“‘Te la senti di parlare davanti a me? Non hai vergogna?’. ‘No, tu sei come il
mio papà!’, mi ha risposto lei, 13 anni. Allora ho accettato di fare da
interprete e tradurre il racconto che questa mia alunna faceva a una operatrice
umanitaria di Medici Senza Frontiere a cui descriveva la violenza subita da 5
soldati. Io traducevo e piangevo. Ecco, è per lei che ho accettato di
testimoniare. Per lei e per tutte le ragazze e le donne che in quei terribili
giorni del 2002 sono state violate, senza mai aver avuto giustizia”. All’inizio
aveva rifiutato la convocazione: “Pensavo che andasse al di là del mio ruolo di
prete. Ma poi mi sono ricordato di quella ragazzina. E mi sono detto: se nessuno
ha il coraggio di esporsi, non si uscirà mai da questa spirale di impunità
sfacciata”. Chi parla a Ilfattoquotidiano.it è padre Silvano Ruaro, 87 anni,
missionario dehoniano, una vita in Repubblica Democratica del Congo, dove è
arrivato nel lontano 1970. In questi giorni si è suo malgrado ritrovato al
centro di polemiche che dalla Francia giungono fino al Congo. La sua deposizione
ha infatti sparigliato le carte in un importante processo che si sta svolgendo a
Parigi e che vede imputato un ex “signore della guerra”, Roger Lumbala.
Per l’accusa, Lumbala, oggi 67 anni, durante la seconda guerra del Congo
(1998-2003) era stato a capo di un’operazione nota come “Effacer le tableau”
(“fare tabula rasa”) che fra l’ottobre 2002 e il gennaio 2003 seminò il terrore
nella regione nordorientale del Paese: saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri
sistematici, torture, sparizioni forzate, persino cannibalismo forzato. Lumbala,
giudicato in base al principio della “giurisdizione universale”, rifiuta di
comparire, non riconosce la corte e nemmeno le accuse a lui rivolte, affermando
che all’epoca era a capo di un movimento politico e non aveva uomini armati.
È in questa delicata situazione che la deposizione di padre Ruaro è divenuta
cruciale: le sue tre ore di racconto, preciso e meticoloso, hanno sollevato
dubbi sull’impianto accusatorio e di conseguenza anche polemiche, sia Oltralpe
che in Congo. “Io ho raccontato solo e soltanto ciò di cui sono stato testimone
diretto – spiega nel corso dell’incontro con Ilfattoquotidiano.it – Dicono che
ricordo male per via dell’età, ma certe cose, quando le vivi, non le dimentichi
più. E poi le ho riferite da subito, ci sono articoli di vent’anni fa in cui
ripetevo esattamente lo stesso. E anche nel 2021, quando la Gendarmerie francese
mi aveva già chiamato per un colloquio informale, avevo raccontato quello che ho
visto, tanto che lo stesso giudice settimana scorsa ha affermato che la mia
deposizione è ‘coerente’ con quella del 2021”.
Un racconto particolareggiato, che ripete con date e dettagli. Il punto cruciale
è uno: “Il giorno dell’assalto alla missione – era il 12 ottobre – uno dei
miliziani mi disse a bassa voce ‘Padre, non faccia l’eroe, per quattro giorni
abbiamo il permesso di fare tutto ciò che vogliamo, senza dover rendere conto. È
così che ci pagano. È Bemba che ce lo ha detto’. Anche gli altri miliziani che
scorrazzavano per il villaggio e la missione dicevano ‘Siamo gli uomini di
Bemba‘”. E ancora: “A capo dell’operazione nella nostra missione di Mambasa,
saccheggiata e occupata per tre mesi, c’era il colonnello Freddy Ngalimu. Era
lui che dava ordini e firmava documenti come colonnello dell’ALC, il gruppo
armato di Bemba, e non dell’RCD-N di Lumbala”. Ecco, secondo padre Ruaro gli
uomini che per tre mesi hanno messo a ferro e fuoco la sua missione e tutta la
provincia rispondevano a un altro uomo: Jean Pierre Bemba. Già condannato dalla
Corte Penale internazionale per i crimini atroci che i suoi uomini avevano
commesso in Repubblica Centrafricana, Bemba ha scontato nove anni di carcere
all’Aja. Quando è uscito, è tornato in Congo ed è rientrato in politica. Oggi è
vicepremier e ministro dei Trasporti dopo esser stato ministro della Difesa. Un
pezzo da novanta. E infatti dal Congo sono arrivate diverse telefonate
preoccupate: “Silvano, stai attento. I nomi che citi sono pericolosi, non
tornare qui. Certo che sappiamo, qui tutti stanno seguendo il processo di
Parigi”.
