I l 25 marzo 2023, sui terreni agricoli nei pressi del piccolissimo comune di
Sainte-Soline nell’Ovest della Francia, quasi trentamila manifestanti si sono
scontrati con tremiladuecento gendarmi e poliziotti francesi. La “battaglia di
Sainte-Soline” è stata il culmine di due anni di proteste del movimento dei
Soulèvement de la Terre. La manifestazione, non autorizzata dal governo,
contestava la costruzione di un megabassine, uno dei duecento bacini idrici,
grandi fino a diciotto ettari, voluti dalla grande industria agricola francese
per garantirsi le riserve d’acqua durante i mesi di siccità.
Il progetto, tuttora in fase di attuazione, rischia di avere effetti devastanti
sull’agricoltura: i megabassines raccolgono acqua drenandola dalle falde durante
l’inverno e, di conseguenza, danneggiandole; sono costruiti allo scopo di
irrigare le colture intensive, specie quelle del mais, che richiedono un volume
di acqua superiore a quella naturalmente garantita dai cicli stagionali; fanno
l’interesse esclusivo della grande industria e sono progettati senza tenere
conto della volontà di chi abita quei territori.
Il dispiegamento di forze di polizia quel giorno era enorme, la loro dotazione
di armi adatta a una vera e propria guerriglia: elicotteri, equipaggiamenti
antisommossa, veicoli blindati, cannoni ad acqua, granate. Centinaia di
manifestanti sono stati feriti, alcuni in modo grave, altri gravissimo. Venti
persone sono state mutilate, due sono finite in coma. Dopo la battaglia, i
Soulèvement de la Terre sono stati sciolti dal ministro dell’interno Gérald
Damarnin e dichiarati illegali.
Nato in Francia nel 2021 per contestare le politiche ambientali ed energetiche
del governo Macron e, più in generale, per manifestare in favore di un nuovo
modello sociale ed economico attorno alle questioni che riguardano l’ecologia,
lo sfruttamento del suolo, l’accumulo di risorse e di materie prime, il
movimento riunisce militanti e agricoltori locali e raccoglie la solidarietà di
altri gruppi nazionali ed esteri. Tra il 2021 e il 2023 i Soulèvement de la
Terre hanno organizzato cortei, presidi, azioni di sabotaggio a grandi impianti
e siti di estrazione di materie prime, subendo la progressiva repressione del
governo francese.
> L’Abbecedario permette di riflettere sull’uso del linguaggio in politica
> laddove non si ha a che fare con questioni particolari o identitarie, ma
> collettive e strutturali.
In risposta ai fatti del marzo 2023 è stato pubblicato On ne dissout pas un
soulèvement (“Non si scioglie una rivolta”), tradotto per Orthotes da Giovanni
Fava e Claudia Terra con il titolo Abbecedario dei Soulèvement de la Terre alla
fine del 2024. L’Abbecedario è una raccolta di trentotto brevi interventi di
militanti dei Soulèvement e dei movimenti solidali. Ogni testo è scritto a
partire da una parola chiave: disposte in ordine alfabetico, le parole formano
una costellazione di posizioni e analisi politiche, fino a comporre il manifesto
del movimento stesso. Leggere l’Abbecedario permette di riflettere su quali sono
le questioni pratiche e urgenti che i cambiamenti climatici ci imporranno di
risolvere nell’immediato; su come si organizza la resistenza a scelte politiche
che perpetrano un sistema economico insostenibile; sull’uso del linguaggio in
politica, specie laddove non si ha a che fare con questioni particolari o
identitarie, ma collettive e strutturali.
Partiamo dall’ultima questione. Come dicevamo, l’Abbecedario riunisce interventi
eterogenei, tanto nella forma quanto nei contenuti: la Confédération paysanne,
una confederazione di sindacati che tutelano il lavoro di piccoli agricoltori,
firma la voce “Contadine e contadini”; il collettivo di scienziati Scientifiques
en rébellion scrive di “Urgenza climatica”; gli antropologi Philippe Descola,
titolare della cattedra di antropologia al Collège de France, e Eduardo Viveiros
de Castro, professore universitario a Rio De Janeiro, parlano di
“Accaparramento” e “Indigeno”; la direttrice delle ricerche al CNRS di
Montpellier Virginie Maris firma “Ecofemministe”.
