Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne la Fondazione Una
Nessuna Centomila, il cui evento si è svolto il 25 settembre in Piazza del
Plebiscito a Napoli, comunica che sono stati devoluti ulteriori 200mila euro ai
centri antiviolenza, che vanno ad aggiungersi ai 500mila euro già raccolti e
donati a settembre.
Grazie alla partecipazione del pubblico accorso a Napoli e al sostegno dei
partner, vengono ora destinati altri 50mila euro a 4 nuovi centri raggiungendo
così un importo ad ora di 700mila euro raccolti e distribuiti tra 14 centri
antiviolenza in tutta Italia. I centri antiviolenza sono stati individuati dalla
Fondazione Una Nessuna Centomila tenendo conto del lavoro da essi svolto e delle
loro esigenze.
Organizzato per la prima volta al Sud Italia, l’evento sarà trasmesso l’11
dicembre in prima serata su Canale 5. E in occasione della messa in onda
televisiva, per dare un ulteriore e importante contributo alla raccolta fondi di
Una Nessuna Centomila, sarà attivo il numero solidale attraverso il quale sarà
possibile donare per continuare a sostenere i centri antiviolenza.
In occasione dell’evento artiste e artisti del panorama italiano si sono riuniti
per lanciare un messaggio forte e condiviso contro la violenza sulle donne.
Durante la serata si sono alternati sul palco con performance speciali e duetti
inediti: Annalisa, Ariete, Bigmama, Brunori Sas, Coez, Elisa, Elodie, Emma,
Ermal Meta, Fiorella Mannoia, Anna Foglietta, Francesca Michielin, Francesco
Gabbani, Gaia, Gigi D’Alessio, Malika Ayane, Noemi, Paola Turci, Rkomi, Rose
Villain e Veronica Gentili. E con la partecipazione amichevole di Amadeus.
L'articolo Una Nessuna Centomila, devoluti 200mila euro ai centri antiviolenza
oltre ai 500mila euro già raccolti e donati a settembre dopo il concerto-evento
a Napoli proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Centro Antiviolenza
Se nel Medioevo alle donne veniva imposta la mordacchia, oggi ci sono strumenti
più sofisticati contro le donne che svelano, parlano, prendono posizione
pubblica contro la violenza sessista: cause legali minacciose, intimidazioni
giudiziarie e attacchi mediatici. A finire nel mirino non sono solo le vittime
di violenza e attiviste femministe, ma anche operatrici dei centri antiviolenza
e giornaliste che raccontano la vittimizzazione istituzionale delle donne. A
volte ci sono giornaliste che vengono condannare in cause civili per
diffamazione, anche se quanto hanno scritto era basato su documenti ufficiali e
si trasforma la verità in un’imputata.
È lecito usare il diritto per soffocare la voce di chi denuncia violenza? La
legge serve a proteggere le persone dalla calunnia, certo. Ma le vittime devono
poter parlare, denunciare pubblicamente ciò che hanno subito, senza il rischio
di essere trascinate in tribunale.
In Italia cresce il rischio di Slapp – Strategic Lawsuits Against Public
Participation – cause legali strategiche contro chi partecipa al dibattito
pubblico sul tema della violenza maschile contro le donne. Sono strumenti di
intimidazione pensati per zittire chi denuncia abusi, chi si espone, chi osa
rompere il silenzio. L’obiettivo è chiaro: riportare le donne al silenzio.
Il backlash preannunciato da Susan Faludi nel 1991 è qui ed è evidente. Minacce
legali, pressioni di potere, violenza istituzionale: tutto per impedire alle
donne di parlare. Il movimento #MeToo del 2017, che portò milioni di donne a
denunciare pubblicamente violenze e molestie superando i confini geografici
negli Usa e culminò nella condanna del produttore Harvey Weinstein a 24 anni di
carcere, dimostrò quanto la solidarietà e la visibilità possano fare la
differenza. Ma oggi, lo stesso sostegno allo svelamento delle vittime sarebbe
garantito?
Recentemente, alcune operatrici dei centri antiviolenza sono state denunciate
per testimonianze rese in aula durante processi per violenza. La Procura ha
archiviato, ma il danno è stato fatto: stress, intimidazione. Altri casi vedono
uomini imputati per violenza inviare minacce legali tramite i propri avvocati a
chi aveva semplicemente svolto il proprio lavoro: relazioni inviate ai servizi
sociali o alle forze dell’ordine sulle donne accolte nei centri. Tutto finisce
spesso nel nulla, ma intanto il centro perde tempo e risorse preziose, e le
operatrici vengono logorate psicologicamente.
E se da una parte c’è lo Slapp, dall’altra ci sono continue aggressioni digitali
alle pagine social dei Centri antiviolenza, che a volte si amplificano con
shitstorm organizzate, fatte spesso da profili fake che scagliano insulti e
minacce. Gli aggressori attaccano le pagine social dei centri antiviolenza,
prendendo di mira le operatrici e le sopravvissute con campagne coordinate di
umiliazione e di intimidazione. A volte, gli autori di violenza le cui compagne
sono state ospitate nelle case rifugio lanciano accuse pubbliche, volte a
diffamare l’operato dei Centri antiviolenza con l’accusa di sottrazione di
minore. Accuse alle quali le rappresentanti dei Centri antiviolenza
difficilmente possono replicare, sia perché sono tenute alla riservatezza su
quanto viene svelato nel Centro antiviolenza, sia perché difendersi potrebbe
dire esporsi al rischio di denuncia per diffamazione.