E così padre Ruaro si ritrova tra due fuochi: da un lato il pesante rischio a
cui si è consapevolmente esposto testimoniando e facendo nomi, dall’altro i
detrattori che lo tacciano di fare il gioco di Lumbala. “Io ho detto ciò che ho
visto e vissuto – ribadisce – e l’ho fatto per le donne vittime di violenza. Non
posso dimenticare quel colonnello che indicava via via le ragazze per strada e
se le faceva portare in stanza”, conclude con un misto di amarezza e disgusto.
“Se ciascuno facesse la sua parte, si potrebbe mettere un freno a questa
impunità dilagante. Lo devono sapere che prima o poi saranno chiamati a
rispondere. Magari dopo vent’anni, ma questi criminali dovranno rendere conto
delle atrocità commesse sulla gente indifesa”.
L'articolo “Ho testimoniato su stupri e crimini di guerra in Congo. Adesso
ricevo minacce e vengo screditato”: il racconto del missionario Silvano Ruaro
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Repubblica Democratica del Congo
Come dicono gli anglosassoni, “il Diavolo si nasconde nei dettagli”. E i
dettagli nell’accordo di pace mediato da Donald Trump tra il Rwanda e la
Repubblica Democratica del Congo (RDC) non mancano davvero. Più che il Diavolo,
però, tra le righe del documento si intravede la sagoma del Dragone cinese. La
traballante intesa sta già facendo discutere. Non solo perché, dopo la firma del
4 dicembre, nella regione orientale del Congo sono ripresi i combattimenti con
il M23, il gruppo separatista sostenuto da Kigali. Le condizioni imposte dal
presidente americano ai due Paesi rivali richiedono al governo di Kinshasa
gravose concessioni con un forte impatto sull’industria mineraria congolese.
Settore che conta per oltre la metà del Pil nazionale.
Tralasciando i risvolti legati alla spinosa ingerenza di Washington nella
sovranità della RDC, il “trattato ineguale” concertato da Trump riguarda molto
da vicino anche la Cina. Ad oggi sono almeno una quindicina le miniere operative
e oltre trenta i siti minerari in varie fasi di sviluppo (esplorazione,
costruzione e produzione) controllati o partecipati da aziende cinesi. Se si
restringe la lente solo sulla raffinazione del cobalto, il coinvolgimento della
Repubblica popolare riguarda ben il 90% del comparto. Anche se quanto estratto
proviene da giacimenti a gestione mista o artigianale.
Sono progetti che la Repubblica popolare ha coltivato nell’ultimo decennio per
aggiudicarsi i materiali critici indispensabili nella transizione energetica. Lo
ha fatto sfruttando proprio l’America First del primo mandato Trump. Fiutando lo
scetticismo del tycoon sul cambiamento climatico, tra il 2016 e il 2017 il
gigante minerario statunitense Freeport ha ceduto a un consorzio guidato dalla
statale China Molybdenum Co. la sua partecipazione nella Tenke Fungurume,
consegnando in mani cinesi una delle miniere di rame e cobalto più grandi al
mondo.
Oggi The Donald non è più sensibile ai problemi ambientali di quanto non lo
fosse all’epoca. Ma la competizione tecnologica con Pechino sembra aver indotto
la Casa Bianca a cambiare strategia. Per comprendere la portata della manovra
trumpiana bisogna riprendere in mano l’accordo. Le clausole nel testo sono
numerose ed estremamente restrittive: la RDC dovrà individuare i giacimenti più
promettenti – quelli già in esplorazione o ancora da assegnare – e inserirli in
una lista speciale, la Strategic Asset Reserve (SAR), riservandoli in via
prioritaria a imprese statunitensi e ai Paesi “allineati”. Provvedimento che
impedisce a un’azienda congolese o straniera di vendere i propri asset a un
gruppo cinese, se il progetto è inserito nella SAR. La RDC dovrà inoltre
informare ogni tre mesi l’ambasciata USA di qualsiasi accordo relativo
all’esportazione di minerali.
