Per decenni ha tenuto compagnia a milioni di bambine che ci hanno giocato
inventando le storie più disparate, oggi la Barbie è motivo di polemica
politica. Succede ad Arcore, città amministrata da Fdi in provincia di Monza e
Brianza, dove dal 6 dicembre al 18 gennaio 2026 è possibile visitare la mostra
“Le donne: 500 fashion Barbie dolls” presso Villa Borromeo d’Adda. L’iniziativa
è promossa dall’amministrazione comunale in chiusura del mese di novembre
dedicato alla lotta alla violenza di genere. E proprio la scelta di legare
l’evento alla battaglia per la prevenzione, ha suscitato numerose contestazioni.
È il caso di Carla Giuzzi, responsabile diritti segreteria Sinistra Italiana
Monza e Brianza, che in un post su Facebook, pur definendo “meritevole”
l’intenzione di destinare il ricavato delle offerte alla Caritas della Comunità
pastorale Sant’Apollinare, parla della celebre bambola come di “un modello di
donna che è alla base della violenza di genere in quanto vista solo come ‘un
oggetto’ da possedere”.
“BARBIE È MODELLO DI DONNA STEREOTIPATO”
Se Valentino Damiano Donghi, direttore artistico della mostra, la descrive come
“un racconto sul femminile e di tutto quello che le donne sono riuscite a
realizzare nonostante gli uomini”, c’è chi si interroga su come sia possibile
portare un contributo alla lotta contro la violenza di genere servendosi della
Barbie, modello per eccellenza della donna-oggetto. Scrive Giuzzi sui social:
“Il suo aspetto fisico, alta, bionda, occhi azzurri, vita stretta e gambe lunghe
ha condizionato generazioni di bambine a seguire il modello di donna
stereotipato che veicolava e non è bastato vestirla da scienziata, poliziotta o
pilota d’aereo. Un modello di donna che è alla base della violenza di genere in
quanto vista solo come ‘un oggetto’ da possedere. La volontà di possesso
costituisce uno dei primi fattori da combattere per eliminare la violenza sulla
donna”.
LA REPLICA DEL SINDACO
Maurizio Bono, primo cittadino Fdi di Arcore, replica così alle polemiche
scatenate dall’iniziativa: “Leggo con sorpresa e un po’ di amarezza le critiche
mosse in queste ore alla mostra dedicata alle Barbie e interpretata, in modo
frettoloso e superficiale, come un’operazione priva di contenuti culturali o
lontana dal tema della violenza sulle donne”, si legge su PrimaMonza.it. “La
realtà è esattamente opposta. Il progetto nasce proprio per stimolare una
riflessione pubblica sul percorso culturale che la nostra società ha compiuto –
e che deve continuare a compiere – nella rappresentazione dei ruoli femminili e
maschili”. E ancora: “La storia della Barbie, dagli anni Cinquanta a oggi, è la
storia dei cambiamenti del nostro immaginario collettivo: dagli stereotipi
rigidi della donna-oggetto a modelli sempre più consapevoli, autonomi e plurali.
E allo stesso modo Ken racconta quanto, anche per gli uomini, certi ruoli
sociali siano stati a lungo rigidi o irrealistici”. “Non si tratta di celebrare
un giocattolo – conclude Bono – ma di usare un simbolo popolare e riconosciuto
per aprire una discussione accessibile a tutti, soprattutto ai più giovani, su
come i modelli culturali influenzino la percezione dei ruoli e possano, nel
lungo periodo, alimentare o contrastare la violenza”.
L'articolo Arcore, l’iniziativa della destra contro la violenza sulle donne? Una
mostra dedicata alle Barbie proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Violenza sulle Donne
Ora si indaga per omicidio. L’ipotesi di reato è stata formulata dopo la
conclusione dell’autopsia del corpo di Diana Canevarolo, la donna di 49 anni che
era stata ritrovata gravemente ferita nel cortile della sua abitazione a Torri
di Quartesolo, in provincia di Vicenza. L’autopsia è stata effettuata
all’ospedale di Vicenza ed è durata oltre sei ore. Secondo le prime
indiscrezioni, è stata scartata l’ipotesi di caduta accidentale come hanno
confermato il figlio della vittima e il legale del marito.