Questo elenco parziale rende l’idea della varietà non solo di temi – il
manifesto tiene insieme questioni architettoniche, sociali, geologiche,
ambientali – ma anche delle molte soggettività che compongono il movimento.
Proprio nella “composizione” sta il farsi soggetto collettivo dei Soulèvement de
la Terre: l’Abbecedario non sintetizza né distingue le varie posizioni, le fa
coesistere e le tiene insieme. Al fondo di ogni testo, la formula “cfr. anche”
rimanda ad altri due o tre interventi nello stesso libro. In questo modo,
l’Abbecedario si può leggere sia in ordine alfabetico sia per connessioni
tematiche, attraversando la rete di posizioni che forma l’impalcatura teorica
del movimento.
Che lingua parla, o deve parlare, la politica militante? È una questione di
enorme importanza, se si tiene conto della strutturale subalternità che i
movimenti sociali di sinistra hanno in relazione all’opinione pubblica, non
tanto per le proposte in sé, spesso largamente condivisibili e condivise, anche
inconsciamente, da moltissime persone, quanto per la loro immagine, per la
narrazione, l’idea che se ne costruisce nel dibattito. L’Abbecedario contiene
molti registri diversi. In alcuni passaggi, ad esempio, la lingua è assertiva,
quasi imperativa:
> Continuare a fare ciò che conosciamo, fare l’inventario dei siti in cui sono
> previsti progetti distruttivi. Rafforzare i nostri legami con gli avvocati.
> Supportare la rete di associazioni militanti. Denunciare gli abusi della
> società di consulenza. Politicizzare le nostre camminate nella natura.
> Diffondere le pratiche naturalistiche. Federare le comunità umane e non umane.
> Disertare. Insediarsi in campagna.
Il brano è contenuto nel capitolo “Naturalistes de Terre”, la lista dei
comandamenti prosegue ancora. Allo stesso tempo, la lingua sa essere
immaginifica, creativa, ironica, come nella “Ricetta per le mense militanti”:
Per cominciare bene, portare a ebollizione in un’assemblea generale gli addetti
e le addette alla mensa per organizzare la giornata di cucina […]. Raggiunto il
bollore, non dimenticate di creare una squadra d’attacco di lavaggio stoviglie e
un’équipe per lo spuntino. Una volta emulsionata a puntino, l’équipe parteciperà
alla manifestazione e rifornirà i manifestanti nel cuore dell’azione, in modo
che tutte e tutti possano recuperare le forze.
In alcuni capitoli si citano dati e percentuali, alcuni contengono persino note
con riferimenti bibliografici, in altri si lascia spazio alle metafore e alle
costruzioni allegoriche. I campi semantici più ricorrenti riguardano la natura
(“essere albero”, “avere radici”, “ramificare”, “creare/appartenere a
ecosistemi”), o il corpo, ad esempio nel rapporto chimerico tra corpo umano e
suolo o tra uomini e animali non umani: “Avere cura delle lotte significa curare
le nostre interdipendenze e le nostre co-affezioni attraverso
personificazioni-chimere, come uomo-anguilla-fiume o umano-tritone-prato”;
“Siamo l’Acqua che si difende e siamo pronti a sommergervi”. La Terra stessa è
personificata in “Gaia”, nome che rimanda a un’idea armoniosa del rapporto tra
uomo e natura. Non manca, ovviamente, il campo semantico del conflitto: le
grandi opere si “disarmano”, le azioni di sabotaggio dei cantieri si fanno per
“autodifesa”, le risorse naturali sono terreno di “conquista”.
> Proprio nella “composizione” sta il farsi soggetto collettivo dei Soulèvement
> de la Terre: l’Abbecedario non sintetizza né distingue le varie posizioni, le
> fa coesistere e le tiene insieme.
Che la lingua sia un campo di battaglia politica, un dispositivo attraverso cui
si stabiliscono le appartenenze, si delimitano i confini dell’identità, si
tracciano le linee di inclusione ed esclusione, è ormai un dato evidente a
chiunque. Più sotterraneo, per ora, è l’uso che si fa della lingua quando si ha
a che fare con questioni sociali. Sempre più repressivo è l’uso dei termini che
identificano i manifestanti politici: qualcuno saprebbe definire chiaramente chi
sia oggi per la legge italiana un “terrorista”? Ogni parola usata nel discorso
politico è oggetto di contesa: dire “ecologista”, “militante”, “resistente”,
“attivista” non è mai neutro, è una scelta di campo.
