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Indagine sul dolore
“L a mia lingua era sbagliata”, scrive Maggie Nelson in Pathemata. O, la storia della mia bocca (2025), edito da Nottetempo e tradotto da Alessandra Castellazzi, un libro in cui l’autrice californiana racconta un decennio di dolore alla mascella. La lingua ‒ come organo ‒ sbagliata attiva una riflessione sull’inadeguatezza dell’altra lingua, quella letteraria, nel raccontare il dolore fisico. Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la relazione con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico e sociale in cui il suo gesto grafico si esprime. “I miei denti continuano a spostarsi”, scrive Nelson, e così avviene con il dolore che in Pathemata vive lo smottamento del lutto per la morte dell’amica C, il travaglio del parto, la gestione solitaria della malattia imposta dalla pandemia. Più che spostarsi nel corpo, il dolore sposta il corpo, lo muove da dentro, lo fa esistere. E fa esistere l’opera di Nelson, la fonda, la genera. L’autrice fa sua la visione del filosofo Byung-Chul Han secondo cui “Il dolore regge l’esistenza umana. È un organo percettivo che oggi abbiamo smarrito”. I sintomi della lingua “fatta di sangue” interrogano la lingua con cui Nelson scrive. Il libro diventa così un’anatomia del linguaggio che non ha un intento terapeutico della scrittura come cura, ma al contrario proietta l’io narrante verso fuori per far sentire al lettore l’esperienza del dolore. La malattia di Nelson non ha diagnosi. La cronicità allora diventa ossessione che viene tradotta in una forma letteraria. È stato più volte detto che è la frammentazione a caratterizzare la forma di Pathemata. Ma più che pezzi e schegge di un racconto, la scrittura di Nelson produce cerchi d’acqua: il dolore fisico è un sasso appuntito gettato in uno stagno; il cerchio prodotto da questo sasso si allarga sulla superficie intersecandosi con i cerchi degli altri sintomi. La superficie del testo è cosparsa di passaggi letterari ‒ più che di paragrafi ‒ collegati tra loro da una ricerca di senso e dalla produzione di immagini: come cerchi d’acqua, si intersecano e si dilatano nella mente del lettore. La profondità della riflessione letteraria di Nelson viene trovata nei sassi precipitati sul fondo che, durante la caduta verso la zona non controllata dalla mente, da dolori fisici diventano esistenziali. Come scrive Chul Han, il dolore è “la forza di gravità dell’esistenza” e dell’opera di Nelson. > Nelson fa parlare il corpo malato per indagare attraverso esso la relazione > con gli altri e la postura di una scrittrice nel contesto linguistico e > sociale in cui il suo gesto grafico si esprime. Superficie e profondità rimandano a sogno e realtà tra cui si compie la tensione comunicativa dell’autrice: “Proprio come nella storia dei sogni di Freud ‒ non è il sogno che conta, ma il racconto del sogno ‒ le parole che scegli, i rischi che corri nell’esternare la tua mente”, scrive Nelson. “Questa è la ‘cura della parola’ di Freud ‒ Freud, che morì di cancro alla mandibola, per cui si sottopose a più di trenta interventi chirurgici orali debilitanti e sfiguranti”. La dimensione onirica, però, non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque in cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è l’aspetto più terrificante del dolore: “L’unica cosa che mi spaventa più del dolore e della sua ferocia è il torpore, la paralisi”. “Al mattino è come se la mia bocca fosse sopravvissuta a una guerra”, scrive nell’incipit. Un cerchio d’acqua si allarga: il rapporto tra dolore e metafora su cui Susan Sontag in Malattia come metafora (1978) si è espressa nei termini di liberare il racconto della malattia dai pensieri metaforici. Sul terreno delle immagini si addentra invece Virginia Woolf che nel 1926 pubblica il saggio Sulla malattia. Per Woolf la malattia mette in crisi il linguaggio: “Basta che il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa perché il linguaggio si prosciughi di colpo”. Esiste una lingua letteraria del dolore diversa dal linguaggio scientifico della malattia? Secondo Woolf, abbiamo bisogno di “una lingua nuova, più primitiva, più sensuale, più oscena”. In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua letteraria: la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del corpo trovando