Il medico che ha venduto ketamina alla star di “Friends”, Matthew Perry, prima
della sua morte per overdose, è stato condannato a 2 anni e mezzo di carcere.
Mercoledì 3 dicembre, un giudice federale di Los Angeles ha emesso la pena
detentiva più due anni di libertà vigilata per il dottor Salvador Plasencia. Il
44enne ha ammesso di aver venduto illegalmente ketamina a Perry, sapendo che era
un tossicodipendente in difficoltà.
Plasencia ha rinunciato alla sua abilitazione medica e si è dichiarato colpevole
di quattro capi d’imputazione per spaccio. L’accusa ha affermato che la ketamina
che ha ucciso Perry non è stata fornita da Plasencia, ma le sue azioni hanno
contribuito al peggioramento delle condizioni di salute di Perry.
Il giudice Sherilyn Peace Garnett ha emesso la sentenza, che includeva due anni
di libertà vigilata e una multa di 5.600 dollari. Il giudice ha sottolineato che
Plasencia non ha fornito la ketamina che ha ucciso Perry, ma gli ha detto: “Lei
e altri avete aiutato il signor Perry a raggiungere questo traguardo continuando
ad alimentare la sua dipendenza dalla ketamina“.
E ancora: “Hai sfruttato la dipendenza del signor Perry per il tuo tornaconto
personale”. Plasencia è stato portato fuori dall’aula in manette, mentre sua
madre piangeva tra il pubblico. Plasencia è stata la prima persona condannata
dei cinque imputati che si sono dichiarati colpevoli in relazione alla morte di
Perry, avvenuta all’età di 54 anni nel 2023. Il medico ha ammesso di aver
abusato di Perry, sapendo che era un tossicodipendente in difficoltà. Poi ha
scritto a un altro medico dicendo che Perry era un “idiota” e che poteva essere
sfruttato per denaro, secondo gli atti processuali. L’accusa aveva chiesto tre
anni di carcere, mentre la difesa ha chiesto solo un giorno di carcere più la
libertà vigilata.
La madre, la matrigna e le due sorellastre di Perry hanno rilasciato alcune
dichiarazioni in lacrime prima della sentenza. “La morte di mio fratello ha
sconvolto il mio mondo – ha detto la sorella Madeline Morrison, piangendo – Ha
aperto un cratere nella mia vita. La sua assenza è ovunque. Le celebrità non
sono bambole di plastica di cui ci si può approfittare. Sono persone. Sono
esseri umani con una famiglia”. La madre di Perry ha parlato delle difficoltà
che ha superato nella vita e della forza che ha dimostrato. “Pensavo che non
potesse morire”, ha detto Suzanne Perry mentre suo marito, il giornalista di
“Dateline” Keith Morrison, era in tribunale con lei.
Matthew Perry ha lottato contro la dipendenza per anni, a partire dai tempi di
“Friends”, quando è diventato una delle più grandi star della sua generazione
nei panni di Chandler Bing. Ha recitato al fianco di Jennifer Aniston, Courteney
Cox, Lisa Kudrow, Matt LeBlanc e David Schwimmer per 10 stagioni, dal 1994 al
2004, nella serie di grande successo della NBC.
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Perry condannato a 2 anni e mezzo di prigione. Salvador Plasencia si è
dichiarato colpevole proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Serie TV
Una vera e propria ondata di proteste online. I fan di “Friends“, una delle
serie tv più amate degli ultimi anni, sono sul piede di guerra dopo che hanno
scoperto che le puntate cult non saranno più visibili in Italia. Dal 30 dicembre
infatti “Friends” così come “The Big Bang Theory” lasceranno Netflix a causa
della scadenza dei diritti di licenza.
Lo riferiscono diversi media, tra cui il The Guardian. Oltre all’Italia, anche
Svizzera, Regno Unito, Germania e Sud Africa dovranno dire addio alle sitcom
dopo circa un decennio. Secondo il The Independent, Friends è la serie più
rivista di Netflix.
