I l caso “Mia moglie”, in cui un numero cospicuo di uomini pare si scambiasse
materiale sulle proprie compagne ignare, come spesso accade, ha generato una
mitosi cellulare dell’opinione sui social. Da una parte, le persone brandizzate
“empatiche” che hanno ovviamente reagito con biasimo, paura e costernazione,
ritirando fuori dalla credenza il servizio di piatti buoni: termini come
“violenza strutturale” o “stupro digitale”; dall’altra, i cinici e i
“complottisti”, che, ostentando una certa conoscenza delle dinamiche mondane
(soprattutto quelle che riguardano lo sfregamento genitale) hanno tirato in
mezzo scambismo, esibizionismo, cuckhold e porcate varie, ipotizzando un caso
mediatico montato sulla base della “sessuofobia”, strizzando l’occhio alla
comunità dei maialoni in cui non avranno mai il coraggio di entrare davvero.
Per analizzare il fenomeno, possiamo partire dal presupposto che abbiano ragione
entrambi. Anzi, non sono nemmeno due posizioni che si escludono a vicenda. Il
possesso, e tutti quei sentimenti da sempre strutturali (oggi demonizzati) nella
coppia eterosessuale, sono il terreno fertile in cui nascono quelle fantasie
che, si ipotizza, venissero messe in atto in gruppi come “Mia moglie”.
Dall’esperienza empirica che ho avuto, frequentando serate scambiste e BDSM,
quel tipo di sessualità mi è sempre sembrata un rituale celebrativo del possesso
e della simbiosi. In quel genere di luoghi, questi sentimenti avevano la
possibilità di essere sfidati ‒ solo per uscirne ricompattati ancora più
saldamente. “Mia moglie è libera perché io le concedo di essere libera”; “Mia
moglie può andare a letto con altri uomini, perché io desidero che lo faccia”;
“Mia moglie può andare a letto con altri uomini, scelti da me, con me presente,
perché io desidero che lo faccia”. Un’opinione genuina di queste ragazze è
difficile da ricostruire.
> Il possesso, e tutti quei sentimenti da sempre strutturali (oggi demonizzati)
> nella coppia eterosessuale, sono il terreno fertile in cui nascono quelle
> fantasie che, si ipotizza, venissero messe in atto in gruppi come “Mia
> moglie”.
I luoghi virtuali appaiono molto simili, con la sola differenza per cui, questa
volta, la partner sparisce totalmente dall’equazione, essendo addirittura
inconsapevole. Ovviamente tutto ciò non gode della stessa ambiguità morale che
si riscontra nei luoghi “della vita vera”: ciò che accade in gruppi come “Mia
moglie” è sicuramente sbagliato.
Azzerando il giudizio morale, l’equazione continua, però, a non tornare. A una
prima analisi del fenomeno di questi gruppi Facebook, si potrebbe pensare a una
sorta di scambismo/esibizionismo che ignora completamente il consenso di una
delle parti coinvolte. Ci troveremmo, dunque, di fronte a una classica
diffrazione di stampo girardiano: quando siamo assuefatti a una persona,
cerchiamo di trasfigurarla attraverso lo sguardo di qualcuno che prendiamo a
modello (in questo caso specifico molto spesso è antimodello), affinché ci
riconsegni il nostro desiderio restaurato, fortificato dalla mediazione.
Come avviene nell’opera ampiamente girardiana Sogno di una notte di mezza
estate: Ermia è innamorata, ricambiata, di Lisandro, ma l’autorità paterna
ostacola il loro amore. Decidono, quindi, di fuggire per sposarsi. Nella notte
si troveranno ad attraversare un bosco, seguiti segretamente da Demetrio
(promesso sposo di Ermia) e da Elena (innamorata di Demetrio e amica di Ermia).
Lontano dalle mura cittadine, e grazie all’intervento di una pozione d’amore,
nottetempo, i sentimenti si capovolgeranno e le coppie verranno rimescolate,
generando il caos. L’opera si conclude con il sorgere del sole, che corrisponde
anche a un ritrovato equilibrio: Ermia potrà sposare Lisandro; Demetrio (ancora
sotto effetto della pozione) sposerà Elena. I luoghi in cui si gioca con lo
scambio di coppia, o con l’esibizionismo/il voyeurismo, sono quindi dei boschi
shakespeariani in cui il caos è propedeutico al mantenimento dell’ordine
costituito: “tu sei roba mia, io sono roba tua”.
> In gruppi come “Mia moglie” non sembra esserci un processo di riconsegna del
> desiderio all’interno della coppia. Il movimento che si osserva, anzi, sembra
> essere più un sussulto personale, in cui la partner è il mezzo, e non il fine.