Un caso emblematico che rispecchia la situazione che ho appena descritto è
quella capitata dell’attivista croata Tölle, condannata per aver diffamato il
marito di una donna accolta nel suo centro antiviolenza. Tolle aveva respinto
pubblicamente le accuse dell’uomo (di aver sottratto la figlia) spiegando i
motivi per cui il centro antiviolenza aveva accolto la donna e la minore. La
Corte Europea dei Diritti Umani riconobbe la querela fatta dall’uomo come azione
legale intimidatoria. Non si trattò di un normale processo, ma dell’uso distorto
del diritto per silenziare chi difende le donne. Lo Stato croato fu condannato a
risarcire l’attivista.
Quanto alle vittime di violenza, il passo da sopravvissute a imputate può essere
brevissimo. Il rapporto Da sopravvissuta a imputata, pubblicato da Index on
Censorship, conferma la tendenza: in Regno Unito e Irlanda, le sopravvissute
alla violenza sessuale sono sempre più spesso bersaglio di minacce legali,
citazioni in giudizio e intimidazioni da parte di studi legali, solo per aver
raccontato la propria esperienza.
In Italia, donne che denunciano violenza istituzionale sui social o
pubblicamente possono subire lo stesso trattamento: accuse di diffamazione,
cause civili, processi infiniti. Come osserva Elena Biaggioni: “Quello che non
si vuole vedere è la disparità di potere. Tutte le donne che parlano di violenza
sanno che prima o poi dovranno affrontare il timore di una denuncia. Sono forme
di intimidazione che funzionano. Investono anche i Centri antiviolenza. Sono le
parole dei bulli che diventano legge.”
È un paradosso inquietante: denunciare la violenza e trovarsi nuovamente colpite
dalla violenza stessa, questa volta sotto forma di diritto piegato al potere. È
ora di affrontare questa problematica perché la legge non può diventare un’arma
contro chi denuncia violenze, né in aula di tribunale, né sui social.
L'articolo Querele intimidatorie e minacce legali: è lecito usare il diritto per
far tacere chi denuncia violenza? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Valentina ha quattro figli, due maschi e due femmine. Con l’ex marito ha vissuto
11 anni e ora da due è riuscita a voltare pagina e lasciarsi questa storia di
violenza alle spalle. Ad aiutarla a compiere questo passo è stato anche
l’appoggio trovato al CAV, il Centro Antiviolenza Teresa Bonocore, ad Ottavia,
quartiere a nord della Capitale, finanziato dal comune di Roma e gestito dalla
cooperativa sociale Be Free.”Ho deciso di dire basta grazie a mia figlia di 6
anni – racconta Valentina – un giorno mi ha abbracciata, mi ha detto di portare
sua sorella più piccola a scuola e di fermarmi nel parcheggio, perché il padre,
il mio ex marito, aveva comprato 2 coltelli. Questo ha svegliato nella mia
mente, anche se probabilmente già era presente, il pensiero che potessi perdere
la vita per mano del mio ex marito”.
Valentina racconta una storia simile a quella di tante: all’inizio ci si
innamora, va tutto bene, poi dopo poco arrivano le prime avvisaglie, alcuni
comportamenti violenti intervallati da scuse e momenti di “apparente calma”. “Ho
dato subito colpa all’alcool – aggiunge Valentina – perché ne faceva uso,
pensando che passasse ed invece così non è stato”.
Con il tempo la situazione peggiora, l’ex marito comincia ad isolarla dalle
amiche e dagli amici, diventa sempre più geloso, al punto che Valentina comincia
a camminare per strada a testa bassa, per evitare di incrociare lo sguardo di
altre persone. “La cosa più difficile per le donne con cui ho avuto colloqui –
spiega Ludovica Mutarelli, operatrice del Cav Bonocore – è riconoscere la
violenza. Bisogna capire che quando il maltrattante è il marito, per le donne,
che sono state innamorate, è molto difficile unire all’immagine bella dell’ex
compagno, l’immagine negativa di una persona che spesso volontariamente vuole
fare loro del male”.
Secondo l’esperienza delle operatrici che lavorano nel CAV di Ottaviano, la
violenza di genere non è cambiata molto negli anni. “Il fenomeno purtroppo è
sempre uguale a sé stesso – spiega Lucia Beretta, che da 10 anni lavora nel
settore ed è responsabile del CAV Teresa Bonocore – quello che forse è un po’
cambiato è l’arrivo di persone sempre più giovani, anche minorenni, che
subiscono atti di violenza da coetanei, professori o da familiari, ma che hanno
voglia di parlare e denunciare”.
Per questo al Centro sottolineano l’importanza dei corsi sesso–affettivi nelle
scuole, per parlare anche ai più giovani di che cos’è il rispetto, il consenso,
la sessualità, che cos’è l’altro o l’altra e sapersi riconoscere nell’altro o
nell’altra.”Oggi mi sento una donna libera – conclude Valentina – io e i miei
figli adesso possiamo dire, senza preoccupazione, se una cosa ci va oppure non
ci va. La mia rivincita è stato sentir dire a mio figlio maggiore che è proprio
bello sentirsi liberi.”
L'articolo “Mia figlia mi ha detto ‘non tornare a casa, papà ha due coltelli’,
così ho lasciato mio marito. Ora siamo liberi”: la storia di Valentina,
sopravvissuta alle violenze proviene da Il Fatto Quotidiano.