L’ira dei fan non si è fatta attendere e in molti hanno minacciato di cancellare
l’abbonamento allo streamer. “Sono infuriato”, “Cancello Netflix”, “Che c…
faccio per rilassarmi?”, “È stato lo show che mi ha aiutato a dormire sin da
quando ero bambino”, si legge tra i commenti sui social. Anche se non è una
novità che uno streamer smetta di trasmettere una serie, Friends, tra tutte, è
considerata come immortale.
Lo sdegno è alimentato anche dal fatto che nel 2018, Netflix ha dovuto
rinegoziare per mantenere “Friends” nel suo palinsesto, sborsando tra gli 80 e i
100 milioni di dollari. Si trattava di un accordo annuale. Come afferma anche il
The Guardian “un buon affare per tutte le parti coinvolte; anche nella fascia
più alta, quella somma rappresentava meno dell’1% dei ricavi di Netflix nel
2018, e Friends è finito per diventare la serie più vista su qualsiasi servizio
di streaming nel Regno Unito quell’anno”. Poi la drastica decisione di porre
fine alla disponibilità sulla piattaforma.
L’ultimo episodio di “Friends” è andato in onda 21 anni fa e, nonostante il
cambio di generazioni e di gusti, la varietà nelle scelte, le vicende del gruppo
di sei amici a Manhattan, Rachel Green, Monica Geller e Phoebe Buffay, Ross
Geller, Chandler Bing e Joey Tribbiani, interpretati rispettivamente da Jennifer
Aniston, Courteney Cox, Lisa Kudrow, David Schwimmer, Matthew Perry e Matt
LeBlanc, tengono ancora incollati al video milioni di spettatori.
L'articolo “Ora che ca**o faccio per rilassarmi? Disdico l’abbonamento”: fan di
“Friends” furiosi con Netflix. La serie cult verrà cancellata dalla piattaforma
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Grande successo per “Sandokan” che ieri, primo dicembre, ha totalizzato su Rai
Uno 5.755.000 spettatori pari al 33.9% di share. Il primo episodio a 6.233.000 e
il 32.9%, il secondo episodio a 5.211.000 e il 35.3%. Protagonista assoluto è
Can Yaman, reduce da una intervista a “Domenica In” dove la conduttrice lo ha
dovuto rassicurare non poco. “Tu hai il terrore che io ti chieda qualcosa sulla
tua vita privata. Non me ne frega niente. Sei terrorizzato”, gli ha detto la
Venier.
Eppure della fidanzata, l’attore parla in una intervista a Il Corriere della
Sera: “Anche lei può ritrovarsi sopraffatta dalle attenzioni, dai commenti sui
social. Se all’inizio della carriera volevo piacere a tutti, ora che ho 36 anni
sento di dover pensare alle mie esigenze: non posso trascurarle per non
dispiacere alle fan”.
E ancora: “Non è stato facile gestire il successo e vedere tutto questo amore
femminile nei miei confronti. Ti chiedi cosa susciti l’interesse delle fan,
quali siano le loro fantasie. Impari a fare attenzione a come ti esprimi, a cosa
dici. E questo condiziona non solo te ma anche chi ti è vicino”.
Il desiderio è quello di reinventarsi anche con i ruoli al cinema: “Vorrei
soprattutto mettermi alla prova. Perché è difficile che mi propongano ruoli
diversi dal figo che ha successo con le donne, preferisco l’imbranato che non ci
sa fare proprio. Qualcosa che non ho mai fatto prima ma sono pronto a correre il
rischio”.
Intanto si gode il successo della produzione internazionale, per la quale si è
preparato parecchio: “Ho iniziato a leggere Salgari nel 2021 per Sandokan. Ero
impaziente di andare sul set ma l’attesa, in fondo, mi ha aiutato a prepararmi:
sono dimagrito di dieci chili, ho praticato equitazione, ho studiato il copione
in inglese (nella versione italiana è doppiato da Adriano Giannini, ndr)”.
