Dietro l’assedio statunitense sul Venezuela non c’è solo il petrolio – di cui il
Paese vanta le più grandi riserve a livello mondiale -, ma anche minerali
critici, tra cui coltan ed elementi di terre rare, spesso legati alla
transizione ecologica. Tali risorse naturali sono state tirate in ballo nelle
recenti trattative tra Caracas e Washington laddove Nicolás Maduro avrebbe
“offerto di tutto” – parole di Trump – pur di restare al potere mentre a inizio
novembre, all’American Business Forum, María Corina Machado ha parlato del suo
Paese come hub energetico delle Americhe e prossima “frontiera
dell’innovazione”.
Ma la realtà va già oltre la fantasia e c’è già un flusso costante di terre rare
che partono dal Venezuela, passano dalla Colombia, attraverso la guerriglia
dell’Eln, Ejército de liberación nacional, e raggiungono la Cina, il grande
monopolista di minerali critici, che li trasforma ed esporta in Europa. Dal
gigante asiatico proviene il 98% delle terre rare che raggiungono l’Unione
europa e che poi ci troviamo negli scaffali, sotto forma di smartphone e
auricolari, nelle vetture elettriche e in altri beni di consumo.
Il Paese sudamericano concentra un’importante riserva di minerali critici,
prevalentemente nell’Arco Minero, un’area da quasi 112mila chilometri quadri –
che equivale al 12,2% del territorio venezuelano – situata nello Stato Amazonas
(e quindi nell’Amazzonia venezuelana) dal valore stimato di 2mila miliardi di
dollari. Diverse inchieste realizzate da Armando.info, Amazon Underworld e
Insight Crime svelano che le risorse dell’Arco Minero non sono sotto il dominio
del governo centrale, bensì di gruppi privati e di guerriglie come l’Eln,
presente nella metà delle regioni del Paese, con la connivenza di settori
deviati della Gnb, la Guardia nazionale bolivariana, già nel mirino delle
Nazioni Unite per trame di corruzione e violazione sistematica dei diritti
umani. “Ci si doveva limitare a procedure artigianali, rispettose dell’ambiente.
Qui invece impiegano macchine pesanti, distruggendo anche le riserve naturali,
3.200 ettari soltanto nella riserva naturale Yacapana“, denuncia l’ong Sos
Orinoco. Ma non c’è solo l’impatto ambientale: l’attività estrattiva fa leva
sulla povertà della popolazione locale, colpita dalla crisi economica che lacera
tutto il Paese. “Qui guadagno in un giorno solo ciò che prenderei altrove
nell’arco di un mese”, dice Juan González a Ilfattoquotidiano.it parlando di
guadagni di circa “dieci dollari per ogni chilo di coltan”.
Il territorio, fuori dalla miniera, è presidiato dalla Guardia nazionale, che
lucra dall’attività estrattiva, mentre all’interno delle miniere comanda l’Eln.
“Qui ogni trasgressione si paga con la vita”, sostiene una fonte consultata da
Armando.info mentre racconta di aver assistito a un’esecuzione da parte della
guerriglia: “Lo hanno messo in ginocchio e gli hanno piantato due pallottole in
testa. A sparare era una donna”. Anche Human Rights Watch ha denunciato la
condizione inumana dei minatori parlando di “trattamenti brutali“,
“smembramenti” e “uccisioni” di minatori dinanzi ad altri lavoratori per
garantire l’ordine interno. Gli stessi popoli originari hanno spesso alzato la
voce contro l’attività mineraria illegale che, secondo l’ong Provea ha recato
“problemi di salute” non indifferenti, tra cui “intossicazioni e malattie
croniche che colpiscono soprattutto bambini e anziani”. Compromesse anche le
attività agricole che garantiscono la sussistenza alle comunità aborigene, come
gli Yanomami, spesso ignorate dal potere centrale.
I minerali estratti vengono distribuiti in sacchi di 40 chilogrammi circa,
navigano – di notte, su canoe artigianali o go fast – attraverso il fiume
Orinoco. Prima tappa: Colombia. I controlli vengono superati con documentazione
e titoli falsi e, anche se l’esercito colombiano ha provveduto a sequestri
record di circa 60 tonnellate, la merce viene poi restituita. Documenti falsi,
di produzione colombiana, servono ad aggirare le lacune giuridiche e la fragile
normativa in vigore. Riuscita la pratica di ripulitura, i minerali vanno in
Cina, che conta sulla presenza di importanti stabilimenti e raffinerie. Pechino
sorveglia i flussi dalla loro partenza, attraverso imprese presenti nell’Arco
Minero. “Non c’è solo la rotta colombiana, ma i minerali escono anche attraverso
il Brasile e la Guyana, tramite vie illegali, in assenza di controlli statali”,
afferma a Ilfattoquotidiano.it il giornalista Carlos Uzcátegui, già residente
nello Stato Bolívar. “Vengono usate anche piste clandestine e stabilimenti
militari dismessi mentre molte terre sono diventate inabitabili, come Santa
Elena de Uairén e il Kilómetro 88“. Caracas tace sul fenomeno, Bogotà si arrende
a una più grande “trama internazionale” – targata Pechino, lontana da Trump – e
i gruppi armati si espandono e pongono lo sguardo anche su altre località come
la Sierra de Perijá, nello stato Zulia, anch’essa sotto l’Eln, dove si ipotizza
la presenza di elementi di terre rare e altri minerali. È una questione di
domanda e offerta.