Le vendite non potranno più essere decise autonomamente da Kinshasa, dovranno
sempre tener conto degli interessi americani. La gestione dei giacimenti SAR
sarà affidata a un comitato congiunto che deciderà per consenso, ma con gli
Stati Uniti a godere del potere di veto. Come se non bastasse, il governo
congolese è chiamato a rivedere le proprie quote minoritarie nei progetti
strategici, così da facilitare l’ingresso di investitori americani. Mossa che
potrebbe aprire la porta a Washington anche in miniere oggi quasi interamente
cinesi, come Tenke. In sostanza, mentre la Cina continuerà a gestire i progetti
già esistenti, le nuove misure rendono un’espansione nei giacimenti della RDC
quasi impossibile.
È una vera manovra a tenaglia quella ordita dall’amministrazione Trump, già
impegnata attivamente nello sviluppo del “corridoio di Lobito”. Progetto che
punta a resuscitare la vecchia via commerciale che all’inizio del XX secolo
collegava le ricche regioni minerarie del Katanga nella Repubblica Democratica
del Congo e della Copperbelt in Zambia al porto angolano di Lobito. Lanciato da
Joe Biden – e abbracciato dall’Unione europea con un investimento di 2 miliardi
di euro – il piano prevede di rimodernare la ferrovia di Benguela, arteria
vitale per il trasporto di materie prime (in particolare rame e cobalto) verso
la costa atlantica e i mercati internazionali.
Secondo il Ministero degli Esteri italiano, il Corridoio – parte del Piano
Mattei – “diventa così una valida alternativa ad altri progetti, consentendo sia
all’Ue sia agli Stati Uniti di rafforzare i propri legami con l’Africa e al
contempo di facilitare l’accesso alle materie prime critiche necessarie per la
transizione energetica globale”. Dove per “altri progetti” si intendono
chiaramente quelli di Pechino.
Insomma, dopo innumerevoli promesse disattese, finalmente Washington e Bruxelles
sembrano fare sul serio. Sembrano, appunto. “Sono quindici anni che gli Stati
Uniti dicono di voler raggiungere la Cina in Congo, ma non è successo nulla di
concreto. Quindi non ci spero molto che questa volta sarà diverso”, commenta a
Ilfattoquotidianoi.it Eric Olander, cofondatore di The China Global South
Project.
Arginare l’espansionismo cinese in Africa non sarà semplice. Non solo perché,
come ammette la Farnesina, “la realizzazione del pieno potenziale del Corridoio
di Lobito non è priva di sfide, a cominciare dalla difficoltà a incoraggiare gli
investimenti in un’area segnata da una lunga storia di instabilità politica e
sociale”. Non solo perché la China Communications Construction Company possiede
circa un terzo della multinazionale portoghese incaricata di ristrutturare il
collegamento ferroviario. Come spiega Olander, “le aziende minerarie che
utilizzeranno il progetto non sono allineate con le priorità di alcun governo.
Quindi nulla impedisce alle società della logistica o del mining di portare quei
carichi in Cina per la lavorazione. Anzi è molto probabile che accadrà”.
Il fatto è che non basta ottenere la proprietà dei giacimenti. La capacità di
raffinazione dell’Occidente non è in grado di sostenere la domanda di minerali
essenziali. Sebbene buona parte del rame proveniente dalla RDC sia
sufficientemente puro da non necessitare di particolari trattamenti, altri
materiali – come il cobalto – richiederanno una maggiore lavorazione. E qual è
il paese primo al mondo per capacità di raffinazione? La Cina, ovviamente. Non è
un dettaglio trascurabile, soprattutto considerata la competitività di quegli
“altri progetti”.
“Costerebbe troppo trasportare il materiale verso ovest, fino a Lobito, e poi
spedirlo circumnavigando tutto il Capo di Buona Speranza”, avverte Olander.