IL RACCONTO DI “SANDOKAN”
Borneo, 1841. In un mondo dominato dal potere coloniale degli inglesi, Sandokan
è un pirata che vive alla giornata. Solca il mar della Cina a fianco del suo
fedele amico Yanez e della loro ciurma di pirati, un gruppo di avventurieri che
vengono dai quattro angoli del mondo.
Un giorno, durante un arrembaggio a un cargo del Sultano del Brunei, Sandokan
libera un misterioso prigioniero Dayak, un popolo indigeno a lungo oppresso.
L’uomo crede di riconoscere in Sandokan il guerriero di un’antica profezia che
affrancherà il suo popolo dal giogo degli stranieri. Sandokan non dà peso alla
cosa: lui è solo un pirata che ama la libertà; è così che ha vissuto la sua vita
fino a oggi. Ma tutto sta per cambiare perché durante un’ardita incursione nel
Consolato Britannico di Labuan, Sandokan incontra Marianna Guillonk.
Marianna è la giovane figlia del Console inglese. È nota come la Perla di Labuan
per la sua bellezza ma anche per il carattere indomito che la spinge a rifiutare
i ricchi pretendenti che ambiscono alla sua mano.
L’incontro con Sandokan risveglia in lei quello spirito di avventura che le
rigide gabbie della società vittoriana hanno sempre represso. Quello tra
Sandokan e Marianna è l’incontro di due mondi che non potrebbero essere più
diversi. Una storia apparentemente impossibile. Ma non c’è niente di impossibile
quando due cuori desiderano la stessa cosa: la libertà.
Tra i due però si inserisce Lord James Brooke, l’ombroso e affascinante
“cacciatore di pirati”. Brooke non è il solito ricco mercante, né un militare
di carriera, ma un audace avventuriero che, a capo della sua fregata – la
Royalist – semina il panico tra i pirati di tutto il sud est asiatico. Uomo
ambizioso e brillante, Brooke cattura la ciurma di Sandokan e si mette sulle
tracce del loro capitano.
Brooke è disposto a tutto per fermare Sandokan, ottenere il potere e conquistare
il cuore di Marianna. La quale non è indifferente al suo fascino.
Inizia così un’avventura che si snoda tra i mari del Borneo, la vivace città di
Singapore e la lussureggiante giungla tropicale dell’isola. Proprio qui, nel
cuore della foresta, Sandokan incontrerà il suo destino.
Alla resa dei conti ognuno dovrà operare una scelta: Marianna, divisa tra Brooke
e Sandokan, dovrà affrontare i lati più oscuri del suo mondo e decidere cosa
vuole veramente; Brooke dovrà misurare la sua sconfinata ambizione con i suoi
lati più vulnerabili; Sandokan, da semplice pirata che viveva alla giornata,
sarà chiamato a trasformarsi nella Tigre della Malesia.
L'articolo “È difficile che mi propongano ruoli diversi dal figo. La mia
fidanzata? Può ritrovarsi sopraffatta dalle attenzioni, dai commenti sui
social”: lo rivela Can Yaman proviene da Il Fatto Quotidiano.
I fan di “Strangers Things” sono rimasti increduli quando una delle protagoniste
della serie tv cult di Netflix, Millie Bobby Brown, ha denunciato il collega
David Harbour, per molestie prima dell’inizio delle riprese della quinta
stagione. Poi è scoppiata la pace. L’attrice in un’intervista a Deadline, ha
tenuto a precisare di “sentirsi al sicuro” oggi, con David Harbour. I due hanno
posato sorridenti sul red carpet di presentazione della quinta ed ultima
stagione di “Strangers Things”.
Secondo quanto era stato rivelato, lo scorso ottobre, in esclusiva dal Daily
Mail, il 50enne David Harbour (che interpreta Jim Hopper, lo sceriffo di
Hawkins, ndr) era stato accusato di aver molestato la 21enne Millie Bobby Brown
(che presta il volto a Undici, ndr). Poi evidentemente o è stato trovato un
accordo tra le parti, caldeggiato dal colosso delle piattaforme streaming per la
buona riuscita del piano di promozione, oppure l’attrice stessa ci ha ripensato.
