Centinaia di persone, ieri sera, hanno preso parte al flashmob organizzato a
Roma dalle associazioni di quartiere, centro antiviolenza Donna Lisa, Astra e
Non una di meno dopo la violenza sessuale subita da una 23enne all’uscita della
metro Jonio. “Siamo qui per solidarietà alla donna, per ribadire la nostra
presenza sui territori e sottolineare che non accettiamo sciacallaggi su vicende
terribili come questa – ha affermato Daniela Volpe del centro Donna Lisa – Chi
stupra è maschio, che sia bianco o nero, è figlio delle cultura patriarcale. Le
strade sicure le fanno le donne che le attraversano”. La fermata dove è avvenuta
la violenza “è pericolosa soprattutto di sera”. “Abbiamo dei giardini che di
notte sono un invito alla violenza e strade buie – ha sottolineato – Questa
fermata della metro avrebbe potuto avere un accesso diretto su viale Jonio, ma
non capiamo perché non venga aperta”.
L'articolo Ragazza violentata fuori dalla metro, flash mob e corteo a Roma:
“Strade buie invito alla violenza” – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Violenza di Genere
Dopo Roma arriva anche Lucca. Un elenco con i nomi di due studentesse
accompagnato dalla scritta “Lista stupri“ è comparso nei bagni del liceo
scientifico Vallisneri nel centro della città toscana. Una delle poche
differenze il pennarello usato: nero. Era rosso quello utilizzato al liceo
Giulio Cesare di Roma. Ad accompagnare l’elenco nel lice di Lucca anche un
disegno di genitali femminili. Rimosso insieme la scritta dal personale che ha
allertato la dirigente scolastica, Maria Rosaria Mencacci. A seguito è stata
chiamata la polizia.
Sebbene gli autori del gesto non siano ancora stati identificati, le indagini
della Questura di Lucca sono in corso. Il gesto sembra essere un tentativo di
emulare l’pisodio analogo avvenuto nei giorni scorsi al liceo romano. A scoprire
la lista è stato uno studente nella tarda mattina di martedì. Il ragazzo ha
scattato una foto avendo anche riconosciuto il nome di una sua amica. Una delle
due ragazze presenti all’interno dell’elenco si è presentata in questura nel
pomeriggio sporgendo denuncia contro ignoti.
La ragazza ha scritto sul gruppo congiunto dei rappresentanti studenteschi:
“Domattina, a scuola ci entro e lo farete anche tutti voi, perché tra di noi c’è
anche quello o quelli che hanno fatto quella scritta; già si è sentito in potere
di ledere la mia persona e quella dell’altra ragazza, figuratevi se gli regalo
un’ora o di più fuori dalla classe. Chiunque sia stato per ora continuerà a
vivere la sua vita, sentendosi la m…a che è anche se ne dubito visto ciò che ha
fatto. Al di fuori di ciò io ho già fatto ciò che dovevo fare e i colpevoli
prima o poi verranno fuori”. Come riportato dal Tirreno una delle rappresentanti
di istituto ha definito “abominevole” l’accaduto mentre un altro ha dichiarato
di aver parlato con la ragazza: “Mi è sembrata tranquilla: questo mi fa pensare
che possa trattarsi solo di un brutto gioco”. Avanzata anche l’idea di uno
sciopero, rifiutato però dalle due ragazze.
L'articolo Dopo Roma anche nel bagno di un liceo di Lucca spunta la “lista
stupri” con i nomi di due studentesse proviene da Il Fatto Quotidiano.
La scritta a pennarello rosso “lista stupri” e sotto un elenco di nomi e cognomi
di una decina di ragazze che frequentano il liceo classico Giulio Cesare a Roma.
La scoperta sui muri del bagno dei maschi è avvenuta il 27 novembre, due giorni
dopo la Giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne. Il gesto è stato
denunciato dal collettivo scolastico Zero Alibi e ha provocato un’ondata unanime
di condanne. Sul caso è intervenuto anche il ministro dell’Istruzione Giuseppe
Valditara: “E’ un fatto grave che va indagato e sanzionato duramente. Con le
nuove norme la scuola ha tutti gli elementi per procedere”. Per la dirigente
scolastica Paola Senesi sono “si tratta di ottusi graffiti vandalici” e “si
ribadisce fortemente la condanna nei confronti di qualsivoglia stereotipo e
violenza di genere sia essa fisica, verbale, psicologica o digitale. Il Giulio
Cesare non è aperto alla violenza; il nostro liceo non vuol essere ricettacolo
d’intolleranza”.