Anche in Italia il vocabolario istituzionale che definisce le forme di dissenso
è sempre più vago e opaco, e proprio per questo sempre più pericoloso. Categorie
giuridiche nate in contesti storici completamente differenti – pensiamo alla
nozione di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” – vengono oggi
applicate a gruppi ambientalisti o a reti di movimento che contestano
infrastrutture fossili, come i rigassificatori o i metanodotti. Il concetto
stesso di terrorismo viene stirato, piegato, fino a includere chiunque eserciti
un conflitto non autorizzato, chiunque pratichi una forma di opposizione fuori
dai canali istituzionali. Il problema, allora, è anche semantico: è nel potere
di chi assegna i nomi. Se la narrazione istituzionale è capace di imporre
un’etichetta, può cancellare la complessità, fino a devitalizzare il conflitto e
a evitare ogni confronto.
In questo contesto, la riflessione linguistica diventa una questione politica
primaria. Come ci chiamiamo? Come vogliamo essere chiamati? Quali parole ci
vengono imposte, e di quali ci possiamo riappropriare? La battaglia non si gioca
solo nelle piazze o nei tribunali, ma anche nei modi in cui parliamo delle
piazze e dei tribunali. E anche nei modi in cui parliamo tra di noi. Per questo
l’Abbecedario è un oggetto prezioso: perché costruisce una lingua comune senza
imporla. Perché mostra che si può parlare da posizioni diverse, con stili
diversi, ma in una stessa direzione, rompendo la gerarchia tra chi pensa e chi
agisce, tra chi scrive e chi lotta.
Il fatto che l’Abbecedario dei Soulèvement de la Terre sia stato scritto dopo
Sainte-Soline indica che non si tratta di un programma d’azione, ma del
tentativo di capire retroattivamente – con le parole e le forme del pensiero –
ciò che era già stato fatto. Prima il corpo, poi la lingua; prima l’urto, poi la
sintassi. Se la politica dei Soulèvement ha avuto nella presenza fisica, nella
disobbedienza, nel gesto collettivo la sua prima articolazione, è soltanto dopo
lo scontro che si è resa necessaria la costruzione di una grammatica.
L’intelletto viene a posteriori, come forma di sedimentazione, e non come
architettura previa. Questo sovvertimento delle logiche tradizionali del
pensiero militante è forse la chiave più potente dell’Abbecedario: l’azione non
è giustificata dalla teoria, ma la precede. E la teoria non ha lo scopo di
spiegare, ma di accompagnare. Non è una strategia, è una cura.
> Ogni parola usata nel discorso politico è oggetto di contesa: dire
> “ecologista”, “militante”, “resistente”, “attivista” non è mai neutro, è una
> scelta di campo.
In questo senso, l’Abbecedario non è un libro che prepara alla lotta: è il libro
che resta dopo la lotta. E proprio per questo è tanto più prezioso per chi lotta
oggi, altrove. Perché offre un esempio, non un modello. Perché si può prendere,
leggere, copiare, piegare, adattare. E perché contiene una forma di intelligenza
collettiva che non si propone come verità, ma come gesto in comune. In un tempo
in cui la repressione del dissenso si fa ogni giorno più pervasiva, anche in
Italia, e in cui la distanza tra il gesto politico e la sua rappresentazione
pubblica è abissale, l’Abbecedario diventa un oggetto strano e vitale. Una forma
di sapere che non pretende egemonia, ma relazione.
Se oggi chi dissente in modo organizzato – che si tratti di studenti, attivisti
per il clima, operai o lavoratori della cultura – viene schedato, manganellato,
perquisito, accusato di terrorismo, allora ogni parola è già azione, ogni
linguaggio condiviso è già una forma di resistenza, e la pluralità di registri
dell’Abbecedario rispecchia la molteplicità delle condizioni in cui oggi il
dissenso prende corpo: università, assemblee cittadine, campagne, festival,
accampamenti, piazze occupate, reti sindacali, collettivi scientifici.