L'articolo Il business delle terre rare venezuelane che dalla Cina finiscono in
Ue: tra miniere illegali, omicidi e distruzione delle riserve naturali proviene
da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Cina
di Andrea Boraschi*
Martedì l’Ue deciderà il futuro del settore auto europeo. La revisione della
normativa sulle emissioni di CO₂ delle auto, dunque la decisione di confermare o
meno l’obiettivo di vendere solo veicoli a zero emissioni dal 2035, ci dirà se
l’Europa è davvero intenzionata a competere con Cina e Stati Uniti o se, di
fatto, accetterà una prospettiva in cui il futuro dell’auto non è europeo.
L’industria automobilistica del continente e i suoi alleati politici, nonché le
lobby dell’oil&gas, hanno impegnato tutte le loro forze in questa battaglia. Ciò
che realmente vogliono – oltre il paravento fumoso della “neutralità
tecnologica” – è la possibilità di continuare a vendere auto endotermiche anche
dopo il 2035. E di lasciare maggiore spazio, da qui ad allora, a tecnologie e
carburanti assai lontani – per capacità di riduzione delle emissioni, per
efficienza, maturità tecnologica e sostenibilità – dalle prestazioni dell’auto
elettrica (BEV). Che sarà invece – per stessa ammissione dei carmaker – la
tecnologia dominante nei prossimi anni.
L’industria è molto abile, quando si tratta di addossare la responsabilità della
sua crisi sui regolatori e sulle politiche climatiche. La realtà, però, è che la
crisi dell’auto non ha nulla a che fare col 2035. Le vendite di auto in Europa
sono calate di tre milioni, rispetto al 2019, perché le case automobilistiche
hanno privilegiato margini di profitto più alti a scapito dei volumi. Tra il
2018 e il 2024 il prezzo medio di un’auto di massa è salito del 40%, passando da
22.000 a 30.700 euro. E sono stati anni in cui molti produttori hanno registrato
profitti record.
Queste decisioni stanno ora producendo effetti concreti. La maggior parte degli
europei non può più permettersi un’auto nuova, mentre in Cina i marchi europei
stanno cedendo mercato sotto la pressione della concorrenza locale sui veicoli
elettrici. Come se ne esce? La “soluzione magica” dei carmaker sarebbe di aprire
le porte ai biocarburanti e agli ibridi plug-in (PHEV) dopo il 2035. Un rimedio
effimero, volto a massimizzare nel breve termine la componente endotermica; e un
grave errore strategico nel medio-lungo termine, che rischia di condurre
l’industria europea in un vicolo cieco. Ecco perché.
La prospettiva industriale – Una prospettiva di decarbonizzazione chiara, dunque
obiettivi trasparenti e stabili, rappresenta la bussola degli investimenti e
della fiducia nel mercato. Indebolire il target del 2035 significherebbe mettere
a rischio centinaia di miliardi già impegnati nella filiera dell’elettrico:
batterie, reti di ricarica, elettronica di potenza e componenti. Non a caso,
oltre 200 CEO e leader del settore hanno scritto alla Commissione europea
esortandola a non toccare questi obiettivi.
La sostenibilità economica – Dietro lo slogan della “neutralità tecnologica” si
nascondono soluzioni costose per i consumatori. Le auto elettriche sono già le
più economiche, nell’intero ciclo di possesso e utilizzo, e presto saranno anche
le più convenienti da acquistare. Al contrario, gli ibridi plug-in costano in
media 15.000 euro in più delle elettriche; se ai costi di acquisto si sommano
quelli di utilizzo, le PHEV possono arrivare a costare fino al 18% in più per
veicoli nuovi, percentuali che salgono ulteriormente (fino al 29%) per l’usato.
Gli e-fuel – altra soluzione propugnata dall’industria – arriverebbero a costare
fino a 6-8 euro al litro. E anche i biocarburanti avanzati, tanto cari
all’Italia, sarebbero un’alternativa costosa a causa della loro scarsa
disponibilità.
L’avanzata dell’elettrico – La corsa globale verso l’elettrico, per contro, è in
atto e non da segni di inversione. Le vendite di veicoli elettrici crescono non
solo in Cina, ma anche in mercati emergenti come Thailandia e Vietnam. E anche
in Europa la transizione sta accelerando.
Lo scorso novembre, i veicoli elettrici hanno raggiunto un nuovo massimo
storico, con 160.000 unità vendute in sette mercati del continente europeo.
Dall’inizio dell’anno si registra una solida crescita del 30%: oggi in Francia
le BEV valgono il 26% del mercato, in Portogallo il 32%; nel Regno Unito
sfiorano il 26,5% e in Germania sono al 22%, massimo storico dopo la fine degli
incentivi nel 2023. In Italia, lo scorso novembre le elettriche hanno
rappresentato il 12% del mercato. Un risultato frutto degli incentivi, certo; ma
anche la dimostrazione ultima che i consumatori non disprezzano affatto l’auto
elettrica, hanno semmai bisogno di politiche di sostegno alla transizione.
Il declino inesorabile dei motori tradizionali – Sul fronte opposto, i motori
tradizionali sono in costante declino. Le vendite di auto a combustione interna
(ICE) non si sono mai riprese dal picco del 2019; da allora a oggi, ICE e ibride
(non plug in), sommate, hanno perso il 10% del mercato (mentre le elettriche ne
hanno conquistato il 15%).