La donna è stata trovata senza vita la settimana scorsa e la Procura di Vicenza
aveva disposto l’autopsia del cadavere. Sul corpo alcune ferite, di cui una
ampia sulla parte sinistra del cranio. Non si esclude nessuna pista, ma l’esito
dell’autopsia ha indirizzato gli inquirenti verso l’ipotesi di un delitto
causato dalla violenta aggressione.
Gli investigatori hanno raccolte le testimonianze di familiari e amici. Al
vaglio anche le tracce di sangue che sarebbero state trovate vicino a una
panchina a circa un metro e mezzo dal corpo. La casa, come riportano i media
locali, è stata sequestrata e sarà probabilmente oggetto di un nuovo sopralluogo
degli esperti della Scientifica. Verranno passate al setaccio anche le immagini
dei filmati delle telecamere di sorveglianza distribuite nella zona, per
verificare la presenza di estranei o sospetti nella zona in cui poi è stata
trovata la 49enne in una pozza di sangue.
L'articolo Si indaga per omicidio per la morte di Diana Canevarolo: dopo
l’autopsia scartata l’ipotesi di un incidente proviene da Il Fatto Quotidiano.
Centinaia di persone, ieri sera, hanno preso parte al flashmob organizzato a
Roma dalle associazioni di quartiere, centro antiviolenza Donna Lisa, Astra e
Non una di meno dopo la violenza sessuale subita da una 23enne all’uscita della
metro Jonio. “Siamo qui per solidarietà alla donna, per ribadire la nostra
presenza sui territori e sottolineare che non accettiamo sciacallaggi su vicende
terribili come questa – ha affermato Daniela Volpe del centro Donna Lisa – Chi
stupra è maschio, che sia bianco o nero, è figlio delle cultura patriarcale. Le
strade sicure le fanno le donne che le attraversano”. La fermata dove è avvenuta
la violenza “è pericolosa soprattutto di sera”. “Abbiamo dei giardini che di
notte sono un invito alla violenza e strade buie – ha sottolineato – Questa
fermata della metro avrebbe potuto avere un accesso diretto su viale Jonio, ma
non capiamo perché non venga aperta”.
L'articolo Ragazza violentata fuori dalla metro, flash mob e corteo a Roma:
“Strade buie invito alla violenza” – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il disegno di legge che introduce il concetto di “consenso libero e attuale” nel
reato di violenza sessuale “è un atto di civiltà giuridica“. Il magistrato Fabio
Roia, sentito in commissione Giustizia del Senato, ha ribadito la sua posizione
a difesa del disegno di legge che la Lega ha bloccato il 25 novembre scorso, in
occasione proprio della giornata contro la violenza sulle donne. Il
provvedimento, arrivato a un passo dal via libera definitivo grazie anche a un
patto bipartisan tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein,è stato fermato dal
Carroccio per “ulteriori approfondimenti” richiesti innanzitutto dalla
presidente leghista della commissione Giulia Bongiorno. Dopo lo stop, i lavori a
Palazzo Madama proseguono, dove sono stati convocati giuristi ed esperti per un
massimo di due richieste per ogni gruppo parlamentare.
Oggi è stata la volta di Roia, presidente del tribunale di Milano e noto per la
sua decennale esperienza in materia di violenza di genere. “Il concetto
dell’introduzione del consenso risponde innanzitutto ad una legislazione
europea”, ha esordito, “a cui noi siamo vincolati avendo per esempio nel caso
della convenzione di Istanbul sottoscritto la fonte sovranazionale. È un
principio che adegua la legislazione italiana a quelle più evolute come Francia,
Spagna e Germania dove si parla di consenso ed altro ed amplia soltanto rispetto
a situazioni che sono già codificate”. Nelle scorse settimane, la ministra per
la Famiglia Eugenia Roccella aveva sostenuto che “il rischio sarebbe quello
dell’inversione dell’onere della prova”. “Un falso giuridico”, come già detto da
Roia. Che oggi ha ribadito: “Sull’inversione dell’onere della prova non cambia
assolutamente nulla, perché la donna che lamenta di avere subito un atto di
violenza sessuale in assenza di consenso si assume la responsabilità di quello
che dice sul piano ovviamente della denuncia primaria che nel caso sia falsa
apre al rischio di accusa di calunnia“.