Questa traiettoria – dall’azione al pensiero, dalla militanza al discorso – è
visibile anche altrove. Nel lavoro teorico di Andreas Malm, ad esempio,
l’urgenza dell’azione contro il cambiamento climatico è posta in forma
dialettica con il pensiero marxista. Come far saltare un oleodotto, pubblicato
in Italia da Ponte alle Grazie nel 2023, è forse l’esempio più esplicito di come
oggi la teoria non possa più restare neutra, e non possa più limitarsi a
descrivere il mondo senza prendere parte alle sue trasformazioni. Malm, come i
Soulèvement, parla delle azioni di sabotaggio (meglio dire “disarmo”) delle
grandi opere come strumento essenziale di lotta climatica e della “violenza”
contro i grandi soggetti industriali come l’unica via per contrastare un sistema
iniquo. Così facendo, l’autore costruisce una giustificazione teorica per gesti
che il sistema giuridico classifica come criminali. E che invece, nella logica
del collasso ambientale, sono azioni di tutela della vita.
La tutela dell’acqua pubblica, il contrasto alla siccità, l’abbandono di un
modello produttivo iniquo sono questioni che non possiamo più ignorare né
sminuire. D’altronde, sono moltissimi gli esempi di letteratura in proposito,
persino troppi in relazione a quanto effettivamente viene fatto dalla politica.
È inquietante, non devo essere io a notarlo ed è persino banale ripeterlo, la
discrasia tra quanto sappiamo e quanto facciamo in merito alla tutela del nostro
ecosistema e degli altri che contribuiamo a invadere o a distruggere.
> L’Abbecedario mostra che si può parlare da posizioni diverse, con stili
> diversi, ma in una stessa direzione, rompendo la gerarchia tra chi pensa e chi
> agisce, tra chi scrive e chi lotta.
Il filosofo giapponese Saito Kohei, nella sua ultima rilettura di successo del
Capitale, pubblicata in Italia da Einaudi, propone un ecomarxismo della
decrescita, vedendo nella rinuncia alla crescita per come è comunemente intesa
in Occidente l’unica possibilità di liberazione. Anche in questo caso il
discorso si fa politico non perché descrive una struttura, ma perché disegna
un’alternativa. Un’ipotesi concreta, capace di parlare non solo agli attivisti
ma anche ai cittadini, ai lavoratori, a chi subisce la crisi climatica senza
strumenti per interpretarla. La teoria non può più essere la premessa
dell’azione: deve essere la sua eco. E proprio come un’eco, portare con sé la
memoria del gesto e allo stesso tempo la sua trasformazione. È un gesto che si
riflette, si moltiplica, si adatta ai contorni di chi ascolta.
L'articolo Che lingua parla la politica militante? proviene da Il Tascabile.
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L a prima volta che ho notato il nome Pierre Fabre non è stato su un cartellone
pubblicitario o su un titolo di giornale, ma sul bordo di un lavandino. Era
nella casa dei miei zii di Lione, sul tubetto di un dentifricio. Stava lì, con
una grossa impronta nel mezzo, e la scritta Laboratoire Pierre Fabre sbiadita
dall’uso. Perciò, quando anni dopo mi sono ritrovata a leggere del
coinvolgimento della Pierre Fabre nella costruzione di un’autostrada molto
contestata nella regione di Castres, non ho potuto non provare un distratto
senso di familiarità. Nelle case francesi, Pierre Fabre potrebbe essere ovunque
e da nessuna parte, considerato appena eppure ben conosciuto.
L’imprenditore da cui prende il nome la casa farmaceutica è infatti un volto
noto per la Francia, Pierre Jacques Louis Fabre ha aperto il suo primo
laboratorio nel 1961 e ha un curriculum abbastanza tipico della grande
imprenditoria di quegli anni: un impero in crescita, la proprietà temporanea di
un club di Rugby e un’attività di beneficenza. Magnate, mecenate e filantropo.
Nel 1999 l’imprenditore ha infatti prestato il proprio nome a un’altra entità,
la Fondation Pierre Fabre il cui scopo è la diffusione di medicine di qualità
nei Paesi del Sud del mondo. Non sembra perciò così assurdo immaginare in che
modo il desiderio di Fabre di lasciare il proprio nome inciso nella storia possa
essere stato solleticato dall’idea di estenderlo a un’opera infrastrutturale,
qualcosa di monumentale e tangibile come quella di un’autostrada.
