di Marco Pozzi
C’è un paese che i nati negli anni ‘70 e ‘80 hanno imparato a conoscere fin da
piccoli attraverso strisce di fumetti e disegni animati: il Giappone.
Probabilmente non avevano mai visto un documentario di quel paese, ma sapevano
com’erano le città, come si mangiava, come si viveva nelle scuole e nelle case,
e attraverso le storie di personaggi inventati del Giappone assorbivano
ambizioni, desideri, paure.
Il bel libro Il Manga di Jean-Marie Bouissou (editore Tunué) spiega: “le serie
di sport hanno fatto molto per il successo del manga all’estero, costituendo uno
tra i pilastri più solidi delle riviste shônen. Questo genere non esisteva prima
della guerra [seconda guerra mondiale]; come molti altri, è nato dalla
sconfitta. Avendo gli americani proibito la pratica delle arti marziali nelle
scuole e le storie di guerra e di samurai che fiorivano nelle riviste dedicate
ai ragazzi negli anni Trenta, le serie consacrate agli sport occidentali come il
baseball e il pugilato, di cui gli occupanti incoraggiavano la pratica, furono
un mezzo per perpetuare il gusto per il superamento di sé nei giovani spiriti.”
Fra quei fumetti famoso è Slum Dunk, uscito in 31 volumi nella prima metà degli
anni Novanta; il disegnatore ‒ il mangaka ‒ Takehiko Inoue nel 2022 scrive e
dirige anche il film, First Slam Dunk Film (ora su Netflix), che è uno dei più
belli dedicati al basket: un film lungo una partita, con flashback sui
giocatori, presi come singoli individui che si completano in una squadra, atleti
ed esseri umani verso un tiro finale dal montaggio affatto banale.
In Europa ci si ricorda ancora le azioni dalla fisica impossibile in Holly e
Benji, o le sfide in Mila e Shiro, così come dal Giappone ci è arrivata la
tecnologia con Gundam o Mazinga, con gli Angeli di Neon Genesis Evangelion, o
l’adolescenza con l’incantevole Creamy o Kiss me Licia, o il riflesso sulla
storia europea con Lady Oscar e Il Tulipano nero.
Nello sport l’unico immaginario competitor è quello americano ‒ abbiamo mai
avuto eroi sportivi immaginari altrettanto forti per atleti africani,
sudamericani? o cinesi? o un giocatore russo, come in un romanzo dell’Ottocento?
– e soprattutto nel basket l’immaginario è sempre americano, che sia Coach
Carter o Colpo vincente, White man can’t jump o Voglia di vincere.
L’esempio attuale di “storytelling sportivo” forse più famoso, che testimonia
quanto sia impattante il racconto di uno sport, anche più delle competizioni di
quello stesso sport, è la serie Netflix The last dance, uscita abilmente nel
primo lockdown del 2020, che racconta la stagione 1997/98 dei Chicago Bulls,
l’ultima con Micheal Jordan, ricostruendo l’epica di quella squadra vincente dal
suo arrivo nel 1984. Sulla versione definitiva di The last dance, per contratto,
aveva l’ultima parola lo stesso Jordan, che ha potuto costruire il racconto per
trasmettere ciò che voleva di sé, modellandosi per la leggenda persino i difetti
(tanto che Scottie Pippen s’è motivato a pubblicare Unguarded, per emendare col
suo punto di vista la ricostruzione della serie; altra operazione di brand
identity di giocatori Nba la serie Starting Five, appena uscita seconda
stagione).
Jordan s’è creato anche una specie di antieroe, quel Jerry Krause, General
Manager e architetto della dinastia dei sei titoli, che, morto nel 2017, non ha
potuto offrire la sua “difesa”, e il cui nome, in contumacia, durante una
cerimonia celebrativa della squadra che aveva creato, nel 2024 dai tifosi fu
coperto implacabilmente di fischi, che si sono riversati sull’incolpevole moglie
ottantenne in lacrime.
Sempre legato allo storytelling di The last dance, più che errata-corrige,
piuttosto un addendum è stato il documentario One Giant Leap, uscito nel 2021,
sul centro australiano Luc Longley, che in Last dance non era presente. I
protagonisti di quella squadra, avvertita la sua assenza alla storia,
partecipano alle riprese di One Giant Leap, come a voler sommare all’immaginario
costruito dalla serie un qualcosa che tutti ritenevano necessario; ed è stato
convincimento plebiscitario, visto che al “missing chapter” ha partecipato anche
sua maestà Michael Jordan, oltre a Scottie Pippen, Phil Jackson e Steve Kerr
(bellissima la parte di rielaborazione personale della fine della dinastia, cioè
da punto in cui Last Dance termina: da vedere).
E l’immaginario è forte, si sovrascrive alla realtà, riplasmandola, ricreandola
(il solo numero ‘23’, numero qualunque per molti, ma con formidabile imprinting
emotivo per chiunque abbia giocato a basket). Tale principio della “narrazione”
è ben noto nel mondo dell’informazione, non troppo dissimile da una guerra o da
un’elezione, tanto da guadagnarsi la definizione di “soft power”, che ben ne
rende la potenza. E la pericolosità, poiché dai fischi in un palasport ai
bombardamenti militari, forse, per suggestione e bugia il passo non è poi così
lungo.
L'articolo Il basket nei manga e su Netflix: così si racconta lo sport proviene
da Il Fatto Quotidiano.