Secondo Roia, “è giusto codificare il concetto di consenso dell’atto sessuale,
anche se è già presente in giurisprudenza, perché talvolta i giudici di merito
non lo tengono in considerazione. All’obiezione di chi afferma che il consenso è
stato ampiamente introdotto dalla giurisprudenza, ed è quindi meglio non metter
mano all’attuale norma, affidandosi alla giurisprudenza, Roia ha replicato: “Io
la codificherei, molte volte i giudici di merito – e lo dico con autocritica –
si discostano da questa giurisprudenza e si arriva a situazioni paradossali per
le donne e talvolta non si arriva in Cassazione”, dove invece la giurisprudenza
è consolidata.
Roia ha anche lanciato un appello: gli uomini, in caso di dubbio sul consenso
della donna “si astengano”. “Da uomo”, ha detto, “ci vuole un minimo di self
restraint; se un uomo ha un dubbio si deve astenere. Se una donna o una ragazza
ha bevuto o per altri motivi non sta bene, un self restraint dovrebbe spingerci
ad astenersi, nel dubbio. Lo dico non tanto dal punto di vista giuridico, lo
dico sul piano della continenza e di rispetto che appartiene al nostro Paese
avanzato in materia di diritti”. In tal senso Roia ha suggerito di non
qualificare ulteriormente il consenso, perché la verifica è un problema che si
pone più in sede probatoria, che non in quella di scrittura della norma.
Come ricostruito dall’agenzia Ansa, nelle due successive audizioni della
professoressa Ilaria Merenda e dell’avvocato Bartolomeo Romano, è arrivata
l’ipotesi di “spacchettare” l’articolo, prevedendo due fattispecie e due diverse
sanzioni a seconda della gravità dell’atto. Su questo punto la presidente della
commissione, nonché relatrice, Giulia Bongiorno ha replicato: “Come relatore
ancora non ho preso decisioni; ascolto con attenzione, di certo lavorerò per un
punto di equilibrio. Un punto di equilibrio che valorizzi il consenso cercando
di ridurre i rischi di strumentalizzazioni”.
L'articolo Ddl stupro, Roia in audizione in Senato: “Giusto introdurre il
consenso, ci adegua a legislazioni più evolute” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quando la vicenda era stata scoperchiata, la scorsa estate, aveva fatto perdere
le proprie tracce. Irreperibile. Ma ha deciso di rientrare alla base e, appena
arrivato in città, è stato fermato e ammanettato. L’accusa è pesantissima:
violenza sessuale aggravata. Di questo dovrà rispondere un 34enne, ritenuto
dagli inquirenti il responsabile di quanto avvenuto a due giovani donne
all’interno di altrettanti centri estetici di sua proprietà a Terni.
Ad agosto era stato stato arrestato ai domiciliari un dipendente dell’uomo con
la stessa identica accusa formulata da una terza vittima. Dopo l’arresto del suo
collaboratore, il 34enne – straniero – aveva fatto perdere le proprie tracce
rientrando probabilmente nel Paese di origine e rendendosi irreperibile. Gli
investigatori della Squadra Mobile hanno ricostruito i suoi spostamenti
individuando il probabile momento del rientro in Italia e venerdì lo hanno
fermato in centro a Terni senza che l’uomo opponesse resistenza.
L’inchiesta era partita dalla denuncia di due giovanissime ragazze e dagli
approfondimenti realizzati con pedinamenti, testimonianze e acquisizioni di
documenti ne è emerso un quadro coerente con quanto riferito da altre vittime.
Le donne venivano avvicinate con pretesti professionali e indotte a entrare nei
negozi per un trattamento estetico dove si consumavano le violenze. Per entrambi
gli esercizi commerciali il questore di Terni ha disposto la sospensione della
licenza.
L'articolo Due donne stuprate nei centri estetici a Terni: arrestato il titolare
34enne proviene da Il Fatto Quotidiano.