nel linguaggio un esito non convenzionale. L’uso dei trattini riproduce il movimento di un dolore cronico che non si spezza, non frammenta, ma ritorna: c’è sempre anche quando non si sente. Il sintomo in Nelson è l’intenzione letteraria, l’istinto a narrare. La circolarità della costruzione narrativa ‒ i passaggi che costruiscono il flusso della storia ‒ parte da dentro. Il dolore anche quando è silente si sta raccontando. Negli intervalli tra un sintomo e l’altro il dolore continua a esserci. Diventa verticale, profondo, abissale. Questo movimento di caduta circolare in cui il dolore ritorna e si avvita su sé stesso si compie anche nell’estetica scelta dall’autrice: “Dico che C mi ha stretto la mano, ma in realtà l’incidente le ha tolto la presa delle dita; perciò, è più come se formasse una culla in cui la mia mano può riposare ‒ una Pietà in miniatura ‒ evocando il suo apprendistato giovanile nella lavanda dei piedi”. > La dimensione onirica non si esprime in una scrittura rarefatta. Le acque in > cui Nelson immerge il lettore sono scure e immobili. E l’immobilità è > l’aspetto più terrificante del dolore. Il linguaggio metaforico riproduce anche un suono grazie all’attento lavoro di traduzione di Alessandra Castellazzi che già in Bluets (2023), il precedente libro di Nelson, si era posta la questione di restituire al lettore l’esperienza musicale della lingua della scrittrice di San Francisco. A questo proposito Woolf scrive: “Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato superficiale, comprendiamo istintivamente questo, quello e quell’altro ‒ un suono, un colore, qua un accento, là una pausa”. Per Woolf la poesia esprime meglio della prosa l’urgenza comunicativa della malattia. In questo senso i passaggi letterari di Pathemata risuonano come versi di una lunga poesia, un cerchio d’acqua vibrante, sensuale, enigmatico, carico di attrazione verso l’esperienza del dolore: “Rinunciare all’enigma del dolore non è facile”, scrive Nelson. Secondo il filosofo Hans Georg Gadamer, la salute è silenziosa, è la malattia a determinarla “come ciò che si oggettiva da sé e che ‘ci viene incontro’, in breve ‘ciò che ci invade’”. La scrittura di Nelson come il dolore ci viene incontro, ci invade, avvolge, disturba: “dieci anni fa un’equipe medica rimuoveva una ciste del mio ovaio sinistro, contenente ‒ come speravamo ‒ soltanto capelli, denti e globuli di grasso, la creazione aggrovigliata di un figlio delle fate. È più difficile operare sulla parte del corpo responsabile della masticazione e della produzione del linguaggio. Specialmente se nessun esame ha rivelato una putrefazione”. > In Nelson il dolore aggredisce la lingua fisica e deforma la lingua > letteraria: la creazione artistica avviene a partire dalla sensazione del > corpo trovando nel linguaggio un esito non convenzionale. L’anamnesi della doppia lingua tracciata da Nelson si fa idioma corporeo confondendo il genere del testo, che non può definirsi un diario, né un saggio, né un memoriale. Nelson restituisce il “corpo come memoriale”, concetto elaborato dall’antropologa Mariella Pandolfi: “Nel corpo un reticolo di tracce inscrivono una sorta di memoriale che sembra rispondere ad altre logiche simboliche”, scrive la studiosa, “un corpo che diventa ‘memoriale’ e in cui la storia esterna e il vissuto interno di essa si iscrivono”. Qui sta la sperimentazione della scrittrice californiana: non scrivere un memoriale ma scrivere con il corpo come memoriale: > consento all’arazzo di allargarsi, intrecciandovi i miei primissimi trascorsi > con la logopedia, i miei eterni problemi di tonsillite, le mie avventure > adolescenziali con l’ortodonzia, le precedenti radiografie all’apparato > digerente superiore e le infiammazioni all’articolazione temporomandibolare, > lo svezzamento di mio figlio, la perimenopausa, i fattori di stress domestici, > il ruolo letterario e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice. Secondo Chul Han, nella nostra epoca caratterizzata da “una algofobia, una paura generalizzata del dolore, […] un’anestesia permanente, nulla deve più far male”. Anche nell’arte. “I prodotti culturali”, scrive il filosofo, “devono assumere una forma che li renda consumabili, cioè compiacenti”. Accade anche in letteratura, ma Pathemata va in altra direzione: è un libro che fa male perché non offre alcun