dopo” anche se questo “dopo” avvenisse dentro una lingua di terra annientata. Lo scorso agosto l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura ha condotto una valutazione analizzando delle immagini satellitari della Striscia di Gaza. Già allora, il 98,5% dei terreni coltivabili era danneggiato o inaccessibile. Dopo il cessate il fuoco, è stato stimato che circa l’80% dei palazzi di Gaza sono danneggiati o distrutti, e che il 90% delle strade sono inaccessibili o non ci sono più. Malik sa bene che oltre l’area umanitaria di Al-Mawasi ci sono chilometri e chilometri di macerie: 40 milioni di tonnellate, secondo le stime di UNOSAT (United Nations Satellite Centre). E che il ritorno alla vita sarà difficile e doloroso. “Sarò una persona diversa,” mi scrive alla fine. “Cercherò di abituarmi di nuovo alla vita, voglio scoprire le mie capacità, voglio imparare meglio l’inglese, voglio costruire una nuova routine” ‒ bisogni fondamentali che per mesi ha dovuto dimenticare. “E voglio ricordare al mondo il sacrificio della popolazione di Gaza e denunciare i crimini di Israele. Lascerò ovunque il mio segno di palestinese sopravvissuto al genocidio”. > Quando siamo stanchi di parlare di guerra giochiamo al “question game”: una > domanda per ciascuno, a cui dobbiamo rispondere in maniera secca e sincera. Mi > ha chiesto: cosa pensi del 7 ottobre? Le categorie mobilitate dall’Occidente per descrivere i palestinesi prima che tutto cominciasse, ma soprattutto dopo, hanno disumanizzato un popolo e lo hanno reso invisibile, assecondando il progetto coloniale di Israele. La questione palestinese viene trattata come lo scomodo collaterale di un conflitto storico in cui loro, comunque vada, non hanno mai voce. Da quando un filo invisibile mi lega a Malik, passo tante ore ad ascoltarlo. “Il mondo osserva in silenzio ciò che sta accadendo oggi,” mi ha scritto “ritardando qualsiasi vera soluzione o la creazione di uno Stato palestinese. Ma quanto accaduto a Gaza il 7 ottobre, e tutto quello che c’è stato dopo, è il risultato del silenzio del mondo e della sua negligenza nei confronti della causa palestinese”. La sua voce è la voce di un popolo che non ha paura di raccontarsi le proprie sofferenze, che ha interiorizzato l’attesa: di un futuro, di un riconoscimento, di una rinascita. Poco prima del cessate il fuoco abbiamo discusso della resistenza palestinese. Non gli ho scritto subito le mie considerazioni. Allora, dopo qualche giorno, è ritornato sull’argomento. Ha scritto “Adesso però voglio una risposta” e mi ha chiesto: “Cosa pensi del 7 ottobre?”. Tutto ciò che conosco su Hamas e sul conflitto israelo-palestinese l’ho studiato dalla storiografia occidentale. Gli dico che la versione ufficiale di questa storia, quella diffusa in Occidente, è profondamente coloniale, che nelle scuole italiane si parla di rado di occupazione e di suprematismo sionista. Gli dico che l’Europa, incapace di elaborare la colpa originaria della Shoah, sta continuando a sostenere uno Stato genocida, coprendo i propri rimossi con la forza politica di cui gode. Gli scrivo tutto questo, ma in realtà sto cercando di prendere tempo. Mi chiede: “Bene, e cosa ti hanno insegnato i colonialisti?”. Mi fa il verso, risponde piccato alle mie premesse autoassolutorie. Tra le righe ingessate e telegrafiche dei messaggi WhatsApp, avverto la sua urgenza di capire come la penso. Percepisco, oltre ogni morale e ogni retorica, la vitalità senza condizioni di un ragazzo sotto assedio, che non ha potuto scegliere un’esistenza disimpegnata perché anche la terra dove ha imparato a camminare non è mai stata gratuita né scontata. Il giorno della firma dei primi accordi tra Israele e Hamas, il 9 ottobre 2025, i gazawi erano in festa. Il mio feed di Instagram si è riempito di video della loro esultanza: dopo 730 giorni, sono i primi reel rincuoranti dei giornalisti di Gaza rimasti in vita. Malik era gioioso: poteva tornare alla vita, poteva lasciare l’area umanitaria per alcune ore, poteva spostarsi liberamente nella Striscia. Appena le truppe israeliane hanno lasciato l’area di Khan Younis, Malik è tornato a casa. Voleva vedere cosa è cambiato in questi mesi. Era impaziente e terrorizzato all’idea di non trovare la casa della nonna, che era ancora parzialmente salva il giorno in cui si erano trasferiti ad Al-Mawasi. È partito da solo, ha dormito vicino al mare e la mattina successiva è arrivato. La casa della nonna era distrutta. Mi ha mandato un video: un lungo slalom tra i ruderi. In quei cumuli di pareti macerate, muri portanti bucati, funi di acciaio a vista, emergevano gli spazi di una casa, i luoghi di un’intimità violata: un frigo, una credenza di legno, lo schienale blu di un divano polveroso. Secondo Malik quest’ultimo cessate il fuoco è arrivato troppo tardi, quando il lavoro di Israele sulla Striscia è compiuto. Ormai Gaza è distrutta, i morti ancora innumerevoli, e i sopravvissuti, annientati da due anni di genocidio, non hanno più forze per pensare che all’essenziale: le protesi per i bambini amputati, la ricostruzione di intere città ‒ e con quali soldi, poi? Inoltre, per il momento questa tregua non sembra aver posto fine all’assedio. Le forze armate israeliane continuano a controllare larghe porzioni della Striscia. In alcune giornate, nonostante gli accordi in lavorazione tra Israele e Hamas, hanno bombardato. Malik e i suoi hanno sentito quelle bombe da Al-Mawasi, ed è tornata quell’angoscia che per due anni è stata così familiare. È tornato il terrore che la storia possa ripetersi: lo scorso gennaio un cessate il fuoco era stato già dichiarato, ma dopo poche settimane era sfumato. Se una qualche “pace” proseguirà, il progetto di Malik è di trovare soldi per la ricostruzione, in un modo o nell’altro. Vuole restituire una casa ai suoi prima di lasciare la Striscia e continuare gli studi lontano da questo inferno. Mi dice che fin quando i firmatari degli accordi di pace non saranno palestinesi interessati davvero alla popolazione di Gaza, l’occupazione non cesserà. E porterà, presto o tardi, a nuova sofferenza. > Quest’ultimo cessate il fuoco è arrivato troppo tardi, quando il lavoro di > Israele sulla Striscia è compiuto. Ormai Gaza è distrutta, i morti ancora > innumerevoli, e i sopravvissuti, annientati da due anni di genocidio, non > hanno più forze per pensare che all’essenziale. La mancanza di casa che era di Ibrahim, il bisnonno, adesso la sente lui, figlio di un duplice esilio. Quella mancanza è parte della memoria storica di un popolo che ha organizzato gran parte della propria identità sul dolore della perdita. In queste settimane gli ho scritto più volte “sentiti libero di fermarmi se le mie domande sono inopportune”. L’ultima volta che l’ho fatto, mi ha chiesto perché mai dire la verità dovrebbe essere inopportuno. “Perché la verità è dolorosa”, gli dico, e lui mi risponde: “Ma il dolore è ciò che ci rende vivi. È il motivo per cui resistiamo”. L'articolo Voci da Gaza proviene da Il Tascabile.