Durante la recente intervista a Deadline Millie Bobby Brown ha tenuto a
precisare che col collega c’è uno “stretto legame, basato sugli ottimi rapporti.
Certo che mi sentivo al sicuro con lui. Lavoriamo insieme da 10 anni. Mi sento
al sicuro con tutti su quel set. È naturale, lo fai da così tanto tempo.
Interpretiamo anche padre e figlia, quindi è naturale che tu abbia un legame più
stretto rispetto agli altri, abbiamo girato alcune scene intense insieme”.
E infine: “Io e David abbiamo un ottimo rapporto, lavoriamo a stretto contatto
sia durante le riprese che nella preparazione delle scene”.
Insomma come dice il vecchio proverbio: “Tutto è bene quel che finisce bene”.
L'articolo Prima la pesante denuncia per molestie poi la pace, Millie Bobby
Brown posa sorridente con David Harbour: “Mi sento al sicuro con lui” proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Jack Shepherd, l’attore inglese ricordato soprattutto per il ruolo da
protagonista nella serie poliziesca degli anni ’90 Wycliffe della ITV, è morto
all’età di 85 anni. Shepherd è deceduto in ospedale dopo una “breve malattia”,
come riferisce l’agenzia inglese PA. La moglie e i figli erano presenti durante
gli ultimi momenti di vita della star nata a Leeds nel 1940. “La sua scomparsa è
una grande perdita per tutti noi”, hanno dichiarato i suoi agenti Markham,
Froggatt and Irwin.
Tra i riconoscimenti ottenuti c’è un premio Olivier per la produzione originale
della pièce teatrale Glengarry Glen Ross nel 1983. In televisione era già
conosciuto negli anni ’70 per il ruolo di Bill Brand nell’omonima serie tv,
incentrata su un immaginario parlamentare laburista radicale. Shepherd ha
ricoperto anche numerosi ruoli cinematografici ed è stato drammaturgo e regista
teatrale.
Dopo la scuola a Leeds, vinse una borsa di studio per studiare belle arti alla
Newcastle University, poi si trasferì a Londra per iscriversi alla Central
School of Speech and Drama. Ha lavorato nel National Theatre e al Royal Court
Theatre. Per il suo ruolo di svolta in TV come Bill Brand, nel 1977 ottenne una
candidatura ai Bafta come miglior attore. In un tributo pubblicato lo scorso
anno sullo Spectator, la serie è stata descritta come una “capsula del tempo
degli anni ’70, il marrone ovunque, il fumo di sigaretta e la birra del pranzo,
la carta da parati fantasia, le Ford Cortina arrugginite e un senso di decadenza
nazionale”.
Il personaggio interpretato da Shepherd è stato come “parte di una lunga
tradizione, che ricorda alla sinistra i principi da cui si è allontanata nella
ricerca del potere”. Nei panni del riflessivo sovrintendente Charles Wycliffe,
Shepherd ha risolto omicidi in Cornovaglia in 36 episodi tra il 1993 e il 1998.
La sua attività come attore nelle produzioni BBC spazia da un insegnante in Play
for Today: Pidgeon – Hawk Or Dove? (1974) a un avvocato in Blind Justice (1988),
fino al compositore austriaco Franz Joseph Haydn nel docudramma Beethoven (2005)
e a un prigioniero ad Auschwitz nel dramma God on Trial (2008). Shepherd diresse
The Two Gentlemen of Verona nel 1996 allo Shakespeare’s Globe e la produzione
arrivò anche a Broadway. Jack Shepherd lascia la moglie Ann Scott e cinque
figli: Jan, Jake, Victoria, Catherine e Ben.
L'articolo Jack Shepherd è morto: addio allo storico attore del poliziesco cult
anni ’90 Wycliffe proviene da Il Fatto Quotidiano.
La nuova serie su Sandokan è stata una fatica caratterizzata da stop ai set e
rinvii che hanno ritardato l’uscita della serie. In ogni caso, da lunedì 1°
dicembre, Rai1 trasmetterà in prima serata gli otto episodi interpretati da Can
Yaman, chiamato a vestire i panni della Tigre di Mompracem in un progetto che
non vuole richiamare la storica versione con Kabir Bedi.