rimedio al dolore. Il dolore cronico non insegna nulla. Nelson ha agito nella scrittura quanto diceva Adorno: far diventare eloquente il dolore come condizione di verità. Il dolore di Nelson è il modo di stare al mondo di questa scrittrice, di indagare significati che sarebbero stati inaccessibili se non avesse fatto esperienza della malattia. La verità letteraria toccata da Nelson è forse questa: il dolore è una forma allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi non sente l’immobilità fisica lancinante, a chi non vive la crisi della presenza demartiniana connessa al corpo malato, a chi non si sente in quanto malato estraneo a sé stesso (“una situazione fisica straniante”, scrive Nelson), a chi non ha smarrito la propria capacità di agire perché infermo, a chi non esperisce quella rottura drammatica dei sensi e delle percezioni da cui parte la narrazione. “È il dolore a mettere in moto il racconto”, secondo Chul Han. E nel caso di Pathemata a farsi “fantasia estetica”. Scrive Nelson: “Tra me e me penso: Non mi sento mai bene, non sto mai bene. C’è qualcosa di sistemicamente sbagliato in me, forse sono sistemicamente malata”. E qui l’autrice trasforma l’io narrante in personaggio letterario iscrivendosi nella tradizione del rapporto tra letteratura e malattia, da Dostoevskij che inizia Memorie del sottosuolo con: “Sono un uomo malato” a Kafka che nei suoi diari scrive: “Io volevo rimanere indipendente, non distratto dalla gioia di vivere che può trovare un uomo utile e sano”. Per Nelson come per questi scrittori forse la malattia attraverso la creazione di un linguaggio non convenzionale diventa un modo di vivere fuori dalle regole. > Il dolore è una forma allucinata e allucinante di conoscenza preclusa a chi > non sente l’immobilità fisica lancinante, a chi non vive la crisi della > presenza demartiniana connessa al corpo malato, a chi non si sente in quanto > malato estraneo a sé stesso. “C’è una foresta vergine in ognuno. […] Qui procediamo da soli, e ci piace di più così. […] nel mondo dei sani, la cortese finzione va mantenuta, e lo sforzo rinnovato ‒ per comunicare, per civilizzare, per condividere, per coltivare il deserto ed educare il selvaggio, per lavorare insieme il giorno e per spassarsela la sera. Nel mondo dei malati questa messa in scena si interrompe. […] Non più soldati nell’esercito degli eretti, diventiamo disertori”, scrive, a proposito dell’antagonismo del dolore, Virginia Woolf che si riempì le tasche di sassi per lasciarsi andare a fondo in un unico grande cerchio d’acqua, tracciando il destino simbolico delle scrittrici che ieri e oggi fondano nell’indagine letteraria sul dolore e sulla malattia, la loro ribellione. L'articolo Indagine sul dolore proviene da Il Tascabile.
Letterature
letteratura americana
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corpo
dolore
Prima digerire, poi raccontare
P er ogni dolore orofacciale c’è una clinica, per ogni clinica c’è una delusione e una cura e poi di nuovo una delusione; per ogni errore diagnostico c’è l’aggravarsi del dolore o l’avanzare di un fastidio diverso, nuovo e nuovamente raccontabile. Pathemata (2025) di Maggie Nelson è la testimonianza di una malattia per mano ‒ per bocca, cioè ‒ di una scrittrice. Il sottotitolo recita infatti: O, la storia della mia bocca. Ma se i denti, la lingua, il palato, la mandibola servono a masticare, triturare, e infine digerire ciò che entra nel corpo, allora questo è anche il racconto di una disfunzione narrativa: di un dolore che viene preso a oggetto del libro fin troppo letteralmente; di un’intossicazione romanzesca. Non è un caso che nel testo di Nelson non si parli quasi mai di cibo, di ciò che dovrebbe (potrebbe) alimentare quei due corpi che si sovrappongono continuamente: quello di carne e quello di cellulosa. In questa collana di patemi e paure ipocondriache, che luccicano come perle o, meglio, come i denti di un mostro nel buio di una camera da letto, Nelson ci guida dentro e fuori dalla fessura tra le sue labbra, continuamente: proprio come se fossimo la sua lingua, i suoi denti, il suo fiato o le sue parole; uno spiffero, un passaggio, tra le memorie della sua bocca. Facciamo avanti e indietro senza sosta, tra passato e presente, diagnosi e controdiagnosi, tra prima e dopo il Covid-19, prima e dopo un sogno movimentato da appuntarsi in