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L’ ultima opera di Jean-Luc Godard, Adieu au langage (2014), chiude un discorso che il cineasta ha condotto nell’arco di tutta la sua filmografia. L’opera si articola a partire dal pretesto di un melodramma amoroso inconsistente, attorniato dalla Storia e dalla contemporaneità, che premono all’unisono per insidiare i pensieri dei protagonisti, alle prese con la svilente contingenza del vivere quotidiano. Le riflessioni enunciate con indisciplina dai due personaggi, incapaci di comunicare, coincidono con quelle del regista. Così, senza alcuna ragione apparente, Josette (Héloise Godet) si rivolge a Gédéon (Kamel Abdelli) e racconta: “Quando un bambino, entrando nella camera a gas, ha chiesto alla madre perché, l’SS ha risposto: kein warum”. Nessun perché. La violenza assoluta non ha ragione alcuna. Nel dopoguerra, la denuncia di quanto accaduto nei campi di sterminio nazista lasciò attonita un’intera generazione di intellettuali e artisti, chiamati a interrogarsi sulle rappresentazioni possibili dell’indicibile e dell’insensatezza. Al contrario, in merito a quanto sta accadendo in Palestina, si producono incredibili quantità di contenuti testuali e visivi, nella forma di articoli di giornale, caption dei post sui social media, reel e caroselli, immagini con disclaimer ed edulcorati servizi televisivi. Nessun utente al mondo ha davvero il tempo per poter fruire di tutte le informazioni condivise, né per poterne verificare l’esattezza o le intenzioni. Si tratta di una valanga di materiali e risorse travolgente e al contempo inefficace. Una tale vanità dipende dal fatto che non esistono parole per nominare le atrocità di un genocidio come quello in corso da quasi due anni, specialmente se finanziato e normato da potenze che si appellano ai valori democratici dello Stato di diritto. Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Se tutto è opinabile, senza alcun fondamento teoretico, e nemmeno le immagini che catturano la realtà possono essere considerate veritiere, se gli accordi internazionali non sono rispettati dalle stesse istituzioni che le hanno redatte, allora il linguaggio non ha più alcuno scopo, né senso di esistere. > Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per > dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista > nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i > patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Nel quadro teorico di Michel Foucault, il linguaggio è uno dei dispositivi che rientra nelle tecnologie del sé attraverso le quali individui e collettività possono esercitare la libertà di autodeterminarsi e trasformarsi, al di fuori delle dinamiche egemoniche. Partendo dall’assunto secondo cui le tecnologie del sé sono sempre ostacolate dalle tecnologie del potere, è possibile osservare come, a partire dall’inizio del nuovo millennio, l’oppressione imposta alla libera autodeterminazione dei popoli e delle soggettività sia da ricondurre agli interessi degli oligarchi ultramiliardari dell’industria digitale, correlati ai profitti dell’industria bellica. L’influenza di quest’ultima, nella sua forma più apertamente oscena, si manifesta nelle politiche per il riarmo dei Paesi occidentali, finanziato con denaro pubblico. Perciò, dal momento in cui le tecnologie del sé sono state sistematicamente impoverite e capitalizzate dalle tecnologie del potere, si potrebbe dire che la profezia di Herbert Marcuse si sia del tutto avverata: i soggetti del sistema capitalista, identificandosi come individui senza società, sono invero schiacciati da quella stessa società a una sola dimensione, privati del pensiero critico e incapaci di esprimersi liberamente. L’indottrinamento di massa opprime il pensiero, il logos, fino a indurlo all’“universo totalitario della razionalità tecnologica”, nella quale il dislivello fra il linguaggio come tecnologie del sé e gli altri dispositivi del potere rende la parola antiquata, inadeguata e sempre in ritardo rispetto a ciò che la corrompe. Così, la civiltà occidentale ha perso la capacità di nominare ciò che produce, di dare un senso alle conseguenze delle proprie azioni. L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che utilizzano o, per meglio dire, dalle quali si fanno utilizzare. Di conseguenza, oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini senza fornire concetti, appiattendo la parola solamente a un misero cliché unidimensionale. La crisi del linguaggio è un tema degli anni Venti del nuovo millennio, ma è soprattutto una delle questioni novecentesche per antonomasia. Il secolo breve è stato attraversato dall’ultimo colpo di coda del pensiero positivista e puntellato da catastrofi come l’insediarsi dei totalitarismi, la pianificazione dell’olocausto e le persecuzioni nazifasciste ai danni di qualsiasi soggetto non fosse conforme al pensiero unico. A partire dal linguaggio, tutti gli irrisolti del Novecento si ripropongono nell’epoca attuale in una forma esasperata. Se dalle ceneri della Seconda guerra mondiale sono sorte le parole che compongono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e solo settantasette anni dopo il mondo è nelle mani dei neofascisti; se le sorti della civiltà umana dipendono dalla volontà di Trump e Netanyahu, di al-Sisi ed Erdoǧan, di Orbán e Putin, di Bolsonaro e Milei, allora i diritti universali sono solo cliché. Lo sono anche le parole degli intellettuali che tentano di tenere insieme i valori democratici, rinnegandoli. Sulla maggior parte dei quotidiani occidentali, si sostituisce il termine resistenza con terrorismo e si rinnega la legittimazione politica di Hamas, eletto da un popolo senza Stato e senza costituzione, poiché occupato. Al contempo, l’informazione mainstream non fatica a riconoscere come democratico l’esito che ha portato Netanyahu a essere presidente dell’entità colonialista israeliana dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021 e dal 29 dicembre 2022 a oggi. > L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato > gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che > utilizzano: oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini > senza fornire concetti. Parrebbe che una lunga tradizione stia conducendo l’umanità alla fine della Storia, al collasso della civiltà, senza troppi intoppi. La crisi del pensiero occidentale è imbrigliata in un vortice che lo costringe in un presente continuo, senza memoria né futuro. Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo intero. Pertanto, un’opera come Persona (1966), una delle più note di Ingmar Bergman, soprattutto se esaminata attraverso l’analisi critica di Susan Sontag, può essere considerata estremamente contemporanea. In uno dei capitoli centrali della raccolta di saggi intitolata Stili di volontà radicale (1969), Sontag si dedica al film del cineasta svedese a partire da alcune falle argomentative, mosse dalla critica culturale dell’epoca, per poi concentrarsi sulle questioni esistenziali e metafisiche che rendono Persona un’opera sempiterna, ma anche un esempio canonico di cinema moderno. Lo fa sottolineando come sia del tutto inutile, per non dire svilente, ridurre un lavoro del genere a un dramma psicologico da camera, o peggio a un tentativo di estetizzare la natura cannibalica dell’artista rispetto alla realtà, intesa come materia prima di cui nutrirsi per creare o performare. La sinossi del film, nella sua versione più essenziale, è la storia di Elisabeth (Liv Ullmann), una famosa attrice di teatro, e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson), incaricata di prendersi cura della paziente e di stimolarla a riprendere l’uso della parola, alla quale ha deliberatamente rinunciato. La psichiatra si è fatta convinta di aver compreso il caso di Elisabeth. Esclude disturbi mentali o danni neurali e sostiene che la sua paziente voglia smettere di parlare perché non intende più recitare né sul palcoscenico, né al di fuori. Non vuole più mentire e per farlo, escludendo il suicidio, non le resta che rifugiarsi nel mutismo. Così come Bergman trascende sul legame passionale o sessuale fra le due protagoniste, allo stesso modo agisce rispetto al piano dell’etica, della psicologia e della narrazione lineare, perché, seguendo l’analisi critica di Sontag, il cineasta “può fare molto di più che limitarsi a raccontare una storia”. Il suo obiettivo è quello di coinvolgere il pubblico in modo più diretto su altre questioni. La de-drammatizzazione, come modalità narrativa, prevede che il significato di un film non sia determinato dalla trama. La filosofa e intellettuale femminista contrappone concettualmente l’andamento progressivo e lineare della narrazione, tipica dei film hollywoodiani, a quello composto da “continui rimandi retrospettivi o incrociati”, che invitano a “un’esperienza ripetuta, alla visione multipla”, esigendo che “lo spettatore o il lettore ideale si collochi simultaneamente in punti diversi della narrazione”; un espediente che “ovvia alla necessità di stabilire uno schema cronologico convenzionale”. In Persona, il nodo concettuale è quello delle variazioni sul tema del raddoppiamento, “quali la duplicazione, l’inversione, lo scambio reciproco, l’unità e la scissione, la ripetizione”, che impedisce di interpretare l’azione dei personaggi in modo univoco. I livelli di lettura si articolano, da un lato, in una dimensione più superficiale, incentrata sul duello identitario; dall’altro, in una chiave più astratta, che mette in scena il conflitto tra componenti mitiche di un medesimo Io, lacerato tra corruzione e ingenuità. Ancora, il tema del raddoppiamento è soprattutto un’idea di forma, più che di sostanza, poiché il raddoppiamento si manifesta anche in senso metacinematografico, cioè metalinguistico. Al duello fra identità, Sontag preferisce concentrarsi sull’ambiguità insita nel linguaggio, costituito, nella sua ultima essenza, da significato e significante. L’elemento autoriflessivo non è sovrapposto all’azione drammatica, ma corrisponde al livello di lettura privilegiato dall’autore, dedicato alla forma e al tema del raddoppiamento. > Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo > smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori > fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo > intero. Nella seconda parte di Stili di volontà radicale, ci si può soffermare sulle descrizioni di alcune sequenze che manifestano episodi di autoriflessione metacinematografica, collocati sia all’inizio, sia alla fine del film, componendo una cornice. Si menziona anche il monologo ripetuto due volte da Alma sulla maternità di Elisabeth, dove i loro volti in primo piano si alternano come unici protagonisti dell’inquadratura, fino a spartirla per metà, confondendosi. Il mezzo cinematografico non si nasconde, ma divelta lo schermo; sfida la sospensione dell’incredulità esercitata dallo spettatore e lo disillude per condurlo a riflettere. Sontag inquadra la scena culturale internazionale nella quale scrisse il saggio dedicato a Persona, citando una frase estrapolata dalla nota lettera di Pier Paolo Pasolini a Marco Bellocchio, nella quale osserva come nel cinema moderno “si sente continuamente la presenza della macchina da presa”. In realtà, Pasolini si riferiva non tanto a Bergman quanto a Godard rispetto all’individuazione della nascita del cinema di poesia. Nella lettera, riconduce il cinema delle origini a questa categoria “a causa soprattutto, probabilmente, delle restrizioni prosodiche del muto”. Nel ripercorrere la storia del cinema, prosegue fino a rintracciare la perdita di lirismo nelle ragioni commerciali, che ha condizionato la settima arte a esprimersi in prosa, in uno stile che predilige il dramma alla forma e la narrazione al linguaggio. Al contrario, nel cinema di poesia, traspare ogni elemento teorico o materico