La mancanza, però, della presenza fisica del partner, rompe un passaggio
fondamentale: la circolarità del processo mimetico. Una volta tolto di mezzo il
“modello”, il desiderio dovrebbe tornare a casa dai due partner, per ristabilire
l’ordine. La dinamica che si verifica in gruppi come “Mia moglie” non sembra
essere quindi un processo di riconsegna del desiderio all’interno della coppia.
Il movimento che si osserva, anzi, sembra essere più un sussulto personale, in
cui la partner è il mezzo, e non il fine. Allora, il fine, qual è?
Da spettatrice di queste interazioni, in cui un uomo chiede a un altro una foto
della compagna, l’altro “ricambia il favore”, e si inizia a parlare di come si
stia masturbando, o di cosa faccia a letto con la moglie, in un ritmo serrato di
botta e risposta, sempre più esplicito, è difficile non pensare a una sessione
di sexting. Dinamica molto simile alla famosa scena di Challengers (2024) di
Luca Guadagnino, in cui i due tennisti vogliono andare a letto con Zendaya,
decidono di fare un threesome, e, quando lei piano piano indietreggia fino a
lasciarli soli a baciarsi, i due nemmeno se ne rendono conto. L’immagine
femminile, in questi casi, sembra avere più la funzione di amuleto. Stringi una
foto al petto, nella speranza di uscire illeso dalla foresta buia della
sperimentazione, dell’omosessualità e dell’identità di genere.
> Catherine MacKinnon in un saggio del 1989 affermava che uomini e donne
> costruiscono la propria identità di genere, attraverso l’erotizzazione del
> dominio e della sottomissione, espressa attraverso l’oggettificazione sessuale
> non consensuale.
Il concetto di amuleto, però, con la sua tenerezza, sembra lasciare fuori gli
aspetti più biechi di questi meccanismi, ovvero quelli in cui non si prende in
prestito la protezione e il coraggio di una persona a cui vogliamo bene, ma la
si sventra per indossare la sua pelle, e ripararsi dai propri desideri. Dinamica
di cui Valerie Solanas parla lungamente in SCUM Manifesto per l’eliminazione del
maschio (1967) ribaltando il concetto di invidia del pene:
> Essendo una femmina incompleta, il maschio passa tutta la vita a cercare
> quello che gli manca, riuscire cioè a diventare femmina […]. In altre parole,
> non sono le donne ad avere l’invidia del pene, ma gli uomini quella della fica
> […]. Scopare protegge gli uomini dal desiderio di essere donna. Il sesso, di
> per sé, è una sublimazione […].
Dal manifesto di Valerie Solanas, prende le mosse anche l’autrice Andrea Long
Chu, nel dare una sua definizione di genere, in contrasto con la vulgata che lo
distingue in modo eccessivamente netto dall’orientamento sessuale:
> Siamo tutti femmine, e tutti odiamo esserlo. Se questo è vero, allora il
> genere è molto semplicemente la forma che questo disprezzo di sé prende nei
> singoli casi. Tutto il genere è misoginia interiorizzata. Una femmina è una
> persona che si è nutrita del disprezzo di un’altra persona, come un’ameba che
> ottiene il proprio nucleo ingoiando il suo vicino […]. Ciò che rende genere il
> genere – la sostanza del genere, per così dire – è il fatto che, in ogni
> singolo caso, esprime i desideri di un’altra persona.
Nel saggio Femmine (2019), Andrea Long Chu, parte dalla tesi che siamo tutte
femmine, che questo non ha nulla a che fare con il sesso biologico, ma piuttosto
con un rituale di umiliazione che può essere inflitto o autoinflitto a uomini e
donne, indistintamente. Prima di lei, c’è stata Catherine MacKinnon, nel saggio
del 1989 Toward a Feminist Theory of the State ad affermare che uomini e donne
costruiscono la propria identità di genere, attraverso l’erotizzazione del
dominio e della sottomissione, espressa attraverso l’oggettificazione sessuale
non consensuale.
Tornando alla domanda su quale sia il fine, possiamo ipotizzare quindi che non
sempre il revenge porn abbia a che fare con una volontà distruttiva della
propria partner, o almeno, esiste una speranza segreta che quella mutilazione
sia un male restituito, che modifichi l’identità stessa del carnefice per
permettergli di entrare in luoghi nuovi, e di essere a sua volta “femmina”
attraverso questo rituale. Alla fine, per avere un quadro ampio del prisma di
desiderio e costruzione identitaria che si cela dietro la condivisione non
consensuale del materiale intimo di una partner, assistiamo a una summa del
pensiero femminista più dirompente, della filosofia della manosphere e dei
discorsi di uno zio ubriaco a Pasqua. Per cui: amare le donne è da froci. La
figa piace a tanti, il cazzo piace a tutti.