L’occasione si è presentata negli anni Novanta, quando la posizione dell’azienda
era già più che salda nell’imprenditoria francese, con il completamento della
A680. Fabre ha quindi proposto la costruzione di un altro tratto autostradale di
circa 53 km che connettesse Tolosa e Castres, collegando direttamente la A680
alla A68, la A69. Un nuovo raccordo autostradale, quindi, che prevede la
conversione di parte di una strada nazionale (la N126) in una a pedaggio e che
avrebbe come beneficio stimato la capacità di ottimizzare di un quarto d’ora il
percorso. Quindi, velocizzare l’arrivo agli stabilimenti Fabre della zona. Per
trasformare l’idea in realtà, l’iter progettuale di Fabre si è concentrato sin
dall’inizio su un’intensa campagna lobbistica, sfruttando le proprie conoscenze
nell’alta politica francese. Così, quei 53 km di raccordo sono entrati
nell’agenda politica della Francia, diventando oggetto di un dibattito che, più
di tutto, sembra aver confermato il supporto all’imprenditoria in generale, e a
Fabre in particolare, più che un reale interesse nella A69.
Tant’è che nel 2010, sotto la presidenza Sarkozy, è arrivata la concessione
ufficiale a firma dell’allora ministro per l’Ecologia Jean-Louis Borloo, su
intercessione dello stesso primo ministro François Fillon. Addirittura, dopo la
morte di Fabre, nel 2013, il presidente François Hollande ha espresso rammarico
per la mancata ultimazione dei lavori. A suo dire, la A69 avrebbe già dovuto
essere inaugurata. Completata prima che il suo ideatore morisse. I lavori,
infatti, hanno incontrato sin dall’inizio ostacoli difficilmente sormontabili e
che, ancora oggi, non hanno permesso che la A69 superasse lo stadio di cantiere.
Autorizzazione e delibere, infatti, sono state valutate e concesse senza tener
conto di un elemento cruciale, ovvero la volontà degli abitanti della zona.
Dalla loro prospettiva, ad esempio, anche il guadagno temporale ha un risvolto
insostenibile proprio perché, oltre a prevedere un pedaggio pari a 17 euro,
sembrerebbe riguardare non tanto le singole persone cittadine, né tantomeno
quelle che lavorano negli stabilimenti, quanto piuttosto i trasporti industriali
da e per gli stabilimenti.
> Quei 53 km di raccordo sono entrati nell’agenda politica di Francia,
> confermando il supporto all’imprenditoria in generale, e a Fabre in
> particolare, più che un reale interesse nella A69.
Lo scontento locale non si limita alla singola spesa, ma all’impatto complessivo
della costruzione: eppure, non ha trovato riverbero nelle autorità politiche
che, anzi, nel 2018, già nel mandato presidenziale di Emmanuel Macron, hanno
dichiarato l’autostrada un progetto di pubblica utilità per poi aprire la gara
d’appalto. Il bando è stato aggiudicato a NGE group, che ha creato la società
Atosca per portare a compimento questo specifico progetto, il cui costo
complessivo è stato stimato in circa 450 milioni di euro, di cui 23 in fondi
pubblici. Il piano di lavoro, però, per quanto apparecchiato, è ancora in
stallo. Diverse associazioni, tra cui Les amis de la Terre, France nature
environnement, Extinction rébellion France, sono intervenute e altre si sono
formate, come il Collectif a69-Non à l’autoroute!, per denunciare l’impatto
ambientale del progetto e difendere il territorio.
Uno degli effetti immediati della costruzione, infatti, prevede la
deforestazione di circa 400 ettari di foresta che, oltre a essere una perdita
immediata in termini di salute ambientale, costituiscono ‒ come tutto l’ambiente
intorno al cantiere ‒ l’habitat di circa 157 specie di animali non umani, di cui
23 protette, che saranno, inevitabilmente, a rischio. L’abbattimento
preventivato di circa 200-260 alberi e la distruzione di circa 22 zone umide
comportano serie modificazioni idrogeologiche, tali per cui la compensazione
promessa risulta poco credibile ed efficace, in quanto non in grado, in effetti,
di restituire la complessità di un ecosistema che risulterebbe fisicamente
rimosso.