D’altronde una soluzione più pratica già c’è. Si chiama Tazara: la ferrovia che
fece costruire Mao Zedong per collegare i giacimenti dello Zambia e del Congo
con le coste della Tanzania. A distanza di oltre cinquant’anni, il presidente
cinese Xi Jinping la sta rimettendo in sesto con un investimento da 1,4 miliardi
di dollari. La funzione è la stessa di Lobito: trasportare rame e cobalto dalla
Copperbelt. Ma in questo caso verso il porto di Dar es Salaam. Ovvero lungo la
costa orientale con affaccio sull’Oceano Indiano. “Nei prossimi dieci anni
assisteremo a un duello molto interessante tra le due ferrovie – conclude
Olander – dato che è rivolta a est ed è considerata parte integrante
dell’ecosistema logistico cinese, io punto tutto sulla Tazara”.
L'articolo Pace tra Rwanda e Congo, così gli Usa hanno provato a limitare il
dominio cinese sulle miniere proviene da Il Fatto Quotidiano.
Circa 200mila sfollati interni e decine di migliaia in fuga oltre confine,
secondo l’Ocha, l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu.
Oltre 400 morti e un imprecisato numero di feriti, dichiarano le autorità
provinciali. È il bilancio (ancora provvisorio) dell’ultima offensiva del gruppo
armato M23 che nell’est della Repubblica Democratica del Congo ha fatto carta
straccia degli accordi di “pace” siglati a Washington solo settimana scorsa.
Mentre Trump mostrava al mondo la sua firma in calce al documento, l’M23
avanzava verso sud. E mercoledì ha conquistato la città di Uvira, che non solo è
la seconda città della provincia del Sud Kivu, ma soprattutto la “porta” di
accesso verso gli altipiani con le loro miniere d’oro e verso il Katanga,
paradiso del cobalto e del litio. Ma Uvira, che sorge sull’estremità nord
dell’immenso lago Tanganika, è anche a due passi dal confine con il Burundi e
con la città dirimpettaia di Bujumbura, capitale economica del Paese, alleato
della Rd Congo a cui fornisce uomini e mezzi contro l’M23. E infatti le autorità
burundesi hanno immediatamente chiuso la frontiera, mentre è notizia delle
scorse ore che l’M23 avrebbe aperto un corridoio per permettere ai soldati
burundesi di rientrare in patria.
I timori di un’escalation regionale sono concreti. E se a Bujumbura la
preoccupazione è alta, il Gruppo di contatto internazionale per i Grandi Laghi
(ICG), di cui sono membri Stati Uniti, Belgio, Danimarca, Unione europea,
Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera e Regno Unito, ha diffuso una
dichiarazione congiunta in cui esprime “profonda preoccupazione per la rinnovata
esplosione di violenza e per la nuova offensiva del Movimento 23 marzo (M23),
sostenuto dal Rwanda che rischia di destabilizzare l’intera regione. L’ICG
esprime particolare preoccupazione per il maggiore utilizzo di droni sia
d’attacco che suicidi nel conflitto” che “rappresenta una significativa
escalation dei combattimenti e rappresenta un grave rischio per le popolazioni
civili”. L’ICG chiede di “fermare immediatamente le operazioni offensive” e
invita l’esercito regolare rwandese “a ritirarsi dalla parte orientale della
RDC” nel rispetto degli accordi sottoscritti.
“Questa notte è trascorsa in un silenzio irreale”, dichiara a
Ilfattoquotidiano.it una fonte appena raggiunta sul posto, “ma ieri pomeriggio
abbiamo sentito diverse raffiche di mitra anche qui vicino. Da martedì, mentre
si avvicinavano a Uvira, ci sono stati bombardamenti e colpi di mortaio, ieri
hanno occupato la città e anche la frontiera”. “La situazione qui per il momento
è abbastanza tranquilla – afferma un’altra fonte raggiunta a Bujumbura – I
nostri militari che erano a Uvira e Kamanyola sono rientrati tutti. La
preoccupazione sono le migliaia di profughi che si sono riversati in Burundi. Si
teme che fra loro possano nascondersi infiltrati dell’M23 o burundesi della
ribellione, da tempo rifugiati in Congo e Rwanda. C’è grande preoccupazione
anche per l’aeroporto, vicinissimo alla frontiera, punto strategico da
proteggere assolutamente”.