che compone il mezzo cinematografico, sovrapponendosi alla diegesi. Senza cadere in congetture elitarie, Pasolini non pone gerarchicamente un linguaggio al di sopra dell’altro e per di più sostiene che “si sono avuti dei capolavori di prosa – veri e propri romanzi – mettiamo da Ford a Bergman.” Rispetto a quello pasoliniano, il punto di vista di Sontag è differente: in Persona, il lirismo è dato dal movimento di flessione metalinguistico, da una cura della forma, che svela la mano dell’autore e trascura la trama. Lo dimostra con l’analisi del monologo di Alma, a seguito del quale i volti delle due protagoniste convergono, accennando a come Bergman, in senso brechtiano, alteri il ruolo dello spettatore. Se si manifesta la presenza della macchina da presa, allora ciò che si filma perde lo statuto di realtà documentata: il mezzo non appare più neutrale, assume il ruolo di strumento attraverso cui la realtà è manipolata per essere immortalata e resa visibile. Nel cinema moderno, la differenza fra le produzioni hollywoodiane del dopoguerra e i film d’autore, secondo Sontag, deriva da un atteggiamento stilistico: “quello che i cineasti contemporanei mostrano sempre più spesso è il processo stesso della visione, fornendo ragioni o prove dell’esistenza di modi diversi di vedere la stessa cosa, che lo spettatore può sperimentare simultaneamente o sequenzialmente”. In Persona, i momenti dialettici della riflessione metacinematografica conducono a un’autofagocitazione del film stesso, in linea con “l’iper-raffinata autocoscienza dell’arte contemporanea, che condurrebbe a una sorta di autocannibalismo”, ma anche a una “liberazione di nuove energie di pensiero e di sensibilità”. La lettura proposta diverge da quella di Pasolini non solamente rispetto al mutamento di relazione fra autore, linguaggio cinematografico e spettatore. Secondo l’autrice, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme e oggettiva. L’autore di Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole (1957) e Sussurri e grida (1972) sposta l’attenzione su ciò che della realtà non si può raccontare. In Stili di volontà radicale, Sontag introduce il concetto di principio di intensità per il quale nei film di Bergman “i personaggi che percepiscono qualcosa intensamente finiscono per consumare, per esaudire, ciò che sanno e sono costretti a passare ad altro” perché “ogni conoscenza profonda e indefessa si rivela prima o poi deleteria”. Malgrado ogni epoca storica ne abbia prodotte di svariate, incongrue fra loro e spesso anacronistiche, l’umanità non può ambire ad alcuna verità assoluta. E sebbene ogni individuo della specie umana debba necessariamente ricondurre le proprie esperienze, il proprio vissuto, a una singola unità soggettiva, nessuno può rientrare in un’unica definizione identitaria, poiché nemmeno l’identità personale è assoluta o immutabile, ma sempre composita, ambigua e volubile. Riflettere sull’artificio dell’individualità conduce a una vertigine “in cui sprofonda la coscienza” minando il coesistere in società: “Se per conservare l’identità personale occorre salvaguardare l’integrità della maschera, e se la verità su una persona comporta sempre il suo smascheramento, l’incrinatura della maschera, la verità sulla vita nel suo complesso, comportano lo sgretolamento dell’intera facciata, dietro cui si cela una crudeltà assoluta”. > Secondo Sontag, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento > allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da > presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme > e oggettiva. L’esistenza tiene in serbo un destino ineludibile e con esso quello che Sontag, rispetto al tema centrale di Bergman in Persona, definisce come “violenza dello spirito”, evidente nella sequenza iniziale del film. La cornice d’apertura metalinguistica è composta dal susseguirsi di una carrellata di immagini rapide, sia conturbanti che perturbanti: si alterna la visione di un chiodo conficcato a colpi di martello sul palmo di una mano a quella di un pene in erezione, il sacrificio di un monaco buddista nel Vietnam del Sud all’inquadratura stretta sui cadaveri di un obitorio. Oltre all’orrore, Bergman mostra una platea vuota, il palcoscenico e chi lo calpesta con una maschera di trucco sul volto. L’attrice è Elisabeth, la stessa che, nell’articolarsi del film, più volte si sofferma su immagini di violenza assoluta, come la nota fotografia del bambino deportato dal ghetto di Varsavia, o su altre, identiche a quelle dell’incipit, come quella del bonzo che si dà fuoco a Saigon. L’utilizzo di riferimenti alla contemporaneità nel film di Bergman non ha la stessa valenza politica di quelli presenti nelle opere di Jean-Luc Godard, bensì ha lo scopo di dire l’indicibile, mostrare l’inimmaginabile, al di sopra di qualsiasi considerazione sulla morale o sulla politica. Come sottolinea Sontag, “Bergman fa un uso estetico della violenza”, divergendo dalla retorica progressista dell’epoca. Una successione simile di fotogrammi disturbanti sull’orrore dell’abisso si può ritrovare nell’ultimo film di Lars von Trier: The House That Jack Built (2018). L’espediente narrativo è quello di entrare nella mente di un serial killer, compiendo una discesa agli inferi, in una catabasi sempre più surreale, dove il protagonista pluriomicida è accompagnato da Virgilio. Il montaggio seziona il film in capitoli, puntellati di sequenze extradiegetiche, dove il tema principale riguarda il precetto classicista del kalòs kai agathós e il ruolo dell’etica nel fare arte. Jack è un narcisista patologico, ossessivo compulsivo e predisposto alle dipendenze. È convinto di essere dotato di eccezionale talento artistico e crede che sarebbe potuto diventare un grande architetto, se solo non glielo avessero impedito. Il suo unico scopo è quello di realizzare un edificio iconico. Nel tentativo di raggiungere la consacrazione artistica, l’ostacolo principale nel quale si imbatte il protagonista dipende dal fatto che la casa costruita da Jack è composta da materiali del tutto inediti nel campo dell’edilizia, dato che quelli solitamente impiegati non lo soddisfacevano abbastanza. Si tratta di cadaveri umani congelati, modellati e assemblati l’uno a l’altro per mano del sedicente architetto. Rispetto al