Nel 2023 lo sciopero della fame ‒ e poi della sete ‒, durato complessivamente 39
giorni indetto da Thomas Brail del National Tree Surveillance Group e da altre
persone attiviste che avevano occupato gli alberi per evitarne l’abbattimento,
culminato con l’ospedalizzazione di Brail, ha portato a una sospensione
effettiva dell’ordine di abbattimento. Ma non solo: la presenza massiccia di
gruppi ambientalisti, come Soulèvements de la Terre, ha permesso un lavoro che,
partendo dalle proteste è potuto intervenire a più livelli, compresi quelli
istituzionali, con la presentazione di ricorsi e richieste formali di
sospensione dei lavori. L’eco generata dal gesto di Brail e delle altre persone
scioperanti aveva interessato i media nazionali, portando alla ribalta le
proteste e i motivi per cui si sono rese necessarie. Al punto che, sempre nel
2023, le motivazioni delle autorità a favore della costruzione della A69 sono
state addirittura soppesate da 1500 scienziati, tra cui alcuni membri dell’IPCC
(Intergovernmental Panel on Climate Change), che con un articolo apparso su
L’obs si sono schierati a favore dei gruppi in protesta definendo l’A69 “uno di
quei progetti che devono essere abbandonati”.
(fot. Saverio Nichetti)
Infatti, i guadagni promessi sono piuttosto aleatori. In primo luogo; la A69 non
rappresenta un valido modello per ridurre il traffico e quindi le emissioni,
proprio perché incentiva il trasporto privato a discapito di quello pubblico.
Secondariamente, sempre secondo le analisi presentate nell’articolo, la strada
viene definita come “un progetto socialmente ingiusto”, in quanto andrebbe a
costituire la seconda autostrada più costosa di Francia. Infine, gli scienziati
hanno fatto presente che il disboscamento con successiva compensazione non può
essere considerato un modello valido. La piantumazione di alberi giovani in un
altro ambiente non è materialmente in grado di compensare per l’equilibrio
ambientale generato da una foresta di alberi adulti, ma soprattutto, per la
capacità degli ambienti selvatici di preservare la biodiversità di un
territorio. Ma non solo: l’autorità ambientale e il CNPN (Conseil National de
Protection de la Nature) hanno dichiarato il progetto ampiamente incompatibile
con gli obiettivi della Francia in materia di emissioni e neutralità climatica.
Nonostante le obiezioni scientifiche e l’opposizione crescente, la repressione
non è arretrata, anzi.
> L’autostrada sarebbe la seconda più costosa in Francia, definita per questo
> “un progetto socialmente ingiusto”. Ma non solo: l’autorità ambientale e il
> CNPN hanno dichiarato il progetto ampiamente incompatibile con gli obiettivi
> della Francia in materia di emissioni e neutralità climatica.
Lo scorso anno, ad esempio, gli scontri sono stati prolungati e mal incassati
dalla polizia antisommossa francese, il CRS (Compagnies Républicaines de
Sécurité), che si è trovato con qualche camionetta in fiamme, nonostante
l’impiego ingente della forza bruta. Quest’anno, per evitare lo scontro
ravvicinato e diretto con le persone manifestanti, oltre allo schieramento
massiccio di agenti, con annessi controlli e perquisizioni costanti in tutta la
zona limitrofa al campeggio, le forze dell’ordine francesi hanno utilizzato
metodi di repressione della folla a lungo raggio con un’assiduità che ha
trasformato la marcia, la turbo teuf, in una resistenza a un assedio. La
manifestazione è stata dapprima circondata su tre lati, per poi essere colpita
da una pioggia di dissuasori urticanti, irritanti e da shock, e infine attaccata
alle spalle, passando proprio dal bosco che costituiva l’unico spazio non
occupato dalle forze dell’ordine. L’impiego di lacrimogeni e granate stordenti
si è protratto per diverse ore, rendendo l’aria più che irrespirabile persino
nei giorni successivi e lasciando uno strascico che avrà, inevitabilmente,
effetti sulla fauna che abita i boschi limitrofi agli scontri.
Un aumento della tensione e del tentativo di reprimere le proteste, resosi
necessario per l’efficacia delle proteste stesse e per la validità delle
rivendicazioni supportate dalle autorità scientifiche. Eppure, nemmeno il parere
degli esperti sembra poter essere decisivo. Il via libera ai lavori era rimasto
in essere fino alle proteste del 2024, dopo le quali era stato preso in esame.
