“‘Te la senti di parlare davanti a me? Non hai vergogna?’. ‘No, tu sei come il
mio papà!’, mi ha risposto lei, 13 anni. Allora ho accettato di fare da
interprete e tradurre il racconto che questa mia alunna faceva a una operatrice
umanitaria di Medici Senza Frontiere a cui descriveva la violenza subita da 5
soldati. Io traducevo e piangevo. Ecco, è per lei che ho accettato di
testimoniare. Per lei e per tutte le ragazze e le donne che in quei terribili
giorni del 2002 sono state violate, senza mai aver avuto giustizia”. All’inizio
aveva rifiutato la convocazione: “Pensavo che andasse al di là del mio ruolo di
prete. Ma poi mi sono ricordato di quella ragazzina. E mi sono detto: se nessuno
ha il coraggio di esporsi, non si uscirà mai da questa spirale di impunità
sfacciata”. Chi parla a Ilfattoquotidiano.it è padre Silvano Ruaro, 87 anni,
missionario dehoniano, una vita in Repubblica Democratica del Congo, dove è
arrivato nel lontano 1970. In questi giorni si è suo malgrado ritrovato al
centro di polemiche che dalla Francia giungono fino al Congo. La sua deposizione
ha infatti sparigliato le carte in un importante processo che si sta svolgendo a
Parigi e che vede imputato un ex “signore della guerra”, Roger Lumbala.
Per l’accusa, Lumbala, oggi 67 anni, durante la seconda guerra del Congo
(1998-2003) era stato a capo di un’operazione nota come “Effacer le tableau”
(“fare tabula rasa”) che fra l’ottobre 2002 e il gennaio 2003 seminò il terrore
nella regione nordorientale del Paese: saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri
sistematici, torture, sparizioni forzate, persino cannibalismo forzato. Lumbala,
giudicato in base al principio della “giurisdizione universale”, rifiuta di
comparire, non riconosce la corte e nemmeno le accuse a lui rivolte, affermando
che all’epoca era a capo di un movimento politico e non aveva uomini armati.
È in questa delicata situazione che la deposizione di padre Ruaro è divenuta
cruciale: le sue tre ore di racconto, preciso e meticoloso, hanno sollevato
dubbi sull’impianto accusatorio e di conseguenza anche polemiche, sia Oltralpe
che in Congo. “Io ho raccontato solo e soltanto ciò di cui sono stato testimone
diretto – spiega nel corso dell’incontro con Ilfattoquotidiano.it – Dicono che
ricordo male per via dell’età, ma certe cose, quando le vivi, non le dimentichi
più. E poi le ho riferite da subito, ci sono articoli di vent’anni fa in cui
ripetevo esattamente lo stesso. E anche nel 2021, quando la Gendarmerie francese
mi aveva già chiamato per un colloquio informale, avevo raccontato quello che ho
visto, tanto che lo stesso giudice settimana scorsa ha affermato che la mia
deposizione è ‘coerente’ con quella del 2021”.
Un racconto particolareggiato, che ripete con date e dettagli. Il punto cruciale
è uno: “Il giorno dell’assalto alla missione – era il 12 ottobre – uno dei
miliziani mi disse a bassa voce ‘Padre, non faccia l’eroe, per quattro giorni
abbiamo il permesso di fare tutto ciò che vogliamo, senza dover rendere conto. È
così che ci pagano. È Bemba che ce lo ha detto’. Anche gli altri miliziani che
scorrazzavano per il villaggio e la missione dicevano ‘Siamo gli uomini di
Bemba‘”. E ancora: “A capo dell’operazione nella nostra missione di Mambasa,
saccheggiata e occupata per tre mesi, c’era il colonnello Freddy Ngalimu. Era
lui che dava ordini e firmava documenti come colonnello dell’ALC, il gruppo
armato di Bemba, e non dell’RCD-N di Lumbala”. Ecco, secondo padre Ruaro gli
uomini che per tre mesi hanno messo a ferro e fuoco la sua missione e tutta la
provincia rispondevano a un altro uomo: Jean Pierre Bemba. Già condannato dalla
Corte Penale internazionale per i crimini atroci che i suoi uomini avevano
commesso in Repubblica Centrafricana, Bemba ha scontato nove anni di carcere
all’Aja. Quando è uscito, è tornato in Congo ed è rientrato in politica. Oggi è
vicepremier e ministro dei Trasporti dopo esser stato ministro della Difesa. Un
pezzo da novanta. E infatti dal Congo sono arrivate diverse telefonate
preoccupate: “Silvano, stai attento. I nomi che citi sono pericolosi, non
tornare qui. Certo che sappiamo, qui tutti stanno seguendo il processo di
Parigi”.