L’attore ha chiarito subito la natura dell’operazione: “È una versione
completamente diversa. Non abbiamo pensato alla serie del 1976, non era nostra
intenzione fare un remake”, ha dichiarato nell’intervista rilasciata a Tv
Sorrisi e Canzoni. Proprio in questa occasione Yaman ha ripercorso le fasi
principali della lavorazione, compresa la preparazione fisica. “Sono dovuto
dimagrire. Quando ho girato “Il Turco” pesavo 102 chili perché il ruolo
richiedeva una figura imponente. Sandokan invece ha un fisico più asciutto e
felino. Ho perso più di 10 chili in un mese, non mangiavo quasi nulla, seguivo
il digiuno intermittente”, ha spiegato, soffermandosi anche sull’aspetto emotivo
necessario per interpretare il personaggio: “Per tirare fuori l’anima di
Sandokan, un combattente ma con il sorriso, un eroe umano che non uccide se non
serve”.
Tra i retroscena citati dall’attore, uno in particolare riguarda un incidente
avvenuto durante le riprese di una delle prime scene della serie. “Mi trovavo su
una canoa che salta in aria in seguito a un’esplosione. Caduto in acqua, il
costume di scena ha fatto un effetto vela e mi ha avvolto tutto il corpo”, ha
raccontato, spiegando di essersi sentito in difficoltà: “Non sapevo come
liberarmene. Per fortuna Jan, il regista, che stava filmando sott’acqua, se ne è
reso conto ed è accorso in mio aiuto”.
Yaman ha anche ribadito la scelta di non servirsi di controfigure, una decisione
che aumenta i rischi durante le riprese: “Non uso controfigure, lo so sono un
po’ pazzo“. In continuità con precedenti esperienze lavorative in produzioni
turche, l’attore ha affrontato anche scene intime con il personaggio di
Marianna, senza rivelare sviluppi narrativi: “Affronto le scene intime nello
stesso modo in cui mi pongo in quelle d’azione: fanno tutte parte della storia,
del copione. Ma provo imbarazzo quando ho davanti un’attrice che è a disagio”.
La serie approda così sul piccolo schermo dopo una fase produttiva segnata da
difficoltà tecniche e un lavoro di costruzione del personaggio che, come emerge
dalle dichiarazioni dell’attore, ha richiesto trasformazioni fisiche e
attenzione interpretativa.
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Seguivo il digiuno intermittente”: così Can Yaman si è trasformato in Sandokan
proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Marco Pozzi
C’è un paese che i nati negli anni ‘70 e ‘80 hanno imparato a conoscere fin da
piccoli attraverso strisce di fumetti e disegni animati: il Giappone.
Probabilmente non avevano mai visto un documentario di quel paese, ma sapevano
com’erano le città, come si mangiava, come si viveva nelle scuole e nelle case,
e attraverso le storie di personaggi inventati del Giappone assorbivano
ambizioni, desideri, paure.
Il bel libro Il Manga di Jean-Marie Bouissou (editore Tunué) spiega: “le serie
di sport hanno fatto molto per il successo del manga all’estero, costituendo uno
tra i pilastri più solidi delle riviste shônen. Questo genere non esisteva prima
della guerra [seconda guerra mondiale]; come molti altri, è nato dalla
sconfitta. Avendo gli americani proibito la pratica delle arti marziali nelle
scuole e le storie di guerra e di samurai che fiorivano nelle riviste dedicate
ai ragazzi negli anni Trenta, le serie consacrate agli sport occidentali come il
baseball e il pugilato, di cui gli occupanti incoraggiavano la pratica, furono
un mezzo per perpetuare il gusto per il superamento di sé nei giovani spiriti.”