In particolare, il 27 febbraio di quest’anno, il Tribunale amministrativo di
Tolosa ne ha annullato l’autorizzazione esprimendosi in merito al ricorso
presentato dalle associazioni ambientaliste e ritenendo che i benefici del
progetto fossero insufficienti rispetto ai danni ambientali prospettati. Il
governo francese si è quindi trovato a rilanciare un appello sostenendo con
forza la presenza di un interesse nazionale di forza maggiore ‒ lo stesso
contestato dai 1500 scienziati su L’obs ‒ e sostenendo che l’annullamento
definitivo dei lavori avrebbe potuto compromettere future implementazioni della
rete infrastrutturale francese. Quindi, il 28 maggio, lo stesso tribunale
amministrativo ha concesso una “sursis à exécution”, cioè una sospensione
dell’esecuzione della sentenza. Il Tribunale ha convenuto sul fatto che
l’interesse di forza maggiore sia sufficiente a ripristinare le concessioni
ambientali annullate, permettendo, di fatto, la ripresa dei lavori. Le pressioni
governative hanno quindi avuto la meglio, al momento, sulle valutazioni
territoriali. L’opposizione, però rimane forte.
La zona contesa, infatti, è una ZAD (Zone Á Défendre), e cioè una zona in cui
agiscono persone contrarie alla devastazione ambientale provocata dai grandi
progetti infrastrutturali e dai loro cantieri. Il nome deriva dall’acronimo
usato in campo edile per designare un cantiere: Zone d’aménagement différée,
letteralmente zona di sfruttamento differita. Il termine è stato quindi ripreso
e rivendicato da gruppi di persone attiviste ‒ dette zadiste ‒ il cui obiettivo
è reclamare territori e spazi sottraendoli alla speculazione economica e
risparmiando loro il danno ambientale, sociale e politico. Le ZAD non hanno come
unico scopo la preservazione dell’ambiente, ma anche la rivendicazione
dell’umanità come parte integrante di questa natura. La tradizione delle Zone
difese in Francia è molto lunga, sintomo di una lotta ecologista profondamente
radicata nel territorio, ma anche nel futuro. La ZAD più celebre è quella che,
nel 2018, ha impedito la costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes nei
pressi di Nantes, riuscendo a preservare circa 1650 ettari di foresta.
Lo slogan che nel 2018 ha accompagnato manifestazioni e azioni rimane tuttora
presente nelle varie zone di mobilitazione, dai megabassines all’A69, arrivando
fino alla resistenza No TAV in Valsusa: “Siamo la natura che si difende”. La ZAD
di Nantes, è stata molto più che un luogo di resistenza alla devastazione. Sin
dall’inizio si è caratterizzata per la sua volontà trasformativa. La ZAD,
infatti è più di tutto un luogo di comunità. A Nantes, l’occupazione ha permesso
di creare coesistenze alternative, inframmezzate e aggredite dagli sgomberi
della gendarmerie. In particolare, nel 2012 è stata colpita dall’operazione
Cesar, la più grande mobilitazione poliziesca dal 1968, a cui la comunità ha
risposto con una presenza di 40.000 volontari impegnati per ricostruire le
abitazioni e i luoghi condivisi. La tradizione della ZAD guarda molto più avanti
rispetto alla singola emergenza, per quanto drammatica, cercando di renderla uno
spazio per costruire un’alternativa.
> Un aumento della tensione e del tentativo di reprimere le proteste, resosi
> necessario per l’efficacia delle proteste stesse e per la validità delle
> rivendicazioni supportate dalle autorità scientifiche.
E infatti, quale che sia la mobilitazione, negli spazi condivisi ‒ temporanei o
meno ‒ si respira un’aria totalmente diversa. Prima di tutto, la volontà di
essere spazi di convivenza sicuri per chi li attraversa. Il che avviene sì con
appositi servizi dedicati e una continua opera di informazione ‒ non è insolito
trovare cartelli che spiegano cosa sia il consenso, e, soprattutto cosa
significa estorcerlo ‒ ma più di tutto con una cultura interna estremamente
ricettiva che unisce l’ascolto di chi attraversa la ZAD alla necessità che sia
consapevole che comportamenti coerenti con il modello oppressivo esterno non
sono benaccetti. Un esempio banale ma non troppo: durante le grandi
mobilitazioni estive, chi organizza si premura di fornire un servizio pasto che
garantisca alle persone la possibilità di mangiare ed essere in forze prima
delle lunghe manifestazioni. I pasti serviti sono semplici, poveri, a offerta
libera. Negli ultimi due anni, poi, le cucine hanno sempre proposto cibo vegano
e senza glutine rendendo più facile per le persone che prendevano parte alle
manifestazioni accedervi e avere la certezza che non sarebbero rimaste per ore
sotto il sole a stomaco vuoto. Elementi di cura collettiva, questi, che si
sommano creando una dimensione antitetica rispetto a quella esterna, informata
dall’attuale stadio del capitalismo in cui tutto è merce e consumo, dissenso
compreso.