rapporto fra etica e arte, il punto di vista di Jack risulta particolarmente esplicito in una delle scene finali del film, quando dichiara che “tutte le icone che hanno avuto e avranno sempre un impatto sul mondo sono per me arte stravagante”. L’affermazione, pronunciata in voice over, è sottolineata da una carrellata di filmati e immagini che ritraggono i dittatori del Novecento e le peggiori atrocità, delle quali sono i principali responsabili: mucchi di cadaveri ammassati con una macchina spalatrice, persone ancora vive nelle baracche dei lager nazisti, cadaveri lanciati in fosse comuni, mutilati di guerra, bambini malnutriti ridotti a scheletri. Secondo il protagonista, il suo modo di fare arte è quello di svelare l’indicibile e mostrare il male assoluto, per definirlo nichilisticamente solo come una mera categoria morale, relativa al bene, assente in natura e presente solo nella logica del pensiero umano. Il bene e il male, il bello e il brutto sono artifici. È possibile commettere dei crimini perfetti così come è possibile riconoscere il bello nella decadenza o persino nella decomposizione della materia. Nel dialogare con Virgilio, Jack espone le sue ragioni, paragonando il processo di decomposizione di un essere umano con quelli adottati per la produzione di vini da dessert. Cita il gelo, la disidratazione e l’utilizzo della muffa nobile come le tre più comuni forme di decomposizione degli uvaggi e chiosa: “È il degrado a nobilitare il grappolo vivo, fino a farlo diventare un’opera d’arte”. In The House That Jack Built, l’estetica della morte e della violenza rappresenta il filo conduttore di tutto il film. Tornando a Bergman, il male, l’abisso e l’orrore si manifestano in Persona a partire da un altro principio nichilista, ovvero la dissoluzione dell’identità delle due protagoniste. Il processo di annullamento e disgregazione della personalità dei due soggetti avviene a partire dalla messa in discussione del ruolo del linguaggio, definito da Sontag come il dispositivo capace di “gettare un ponte sull’abisso”. La parola definisce, mette ordine, crea la norma e stabilisce i confini necessari per significare sia il soggetto che parla, sia l’oggetto di cui si parla. L’autrice non trascura il contesto in seno al quale avviene la contestazione del linguaggio negli ambiti del cinema moderno e della letteratura dell’epoca, citando, fra i tanti, Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Gertrude Stein e Samuel Beckett. Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Se Elisabeth ha deciso scientemente di preferire il mutismo e rinunciare all’oralità, Alma è impegnata nella verbalizzazione del mondo a fini terapeutici, come atto generoso e benefico, compiuto per il benessere della sua paziente. Il dramma o la rottura avviene nel momento in cui il silenzio diviene violento, provocatorio e crudele. Sontag definisce il mutismo di Elisabeth come strumento di inganno, di smascheramento e di autorivelazione. Per tutta la durata del film, la narrazione procede per sottrazione o per “assenze di enunciazione” che, a poco a poco, minano la fiducia riposta nel linguaggio da parte di Alma, portandola a farsi carico dell’angoscia di Elisabeth. Lo scambio di identità fra le due protagoniste avviene attraverso il vuoto che l’attrice crea in risposta al tentativo dell’infermiera di mostrare il linguaggio come un dispositivo innocuo. Lo sforzo compiuto da Alma le si ritorce contro: la verbalizzazione del mondo, priva di alcun tipo di interlocuzione, rivela l’insensatezza della parola e la sua pericolosa contingenza. In modo analogo, il silenzio attorno alla condizione palestinese ‒ oppure il rumore assordante dei discorsi svuotati di contenuto ‒ riflette la stessa impossibilità di comunicazione autentica. Il linguaggio, anziché fungere da ponte, diventa strumento di esclusione, rimozione, delegittimazione. > Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del > fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un > linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Sontag usa la lente del cinema di Godard per comprendere lo sviluppo del tema del linguaggio in Bergman. Entrambi sono definiti come “asceti esemplari”, “grandi eroi culturali” e al contempo “grandi distruttori”, ma il cineasta francese lo è stato con ancor più scientezza, contribuendo a tracciare il solco di una tendenza che accomuna le forme d’arte dell’epoca, ovvero quella all’autoreferenzialità. La produzione di opere meta-artistiche ha lo scopo di risemantizzare la relazione fra artista e pubblico, di riconfigurare la sensibilità degli spettatori, e Godard lo ha fatto a partire dalla realtà fuori dal cinema, dalla contemporaneità e dalla politica, mettendo in scena idee astratte. Come lui stesso dichiarava, “Noi cineasti, come i romanzieri, siamo condannati ad analizzare il mondo e la realtà”. Si definiva un saggista o un romanziere, immerso nel contesto della letteratura moderna, per la quale non è più d’interesse raccontare la vita delle persone, raccontare una storia, ma piuttosto scrivere solamente della vita. Rifiutando radicalmente le strutture formali della narrativa, Godard erige un cinema poetico e concettuale, fatto di trame intermittenti e grossolane, al contrario di quelle delle opere di Bergman, che Sontag definisce come “indeterminate”. Ambiva ad abitare la realtà tramite una struttura filmica che utilizzi il presente come tempo verbale e che stia nel solco fra la perfezione delle idee, del seducente artificio insito nel logos, e “l’opacità brutale della condizione umana”. Il linguaggio filmico adottato dall’autore di Bande à part (1964) è in totale apertura verso il pensiero astratto e il mondo delle idee; pertanto è dissociativo, composto da una colonna sonora intermittente, un montaggio rapido e inquadrature disorientanti. Godard trasgredisce la regola estetica del punto di vista unitario, annullando la distinzione tra narrazione in prima persona e in terza persona, “facendo della persona del cineasta l’elemento strutturale centrale della narrazione cinematografica” e che però non corrisponde “a una lucida intelligenza autoriale”. In altre parole, l’autore fuori campo è dotato di una coscienza turbata e più estesa rispetto ai personaggi del film. Muovendosi nella scena