E così padre Ruaro si ritrova tra due fuochi: da un lato il pesante rischio a
cui si è consapevolmente esposto testimoniando e facendo nomi, dall’altro i
detrattori che lo tacciano di fare il gioco di Lumbala. “Io ho detto ciò che ho
visto e vissuto – ribadisce – e l’ho fatto per le donne vittime di violenza. Non
posso dimenticare quel colonnello che indicava via via le ragazze per strada e
se le faceva portare in stanza”, conclude con un misto di amarezza e disgusto.
“Se ciascuno facesse la sua parte, si potrebbe mettere un freno a questa
impunità dilagante. Lo devono sapere che prima o poi saranno chiamati a
rispondere. Magari dopo vent’anni, ma questi criminali dovranno rendere conto
delle atrocità commesse sulla gente indifesa”.
L'articolo “Ho testimoniato su stupri e crimini di guerra in Congo. Adesso
ricevo minacce e vengo screditato”: il racconto del missionario Silvano Ruaro
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Crimini di Guerra
Protestano sia Hamas che Israele dopo la pubblicazione del rapporto di Amnesty
International intitolato Prendere di mira i civili: omicidi, prese di ostaggi e
altre violazioni da parte di gruppi armati palestinesi in Israele e Gaza.
Protestano perché entrambi vorrebbero che le informazioni contenute nelle 177
pagine prodotte dalla ong rispecchiassero maggiormente i contenuti delle proprie
propagande: il partito armato palestinese nega le responsabilità che gli vengono
attribuite dal 7 ottobre 2023, mentre Israele ritiene le accuse contro il
Movimento islamico di resistenza troppo morbide. E pure il riconoscimento
dell’utilizzo del protocollo Hannibal non sarà certo piaciuto a Tel Aviv.
LE ACCUSE DI HAMAS E ISRAELE AL RAPPORTO AMNESTY
Nel documento, Amnesty accusa Hamas e gli altri gruppi armati palestinesi di
crimini di guerra e contro l’umanità, per l’orrore inflitto ai civili
israeliani: violenze sessuali, torture, rapimenti e omicidi contro persone
inermi, nelle loro case, senza pietà per bambini e anziani. Eppure Hamas
sostiene di non aver ucciso civili nell’eccidio del 7 ottobre 2023, né commesso
violenze su persone senza divisa. Anzi attribuisce la morte di molti israeliani
indifesi al fuoco amico dell’esercito di Tel Aviv. “Amnesty diffonde menzogne
israeliane”, l’accusa lanciata da Hamas dopo la pubblicazione del rapporto sui
crimini della milizia islamista. La miglior smentita alle accuse di Hamas contro
l’ong arriva proprio da Tel Aviv che non ha apprezzato il rapporto. Ma per
motivi opposti: “È molto lontano dal riflettere l’intera portata delle atroci
violenze di Hamas”, ha scritto su X il portavoce del ministero degli Esteri,
Oren Marmorstein, definendo “di parte” l’organizzazione per i diritti umani.
L’ECCIDIO DEL 7 OTTOBRE E IL PROTOCOLLO HANNIBAL: ALMENO 15 ISRAELIANI VITTIME
DI FUOCO AMICO
Attaccata da ambo i lati, Amnesty lascia parlare i dati e gli indizi raccolti.
Ingenti, nel caso dei crimini commessi da Hamas e altri gruppi islamisti della a
Gaza, dal 7 ottobre 2023 ad agosto 2025. Le sigle terroristiche coinvolte nelle
violenze sono le Brigate Al-Quds e le Brigate dei martiri di Al-Aqsa. Ma
all’eccidio del 7 ottobre, scrive Amnesty, hanno partecipato anche “uomini
armati palestinesi in abiti civili”, compiendo “saccheggi diffusi di case e
proprietà in comunità residenziali di Israele. Alcuni hanno partecipato anche a
omicidi, distruzione di proprietà, rapimenti e altre violazioni gravi”. Giova
ricordare i numeri del 7 ottobre: 1200 persone sono state uccise. Altre 251 –
per lo più civili – sono state rapite e tenute in ostaggio a Gaza: in 36 casi,
le persone sequestrate “erano già morte al momento della cattura”.