La domanda complessiva di auto è diminuita – tra le altre cose – a causa di
stagnazione economica, inflazione e tassi d’interesse elevati. Ma quando i
clienti torneranno, troveranno un mercato dominato dalle elettriche, non dai
motori tradizionali. Chi scommette ancora sul ritorno dei veicoli a combustione
— biofuel costosi, e-fuel o veicoli ibridi, che fanno ancora in gran parte leva
sulla tecnologia endotermica — semplicemente si illude.
L’Europa è a un bivio – Solo mantenendo fermi gli obiettivi attuali il settore
auto europeo ha una reale possibilità di competere nel mercato globale dei
veicoli elettrici. Indebolirli significherebbe aggrapparsi a rendite di
posizione sempre più esili, e rimanere ancora più indietro in termini di
innovazione. In altre parole: rallentare la transizione non aiuta. Peggiora la
nostra posizione competitiva.
L’industria automobilistica europea si è resa conto tardi di essere indietro
rispetto alla Cina. Ma ogni esitazione, oggi, è un vantaggio ulteriore per
Pechino, che non rallenterà la corsa verso l’elettrico solo perché noi
prolunghiamo la vita dei motori endotermici. Mentre i consumatori europei, nel
frattempo, smetteranno di acquistare una tecnologia di qualità inferiore e già
oggi, in molti Paesi, più costosa. Se l’Ue fa marcia indietro ora, rischia di
perdere il più grande cambiamento industriale di questa generazione,
abbandonando l’ambizione di padroneggiare una delle tecnologie più importanti
del XXI secolo e i vantaggi industriali, economici e sociali che ne derivano.
Ora è il momento di mantenere la rotta e, per i decisori, di mostrare leadership
e visione. Puntare su e-fuel e biofuel, su ibridi e su veicoli a combustione
“efficienti” è la direzione certa per trasformare l’Europa in un museo
dell’auto.
*direttore T&E Italia
L'articolo Auto inquinanti dopo il 2035? Se l’Europa torna indietro
sull’elettrico, se ne avvantaggerà la Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
Come dicono gli anglosassoni, “il Diavolo si nasconde nei dettagli”. E i
dettagli nell’accordo di pace mediato da Donald Trump tra il Rwanda e la
Repubblica Democratica del Congo (RDC) non mancano davvero. Più che il Diavolo,
però, tra le righe del documento si intravede la sagoma del Dragone cinese. La
traballante intesa sta già facendo discutere. Non solo perché, dopo la firma del
4 dicembre, nella regione orientale del Congo sono ripresi i combattimenti con
il M23, il gruppo separatista sostenuto da Kigali. Le condizioni imposte dal
presidente americano ai due Paesi rivali richiedono al governo di Kinshasa
gravose concessioni con un forte impatto sull’industria mineraria congolese.
Settore che conta per oltre la metà del Pil nazionale.
Tralasciando i risvolti legati alla spinosa ingerenza di Washington nella
sovranità della RDC, il “trattato ineguale” concertato da Trump riguarda molto
da vicino anche la Cina. Ad oggi sono almeno una quindicina le miniere operative
e oltre trenta i siti minerari in varie fasi di sviluppo (esplorazione,
costruzione e produzione) controllati o partecipati da aziende cinesi. Se si
restringe la lente solo sulla raffinazione del cobalto, il coinvolgimento della
Repubblica popolare riguarda ben il 90% del comparto. Anche se quanto estratto
proviene da giacimenti a gestione mista o artigianale.
Sono progetti che la Repubblica popolare ha coltivato nell’ultimo decennio per
aggiudicarsi i materiali critici indispensabili nella transizione energetica. Lo
ha fatto sfruttando proprio l’America First del primo mandato Trump. Fiutando lo
scetticismo del tycoon sul cambiamento climatico, tra il 2016 e il 2017 il
gigante minerario statunitense Freeport ha ceduto a un consorzio guidato dalla
statale China Molybdenum Co. la sua partecipazione nella Tenke Fungurume,
consegnando in mani cinesi una delle miniere di rame e cobalto più grandi al
mondo.
Oggi The Donald non è più sensibile ai problemi ambientali di quanto non lo
fosse all’epoca. Ma la competizione tecnologica con Pechino sembra aver indotto
la Casa Bianca a cambiare strategia. Per comprendere la portata della manovra
trumpiana bisogna riprendere in mano l’accordo. Le clausole nel testo sono
numerose ed estremamente restrittive: la RDC dovrà individuare i giacimenti più
promettenti – quelli già in esplorazione o ancora da assegnare – e inserirli in
una lista speciale, la Strategic Asset Reserve (SAR), riservandoli in via
prioritaria a imprese statunitensi e ai Paesi “allineati”. Provvedimento che
impedisce a un’azienda congolese o straniera di vendere i propri asset a un
gruppo cinese, se il progetto è inserito nella SAR. La RDC dovrà inoltre
informare ogni tre mesi l’ambasciata USA di qualsiasi accordo relativo
all’esportazione di minerali.
Le vendite non potranno più essere decise autonomamente da Kinshasa, dovranno
sempre tener conto degli interessi americani. La gestione dei giacimenti SAR
sarà affidata a un comitato congiunto che deciderà per consenso, ma con gli
Stati Uniti a godere del potere di veto. Come se non bastasse, il governo
congolese è chiamato a rivedere le proprie quote minoritarie nei progetti
strategici, così da facilitare l’ingresso di investitori americani. Mossa che
potrebbe aprire la porta a Washington anche in miniere oggi quasi interamente
cinesi, come Tenke. In sostanza, mentre la Cina continuerà a gestire i progetti
già esistenti, le nuove misure rendono un’espansione nei giacimenti della RDC
quasi impossibile.