(fot. Martina Micciché).
Quindi, oltre a essere una zona occupata per evitare che grandi opere
infrastrutturali devastino l’ambiente, è anche il punto di partenza per la
costruzione di una comunità. La ZAD A69 si inserisce in questa cornice. Infatti,
la rivendicazione sul territorio non riguarda solo qualcosa di misurabile, come
la metratura di foresta che verrebbe irrimediabilmente distrutta, ma anche
qualcosa di più inafferrabile: l’idea per un modo diverso di vivere e convivere.
Nelle ZAD si propone qualcosa di diverso, di nuovo e antico insieme, che parte
dalla collettività. Essere parte della natura, significa anche questo: inserirsi
in un ambiente come parte dello stesso e non come proprietari occupanti. Una
prospettiva ben diversa da quella che, normalmente, disciplina i rapporti tra
umanità e ambiente solitamente incentrati sull’utile e l’uso. Disporre di ciò su
cui si può imporre un diritto di proprietà, ad esempio acquistando un terreno,
in maniera arbitraria e individualistica genera inevitabilmente un incremento
del danno ambientale proprio perché, in prima istanza, l’ambiente diventa un
oggetto inerte, un bene.
Una volta depauperato della sua identità, svuotato della sua complessità e
rimosse tutte le soggettività, umane e non, che vi entrano in relazione per
vivere ‒ e, magari, vivervi bene ‒, questo territorio viene plasmato dalla
tendenza alloplastica delle relazioni economiche che intervengono
strutturalmente su tutto ciò in cui vengono intessute per metterlo a reddito. E
quindi, una ZAD ne costituisce il contrappunto. Un rigetto del dogma produttivo
e dell’interesse speculativo dei singoli a favore di un approccio alla terra più
ampio, comunitario e non solo. Perché non si tratta solo di preservare un
territorio e di costruirci benessere per chi vi è immediatamente prossimo, ma
anche di creare delle reali alternative che diano garanzie a chi è lontano e a
chi verrà dopo.
Una ZAD potrebbe sorgere ovunque, contro il progetto di un traforo, di
un’autostrada o di un allevamento intensivo. Ciò che la caratterizza e la rende
possibile è la presenza di una comunità attiva, interna ed esterna al
territorio: cooperativa ed attenta alle reali esigenze di chi abita e attraversa
quei luoghi. Ecco perché non è raro che anche chi non partecipa direttamente
alle mobilitazioni si renda in qualche modo utile. Lo scorso anno, a La
Rochelle, gli abitanti della città che avevano case al pianterreno hanno aperto
i cancelli alle oltre 20.000 persone manifestanti, per garantire loro la
possibilità di riempire le borracce, sciacquare le ferite o ripulirsi dalle
sostanze urticanti. La ZAD si propaga anche così, di casa in casa. Diventando
memoria organica del fatto che la terra è vita, comunità e memoria. E forse, è
proprio questo che spaventa di più.
> La zona contesa, oltre ad essere occupata per evitare che grandi opere
> infrastrutturali devastino l’ambiente, è anche il punto di partenza per la
> costruzione di una comunità.
Il passaggio dagli scaffali alla casa è ciò che traghetta la produzione nella
normalità, i grandi nomi nelle dispense e nei cassetti, appesi negli armadi o
dimenticati in giro. Etichette. Familiari in modo sinistro, amichevoli in modo
impensato. I nomi del consumo sono ovunque, ciò che vi si nasconde dietro, per
qualche motivo invece no. Rimane impigliato alle pieghe della routine, esterno.
Appeso ai luoghi della devastazione, incernierato nella terra divelta, inciso
sui tronchi degli alberi morti, passa sopra i cadaveri degli animali intossicati
dai miasmi, disidratati dalla siccità, scardinati dalle tane dalle benne delle
ruspe. Inciso nella memoria di chi ricorda che lì, proprio lì, stava un bosco.
La traccia indelebile lasciata da certi nomi, la devastazione, su quel
lavandino, non arriva. Là dove Pierre Fabre sembra semplicemente una firma, non
certo la presa di un’industria e di un industriale su un territorio.
L'articolo A69: l’autostrada della discordia proviene da Il Tascabile.