L'articolo È già finita la pace tra Congo e Rwanda. I miliziani dell’M23
avanzano verso sud: minacciano il Burundi e puntano alle miniere proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Anche la scenografia era stata studiata: per l’occasione, si è scelta la sede
dell’U.S. Institute of Peace, che ha appena cambiato nome, ribattezzato “Donald
J. Trump Institute of Peace”. E quale miglior occasione per inaugurarlo, che
siglarvi l’accordo che si propone di metter fine a una guerra durata oltre
trent’anni? Sia il luogo e che l’accordo siglato il 4 dicembre a Washington
incarnano perfettamente l’essenza delle “pax trumpiane”: accordi economici a
vantaggio degli Stati Uniti, che per portare miglior profitto hanno
probabilmente bisogno che le armi tacciano. Anche se, a guardarla dal terreno,
non si direbbe proprio che giovedì sia stata firmata la pace tra Rwanda e
Repubblica Democratica del Congo. Anche nelle ultime ore, infatti, alcuni grossi
villaggi del Sud Kivu, al confine con il Rwanda, si sono svuotati a causa di
pesanti combattimenti fra le forze governative da un lato e il gruppo armato M23
dall’altro e la popolazione di nuovo in fuga, con un fagotto di povere cose
sulla testa.
Una realtà sul terreno che a Washington non è stata contemplata: nella
conferenza stampa finale, Donald Trump ha tessuto elogi infiniti del grande
accordo siglato e della fine di un conflitto che – ha riconosciuto – ha lasciato
sul terreno negli anni uno spaventoso numero di morti: “Ben oltre dieci
milioni”, ha confermato Trump, come attestano del resto la maggior parte delle
stime. La guerra più sanguinosa al mondo dopo le guerre mondiali. Un conflitto
complesso, stratificato e regionale. E infatti ieri erano presenti a Washington
anche i presidenti di Angola, Burundi, Kenya, il premier togolese, il
vicepresidente ugandese, i ministri degli esteri di Qatar e Emirati Arabi, il
presidente della Commissione dell’Unione Africana. E poi, ovviamente, il
segretario di Stato Usa Marco Rubio e l’inviato speciale per l’Africa Massad
Boulos, consuocero di Trump.
“Molti prima di me ci hanno provato – ha affermato Trump – ma senza riuscirci.
Questa diventa l’ottava guerra a cui mettiamo fine quest’anno”. Nonostante tali
pompose affermazioni, tuttavia, l’aria ieri a Washington era pesante: davanti
alle telecamere di mezzo mondo, i due presidenti, il congolese Felix Tshisekedi
e il rwandese Paul Kagame, non si sono stretti la mano. Nel loro breve discorso
pubblico, hanno entrambi sottolineato le difficoltà e le sfide che ancora
attendono il lungo cammino per la pace: “Ci saranno alti e bassi” ha avvertito
Kagame; “è l’inizio di un nuovo cammino, esigente e difficile” ha chiosato
Tshisekedi.
I documenti firmati sono due: uno riguarda la pace fra i due paesi, l’altro
invece è un “accordo di partenariato strategico” fra Congo e Stati Uniti. E sta
tutto qui il cuore dell’interesse dell’amministrazione Trump a pacificare
l’area. Gli Stati Uniti offrono massicci investimenti per ammodernare e
industrializzare il paese, in modo tale da garantire la sicurezza delle catene
di approvvigionamento dei minerali strategici e delle infrastrutture necessarie
al loro sfruttamento.
Secondo l’accordo, entro 30 giorni la RDC dovrà presentare – da un lato – un
primo elenco di progetti per il rafforzamento delle infrastrutture energetiche e
logistiche e la stabilizzazione delle aree ricche di risorse ma instabili, e –
dall’altro – un elenco iniziale di asset minerari e aree di esplorazione
classificati all’interno della Riserva Strategica degli Asset (SAR), un
meccanismo riservato a minerali critici e oro. Questi asset possono includere
concessioni già identificate o aree non ancora assegnate. E gli Stati Uniti
avranno diritto di prelazione. Gli accordi prevedono anche la creazione di una
“riserva mineraria strategica” nella RDC, destinata a stabilizzare i prezzi e
garantire un accesso prevedibile ai minerali essenziali per le industrie
americane.