È una vera manovra a tenaglia quella ordita dall’amministrazione Trump, già
impegnata attivamente nello sviluppo del “corridoio di Lobito”. Progetto che
punta a resuscitare la vecchia via commerciale che all’inizio del XX secolo
collegava le ricche regioni minerarie del Katanga nella Repubblica Democratica
del Congo e della Copperbelt in Zambia al porto angolano di Lobito. Lanciato da
Joe Biden – e abbracciato dall’Unione europea con un investimento di 2 miliardi
di euro – il piano prevede di rimodernare la ferrovia di Benguela, arteria
vitale per il trasporto di materie prime (in particolare rame e cobalto) verso
la costa atlantica e i mercati internazionali.
Secondo il Ministero degli Esteri italiano, il Corridoio – parte del Piano
Mattei – “diventa così una valida alternativa ad altri progetti, consentendo sia
all’Ue sia agli Stati Uniti di rafforzare i propri legami con l’Africa e al
contempo di facilitare l’accesso alle materie prime critiche necessarie per la
transizione energetica globale”. Dove per “altri progetti” si intendono
chiaramente quelli di Pechino.
Insomma, dopo innumerevoli promesse disattese, finalmente Washington e Bruxelles
sembrano fare sul serio. Sembrano, appunto. “Sono quindici anni che gli Stati
Uniti dicono di voler raggiungere la Cina in Congo, ma non è successo nulla di
concreto. Quindi non ci spero molto che questa volta sarà diverso”, commenta a
Ilfattoquotidianoi.it Eric Olander, cofondatore di The China Global South
Project.
Arginare l’espansionismo cinese in Africa non sarà semplice. Non solo perché,
come ammette la Farnesina, “la realizzazione del pieno potenziale del Corridoio
di Lobito non è priva di sfide, a cominciare dalla difficoltà a incoraggiare gli
investimenti in un’area segnata da una lunga storia di instabilità politica e
sociale”. Non solo perché la China Communications Construction Company possiede
circa un terzo della multinazionale portoghese incaricata di ristrutturare il
collegamento ferroviario. Come spiega Olander, “le aziende minerarie che
utilizzeranno il progetto non sono allineate con le priorità di alcun governo.
Quindi nulla impedisce alle società della logistica o del mining di portare quei
carichi in Cina per la lavorazione. Anzi è molto probabile che accadrà”.
Il fatto è che non basta ottenere la proprietà dei giacimenti. La capacità di
raffinazione dell’Occidente non è in grado di sostenere la domanda di minerali
essenziali. Sebbene buona parte del rame proveniente dalla RDC sia
sufficientemente puro da non necessitare di particolari trattamenti, altri
materiali – come il cobalto – richiederanno una maggiore lavorazione. E qual è
il paese primo al mondo per capacità di raffinazione? La Cina, ovviamente. Non è
un dettaglio trascurabile, soprattutto considerata la competitività di quegli
“altri progetti”.
“Costerebbe troppo trasportare il materiale verso ovest, fino a Lobito, e poi
spedirlo circumnavigando tutto il Capo di Buona Speranza”, avverte Olander.
D’altronde una soluzione più pratica già c’è. Si chiama Tazara: la ferrovia che
fece costruire Mao Zedong per collegare i giacimenti dello Zambia e del Congo
con le coste della Tanzania. A distanza di oltre cinquant’anni, il presidente
cinese Xi Jinping la sta rimettendo in sesto con un investimento da 1,4 miliardi
di dollari. La funzione è la stessa di Lobito: trasportare rame e cobalto dalla
Copperbelt. Ma in questo caso verso il porto di Dar es Salaam. Ovvero lungo la
costa orientale con affaccio sull’Oceano Indiano. “Nei prossimi dieci anni
assisteremo a un duello molto interessante tra le due ferrovie – conclude
Olander – dato che è rivolta a est ed è considerata parte integrante
dell’ecosistema logistico cinese, io punto tutto sulla Tazara”.
L'articolo Pace tra Rwanda e Congo, così gli Usa hanno provato a limitare il
dominio cinese sulle miniere proviene da Il Fatto Quotidiano.
Un’operazione in mare aperto per impedire all’Iran di ricostituire il suo
arsenale dopo i raid americani e israeliani di giugno. A raccontare del blitz è
il Wall Street Journal che, sulla base di resoconti di ufficiali Usa, scrive di
come a novembre le forze americane sarebbero salite a bordo di una nave
nell’oceano Indiano per sequestrare materiale partito dalla Cina e diretto a
Teheran.
Quando le forze speciali statunitensi hanno abbordato il cargo, la nave sarebbe
stata a centinaia di miglia dalla costa dello Sri Lanka. L’imbarcazione ha poi
potuto riprendere il viaggio, affermano le fonti del Wsj, secondo cui gli Stati
Uniti avevano monitorato attentamente la spedizione e le informazioni di
intelligence raccolte suggerivano il carico fosse destinato ad aziende iraniane
specializzate nell’approvvigionamento di componenti per il programma
missilistico della Repubblica Islamica.