dormiveglia. Il rischio però che il libro possa essere solo o poco più che testimonianza di un dolore ben localizzato ma inspiegabile resta molto forte. Specie se lo paragoniamo a Lo sbilico (2025) di Alcide Pierantozzi, un altro recente testo che parla (al maschile) di malattia, raccontata dal punto di vista privilegiato e claustrofobico di uno scrittore e che, appunto, molto più che Nelson, sfida tanto la forma del referto medico quanto quella romanzesca. > Se i denti, la lingua, il palato, la mandibola servono a masticare, triturare, > e infine digerire ciò che entra nel corpo, allora questo è anche il racconto > di una disfunzione narrativa: di un dolore che viene preso a oggetto del libro > fin troppo letteralmente; di un’intossicazione romanzesca. Ma basta anche pensare ad altri due titoli, per certi versi ancora più simili a quello di Nelson: Storia della mia lingua di Claudia Apablaza (2023) e La storia dei miei denti di Valeria Luiselli (2016). Titoli (e dolori) simili, soprattutto i primi due, ma su quello di Luiselli in particolare vale la pena soffermarsi: è infatti un romanzo che utilizza una forte voce narrante, quella di Gustavo Sánchez Sánchez, “il miglior banditore d’asta del mondo”, per costruire un’impalcatura romanzesca solida e piena d’inventiva. A partire dai suoi denti finti, incastonati, appartenuti un tempo a Marilyn Monroe (sic!), La storia dei miei denti si trasforma infatti in una serie di racconti incastonati tra le gengive di Gustavo e del lettore, per ricostruire una “collezione dentale” da battere all’asta come un geniale prodotto da collezione: il lotto 49 di Luiselli è infatti la dentiera che Gustavo decide di battere come solo un romanziere potrebbe fare. Sono i denti che la costituiscono ma sono anche i racconti che animano le pagine del libro: “Se ne avessi parlato come Svetonio narra la vita dei dodici cesari sarebbe stata tutta un’altra storia. Non racconti falsi, ma ispirati ad alcuni dei miei scrittori preferiti”. Non stupisce allora che il titolo del libro di Luiselli corrisponda esattamente a ciò che si trova al suo interno: storie meravigliose di singoli denti. Nel libro di Nelson, invece, non c’è affatto questa invenzione e alla parola “storia” del sottotitolo dobbiamo dare un significato metaforico, probabilmente metaletterario. Del resto, basta arrivare a p. 12 per capire che anche Pathemata parla di lingua e di bocca per parlare di altro: nello specifico, del “ruolo letterale e simbolico della bocca nella vita di una scrittrice”. Proprio nella sua “lingua”, visionaria e concreta (in una parola, appunto: letteraria), Pathemata è un libro esile ma “squilibrato, lercio, come una muffa che cresce sotto il coperchio di un barattolo di marinara”. Un piccolo libro pieno di pagine che “schizzano dalle crepe” di un corpo pulsante dal dolore e dal piacere masochistico di provare qualcosa; un corpo che si struscia a terra come Britney Spears nelle sue performances più disperate, fatte apposta per disgustarci e sedurci (“è come se una zampa ispida avesse frugato nel mio cervello e avesse tirato fuori questa macchia di gelatina”). Di una parola che spinge, spinge, spinge contro i nostri occhi come la lingua della protagonista da bambina spingeva contro il suo palato. > Pathemata diventa un libro sul rapporto tra interiorità e assimilazione: > succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme come la bocca > (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno dopo giorno > un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento sociale. Ma il fastidio alla mandibola, come ogni dolore profondo e sordo, è anche altro da sé: in questo caso, è ciò che impedisce l’alimentazione e quindi la digestione. Pathemata diventa così un libro sul rapporto tra interiorità e assimilazione: succede quando uno spazio intimo, domestico e sociale insieme come la bocca (per statuto luogo di confine, tra dentro e fuori) diventa giorno dopo giorno un’istanza di pericolo e mostruosità; di solitudine, di isolamento sociale. La domanda che ci pone è, cioè: cosa succede se non sappiamo più trasformare ciò che ci accade? Se siamo solo bocche che parlano, e non stomaci che elaborano? Il mostro in camera da letto, suggerisce il libro, potremmo essere proprio noi. O, dice Nelson, peggio ancora: noi scrittori. Quelli che continuano a parlare d’altro solo