Fra le diverse infrastrutture prioritarie, l’accordo nomina in particolare la
riabilitazione del cosiddetto “Corridoio di Lobito”, ovvero la linea ferroviaria
RDC-Angola, strategica per l’esportazione di rame, cobalto e zinco dalla regione
meridionale dell’ex Katanga (la “copper belt”, la “cintura del rame” che è anche
la zona coi maggiori giacimenti di cobalto e di litio di recente scoperta) al
porto angolano di Lobito, sull’oceano Atlantico.
Non per nulla, nella serata di ieri è stata anche diffusa una dichiarazione
congiunta del governo Usa e della Commissione Europea che “riaffermano il loro
impegno comune a promuovere la pace, la sicurezza e la crescita economica nella
regione dei Grandi Laghi africani”, aumentando gli investimenti perché “lo
sviluppo economico costituisce un pilastro essenziale della stabilità a lungo
termine”. Al centro dell’interesse, di nuovo, è citato proprio il “corridoio di
Lobito”: il comunicato congiunto Usa-Ue “apprezza” il recente coinvolgimento del
settore privato per proposte di investimenti in terra congolese e offre
“disponibilità” per sincronizzare lavori e investimenti sul lato angolano del
tragitto, in modo da velocizzare e ottimizzare il tutto. C’è fretta.
Quello che non si dice è che il “settore privato” riguarda i colossi dell’hi
tech americano, che hanno sete di materie prime, e nel contempo riguarda anche
l’estromissione di fatto della Cina, che queste miniere sta in gran parte
gestendo dopo i contratti sottoscritti anni fa con l’ex presidente congolese
Joseph Kabila.
Così ha sintetizzato ieri, in un’altra conferenza stampa a margine, il neo
governatore della Banca Centrale del Congo, André Wameso: “Le cause profonde di
questa crisi sono economiche. Alla fine della guerra fredda, c’è stata una corsa
all’accesso alle materie prime necessarie per cellulari e computer. Non si era
riusciti, in quel periodo, a privatizzare le imprese minerarie dell’allora
Zaire. Così, per permettere l’accesso alle materie prime da parte
dell’Occidente, è stata creata una “terza via”. E purtroppo, poiché l’accesso
alle materie prime era imperativo, è stata data carta bianca al Rwanda e
all’Uganda per invaderci. Per risolvere tutto ciò serviva un piano economico che
rendesse trasparente l’accesso alle risorse, affermasse la sovranità della RDC
nello sfruttamento minerario e – laddove servisse una collaborazione fra gli
stati della regione – ciò avvenisse in modo trasparente. Questo quadro consacra
economicamente la fine di un ciclo economico. L’economia funziona a cicli, più o
meno lunghi: noi stiamo assistendo alla fine dell’economia informatica come
l’abbiamo conosciuta ieri e all’inizio del nuovo ciclo dell’economia verde, in
cui di nuovo le materie prime strategiche si trovano in Congo. Stavolta non si
negoziano le nostre materie prime senza di noi, ma noi siamo protagonisti. È una
grande svolta. In sintesi, la pax trumpiana assomiglia molto a un mega contratto
capestro: prendere o lasciare. Che poi sul terreno in realtà si continui a
combattere, resta un dettaglio, se non disturba i manovratori.
L'articolo La “pax trumpiana” tra Rwanda e Congo: accordo firmato, ma si
continua a combattere. La corsa Usa ai minerali strategici proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Almeno 32 minatori sono morti per il crollo di un ponte presso una miniera di
rame cobalto situata nel sud della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Il
ponte è crollato in una zona inondata nei pressi della miniera, situata nella
provincia di Lualaba, ha spiegato a giornalisti il responsabile provinciale
degli Interni, Roy Kaumba Mayonde. Al momento sono stati recuperati 32 corpi, ma
le ricerche di ulteriori vittime proseguono, ha aggiunto.
L'articolo Crolla un ponte in una miniera di cobalto nella Repubblica
Democratica del Congo: almeno 32 morti. Il video proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Si è aperta una nuova pista nelle indagini sul triplice omicidio
dell’ambasciatore italiano in Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio,
del carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci, e dell’autista del programma
Alimentare Mondiale (Pam), Mustapha Milambo. Pista che porta dritta a una delle
ipotesi circolate, senza mai trovare conferma, nei primi mesi dopo l’agguato
lungo la strada tra Goma e Rutshuru, il 22 febbraio 2021: quella della guerra
per i minerali di cui è ricco il sottosuolo del Nord Kivu.