modernista, Godard confonde le prospettive narrative per favorire un maggiore rigore formale, dall’effetto alienante. Si tratta di un metodo che consente l’apertura verso la concettualizzazione astratta di ciò che non può essere espresso attraverso la logica di una narrazione lineare e che consente di esplorare il cinema, facendo cinema. > La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il > linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al > controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, > fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione. Ordinando il discorso in soggetto e oggetto, il linguaggio è capace di mediare e definire. Di fatto, se non esistono definizioni di identità senza la parola, mettere in discussione la normatività del dispositivo linguistico significa smascherarne l’artificiosità e dubitare di qualsiasi assolutismo, ma anche della presunta autenticità dietro alla determinazione di ogni individualità. Il cinema è il mezzo individuato da Godard per distruggere e demistificare il linguaggio, proprio perché è “la truffa più bella del mondo”, parafrasando il titolo del film collettivo di cui il cineasta francese diresse il quinto episodio, Il profeta falsario (1964). Sulla scia della riflessione proposta da Sontag, rinunciare a una narrazione sensata e lineare, porre l’attenzione sul significante e non sul significato, consente di “incorporare il caso” attraverso l’improvvisazione. Catturare ciò che sfugge alla logica significa stare nella spontaneità della contingenza. Godard lo ha fatto attraverso l’utilizzo di auricolari per guidare gli attori, in un dialogo diretto con la macchina da presa, ma anche conservando suoni extradiegetici o rumori ambientali nelle tracce audio e arrivando sul set senza una scaletta tecnica o un piano di regia dettagliato. La radicalità del gesto godardiano stava nell’aver previsto, già dagli anni Sessanta, la dissoluzione imminente della parola come veicolo di senso. Il suo cinema, rinunciando programmaticamente alla linearità narrativa, intuiva una condizione di spaesamento cognitivo che oggi si è pienamente realizzata: l’incapacità collettiva di discernere, comunicare e comprendere. In questo scenario, le immagini non raccontano più, ma si accumulano, svuotate di forza semantica; le parole si moltiplicano, ma non incidono. La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione, alla quale attualmente si assiste. Oggi, di autori come Bergman e Godard, Sontag e Pasolini si sente la mancanza; del logos rimane solo la sua rigida e sadica spietatezza, tale per cui l’intellighenzia occidentale si è interrogata per quasi due anni sull’utilizzo appropriato del termine genocidio, scrollando video e immagini del massacro di un popolo, finanziato con il benestare della sedicente società civile. L'articolo Oltre la parola proviene da Il Tascabile.
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La casa perduta
T ra il 1966 e il 1967 lo scrittore palestinese Mourid Al-Barghouti si trasferisce in Egitto per completare il suo percorso universitario. Gli mancano pochi esami e, a Ramallah, la madre lo aspetta, impaziente di vedere finalmente l’unico dei suoi figli laurearsi. Nelle prime pagine del suo testo più celebre, Ho visto Ramallah (2003), emerge da subito un’immagine familiare: quella delle pareti di casa, dove – a università terminata – si appende il diploma in bella mostra. Ma nel giugno 1967 ha inizio una nuova guerra, passata poi alla storia nel mondo arabo come Naksa, ovvero ‘ricaduta’. Israele occupa anche i territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, aggravando la crisi dei rifugiati iniziata con la Nakba del 1948: centinaia di migliaia di palestinesi sono nuovamente sfollati. > Mi consegnarono il diploma in Lingua e Letteratura inglese, ma non avevo più > una parete a cui appenderlo. La città era caduta e non avrei mai potuto > tornarvi. Ho visto Ramallah è la storia del ritorno, dopo trent’anni, dell’ormai adulto Al-Barghouti nella sua città natale. Un ritorno segnato dalla sofferenza di chi ha vissuto la ghurba, l’esilio. Una volta che l’hai provata, ne resti segnato per sempre. La ghurba “è come un’asma”, come una malattia di cui si inizia a soffrire e dalla quale non si può guarire. Introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché un dovere di memoria da custodire. Elisabetta Bartuli in The Passenger. Palestina (2023), sottolinea come, “nonostante le enormi diversità nelle condizioni di vita, di contesto amministrativo ed economico di cui raccontano” i romanzi degli scrittori palestinesi presentino caratteristiche comuni che li rendono “un unicum compatto e coeso all’interno della letteratura araba”. Ecco: la casa, come luogo simbolico di identità e appartenenza, è precisamente uno dei topoi che danno coerenza a questo unicum; un motivo ricorrente che la letteratura palestinese ha contribuito, insieme ad altri, a consolidare, e attraverso cui si esprimono significati che arrivano fino a questi giorni. > La ghurba, l’esilio, introduce nell’esistenza una dimensione tragica, priva la > vita di una casa cui tornare, ne fa un ricordo doloroso e inesorabile, nonché > un dovere di memoria da custodire. Nel tema della diaspora, la casa diventa simbolo di quell’intimità familiare – fatta di oggetti, gesti quotidiani, odori – che l’occupazione e la guerra hanno interrotto in modo fulmineo e traumatico. Con fatica si riesce a immaginare una simile condizione: da un momento all’altro, senza preavviso, abbandonare la propria casa senza potervi più fare ritorno. > Umm ‘Issa nei suoi ultimi giorni di vita non parlava che di un’unica cosa: il > tegame di zucchine. Aveva dovuto abbandonare casa sua, nel quartiere Qatamùn a > Gerusalemme, senza avere il tempo di spegnere il fuoco sotto il tegame di > zucchine. Elias Khoury, recentemente scomparso, è stato uno scrittore e intellettuale libanese tra i più autorevoli del mondo arabo. Il suo romanzo, La porta del sole (2004), è stato definito un’epopea del popolo palestinese. Intorno alla vicenda principale e ai suoi protagonisti si affollano numerose voci e storie. E in molti di questi racconti – anche nei più brevi, affidati a personaggi secondari – si rincorrono immagini di case abbandonate in tutta fretta. > Sono andato nella casa […]. Era deserta. Sono entrato. Delle coperte per > terra, dei sacchi di plastica, delle pentole e odore di cibo ammuffito. Come > se avessero sgomberato in fretta e furia, senza tempo sufficiente per > organizzare il viaggio. […] Sono entrato e mi sono reso conto che stavo > piangendo. Ero nel mezzo del nulla, in mezzo alle lacrime. E ho capito che era > perduta. Nella letteratura palestinese delle origini, il topos della casa è centrale nel raccontare il trauma dell’esilio e della perdita inflitti dalla Nakba. In questa fase, è spesso ancora il fulcro di una nostalgia nella quale struggersi. Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne ricopriva le pareti. E alla casa si desidera soltanto fare ritorno. Anche se ne fosse rimasta solo una pietra. > Della propria casa, si ha nostalgia di tutto. Perfino “della muffa” che ne > ricopriva le pareti. La casa non è un’idea astratta. Non è una metafora, è > questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Ghassan Kanafani è stato tra i maggiori esponenti della narrativa della resistenza, assassinato nel 1972 a Beirut da un’autobomba del Mossad. Nel suo Ritorno a Haifa (2001), Said e Safiyya sono una coppia palestinese che, dopo vent’anni di esilio forzato, torna a Haifa: la città da cui erano stati cacciati e nella quale avevano dovuto abbandonare il figlio neonato, Khaldun. Quando tornano, scoprono che il figlio è stato adottato da un’ebrea sopravvissuta all’Olocausto, che ora vive nella casa che un tempo era loro. Il figlio, che ora si chiama Dov, milita nell’esercito israeliano, e rifiuta ogni legame con i suoi genitori naturali. Poco prima che il racconto sveli questa sua sconvolgente verità, è descritto il momento in cui Said e Safiyya salgono le scale della loro vecchia casa. Said non vuole dare alla moglie, e neppure a sé stesso, “la possibilità di osservare quelle piccole cose che – lo sapeva – lo avrebbero commosso: il campanello, il pomello di ottone alla porta, gli scarabocchi di matita sul muro, il contatore dell’elettricità, il quarto scalino rotto nel mezzo…”. La casa non è un simbolo, non è un’idea astratta. Non è una metafora, è questo luogo fatto di cose concrete che si sono perdute. Entrando, Said riesce ancora a vedere in casa sua “molte cose che un tempo gli erano state familiari e che anche quel giorno continuava a considerare tali: cose intime, private”, che mai avrebbe pensato che qualcuno potesse toccare o guardare: una fotografia di Gerusalemme, un piccolo tappeto di Damasco. Said ritrova “le sue cose” ma, guardandole, le vede mutate. Come se a osservarle fossero due paia di occhi diversi: quelli del passato e quelli di un presente che non gli appartiene più. Lo stesso accade, in La porta del sole, a Umm Hasan. > Umm Hasan, come tutti coloro che sono tornati a vedere le loro case, diceva: > “Ogni cosa era al suo posto, ogni cosa era rimasta com’era. Persino la brocca > di terracotta.” >  — La brocca. >  — L’ho trovata qui. Non la uso. La prenda, se la vuole. >  — No, grazie. Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei significati. Da simbolo di perdita e sradicamento – da cui deriva anche il più famoso simbolo delle chiavi lasciate sulla porta – la casa diventa un topos per esplorare la realtà dell’occupazione e della guerra e, da qui, la condizione di estraneità e d’incertezza esistenziale, la frammentazione identitaria, a cui il popolo palestinese è stato condannato. Lì, proprio nel perimetro della casa, dove si tocca “l’essenza più profonda della vita” (Nour Abuzaid), qualcun altro si è insediato con la forza. > Il passaggio dalla casa abitata alla casa occupata segna una svolta anche nei > significati. Lì, proprio nel perimetro della casa, qualcun altro si è > insediato con la forza. È Israele che “con la scusa del cielo, ha occupato la terra”. Il contatore dell’elettricità è al solito posto, la brocca e il tappeto di Damasco anche. Eppure, non si riesce a riconoscerli. Come accade quando, a forza di guardare troppo a lungo una cosa, o di ripetere insistentemente una parola, se ne perde l’essenza: il suono si svuota, l’immagine si spegne. Ora anche chi riesce a tornare a casa si sente fuori posto. Un estraneo. In La porta del sole c’è un passaggio importante in cui Nahila, rimasta a vivere nel suo villaggio diventato territorio israeliano, si oppone con forza al marito Yunis, che invece è un combattente della resistenza e vive in clandestinità dentro le grotte. Alla retorica del sacrificio e del martirio, alle storie di eroismo, che trasfigurano la sofferenza vissuta in mito, Nahila rivendica le vere storie. Quelle che raccontano che le persone sono divenute estranee persino a sé stesse. E che, pur non impugnando le armi, si fanno portavoce di una resistenza più silenziosa e quotidiana. > Tu non sai niente. Secondo te la vita sono queste distanze che attraversi per > arrivare qui col tuo odore di foresta. […] Che storie sono queste dell’odore > di lupo, del profumo del timo selvatico, dell’olivo romano? Sai chi siamo? La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il rimanere diventa una forma di esilio. Uscire di casa non è un gesto neutro, ma può diventare una scommessa sul ritorno e un desiderio di tornare “per intero”, senza scontare la dispersione dell’identità, la frammentazione del sé che l’occupazione impone ogni giorno. > La vita di coloro che sono rimasti a vivere nella propria casa, in regime di > occupazione, è costantemente segnata da un senso di precarietà. Anche il > rimanere diventa una forma di esilio. Lo scrive con spietata chiarezza Maya Al-Hayat, poetessa palestinese nata a Beirut e cresciuta a Gerusalemme Est, oggi tra le voci più incisive della letteratura contemporanea, capace di raccontare con feroce semplicità l’intimità stravolta del vivere sotto l’occupazione. > Ogni volta che esco di casa > è un suicidio > e ogni ritorno, un tentativo fallito. […] > Voglio tornare a casa intera. Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di stoffa esposta al vento. Scrive Yousef Elquedra, in una poesia dedicata agli accampamenti della zona umanitaria di al-Mawasi: > La tenda è un corpo fragile […] > La tenda non è una casa > è una promessa di attesa > e ogni impeto di vento > ti ricorda che sei di passaggio > su una terra che non porta il tuo nome. Anche la tenda, come la casa, è esposta poi al rischio dell’esproprio. “Ci rendete stranieri nella nostra terra” si sente dire nel documentario No Other Land (2024) di Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal. Anche se “la distanza tra due case è a una fila di alberi”, ci si sente trattati come estranei e persino la lingua madre, che è “tutto ciò che resta a colui che è privato della sua patria” (Friedrich Hölderlin), punto massimo di contatto con le proprie radici e “casa” simbolica` alla quale tornare quando il resto è perduto, è costantemente posta sotto assedio. > Lasciatemi parlare la mia lingua Araba > prima che occupino anche quella. > Lasciatemi parlare la mia madrelingua > prima che colonizzino anche la sua memoria. Così la poetessa e attivista Rafeef Ziadah, nota per la sua poesia performativa, in cui parole e musica si fondono in un atto di resistenza per denunciare l’oppressione e l’oblio. > Mia madre è nata sotto un albero di ulivo > su una terra che dicono non essere più mia. L’ulivo: più di ogni altra, la pianta della Palestina. Cresce nei giardini delle case, le famiglie ne tramandano la cura da generazioni. Le olive si offrivano in dono; con l’olio, le nonne bagnavano il pane per sfamare i nipoti. E con lo stesso olio – fonte di ogni cura – si curavano le malattie. > Noi viviamo di olio. Siamo il popolo dell’olio. Loro invece tagliano gli olivi > e piantano palme. Hanno sradicato gli olivi. Non so perché odiano gli olivi e > piantano le palme. > (La Porta del Sole). Gli olivi si scorgono anche sullo sfondo di un celebre video, diventato virale, in cui la giornalista e attivista Muna Al-Kurd, ferma con i piedi nei confini del suo giardino, grida contro un colono israeliano: “Stai rubando la mia casa.” E il colono risponde freddamente: “Perché mi urli contro? Se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”.  Qualcuno potrebbe obiettare: è la guerra. Ma questa è una guerra che mira a cancellare le tracce, a riscrivere la geografia della memoria, e che non si accontenta di distruggere, ma vuole sradicare. Estirpare con la forza cieca di una ruspa. La stessa che ancora campeggia, inquietante, come immagine-simbolo sulla locandina di No Other Land. > Talvolta non resta nemmeno una casa a cui tornare. Solo tende: orizzonte > ultimo dell’esilio, dove l’idea stessa di abitare si riduce a un’ombra di > stoffa esposta al vento. Nel tentativo di spezzare l’intreccio tra le persone e i luoghi, tra la lingua e le radici, si inserisce anche il grottesco video generato dall’intelligenza artificiale e diffuso da Trump, dove Gaza è ridotta a un resort. Un luogo artificiale su un lungomare costellato di palme. Palme al posto degli olivi. Ma gli alberi, in Palestina, non sono solo alberi. Sono “costole d’infanzia”, come scrive Mahmoud Darwish. E la rimozione dell’olivo non è solo distruzione agricola: è simbolo di perdita radicale. È la cancellazione della storia, della terra e soprattutto dei diritti che vi erano radicati. In La porta del sole Yunis attraversa l’oliveto di Tarshìha e si rende conto che il “suo” olivo romano, testimone di ogni momento importante della sua vita e di quella dei suoi avi, non c’è più. Con l’albero antichissimo, cade anche la memoria viva della terra. > Yunis indossò il lutto per l’albero. Un sentimento di disorientamento, impotenza politica e frustrazione emerge quando si cerca di comprendere la realtà che stiamo vivendo. La maggior parte di noi non sa cosa possa significare “mettersi la guerra in bocca come fosse una gomma da masticare” quando sei poco più che un ragazzo. Questa distanza non si risolve informandosi o nel tentativo di partecipare al dibattito pubblico. Specialmente di fronte alla questione palestinese, la distanza tra ciò che si legge e ciò che realmente si riesce a comprendere sembra incolmabile. Per questo motivo, la letteratura diventa una risorsa, una “porta del sole” verso la complessità del mondo. Un modo per affinare empatia e consapevolezza, per esplorare ciò che travalica il nostro vissuto personale. La letteratura restituisce profondità a ciò che il discorso mediatico tende a semplificare e uniformare. Scrive Mourid Al-Barghouti che “a forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per raggiungerlo. Al-Barghouti rivendica con forza la necessità di non ridurre la Palestina a una pura astrazione. Ci ricorda come i palestinesi siano prima di tutto degli individui. L’occupazione ha creato “intere generazioni che non hanno un luogo in cui ricordare suoni e profumi”, generazioni “che non hanno mai coltivato, né costruito, né commesso neppure il più piccolo errore umano nella propria terra”, e ha trasformato la patria in un simbolo inchiodato al passato. Ma la patria non è un arancio, non è un ulivo. La patria è fatta di persone. > “A forza di sentire certe espressioni, sui giornali e sulle riviste”, alla > fine si finisce per pensare ai Territori Occupati “come a un luogo immaginario > alla fine del mondo”. E ci si convince che non esista nessun modo per > raggiungerlo. Un popolo, scrive ancora Al-Barghouti, cui sono stati tolti diritti e futuro, e a cui è stata “bloccata l’evoluzione delle società e delle vite”, impedendo lo sviluppo. La Palestina non è (o non è solo) “la questione inserita nei programmi dei partiti politici, non è un argomento di discussione”. Non è “la catenina che adorna il collo delle donne in esilio”. Non è “la prima pagina di apertura di un giornale”. Non è l’anguria esposta a una manifestazione. È invece un luogo “concreto come uno scorpione”, che ha “i suoi colori, una temperatura, e arbusti che crescono spontanei”. E gli insediamenti non sono costruzioni “fatte da bambini con i Lego”. Sono invece la diaspora palestinese. In La porta del sole c’è un passo in cui si dice che gli scrittori e gli intellettuali non combattono, ma piuttosto “osservano la morte, scrivono, e credono di morire”. È vero, la guerra ci passa accanto e noi, forse, ci “aggrappiamo a una poesia”. Pure, questa rimane ancora una forma importante per la verifica delle nostre qualità umane. Una risposta che possiamo darci alla domanda “Se questo è un uomo”. L'articolo La casa perduta proviene da Il Tascabile.
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