per non dire che non sappiamo più dire. Come se scrivere fosse ormai solo un atto orale bloccato a metà tra la masticazione e il rigetto. La protagonista di Pathemata ha un’amica che dopo aver assunto un farmaco sperimentale defeca i pasti esattamente come li ha ingeriti: “gli escrementi uscivano come pasti completi, ogni boccone riconoscibile per quello che era stato al momento di ingerirlo. Potevi rimetterlo su un piatto e servirlo, mi dirà”. Ecco la domanda che Pathemata pone con più forza: cosa succede se anche la scrittura diventa così? Se anche noi abbiamo ingerito un farmaco che ci fa defecare il dolore così com’è, senza digerirlo? Se raccontiamo solo per ripetere, e non per trasformare? Forse la colpa è del Covid: “la pandemia sta uccidendo il caso, la coincidenza, la sorpresa, lo straniamento ‒ in poche parole, tutte le condizioni che rendono possibile la magia” (leggi: la scrittura)? E, a onor del vero, la protagonista ci prova a resuscitare quella magia. Lo fa osservando per una volta un’interiorità che non sia la sua propria: così, inizia a osservare la lavastoviglie. > Esamino i gusci d’uovo rimasti incastrati nel braccio girevole, > l’imperscrutabile disco d’argento che galleggia all’ombelico della macchina. > Mi chiedo se potrei rendere interessante la lavastoviglie grazie alla pura > forza dell’attenzione. Ma è tutto inutile, dopo una breve fase d’entusiasmo la magia non è ancora tornata. La scrittrice sa essere solo una mandibola intorpidita, un muscolo orofacciale paralitico, dei denti che perdono contatto gli uni con gli altri. La bocca, del resto, non è solo l’organo della parola: è il luogo dove la parola incontra il limite del corpo. Se i denti sono la parte più dura e affilata, Pathemata ci ricorda che anche loro si consumano, si spezzano, scricchiolano. Come la lingua; come la scrittura. Ed è proprio qui, però, che il libro barcolla: Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa, dolorante ‒ e raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria. Manca l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua. Proprio qui si gioca il confine tra vulnerabilità e vittimismo, tra scrittura del dolore e dolore come alibi per non provare a inventare altro. Inventare, digerire, trasformare. E poi servire. Sa farlo ancora Nelson? Sanno farlo ancora le scrittrici? E soprattutto: sappiamo farlo noi? > Maggie Nelson resta fin troppo fedele alla sua lingua ‒ precisa, dolorante ‒ e > raramente osa immaginare deviazioni dalla propria traiettoria. Manca > l’invenzione, la storia, che dia al dolore una seconda bocca: insomma, una > lingua che non sia solo ‒ letteralmente ‒ la sua. Eppure, quel ventre sporco ‒ la lavastoviglie ‒ su cui la protagonista riversa invano per un istante i suoi sforzi poetici, apre a un’altra interpretazione. In queste “sessantamila battute di cronologia del […] dolore”, infatti, riaffiora anche un tema laterale ma persistente: la maternità, la creazione, il parto. I denti parlano anche di questo. La protagonista stessa lo rivela in più punti: > Provi a non pensare la mia lingua è troppo grande per la mia bocca ma, > piuttosto, il mio palato è troppo stretto per la mia lingua, ha detto il > dentista specializzato in taping notturno. […] (Che cos’è poi un palato?) Mi > ha ricordato di quando i dottori erano preoccupati per le dimensioni del > bambino nel mio utero. Il corpo di una scrittrice è sempre troppo o troppo poco. In Pathemata, Nelson è una bocca, un utero, una figlia (un dentro), che riesce a riprendere contatto con il suo fuori solo nelle ultimissime pagine, quando cede nuovamente alla richiesta di una psicoterapeuta che, prima, non aveva voluto affatto ascoltare: quando, cioè, assume il punto di vista del padre defunto per assolversi dalle proprie colpe, per sentirsi orgogliosa nonostante questo stallo nella scrittura, questo fastidio orofacciale. Per tornare insomma madre, scrittrice. Allora, “il divario tra la mia esperienza interiore e le statistiche esteriori del mio corpo” (una sorta di Sbilico, in effetti, tra dentro e fuori) non è più un abisso ma una possibilità narrativa: un principio regolatore, come il respiro di chi mastica piano o, appunto, la contrazione di un utero in travaglio. L'articolo Prima digerire, poi raccontare proviene da Il Tascabile.
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