Fra quei fumetti famoso è Slum Dunk, uscito in 31 volumi nella prima metà degli
anni Novanta; il disegnatore ‒ il mangaka ‒ Takehiko Inoue nel 2022 scrive e
dirige anche il film, First Slam Dunk Film (ora su Netflix), che è uno dei più
belli dedicati al basket: un film lungo una partita, con flashback sui
giocatori, presi come singoli individui che si completano in una squadra, atleti
ed esseri umani verso un tiro finale dal montaggio affatto banale.
In Europa ci si ricorda ancora le azioni dalla fisica impossibile in Holly e
Benji, o le sfide in Mila e Shiro, così come dal Giappone ci è arrivata la
tecnologia con Gundam o Mazinga, con gli Angeli di Neon Genesis Evangelion, o
l’adolescenza con l’incantevole Creamy o Kiss me Licia, o il riflesso sulla
storia europea con Lady Oscar e Il Tulipano nero.
Nello sport l’unico immaginario competitor è quello americano ‒ abbiamo mai
avuto eroi sportivi immaginari altrettanto forti per atleti africani,
sudamericani? o cinesi? o un giocatore russo, come in un romanzo dell’Ottocento?
– e soprattutto nel basket l’immaginario è sempre americano, che sia Coach
Carter o Colpo vincente, White man can’t jump o Voglia di vincere.
L’esempio attuale di “storytelling sportivo” forse più famoso, che testimonia
quanto sia impattante il racconto di uno sport, anche più delle competizioni di
quello stesso sport, è la serie Netflix The last dance, uscita abilmente nel
primo lockdown del 2020, che racconta la stagione 1997/98 dei Chicago Bulls,
l’ultima con Micheal Jordan, ricostruendo l’epica di quella squadra vincente dal
suo arrivo nel 1984. Sulla versione definitiva di The last dance, per contratto,
aveva l’ultima parola lo stesso Jordan, che ha potuto costruire il racconto per
trasmettere ciò che voleva di sé, modellandosi per la leggenda persino i difetti
(tanto che Scottie Pippen s’è motivato a pubblicare Unguarded, per emendare col
suo punto di vista la ricostruzione della serie; altra operazione di brand
identity di giocatori Nba la serie Starting Five, appena uscita seconda
stagione).
Jordan s’è creato anche una specie di antieroe, quel Jerry Krause, General
Manager e architetto della dinastia dei sei titoli, che, morto nel 2017, non ha
potuto offrire la sua “difesa”, e il cui nome, in contumacia, durante una
cerimonia celebrativa della squadra che aveva creato, nel 2024 dai tifosi fu
coperto implacabilmente di fischi, che si sono riversati sull’incolpevole moglie
ottantenne in lacrime.
Sempre legato allo storytelling di The last dance, più che errata-corrige,
piuttosto un addendum è stato il documentario One Giant Leap, uscito nel 2021,
sul centro australiano Luc Longley, che in Last dance non era presente. I
protagonisti di quella squadra, avvertita la sua assenza alla storia,
partecipano alle riprese di One Giant Leap, come a voler sommare all’immaginario
costruito dalla serie un qualcosa che tutti ritenevano necessario; ed è stato
convincimento plebiscitario, visto che al “missing chapter” ha partecipato anche
sua maestà Michael Jordan, oltre a Scottie Pippen, Phil Jackson e Steve Kerr
(bellissima la parte di rielaborazione personale della fine della dinastia, cioè
da punto in cui Last Dance termina: da vedere).
E l’immaginario è forte, si sovrascrive alla realtà, riplasmandola, ricreandola
(il solo numero ‘23’, numero qualunque per molti, ma con formidabile imprinting
emotivo per chiunque abbia giocato a basket). Tale principio della “narrazione”
è ben noto nel mondo dell’informazione, non troppo dissimile da una guerra o da
un’elezione, tanto da guadagnarsi la definizione di “soft power”, che ben ne
rende la potenza. E la pericolosità, poiché dai fischi in un palasport ai
bombardamenti militari, forse, per suggestione e bugia il passo non è poi così
lungo.
L'articolo Il basket nei manga e su Netflix: così si racconta lo sport proviene
da Il Fatto Quotidiano.