Come è cambiata la narrazione della cronaca nei casi di femminicidio? Dopo anni
di sensibilizzazione e formazione da parte delle attiviste dei Centri
antiviolenza e di GiULIA, i giornalisti e le giornaliste hanno acquisito
maggiori competenze e letture più aderenti alla realtà del fenomeno ma ancora
persistono distorsioni, pregiudizi o stereotipi.
E’ stato presentato recentemente il nuovo report dell’Osservatorio Step, curato
da Flaminia Saccà. Un precedente report Step che analizzava 16.715 articoli
negli anni 2017, 2018 e 2019 aveva rilevato “una rappresentazione distorta,
permeata da pregiudizi tendenti a vittimizzare le donne e ad attenuare le
responsabilità dei colpevoli”. Ora il progetto ha prodotto una nuova ricerca con
l’analisi di 2350 articoli pubblicati su 26 testate.
Se si confrontano i dati del Ministero degli Interni sui crimini contro le donne
e si fa una comparazione col numero degli articoli che sono stati analizzati,
emerge una discrepanza: le denunce per maltrattamenti familiari rappresentano il
51,7% delle denunce eppure gli articoli che trattano di violenza domestica sono
solamente il 16% degli articoli. Accade il contrario con le uccisioni delle
donne che rappresentano lo 0,3% dei crimini ma che sono stati raccontati nel 33%
degli articoli. C’è una maggiore narrazione sulla violenza sessuale rispetto
alle denunce (18% contro il 13,7%) e minore rispetto allo stalking (34,3% degli
atti persecutori commessi, contro un 7% degli articoli analizzati che ne
parlano).
Si scrive ancora poco e male di violenza domestica, spesso raccontata come
conflitto o lite, senza che siano considerate le disparità di potere e le
asimmetrie che sono alla base della violenza domestica. Anche se si scrive meno
di raptus, la descrizione della violenza è ancora presente come perdita
improvvisa di controllo del maltrattante (34% degli articoli analizzati) così
come persiste l’himpaty, la narrazione empatica nei confronti dell’autore di
violenza.
I media, riporta la ricerca Step, continuano ad attenuare la responsabilità
maschile attraverso strategie narrative tese ad individuare il dolore dell’uomo
come possibile chiave interpretativa del femminicidio. È il trionfo dei frame
che esonerano da responsabilità: “era fragile”, “era disperato”, “non dormiva”,
“l’amava troppo”. E’ evidente che tale narrazione distorce i fatti ed evita di
focalizzare l’attenzione sulla storia e le dinamiche che hanno portato al
femminicidio, ponendo l’attenzione solo nei momenti che precedono il compimento
del crimine.
Il risultato è una rappresentazione che sposta lo sguardo dalla violenza alla
sofferenza dell’uomo che l’ha commessa. Si tratta di una suggestione che attenua
le responsabilità degli autori di violenza. La ricerca rileva anche l’alternanza
di himpaty e mostrificazione dell’autore di violenza. La rappresentazione del
femminicida cambia a seconda dell’età delle vittime. Nei casi che riguardano
donne anziane, disabili o malate, la violenza viene presentata come conseguenza
della patologia della vittima, trasformando il femminicidio in un gesto
altruistico, una sorta di epilogo pietoso di una storia di sofferenza condivisa.
L’uomo “non regge”, “non sopporta più”, “è stremato dalla malattia della moglie”
mentre la donna viene ridotta alla sua condizione clinica e scompare come
persona: non ha voce, identità e resta sullo sfondo della narrazione come
problema, contesto, peso se non come origine della sofferenza del partner.
Questa narrazione non è affatto oggettiva perché dà un senso al gesto dell’uomo,
lo rende comprensibile e quasi inevitabile. È un dispositivo culturale che
protegge il colpevole e cancella la vittima.
Invece, nei casi che coinvolgono bambine e giovanissime vittime di padri o
patrigni, la rappresentazione tende a essere più dura nel giudizio, più
esplicita, meno ambigua. L’offender è definito come tale e la violenza è
chiamata con il suo nome. Il racconto non indulge in attenuanti psicologiche ma
avviene una deumanizzazione dell’autore di violenze descritto come “orco” o
“mostro”.