Secondo Amnesty, “nella grande maggioranza dei casi, i responsabili delle
uccisioni erano combattenti palestinesi”. Tuttavia il rapporto conferma vittime
civili per mano dell’esercito israeliano, anche a causa del protocollo Hannibal:
un codice militare che mette a rischio le stesse forze armate di Tel Aviv, pur
di evitare il rapimento di un soldato Idf. “In alcuni casi, civili israeliani
sono stati effettivamente uccisi dalle forze israeliane in caso di errata
identificazione e/o nell’applicazione della direttiva Hannibal”, si legge nel
rapporto. Amnesty cita i due attacchi a Be’eri e Nahal Oz: “Sono state uccise
dal fuoco militare israeliano fino a 12 persone e tre persone rispettivamente,
secondo le indagini militari israeliane”. Ma è bene ricordare la responsabilità
delle milizie palestinesi, il 7 ottobre. Anche perché, “l’esercito israeliano
non era presente quando sono avvenute la maggior parte delle uccisioni”.
IL CATALOGO DEGLI ORRORI DEL 7 OTTOBRE
Il rapporto di Amnesty smentisce la narrazione di Hamas, secondo cui i miliziani
avrebbero commesso violenze solo contro i soldati. “Combattenti pesantemente
armati di fucili d’assalto, mitragliatrici, granate e granate a propulsione a
razzo hanno compiuto attacchi sistematici e deliberati contro la popolazione
civile”, si legge nel rapporto. Più di 3 mila combattenti palestinesi hanno
superato il muro che separa Gaza da Israele, dopo che migliaia di razzi furono
lanciati contro i civili israeliani, uccidendo e ferendo “diverse persone
civili, per lo più minori”. Poi le violenze indiscriminate contro “i kibbutz di
Be’eri, Holit, Kfar Azza, Magen, Nahal Oz, Re’im e Sufa, il moshav di Netiv
HaAsara, le città di Ofakim e Sderot, la spiaggia di Zikim e il sito del
festival musicale Nova”.
A Be’eri, Amnesty conta 101 civili uccisi,” tra cui 10 minori, la più giovane
dei quali Mila Cohen, di nove mesi, uccisa tra le braccia della madre nella
stanza di sicurezza della famiglia”. Molte famiglie hanno contemplato l’orrore.
Come “le due sorelle Yahel e Noiya Sharabi, di 13 e 16 anni, uccise insieme alla
madre Lianne Brisley-Sharabi, 48 anni, nella loro casa a nord-ovest del kibbutz,
dopo aver assistito alla cattura del padre, Eli Sharabi, 51 anni, da parte di
combattenti delle Brigate Al-Qassam”. Il papà Eli, ostaggio a Gaza per 16 mesi,
ha saputo dello sterminio di moglie e figlie solo al momento del rilascio.
Rotem Matthias, sedicenne del villaggio di Holit, “ha raccontato ad Amnesty
International che degli uomini armati palestinesi hanno lanciato una granata
nella stanza di sicurezza della sua casa di famiglia, uccidendo sua madre,
Schahar Matthias, 50 anni, e suo padre, Sholmi Matthias, 47 anni”. Rotem ha
detto di essersi salvato perché “sua madre lo ha fatto sdraiare sul pavimento in
uno spazio piccolo tra il letto e il muro, e si è sdraiata sopra di lui,
proteggendolo e salvandogli la vita”.
I residenti di Kfar Azza hanno raccontato l’assalto alle case di israeliani
disarmati, per un bilancio di 57 civili uccisi. Tra le vittime, gli ingneri
trentenni “Hadar Rosenfeld e suo marito, Itay Berdichesky, uccisi a colpi di
arma da fuoco nella loro abitazione, lasciando i loro gemelli di 10 mesi. Il
cugino di Hadar, Yahav Winner, attore e regista di 36 anni, è stato ucciso nella
sua casa mentre sua moglie è fuggita con la loro bambina di tre settimane e si è
nascosta per ore fino a quando non sono state salvate.
Neppure gli anziani e i migranti sono stati risparmiati. A Sderot “vi era un
gruppo di 13 civili, la maggior parte pensionati provenienti da aree vicine,
uccisi a colpi di arma da fuoco a una fermata dell’autobus nelle prime ore del
mattino, mentre si accingevano a partecipare a una gita di un giorno verso il
Mar Morto”. La violenza si è scagliata anche contro i lavoratori stranieri.