A indirizzare le indagini della Procura di Roma, che ha ancora aperto il secondo
filone per omicidio a carico di ignoti, è la testimonianza diretta di uno degli
operatori presenti sulla scena dell’agguato depositata in procura nell’ambito
delle indagini difensive condotte dal legale dei genitori di Attanasio,
coadiuvato da esperti di livello internazionale. Nel suo racconto, la persona
sentita dagli inquirenti, la cui identità è stata secretata da Piazzale Clodio,
ha sostenuto che la destinazione finale del convoglio non fosse il villaggio di
Rutshuru, dove il gruppo avrebbe dovuto visitare uno dei progetti del Pam, come
sostenuto fino a oggi, bensì una imprecisata area tra Rutshuru e Lueshe che
ospita una miniera di pirocloro-niobio storicamente legata a interessi russi
Il racconto è supportato da mappe, fotografie e informazioni che, sostiene la
fonte, indicano inequivocabilmente che l’ambasciatore fosse diretto verso
Ruthshuru-Lueshe, “dove c’è la miniera di niobio, una faccenda molto sensibile”.
”State indagando su un dossier sensibile perché finora la verità resta un
incubo, dato che nessuno sa la missione che aveva l’ambasciatore”, ha continuato
il testimone. Il niobio, non a caso, è un materiale raro e fondamentale per lo
sviluppo di mezzi ipersonici come quelli in dotazione a Mosca perché le sue
leghe resistono a temperature estreme e all’ossidazione. Caratteristiche che lo
rendono ricercatissimo dall’industria militare.
Se la nuova versione dei fatti trovasse conferma, si tratterebbe di una svolta
decisiva nell’inchiesta sul triplice omicidio di quasi cinque anni fa. Per
diversi motivi. Innanzitutto solleverebbe nuove incognite sul ruolo svolto dai
due funzionari del Pam indagati, ma mai processati per il riconoscimento
dell’immunità, Rocco Leone e Mansour Rwagaza, responsabili della compilazione
dei moduli di viaggio dai quali sono stati esclusi i nomi dell’ambasciatore
Attanasio e di Iacovacci. Nel piano ufficiale risulta infatti che la
destinazione finale del trasferimento da Goma fosse proprio il villaggio di
Rutshuru.
Questa nuova pista richiama alla mente anche un altro particolare della vicenda
fino a oggi rimasto in secondo piano. La sera prima dell’agguato, Attanasio
aveva incontrato la comunità italiana per una cena al ristorante Mediterraneo di
Goma. Tra i partecipanti era presente, oltre agli italiani residenti, anche la
delegazione russa che era partita in forze da Kinshasa pochi giorni prima. Si
trattava dell’ambasciatore russo di allora, Alexey Sentebov, che ufficialmente
si trovava a Goma per incontrare il governatore militare della provincia del
Nord Kivu, il generale Constant Ndima Kongba, e anche per visitare i Caschi Blu
russi della Monusco. Una presenza di cui negli anni Ilfattoquotidiano.it ha più
volte chiesto conto a chi era presente all’evento, ma che non ha mai trovato una
vera giustificazione.
“Il testimone avrebbe raccolto dati sulla scena dell’agguato – ha commentato
Salvatore Attanasio, padre del diplomatico, a Ilfattoquotidiano.it – Queste
informazioni sono confluite in una relazione che è al centro di una nuova
indagine rilevante perché collegata a un piano di attacco ben organizzato e
orchestrato. Siamo fiduciosi in quello che la Procura di Roma potrà accertare e
che, se confermato, cancella definitivamente la fantasiosa ricostruzione che si
sia trattato di un incidente. Inoltre sposta il tutto su un piano politico e
quindi la politica deve impegnarsi seriamente nella ricerca della verità”.
L'articolo Nuova pista sull’omicidio Attanasio: “L’ambasciatore doveva visitare
una miniera strategica per la Russia” proviene da Il Fatto Quotidiano.