La risposta è amara ma evidente: le giovanissime non possono essere accusate di
nulla. Non possono “aver fatto arrabbiare”, “essere state ambigue”, “aver
rifiutato un abbraccio”, “aver voluto lasciare” il loro aggressore o essere “un
peso”. Le bambine hanno il diritto di essere protette e curate, le anziane no.
Un altro dato, forse il più inquietante dal punto di vista mediatico rilevato
nella ricerca, è che il 76% degli articoli che danno voce all’offender riporta
direttamente la sua versione dei fatti (“mi faceva dormire sul tappeto”, “mi
aveva detto che si era iscritta ad un sito di appuntamenti”). La vittima è stata
uccisa e ovviamente non ha più possibilità di parola ma la sua testimonianza
indiretta viene riportata da terzi solo nel 58% dei casi.
Questo squilibrio non è un solo dettaglio statistico: significa che
l’informazione continua a costruire il racconto dal punto di vista dell’uomo che
ha agito violenza, mentre la donna resta sullo sfondo, evocata, ricostruita,
interpretata.
Il caso Montefusco, citato nel report, è emblematico. La giustificazione del
“blackout emozionale” – una categoria inesistente nei manuali di psicologia e
negata dagli psichiatri – è il simbolo perfetto di un modo di raccontare e
giudicare la violenza che cerca l’eccezione per non riconoscere la regola.
Se ogni uomo che uccide è fragile, innamorato, disperato, affaticato, instabile,
allora la responsabilità individuale svanisce. E resta un’unica conseguenza
culturale possibile: la violenza diventa un fatto spiegabile, comprensibile,
quasi normale.
In conclusione, la situazione va in lento miglioramento ma c’è molto da fare. La
scelta di dare voce all’offender, di cercare attenuanti emotive, di trasformare
un femminicidio in un “dramma della disperazione” continua a resistere nella
cronaca nera o giudiziaria influenzando la percezione del disvalore dei crimini
contro le donne.
Se da una parte il femminicidio viene raccontato come un dramma legato alla
sofferenza o all’amore, e dall’altra come atto mostruoso e circoscrivibile ad
eccezioni mostruose o a devianza, viene meno la lettura della violenza maschile
contro le donne come fenomeno sociale e strutturale. Persiste una rimozione
della violenza nelle sue molteplici manifestazioni.
Finché continueremo a raccontare la violenza maschile attraverso lo sguardo di
chi la esercita, non potremo mai combatterla davvero.
L'articolo Femminicidi, com’è cambiata la narrazione della cronaca: articoli più
aderenti, ma persistono distorsioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
I carabinieri di Cesano Maderno (Milano) hanno arrestato un uomo di 38 anni per
aver sequestrato per ore la sua ex compagna e il figlio. Il fatto è avvenuto due
giorni fa, dopo la fine della relazione e a seguito di denunce della donna per
violenza sessuale e maltrattamenti.
Secondo le ricostruzioni, la vittima, residente a Corsico con il bambino, aveva
acconsentito a invitare l’uomo a cena, con la scusa di trascorrere una serata
insieme. Dopo aver mangiato e giocato con il figlio, l’uomo ha chiesto di poter
fermarsi a dormire. Quando la donna ha imposto che avrebbe potuto restare solo
sul divano, l’uomo è improvvisamente diventato aggressivo: ha trascinato madre e
figlio in camera da letto, chiudendo a chiave la porta e dichiarando che non se
ne sarebbe andato.
In quel momento la donna è riuscita a inviare alla madre un breve video della
scena tramite cellulare, chiedendo aiuto. La madre ha immediatamente allertato
il 112, e sul posto sono intervenuti i carabinieri. Le trattative per far aprire
la porta sono state lunghe e difficili, tanto che sono state allertate le
squadre di intervento speciale dell’Arma.
L’uomo è stato infine arrestato e portato carcere di Monza. Le indagini dei
carabinieri proseguono per ricostruire con precisione la dinamica del sequestro
e gli eventuali reati contestati oltre al sequestro.
L'articolo Sequestrata dall’ex compagno riesce a chiedere aiuto inviando un
video con il cellulare: 38enne arrestato proviene da Il Fatto Quotidiano.