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C osa rimane oggi del desiderio? Nel suo saggio La saggezza del desiderio. Stare
di fronte all’assenza di stelle – pubblicato a giugno 2025 dalla casa editrice
Mimesis – la musicologa e filosofa Danielle Cohen-Levinas, fondatrice del Centre
Emmanuel Levinas presso l’Università Sorbona di Parigi, mette a tema, passando
dall’Etica Nicomachea di Aristotele ai più recenti saggi del filosofo italiano
Giorgio Agamben, una riflessione filosofica rigorosa attorno al problema del
desiderio.
Il pensiero del desiderio proposto da Cohen-Levinas, seguendo la traccia
lasciata da Platone nel Simposio, prende le mosse dal binomio, solo
apparentemente paradossale, saggezza-desiderio annunciato nel titolo. “Perché
associare due termini, saggezza e desiderio, che la nostra tradizione filosofica
ha piuttosto avuto la tendenza a opporre, o quantomeno a separare?” è
l’interrogativo con cui si apre il breve saggio, che è una rielaborazione della
lectio magistralis tenuta al festival Filosofi lungo l’Oglio nel luglio 2024.
Si tratta, seguendo Cohen-Levinas, di superare il pensiero del desiderio come
qualcosa che rinvia soltanto a “un eccesso, ad una pulsione, anzi ad
un’ossessione impossibile da soddisfare o da colmare”: se l’oggetto del
desiderio è “per definizione, assente” allora vi è una saggezza propria del
desiderare che consiste nel desiderare ciò che non ci appartiene. “Desiderare fa
segno ad un movimento di disappropriazione che obbliga […] che consente di
rispondere adeguatamente ad una sollecitazione esteriore a sé, a degli effetti
venuti d’altrove”: questa saggezza è un tutt’uno con il desiderio, e si tratta
di una saggezza pratica che il greco antico, con Aristotele e con Platone,
esprime con la parola φρόνησις (phronesis). La φρόνησις, saggezza pratica,
consiste in una saggezza etica, che va pensata come apertura e come incontro con
l’Altro, nella linea del pensiero di Emmanuel Levinas: il desiderio di quello
che non ci appartiene consiste, per l’appunto, in un movimento di spossessamento
del sé e di apertura. “Desiderare – scrive Cohen-Levinas – significa spalancare
grandi finestre sul mondo, unica possibilità per noi di essere vivi e di
rimanere tali”.
L’incontro con l’Altro è dunque il momento fondante dell’etica, che dischiude
tale saggezza pratica. Ma perché, torniamo a chiederci, proprio l’incontro? E
perché il desiderio?
> La nostra soggettività è sinonimo di desiderio; desiderio metafisico
> dell’altro – questa alterità dell’altro che non possederò mai. Il desiderio di
> spossessamento – e non di possesso – ci rende capaci di alzare lo sguardo o
> (di indirizzare) la parola verso l’assenza di stelle, finché l’illuminazione
> profana o trascendente si palesa.
Cohen-Levinas pensa all’incontro come dono, e alla generosità del desiderio –
una generosità, avrebbe detto Emmanuel Levinas, che impone sempre anche la
responsabilità verso l’Altro, che sempre ci inchioda e ci obbliga, pur
restandoci sempre irraggiungibile.
> “Perché associare due termini, saggezza e desiderio, che la nostra tradizione
> filosofica ha piuttosto avuto la tendenza a opporre, o quantomeno a
> separare?”.
Davanti a me, e proprio per questo sempre distante da me, pur nel suo
progressivo e costante farsi prossimo: questo paradosso dell’alterità viene
illuminato grazie alla riflessione sul desiderio, che mette in luce come non sia
mai possibile appropriarsi dell’Altro. La sua radicale distanza, distanza
rispetto alla quale è impossibile trovare un punto di mediazione, è uno dei
punti cardine dell’etica levinassiana, che Cohen-Levinas qui porta avanti e
arricchisce grazie agli strumenti forniti dal pensiero del desiderio.
Desiderare non significa infatti altro che “stare di fronte all’assenza delle
stelle”, non perché queste ultime siano scomparse, ma proprio in ragione della
incolmabile distanza che da esse ci separa:
> Non si tratta di desiderare un cielo vuoto, né di idealizzare la mancanza,
> l’assenza di trascendenza che peserebbe sulla nostra psiche al punto di
> paralizzare il desiderio di esporsi a un’esperienza radicalmente altra […].
> Questa condizione significa essere in grado di stare di fronte a ciò di cui
> non possiamo appropriarci.