Amnesty ha documentato l’omicidio di 14 lavoratori agricoli thailandesi tra
Re’im e Nir Oz. In quest’ultima località i terroristi palestinesi hanno ucciso
10 studenti agricoli nepalesi. Una violenza cieca che non distingue più neppure
la nazionalità. L’eccidio al Festival Nova, scrive Amnesty, non era neppure
pianificato ma del tutto casuale: “Hanno sparato in aree piene di persone
civili, hanno preso di mira civili terrorizzati che cercavano di fuggire e hanno
dato la caccia ad altri nei luoghi dove cercavano di nascondersi – in rifugi
antiaerei, bagni pubblici, fossi e cespugli”.
GLI OSTAGGI
Dei 251 ostaggi, solo 27 erano soldati, mentre “la stragrande maggioranza delle
restanti 224 persone erano civili: 124 uomini, 64 donne e 36 bambini”. Tra le
persone sequestrate c’era la pacifista Shoshan Haran, fondatrice e presidente
dell’Ong israeliana Fair Planet. I miliziani hanno preso in ostaggio anche i tre
figli e due suoi nipoti, dalla loro casa a Be’eri. Ecco il racconto di Shoshan
ad Amnesty: “Uno dei terroristi ha urlato in inglese: ‘Donne, bambini, prendere.
Uomini, boom-boom’”. Solo dopo 50 giorni di “terrificante prigionia”, la donna
ha scoperto l’uccisione di suo marito.
L'articolo Hamas e Israele contro il report Amnesty. I miliziani negano i
crimini di guerra, l’ong conferma che Tel Aviv ha ucciso suoi cittadini proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Considerare crimine di guerra il “secondo colpo” nella vicenda che vede
coinvolti il Ministro della Guerra Usa, l’ex anchorman di Fox Tv Pete Hegseth
insieme all’ammiraglio Frank Bradley, leggendario ex navy seals avvistato in
Italia durante gli scoppiettanti anni ’90, non è una buona notizia. Contro
l’arbitrio del potere i democratici hanno il dovere di fare di più, altrimenti
la partita è persa.
Di fronte a dei presunti criminali la regola generale nelle società che si
ritengano liberali e garanti dei diritti fondamentali degli individui prevede di
indagarli, arrestarli, processarli, condannarli. Il tutto ad alcune condizioni
fissate nelle carte costituzionali e nei trattati internazionali ai quali
facciamo riferimento, tipo: che le prove a carico siano raccolte in modo
corretto, che all’accusato sia garantito il diritto a difendersi adeguatamente,
che il giudice sia imparziale… fino ad escludere che tra le punizioni possa
esserci quella capitale (non vale per tutti) e che la detenzione mai sia
disumana e degradante, anzi apra alla possibilità di un riscatto sociale (idem
come sopra).
Di certo non è previsto che la reazione di uno Stato liberale, democratico,
fondato sul rispetto dei diritti umani, possa essere quella di ammazzarli
preventivamente, senza processo. Questo tipo di reazione rimanderebbe infatti ad
un esercizio del potere talmente arbitrario da espellere quello Stato dal
paradigma stesso di Stato di diritto e pertanto dovrebbe essere considerata una
reazione culturalmente e politicamente inaccettabile. Uno Stato che adoperasse
in questo modo il proprio potere letale nei confronti di presunti criminali
andrebbe catalogato alla stregua di un clan mafioso.
Ma ecco che a sovvertire queste premesse ci ha pensato il Ministro della Guerra
degli Usa, il quale ha deciso che la “guerra” contro i presunti narcotrafficanti
che dalle coste sudamericane partono con natanti di ogni tipo puntando a quelle
statunitensi e quindi al ricco mercato nordamericano dovessero essere
semplicemente bombardati, cioè sterminati senza neppure tentare il fastidio di
arrestarli. L’ammiraglio Bradley ha eseguito il compito diligentemente e le
stragi sono iniziate nel settembre di quest’anno, senza destare particolari
reazioni. L’abitudine all’orrore peraltro è uno degli obiettivi perseguiti
scientificamente dagli architetti della guerra in ogni dove.
Oggi qualcosa pare muoversi e l’amministrazione Usa potrebbe essere chiamata a
dare qualche risposta al Congresso, ma su cosa nello specifico? Sulla
illegittimità del “secondo colpo”, perché sparare altri due missili contro una
imbarcazione già precedentemente colpita, sulla quale però non erano tutti morti
ma alcuni erano “soltanto” feriti o agonizzanti – e l’imbarcazione stessa era
ormai naufragata – integrerebbe un “crimine di guerra”. Capite perché non è una
buona notizia. Prevedo che il corto circuito morale e giuridico raggiungerà il
suo apice quanto l’amministrazione Usa proverà a giustificarsi negando che possa
essere stato commesso un qualunque “crimine di guerra” dal momento che contro i
narcos la “guerra” dichiarata è da intendersi in senso metaforico!