Nel carico c’erano componenti potenzialmente utili per la realizzazione di armi
convenzionali, ha detto un ufficiale. Il materiale è stato distrutto, ha
aggiunto, e le componenti sequestrate erano ‘dual-use’. Nessun dettaglio è stato
fornito sull’armatore né sul nome della nave. No comment dal Comando
Indo-Pacifico, che ha condotto il blitz. Nessuna risposta è arrivata anche dalle
richieste di commento da parte del giornale ai ministeri degli Esteri di Cina e
Iran.
L'articolo “Gli Usa hanno attaccato una nave partita dalla Cina e diretta in
Iran” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Commissione europea ha effettuato un’ispezione a sorpresa nella sede di Temu
a Dublino. Secondo funzionari europei che hanno parlato con il Financial Times,
l’ispezione è avvenuta la settimana scorsa con lo scopo di verificare se
l’azienda della PDD Holdings abbia ricevuto sussidi illegali. Se ciò fosse vero,
Temu avrebbe violato il regolamento europeo sulle sovvenzioni estere.
Negli ultimi anni, il colosso cinese dell’e-commerce ha realizzato centinaia di
milioni di profitti sul mercato europeo, anche grazie alle esenzioni dai dazi
all’importazione di pacchi a basso costo. Un vantaggio che sta per svanire in
vista della stretta europea su questo genere di spedizioni che mira a proteggere
i rivenditori nazionali dalla concorrenza sleale.
Non è la prima volta che Temu finisce nel mirino della Commissione europea.
L’anno scorso era stata avviata un’indagine ai sensi del Digital Services Act,
il regolamento europeo sulle piattaforme online. A luglio di quest’anno era
stato annunciato in via preliminare che Temu non sta facendo abbastanza per
impedire la vendita di prodotti illegali attraverso la sua attività di
e-commerce.
Il Ft ricorda che l’indagine va inserita nel contesto di una “più ampia
repressione da parte del blocco sull’ondata di importazioni dalla Cina da parte
di rivenditori online, tra cui figura anche Shein“. Secondo la Commissione, lo
scorso anno sono stati importati 4,6 miliardi di articoli di questo tipo, il 91%
dei quali proveniente dalla Cina.
L'articolo Perquisita la sede di Temu a Dublino: la Commissione Ue sospetta
sussidi illegali proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’Occidente, vecchio e stanco, “balla sull’orlo del precipizio. E pare non
capire, non reagire, non elaborare”. Guido Crosetto, che ieri aveva commentato
la Nuova strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti (“Trump ha
semplicemente esplicitato che l’Europa gli serve poco o nulla” nella
competizione con la Cina), oggi ha affidato a un’intervista ad Avvenire la
propria ricetta per risvegliare la nostra parte di mondo, basata sulla necessità
di dialogare con le potenze che fino a oggi sono state schierate sul lato
opposto della barricata.
“Nel 2100 la popolazione italiana crollerà a 35 milioni di abitanti -, premette
il ministro della Difesa – il 40 per cento in meno di quella attuale, l’Africa
toccherà invece quota 3,7 miliardi. L’età media in Italia salirà a 53 anni, in
Africa sarà di 17”. Numeri che fotografano un’emergenza natalità contro cui
l’Europa e l’Italia sono chiamate a fare qualcosa: “Senza crescita della
popolazione saltano i welfare dell’intero Occidente. Una catastrofe. I Pil
andranno a picco, i sistemi sanitari non reggeranno l’invecchiamento, le
pensioni non verranno più pagate”. Come si rimedia? “Dovremmo introdurre, già da
subito, una misura choc per provare a invertire la rotta: tasse zero per quelle
famiglie che fanno più di due figli“.
Quello che accadrà se non faremo qualcosa per invertire la tendenza “ci deve far
paura. Almeno quanto la fanno Russia e Cina“. A proposito, “io non penso che la
Russia muoverà guerra all’Europa – dice Crosetto -. Ma quello che mi dicono i
colleghi dei Paesi del Nord e dell’Est Europa è un timore che, ai loro occhi,
risulta più che fondato. Per loro il tema è solo capire ‘quando’ lo farà. Non se
lo farà”.
Cosa può fare, allora, la nostra parte di mondo per evitare la catastrofe?
“Dobbiamo, tutti insieme – e intendo tutti gli Stati e gli organismi
multilaterali mondiali, compresi gli Stati che, ieri, facevano parte del “Sud
globale” -, ripensare le strutture multilaterali e i sistemi istituzionali” e
“occorrono anche una nuova Europa e una nuova Nato, più inclusiva, globale, che
guardi ben molto oltre l’Atlantico. Penso a una sempre più pressante,
necessaria, vera difesa europea, convinto che l’Europa a 27 è troppo piccola. La
necessità è una difesa continentale in cui coinvolgere Paesi che, oggi, sono
fuori dai “confini” della Ue: il Regno Unito, la Norvegia, l’Albania, i
balcanici”.
Non solo. “Serve una trasformazione profonda e veloce della Nato, che la faccia
diventare una struttura capace di garantire un’alleanza per la pace nel mondo,
un ‘braccio’ armato ma democratico, di una Onu rinnovata, uscendo dal ruolo di
organizzazione di difesa del solo Occidente ‘atlantico’”. E come si fa? La Nato,
così com’è è stata percepita per decenni e cioè come un nemico per i Paesi del
Sud, per i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, ndr), deve invece
aprirsi e allargarsi. Deve pensare al mondo, non solo a una sua parte”.