Aggredita e poi violentata da un uomo che si era nascosto nella vegetazione di
un sentiero ciclo-pedonabile. I carabinieri della compagnia di Cesenatico hanno
arrestato un 26enne originario del Gambia con l’accusa di violenza sessuale
aggravata e lesioni personali. Lo stupro è avvenuto a San Mauro Pascoli, in
provincia di Forlì-Cesena. Venerdì mattina, la vittima stava correndo lungo un
sentiero ciclo-pedonale quando è stata assalita. Dopo averla immobilizzata,
l’uomo ha trascinato la ragazza in un’area appartata e l’ha violentata.
Dopo la fuga dell’uomo, la vittima ha chiamato i carabinieri ed è stata
soccorsa. Grazie alla precisa descrizione fornita, le pattuglie e gli elicotteri
degli agenti hanno rapidamente individuato il presunto aggressore in un capanno
poco distante. L’uomo aveva anche una ferita a una mano causata dalla resistenza
opposta dalla vittima. L’uomo, che è anche ritenuto responsabile di
palpeggiamenti commessi in precedenza nei confronti di un’altra donna, che ha
poi denunciato l’episodio ai carabinieri, è stato arrestato e, su disposizione
del sostituto procuratore di Forlì, portata in carcere, in attesa dell’udienza
di convalida.
L'articolo Aggredita mentre correva su un sentiero e stuprata: 26enne arrestato
per violenza e lesioni proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il 2 dicembre il governo britannico ha annunciato una riforma epocale dei
processi per stupro in Inghilterra e Galles, con l’obiettivo dichiarato di
proteggere le vittime dallo stigma della serial liar, la “bugiarda seriale”. Una
volta implementata, la riforma limiterà la possibilità, per la difesa, di
utilizzare precedenti denunce di abusi sessuali, anche quelle mai arrivate a
condanna o archiviate per mancanza di prove, per dipingere la persona offesa
come inaffidabile davanti alla giuria. La norma aggiorna il Criminal Justice Act
2003 restringendo drasticamente l’ammissibilità in dibattimento della storia
sessuale passata della vittima o di sue segnalazioni pregresse di violenza
sessuale, elementi che potranno essere introdotti solo in circostanze
eccezionali, previa autorizzazione del giudice e solo quando esista un solido
valore probatorio e non un mero tentativo di alimentare stereotipi misogini.
Sarà anche più semplice ammettere in giudizio le condanne precedenti
dell’imputato per reati sessuali o di violenza domestica, inclusi abusi commessi
contro altre vittime, per dimostrare uno schema ripetuto di comportamenti
predatori senza dover più superare soglie quasi insormontabili di “analogia
sostanziale” con il caso in esame. Il governo punta a una progressiva entrata in
vigore a partire dal 2026, con una combinazione di modifiche legislative e
cambiamenti pratici nelle prassi di polizia, Crown Prosecution Service e
tribunali, anche attraverso progetti pilota nei principali centri giudiziari
prima della piena applicazione su scala nazionale. Sono stati annunciati
investimenti complessivi per circa 550 milioni di sterline in due anni per il
supporto alle vittime.
I numeri che hanno reso politicamente inevitabile la riforma sono drammatici. Da
marzo 2024 a marzo 2025 la polizia ha registrato 97.317 tra incidenti e reati di
stupro, un record assoluto e in forte crescita rispetto a dieci anni fa, a
conferma di una tendenza di lungo periodo all’aumento delle denunce formali di
violenza sessuale. Nonostante questo, solo il 2,8% dei reati di stupro
registrati dalla polizia arriva a incriminazione formale e ancora meno al
dibattimento vero e proprio davanti a una giuria. Il tasso di condanna nei
processi per stupro fra adulti è intorno al 55–60%: in quasi la metà dei casi
che arrivano a giudizio l’esito è l’assoluzione, spesso motivata con “mancanza
di prove”.
Briciole rispetto all’incidenza delle violenze. Il Crime Survey for England and
Wales stima che ogni anno circa 740.000 donne, all’incirca 1 su 30, subiscano
uno stupro, un tentato stupro o un’aggressione sessuale grave. Secondo Rape
Crisis e ONS, circa 5 vittime su 6 non denunciano mai alla polizia, per paura di
non essere credute o di subire umiliazioni nel percorso giudiziario. I tempi di
risposta: la media per arrivare a un’eventuale incriminazione supera ormai
l’anno, per molti reati sessuali i tempi d’attesa fino al processo sfiorano o
superano i quattro anni, periodo in cui moltissime vittime rinunciano o crollano
psicologicamente.