Il baratro nel quale i nostri pallidi Stati di diritto stanno precipitando è
tutto qui, nello sdoganamento spudorato dell’arbitrio (letale) del potere, che
annienta la minaccia presunta senza nemmeno scomodarsi a nasconderla con qualche
sofisticata strategia depistante: pensate quanti grattacapi a suo tempo per
eliminare Aldo Moro, per tenere il Paese sui binari “giusti” a colpi di bombe
sui treni, nelle banche, nelle piazze, per trovare scivolose convergenze di
interessi con mafiosi di ogni tipo pronti a rimuovere ostacoli al potere
altolocato (e impunito!). Non è cambiata la natura dell’arbitrio, sta cambiando
la sua auto narrazione e le difese culturali sono sempre più logorate dalla
colonizzazione dell’immaginario perseguita da chi con la violenza si ingrassa.
Lo “spettro” di questo utilizzo arbitrario del potere è ampio e comprende la
sproporzione con la quale il Viminale ha colpito tanto l’imam di Torino Shahin,
quanto gli operai in sciopero a Genova ieri o la progressiva invasione delle
scuole da parte del lessico militare: sfumature di nero, alleate nell’operazione
già richiamata di abituare progressivamente all’orrore, che ha ovviamente nella
guerra-guerreggiata il modo più potente e allo stesso tempo il fine ultimo.
La resistenza alla colonizzazione dell’immaginario oggi passa anche dai giovani
attivisti che in maniera nonviolenta a Torino stanno contestando la quinta
strepitosa “festa” internazionale delle armi-spara-tutto, la fiera che celebra
fatturati in crescita iperbolica per chiunque si occupi del modo più inevitabile
di uccidere. Grazie! Anche così restiamo umani.
L'articolo Usa-Venezuela, Pete Hegseth rischia una accusa per crimini di guerra:
il baratro dei nostri Stati di diritto è tutto qui proviene da Il Fatto
Quotidiano.
L’Ucraina non ha dimenticato Bucha con le sue 360 vittime, pochi mesi dopo
l’invasione russa del febbraio 2022. Le autorità di Kiev hanno identificato un
ufficiale russo ritenuto responsabile di “crimini di guerra sistematici e
coordinati”, commessi durante l’occupazione di Bucha nel 2022, quando centinaia
di civili furono uccisi dalle truppe di Mosca. Secondo l’ufficio del Procuratore
generale ucraino, citato dalla Cnn, si tratta di Yurii Vladimirovich Kim,
comandante di un plotone della 76ª Divisione d’assalto aereo russa, già
destinatario di un “Avviso di sospetto”, il primo passo verso un possibile
mandato di cattura internazionale.
L’atto d’accusa attribuisce a Kim la responsabilità di almeno 17 omicidi e
quattro casi di maltrattamenti inflitti tra il 7 marzo e l’1 aprile 2022,
periodo dell’occupazione di Bucha. Il ritiro delle forze russe portò alla luce
corpi di bambini, anziani e altri civili abbandonati nelle strade, oltre a fosse
comuni e segni di torture in scantinati. Gli avvocati di Global Rights
Compliance, che assistono Kiev nelle indagini, spiegano che il dossier si basa
su testimonianze, perizie forensi, ricostruzioni delle scene del crimine,
riconoscimenti fotografici, mappe e analisi da fonti aperte. Kim sarebbe inoltre
accusato di aver ordinato di bruciare i corpi delle vittime per eliminarne le
tracce.
Secondo gli investigatori, il caso evidenzia una “pianificazione metodica” delle
atrocità di Bucha, che non sarebbero episodi isolati ma parte di un piano
coordinato che coinvolgerebbe anche i livelli più alti della catena di comando
russa. “Siamo andati oltre il perseguire i semplici esecutori: ora stiamo
ricostruendo le decisioni della catena di comando che hanno trasformato ordini
ordinari in esecuzioni di massa”, ha dichiarato Maksym Tsutskiridze, vicecapo
della Polizia nazionale ucraina. Il Cremlino continua a negare ogni
responsabilità, accusando Kiev di aver inscenato immagini false.
L'articolo L’Ucraina ha identificato il comandante russo presunto responsabile
della strage di Bucha proviene da Il Fatto Quotidiano.