L’immagine di questo desiderio, che è sopportazione dell’assenza, è quella della
carezza, particolarmente cara sia al pensiero fenomenologico tout court sia, in
particolare, alla riflessione levinassiana. Il simbolo che la carezza dischiude
è quello del tocco, momento di avvicinamento tanto quanto della dimostrazione
radicale della separazione – rappresentata a propria volta dall’ambivalenza
della pelle, che espone e racchiude, permette il tocco e tuttavia proprio nel
tocco marca la distanza.
> Accontentandosi di non impadronirsi di nulla, di non possedere nulla, la
> carezza è il luogo di una donazione assoluta, senza ritorno, né reciprocità,
> né pretesa di ottenere qualcosa in cambio. La carezza non accarezza che ciò di
> cui non potrebbe mai appropriarsi o avere il controllo […] non è invadente,
> non comanda nulla, non aspira a nulla, neppure il proprio desiderio di
> accarezzare rivolto ad altri.
Il passaggio attraverso la rilettura del Cantico dei Cantici, l’Inno biblico del
desiderio, traducibile dall’ebraico anche come Eccedenza delle eccedenze,
Traccia delle tracce, permette ancora una volta, nella parte conclusiva del
saggio, di insistere sui caratteri di generosità e di abbondanza del desiderio,
e della sua spinta di uscita dal sé. Questo racconto di un “desiderio
immemoriale” insiste sull’aspetto carnale (e incarnato) del desiderio, che le
pagine dedicate alla carezza avevano anticipato.
> Il paradosso dell’alterità viene illuminato grazie alla riflessione sul
> desiderio, che mette in luce come non sia mai possibile appropriarsi
> dell’Altro.
La Bibbia racconta, in questo senso, la saggezza del corpo, e la saggezza del
desiderio del corpo: la sessualità, Yada, viene chiamata attraverso l’atto di
conoscersi. “Conoscersi carnalmente indica che il corpo nasconde un sapere
ignaro dell’Altro che sarebbe la vera e propria saggezza del desiderio”. Si
tratta allora di non dimenticare il legame “tra conoscere, riconoscere, amare e
desiderare”, e l’aspetto radicalmente erotico e carnale del desiderio, che il
Cantico del Cantici, come sottolinea Cohen-Levinas, radicalizza. In questa
direzione, quella della conversione e dello spostamento del Sé verso il polo
dell’Altro, l’Inno può allora arrivare a dire che “L’amore è forte come la
morte”: un rinnovamento costante, apertura sconfinata, dono che si esprime nella
logica della sovrabbondanza e nella rinuncia al possesso.
Non desiderio di saggezza, dunque, ma la saggezza del desiderio: il tocco di “un
oggetto che non si materializza mai completamente, tra fenomeno e non fenomeno,
tra carne e corpo, tra pelle e una nudità che può giungere fino all’invisibile”.
Il saggio di Cohen-Levinas procede dunque in una direzione che è tesa a mettere
in luce l’etica del desiderio e i suoi aspetti incarnati e relazionali – e non è
forse un caso che l’ultimo decennio abbia visto un fiorire di statistiche e
report che ci descrivono come sempre più soli, sempre più infelici, e con vite
erotiche sempre meno soddisfacenti: c’è un nesso forte tra la solitudine e
quella che è stata chiamata “recessione sessuale”, che ha a che fare con un
isolamento psichico che si trasforma nell’orrore del tocco, della carezza.
Nonostante Cohen-Levinas non indaghi esplicitamente questi aspetti eminentemente
sociali, mi sembra che il suo saggio si possa leggere in consonanza con lavori
di altre discipline che in qualche maniera lo completano, guardando allo stesso
tema a partire da un’altra prospettiva. Uno di questi è il saggio Il declino del
desiderio (2022) dello psicoanalista milanese Luigi Zoja. Il “desiderio” del
titolo di Zoja potrebbe essere sostituito con “relazione” molto più che con
Eros.
Eppure, come mostra Danielle Cohen-Levinas, tra relazione ed Eros c’è una
continuità, costituita dalla saggezza annunciata nel titolo: la saggezza etica
del desiderio che si svolge a partire dall’accettazione della separazione e
della distanza; un secondo elemento di questa saggezza, che il saggio non
esplora fino in fondo, è quello del rischio che deriva dall’esposizione del Sé
all’Altro: rischio che, come dicevamo, in una contemporaneità nevroticamente
ossessionata dal mito dell’autonomia e dell’indipendenza non può che
trasformarsi nel terrore di farsi toccare dall’Altro e dal suo sguardo, di
vedersi riconosciuti e di riconoscere la propria vulnerabilità.
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