Nei giorni scorsi, era stato segnalato un altro episodio: alcuni fogli di una
raccolta firme avviata dalle studentesse contro la violenza di genere erano
stati strappati con violenza da soggetti ancora sconosciuti. Inoltre, un anno fa
al liceo Visconti era circolato un foglio contenente informazioni personali
riguardanti alcune studentesse.
Il comunicato del collettivo, diffuso su Instagram, parla di “una scritta
aberrante: “Lista stupri” e a seguire una serie di nomi di studentesse” e
denuncia come “Un muro può essere cancellato, ma la cultura alla base del
messaggio no, va combattuta. Questo gesto oltre a essere di una gravità
inconcepibile, dimostra la società patriarcale in cui ancora oggi tuttə noi
viviamo. Usare la violenza sessuale come arma, come minaccia o scherno,
significa alimentare ed essere parte attiva della stessa cultura che ogni giorno
uccide, ferisce, opprime, umilia e zittisce le donne. Significa sentirsi
autorizzati a trattare i corpi femminili come oggetti, come bersagli, come
componenti di una lista. E questo è intollerabile”.
La dirigente scolastica ha diramato una circolare in cui si chiede ai professori
di proporre iniziative contro la violenza di genere. La preside scrive che il
liceo si riconosce pienamente nei valori costituzionali che da sempre trasmette
ai suoi studenti e che “a fronte degli ottusi graffiti vandalici apparsi nei
servizi igienici del nostro liceo, si ribadisce fortemente la condanna nei
confronti di qualsivoglia stereotipo e violenza di genere sia essa fisica,
verbale, psicologica o digitale. […] Il Giulio Cesare non è aperto alla
violenza, il nostro liceo non vuol essere ricettacolo d’intolleranza, la scuola
non dimenticherà mai d’indicare quanto ci sia ancora da fare per concretizzare,
de jure e de facto, la pari dignità tra donne e uomini, connotata da un profondo
rispetto reciproco e dunque incompatibile con la pratica della violenza di
qualsiasi tipo essa si tratti”.
L'articolo “Lista stupri” con i nomi delle compagne: la scoperta choc in un
bagno del liceo Giulio Cesare a Roma. Valditara: “Da sanzionare” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
“Il rischio è il rovesciamento dell’onere della prova“. Anche la ministra per la
Famiglia, Natalità e Pari Opportunità, Eugenia Roccella, si scaglia contro il
ddl sul “consenso libero e attuale” in materia di violenza sessuale. Lo fa
criticando il testo del provvedimento e sollevando dubbi, salvo poi essere
smentita – punto per punto – dal presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia,
magistrato da decenni impegnato nel contrasto alla violenza di genere: “Dovrà
essere sempre il pubblico ministero a dover dimostrare che quel rapporto è
avvenuto senza un libero consenso da parte della donna”, spiega Roia.
Dopo la battuta d’arresto a sorpresa arrivata martedì in Senato, la destra prova
ad abbattere definitivamente il ddl, nonostante le garanzie date dalla stessa
premier Giorgia Meloni. Matteo Salvini, con orgoglio, si intesta la frenata
parlamentare: per il leader della LEga la legge è “troppo interpretabile” e
lascia “spazio alle vendette personali”. Poco dopo è la ministra Roccella,
intervistata durante la trasmissione “Ping Pong” su Rai Radio 1, a condividere
la decisione di non approvare il ddl: “È meglio prendere più tempo ma approvare
una legge convincente”, ha detto. Per Roccella “quello che è emerso dopo
l’approvazione alla Camera è una forte perplessità da ambienti importanti: gli
avvocati, l’ex presidente delle Camere Penali Caiazza è stato molto duro su
questa legge, anche altri hanno sollevato dei dubbi“. Critiche condivise dalla
ministra: “Il rischio è il rovesciamento dell’onere della prova, questo è il
dubbio”, insiste la ministra.