Una prospettiva, quella che India e Cina possano in una qualche forma entrare
nell’orbita della Nato, difficile da immaginare: per quale motivo Pechino e
Nuova Dehli dovrebbero avvicinarsi al Patto atlantico che è un’alleanza
anti-Russia, quando la Cina compra petrolio e gas da Mosca tenendola
economicamente in vita nel corso di una guerra che in assenza di questo
intervento potrebbe ridurla sul lastrico? Riguardo l’India, poi, nel 2023 negli
Stati Uniti la Commissione Speciale della Camera sulla Competizione Strategica
tra gli Stati Uniti e il Partito Comunista Cinese aveva proposto che l’India
entrasse in una versione allargata del meccanismo Nato Plus, ma solo a livello
di collaborazione e in ogni caso in chiave anti-cinese. Pensare, quindi, che
l’India e la Cina – in questo momento entrambe vicine alla Russia – possano
entrare o collaborare con la Nato appare un controsenso.
Le minacce, secondo il ministro, non mancano neanche sul fronte interno: “Sono
spaventato da una violenza che cresce, da un odio ideologico e politico che si
cerca di alimentare”. Da qui al richiamo allo spettro degli Anni di piombo il
passo è breve: “Qualcuno – e non mi riferisco a una parte politica specifica –
sta contribuendo a creare un humus che assomiglia a quello degli anni Settanta,
anni della violenza e del terrorismo. Foto bruciate nelle piazze, confronti
negati nelle Università, assalti alle redazioni dei giornali. Si respira un’aria
brutta, pesante, irragionevole. Non vorrei che all’improvviso ci trovassimo a
fare i conti con delle ‘Brigate Rosse 4.0’“.
L'articolo Nato “amica” dei Brics e Difesa Ue allargata ai Balcani: l’idea di
Crosetto per risvegliare l’Occidente proviene da Il Fatto Quotidiano.
Inviare una missione di astronauti sulla Luna prima che lo faccia la Cina e
programmare una presenza di lungo periodo sul nostro satellite, investire sui
propulsori nucleari e fare in modo che gli astronauti possano raggiungere Marte.
L’ambizioso programma di Jared Isaacman, l’uomo scelto da Donald Trump per
guidare la National Aeronautics and Space Administration (NASA) e pronto a
ricevere la conferma dal Senato, proietta le ambizioni strategiche della Casa
Bianca verso lo spazio e riaccende la competizione tra le grandi potenze.
Isaacman, imprenditore attivo nel settore dell’e-commerce, amico di Elon Musk e
astronauta per diletto grazie a SpaceX, l’azienda aerospaziale fondata dallo
stesso Musk nel 2002, era stato nominato da Trump alla guida della NASA, una
prima volta, nel dicembre 2024, ma la sua candidatura era stata ritirata in
seguito alla rottura tra il Capo di Stato americano e Musk. Il suo ritorno segna
un riavvicinamento tra Trump e l’imprenditore sudafricano e preoccupa il Partito
Democratico, conscio dell’influenza che Musk potrà esercitare sulla NASA e dei
benefici di cui potrà godere SpaceX. L’azienda è coinvolta nel Programma
Artemis, un’iniziativa nata nel 2017 durante la prima Amministrazione Trump che
intende riportare l’uomo sulla Luna per la prima volta dal 1972 e creare una
base permanente sul nostro satellite che possa, poi, facilitare la realizzazione
di missioni di astronauti su Marte.
La missione del prossimo allunaggio umano, Artemis III, è prevista per il 2027,
ma questa data è soggetta a possibili rinvii e, come ricordato da Forbes,
nessuno sembra pronto a scommetterci. La Cina, invece, punta a far sbarcare una
missione umana sulla Luna entro il 2030 e a raggiungere per prima il Polo Sud
del satellite, dove si ritiene possano essere presenti risorse preziose come
terre rare, Elio-3 e ghiaccio d’acqua.
Il cronoprogramma di Pechino non ammette incertezze e punta ad anticipare al
2026 il collaudo del lanciatore Lunga Marcia 10, un dispositivo importante per
le future missioni umane sulla Luna. Al momento Washington e Pechino non
dispongono di un sistema per allunare le persone, ma il raggiungimento di questo
traguardo, grazie ai consistenti investimenti dei programmi nazionali, è
prossimo. Il vantaggio degli Stati Uniti in ambito aerospaziale, determinato
dall’uso di tecnologie avanzate e di esperienze importanti nel passato, era
indiscutibile fino ad alcuni anni fa, ma è stato progressivamente eroso dalle
iniziative della Cina. Riuscire a scavalcare i rivali ed essere i primi a
inviare una missione umana sulla Luna è un obiettivo propagandistico importante
sia per Pechino che per Washington, che sotto la Ppesidenza Trump è tornata a
interessarsi ai temi spaziali.
Il ritorno sulla Luna, trascurata per decenni dopo l’ultimo allunaggio
realizzato dall’Unione Sovietica nel 1976, interessa anche nazioni come l’India
e la Russia che, però, partono in una posizione di netto svantaggio rispetto a
Cina e Stati Uniti. Negli ultimi anni l’agenzia aerospaziale russa Roscosmos ha
provato a ravvivare il proprio programma lunare, ma si è scontrata con
fallimenti, scarsi finanziamenti dovuti alla pressione delle sanzioni
occidentali sull’economia nazionale e priorità diverse da parte del Cremlino.