La “vittimizzazione secondaria” è documentata da anni dalle organizzazioni
specializzate. Una ricerca recente di Rape Crisis indica che circa il 70% delle
sopravvissute descrive l’esperienza in aula come se fosse lei stessa “sotto
processo”. Nella pratica, in una quota rilevante dei procedimenti per violenza
contro le donne le denunce precedenti, anche se archiviate o mai arrivate a
processo, sono state utilizzate per suggerire alla giuria che si tratti di
mitomania, e nel 2024 circa un caso su dieci si è chiuso per ritiro della parte
offesa. Le difese hanno spesso chiesto e ottenuto accesso a cartelle
terapeutiche, diari scolastici o messaggi privati risalenti anche a decenni
prima per cercare contraddizioni da usare in controesame, con un impatto
particolarmente pesante sulle donne nere e appartenenti a minoranze etniche, per
le quali la probabilità di revittimizzazione e sfiducia nel sistema risulta
significativamente più alta.
Per Maxime Rowson, responsabile delle politiche di Rape Crisis England & Wales,
se attuata correttamente questa legge dovrebbe finalmente impedire che le donne
vengano screditate e controinterrogate su esperienze passate irrilevanti e
profondamente dolorose, spostando l’attenzione sul comportamento dell’imputato
invece che sulla vita privata della vittima. Andrea Simon, direttrice della End
Violence Against Women Coalition, ha definito la riforma un “momento
spartiacque” per la giustizia in materia di violenza sessuale, ma ha
sottolineato che senza risorse adeguate e una formazione obbligatoria per
giudici e avvocati dell’accusa e della difesa il rischio è che la legge resti in
larga parte sulla carta. La coalizione “Bad Experiences Not Bad Character”,
considera la riforma una vittoria storica, ma chiede un’accelerazione
parlamentare immediata perché ogni mese di ritardo significa migliaia di
sopravvissute ancora esposte allo stesso trattamento umiliante in aula.
L’impatto simbolico è comunque enorme: per la prima volta il sistema penale
inglese e gallese inizia a mettere in discussione l’idea che la vulnerabilità
delle vittime sia una prova di menzogna, e riconosce che la violenza sessuale
ripetuta non dimostra che “non è successo niente”. Al contrario, è spesso la
tragica conseguenza di un sistema che non ha saputo proteggere le vittime
dall’inizio.
L'articolo Violenza sessuale, il Regno Unito verso una riforma epocale: le
vittime saranno protette in tribunale dall’accusa di essere “bugiarde seriali”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Segregata e sorvegliata nella casa del compagno 40enne, che le impediva di
andare a trovare la madre fuori regione. Una giovane donna è stata liberata
dall’abitazione nel centro storico di Isernia, in Molise: adesso si trova in un
centro antiviolenza.
A dare l’allarme è stato un familiare della donna, che da giorni non riusciva
più a contattarla e per questo motivo si era preoccupato. Dopodiché, c’è stato
l’intervento dei carabinieri, che, con il supporto della sezione radiomobile e
della squadra volanti della questura, hanno trovato la donna rinchiusa e
sorvegliata da un parente del compagno, che aveva il compito di impedirle ogni
tentativo di fuga.
Messa in salvo, la donna ha raccontato agli agenti di aver subìto violenze
fisiche e psicologiche negli anni di convivenza con il compagno. Il 40enne è
stato arrestato con l’accusa di maltrattamenti familiari e trasferito nella casa
circondariale di Isernia.
In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il 25
novembre scorso, la Prefettura di Isernia aveva organizzato un corteo in cui
erano presenti istituzioni, forze dell’ordine, scuole e società civile, per
l’iniziativa “Mai più sola”, volta a sensibilizzare l’opinione pubblica
sull’importanza del rispetto delle donne e del ripudio di ogni forma di
violenza.
L'articolo Donna segregata in casa a Isernia, i carabinieri arrestano il
compagno 40enne proviene da Il Fatto Quotidiano.