L’India, invece, ha lanciato con successo un veicolo spaziale nei pressi del
Polo Sud lunare nel 2023 e collabora con il Giappone per la realizzazione di
missioni più avanzate nel 2026, ma ricopre un ruolo secondario nello scenario
aerospaziale globale e non può intaccare il predominio sino-americano. L’Agenzia
Spaziale Europea (ESA) ha recentemente ottenuto il budget più ampio della sua
storia, pari a oltre 22 miliardi di euro, da parte dell’Unione Europea, Stati
cooperanti e membri associati. I fondi verranno utilizzati, tra le altre cose,
per la realizzazione di una missione di esplorazione su una luna ghiacciata di
Saturno e per lo sviluppo delle missioni previste per il ritorno umano sulla
Luna, che in una prima fase si focalizzeranno sull’invio di un veicolo meccanico
e sulla creazione di una rete di telecomunicazioni.
L'articolo Propulsori nucleari, Luna e Marte. Trump scatena la nuova guerra
fredda nello spazio contro la Cina proviene da Il Fatto Quotidiano.
Questa Europa, “piccola, lenta e vecchia” non serve agli Stati Uniti che
affrontano Pechino per la supremazia nel mondo e nelle scorse ore Donald Trump
non ha fatto altro che metterlo in chiaro. Lo sostiene il ministro della Difesa,
Guido Crosetto, in un lungo post su X in cui commenta la Strategia di sicurezza
nazionale Usa pubblicata ieri dalla Casa Bianca, aggiungendo che “ogni
decisione, ogni atto futuro sarà affrontato con un solo obiettivo: il
rafforzamento degli Usa nella competizione con la Cina“. “La traiettoria della
politica americana era evidente già prima dell’avvento di Trump che ha soltanto
accelerato un percorso irreversibile – ha scritto l’esponente di Fratelli
d’Italia -. Gli Usa hanno in corso una competizione sempre più difficile,
complessa e dura con la Cina e ogni loro atto, decisione, comportamento, deve
essere letto in questo scenario. Trump ha semplicemente esplicitato che l’Eu
(l’Europa, ndr) gli serve poco o nulla in questa competizione”.
Secondo Crosetto, agli occhi di Washington l’Europa ha perso di interesse perché
“non ha risorse naturali particolarmente rilevanti o utili. Perché sta perdendo
la competizione sull’innovazione e la tecnologia. Perché non ha potere militare.
Perché, rispetto ai nuovi attori del Mondo, è piccola, lenta e ‘vecchia’. I
motivi per cui lo abbia fatto anche con un po’ di asprezza non sono nemmeno loro
una sorpresa perché i suoi giudizi (e quelli di molti esponenti repubblicani o
maga) su alcune posizioni e scelte politiche dell’Unione sono note da anni“.
Per il ministro della Difesa però “il tema principale non è l’Ue. Come si nota
dal poco spazio dedicato al vecchio continente, nella strategia resa nota ieri.
Ogni decisione, ogni atto futuro sarà affrontato con un solo obiettivo: il
rafforzamento degli Usa nella competizione con la Cina”. Un approccio che
Crosetto definisce “pragmatico, senza sentimenti o legami, utilitaristico ed
esclusivamente orientato alla supremazia economica e tecnologica nei prossimi
anni perché significa supremazia in questo secolo”. “É questo scenario (come
dicevo ampiamente previsto) quello nel quale devono essere definite le scelte,
le decisioni, le strategie delle nazioni più piccole (come noi)”, “non per
esercitare una supremazia su qualcuno ma per garantirci futuro”.
“La pessima notizia è che dovremmo (per me dovremo) pensare a ciò che finora ci
avevano fornito, gratuitamente, i nostri alleati statunitensi: la sicurezza, la
difesa e la deterrenza. Non parlo solo di quelle militari”, ha proseguito il
ministro, secondo cui per “scelta politica in questi anni abbiamo costruito e
consolidato una grande quantità di rapporti bilaterali con nazioni che ci
possono aiutare nel percorso futuro (in Africa, Golfo, Asia, Sud America,
Australia) per garantire e rafforzare la sicurezza economica, energetica e di
approvvigionamenti strategici – aggiunge -. Per scelta abbiamo contribuito a
dare un piccolo impulso positivo ad un’Europa che aveva perso il contatto con le
traiettorie del Mondo pensando di poterlo plasmare a sua immagine e somiglianza.
Piccolo, perché le resistenze ideologiche e burocratiche che rifiutano un
approccio veloce e pragmatico alle evoluzioni della realtà sono fortissime e
sedimentate”.
Secondo Crosetto “l’Europa è anche però un luogo naturale dove poter trovare
partners per fare ciò che da soli siamo troppo piccoli per realizzare. Ad
esempio è chiaro che la “soglia di ingresso” finanziaria per recuperare il tempo
perso su tecnologie fondamentali richiede una quantità di investimenti pubblici
e privati tali che anche per 27 nazioni sono pesanti. Ma vanno fatti, per
sopravvivere. Stesso discorso per la Difesa: più siamo, più é forte, meno costa.
Siamo nel pieno centro di cambiamenti epocali. Occorre vederli, capirli ed
orientare la nave, come in mare durante una tempesta. Perché, come accade in
mare, nessuno, nemmeno i più grandi sono in grado di controllare i flussi dei
tempi nei quali viviamo, ma ognuno é costretto ad affrontarli navigando al
meglio”.
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sono in competizione con la Cina” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La nota catena di negozi Mediaworld, che si occupa della vendita al dettaglio di
prodotti di elettronica, diventa cinese. Il gruppo Jd ha, infatti, conquistato
l’85,2% dell’azienda tedesca Ceconomy, holding che controlla i negozi MediaMarkt
(in Italia Mediaworld) e Saturn. Circa il 60% arriva dall’Opa lanciata da Jd,
mentre il resto è frutto dell’accordo con Convergenta, la holding della famiglia
Kellerhals, che manterrà una quota del 25,35%. La notizia è stata resa nota
dalla stessa azienda con un comunicato.
A fine luglio il gruppo cinese aveva acquistato il 32% di Ceconomy. Jd è in Cina
il terzo gestore di commercio online. Il valore di questa precedente
transazione, secondo il quotidiano economico Handelsblatt, era di 2,2 miliardi
di euro. L’acquisizione di MediaMarkt e Saturn dà a JD.com l’accesso a uno dei
più grandi negozi online di prodotti elettronici in Europa e a una rete di circa
1.000 negozi in undici Paesi europei. Sempre a luglio era stato concordato che
per i successivi tre anni non ci saranno licenziamenti o chiusure di filiali
nell’ambito della transazione.
L’Autorità federale antitrust tedesca ha dato il proprio via libera a settembre,
poiché JD.com era finora “attiva in Germania solo in misura molto limitata“.
Tuttavia, secondo Ceconomy, la conclusione dell’offerta pubblica di acquisto è
ancora soggetta all’approvazione delle autorità competenti in materia di
commercio estero e all’approvazione ai sensi del regolamento Ue sulle
sovvenzioni estere. La conclusione è prevista quindi nella prima metà del 2026.
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della holding tedesca Ceconomy proviene da Il Fatto Quotidiano.
Le forze dell’ordine italiane hanno condotto perquisizioni e sequestri in due
siti di Amazon in Italia lunedì 24 novembre, nell’ambito di un’indagine che
ipotizza il reato di contrabbando di prodotti provenienti dalla Cina. La Procura
di Milano, con il pm Elio Ramondini, sta indagando su responsabili del colosso
dell’e-commerce per presunte irregolarità nella movimentazione di prodotti
giunti dalla Cina sui quali non sarebbero stati pagati l’Iva e i dazi doganali.
Secondo le fonti di Reuters, che ha anticipato la notizia, l’indagine ipotizza
che Amazon abbia agito come una sorta di “cavallo di troia”, consentendo a merci
cinesi di circolare nel Paese senza la tassazione appropriata.
Le operazioni condotte dalla Guardia di finanza di Monza in collaborazione con
l’Agenzia delle Dogane, hanno portato al sequestro di circa cinquemila prodotti
presso un polo logistico gestito da Amazon a Cividate al Piano, in provincia di
Bergamo. perquisizioni sono state effettuate anche nella sede milanese di Amazon
(alcuni responsabili sarebbero indagati) con sequestri di materiale informatico
per le indagini. I militari hanno anche identificato il manager della società
responsabile del trasporto delle merci all’interno del territorio italiano.
L’indagine è nata dal filone principale di un’altra inchiesta coordinata dalla
Procura di Milano su una presunta evasione fiscale da 1,2 miliardi di euro
relativa alle vendite online in Italia tra il 2019 e il 2021. Proprio nel
contesto della precedente inchiesta sono già stati effettuati sequestri di
centinaia di migliaia di prodotti e le Fiamme Gialle avevano già effettuato
perquisizioni e acquisizioni di documenti per ricostruire, a partire dal 2019,
la tipologia di business del colosso statunitense, a partire dalla suddivisione
dei venditori e tracciando i percorsi della merce. Gli inquirenti sospettano che
le merci cinesi vengano introdotte nell’Unione Europea, e quindi in Italia,
attraverso canali attualmente sconosciuti, senza il versamento delle imposte
sulle vendite o dei dazi doganali dovuti. I prodotti, che si ipotizza siano
stati portati in Italia attraverso uno schema societario complesso e mediante
l’uso di decine di società italiane, molte delle quali ritenute società di
comodo, sarebbero stati successivamente movimentati e venduti attraverso il
marketplace di Amazon.
In base all’indagine, proprio l’algoritmo di Amazon favorirebbe la vendita in
Italia di prodotti extra-Ue senza adeguata identificazione, consentendo così
l’evasione dell’Iva di cui Amazon sarebbe corresponsabile in base alla legge
italiana sugli intermediari. L’Agenzia delle Entrate ha proposto un accordo che
l’azienda dovrebbe valutare entro dicembre. La Procura indaga sia sul sospetto
contrabbando sia sulle violazioni del codice doganale Ue. A causa della
complessità nella gestione dei flussi di merci negli hub logistici del gigante
dell’e-commerce, le indagini procedono con la collaborazione di Amazon.
L’indagine è inoltre destinata ad essere estesa al resto dell’Ue. “I magistrati
di Milano sono stati convocati a luglio nella sede dell’Eurojust all’Aia, dove
hanno illustrato l’ampiezza della loro indagine ai colleghi di diversi Paesi Ue,
tra cui Germania, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Belgio, Svezia e
Irlanda”, ha scritto Reuters, e l’EPPO, la Procura europea, ha avviato verifiche
sui conti del gruppo dal 2021 al 2024.
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contrabbando cinese. Sequestri a Milano e Bergamo proviene da Il Fatto
Quotidiano.