Alla presa di posizione di Roccella risponde il magistrato Roia che ha ricevuto
per il suo impegno sul tema del contrasto alla violenza di genere l’Ambrogino
d’Oro nel 2018. Non è “assolutamente vero che introdurre il concetto di consenso
libero ed attuale” nel reato di violenza sessuale “costituisca un’inversione
dell’onere della prova”. Come spiega Roia, la donna “si limiterà a fare una
denuncia, sempre sotto assunzione di responsabilità”, ma poi “dovrà essere il
pubblico ministero a dimostrare che quel rapporto è avvenuto senza un libero
consenso”. Parlando con l’Ansa, il presidente del Tribunale di Milano sottolinea
che parlare di rischio di inversione della prova “è una suggestione, un profondo
sbaglio giuridico-processuale e probabilmente, ma questo non sta a me dirlo, può
essere una scusa per non approvare una legge di civiltà“. Legge che, ricorda il
magistrato, “altri Paesi hanno e che stanno applicando e che la stessa Europa ci
ha richiesto di adottare”.
Roia spiega infatti che “già nell’attuale legge ci sono delle condizioni che
tendono ad eliminare il consenso, che sono la violenza, la minaccia e l’abuso di
condizioni di inferiorità, anche transitoria, psichica o fisica da parte della
donna”. Questi, spiega, sono i casi “tipici della donna che assume sostanze
stupefacenti o alcoliche“. Introdurre “il concetto di consenso – prosegue il
presidente del Tribunale – è un qualcosa di più ampio, ma che non sposta
assolutamente il tema, perché dovrà essere sempre il pubblico ministero a dover
dimostrare che quel rapporto è avvenuto senza un libero consenso da parte della
donna”. Pm che “ovviamente utilizzerà le dichiarazioni della donna, ma questo
già avviene nei processi attuali”, aggiunge.
Per Roia quella di martedì “è una pagina oscura che è capitata, tra l’altro,
proprio il 25 novembre (giornata internazionale contro la violenza sulle donne,
ndr) e lo è sul piano di quel raggiungimento di obiettivi di libertà delle donne
verso i quali tutti dicono, a parole, di orientarsi, tranne poi assumere
atteggiamenti contraddittori rispetto a quegli stessi obiettivi”, conclude il
magistrato.
L'articolo Ddl stupro, Roccella: “Rovescia l’onere della prova”. Il magistrato
Roia: “Falso, spetta al pm dimostrare l’assenza di consenso” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Blitz dei partecipanti al corteo promosso da Non una di meno nella metropolitana
torinese. Il corteo partito da piazza Carlo Felice, davanti alla stazione
ferroviaria di Torino Porta Nuova, mentre stava sfilando lungo via Nizza ha
improvvisamente interrotto la marcia e alcune centinaia di manifestanti sono
scesi lungo le scale della metro bloccando le porte di un convoglio con lo
striscione ‘Contro la violenza del patriarcato blocchiamo tutto’. Al corteo
partecipano oltre 2500 persone. Dopo alcuni minuti i manifestanti hanno ripreso
a sfilare per le vie del capoluogo piemontese.
L'articolo Corteo contro la violenza di genere, a Torino le attiviste bloccano
la metro – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
Se nel Medioevo alle donne veniva imposta la mordacchia, oggi ci sono strumenti
più sofisticati contro le donne che svelano, parlano, prendono posizione
pubblica contro la violenza sessista: cause legali minacciose, intimidazioni
giudiziarie e attacchi mediatici. A finire nel mirino non sono solo le vittime
di violenza e attiviste femministe, ma anche operatrici dei centri antiviolenza
e giornaliste che raccontano la vittimizzazione istituzionale delle donne. A
volte ci sono giornaliste che vengono condannare in cause civili per
diffamazione, anche se quanto hanno scritto era basato su documenti ufficiali e
si trasforma la verità in un’imputata.
È lecito usare il diritto per soffocare la voce di chi denuncia violenza? La
legge serve a proteggere le persone dalla calunnia, certo. Ma le vittime devono
poter parlare, denunciare pubblicamente ciò che hanno subito, senza il rischio
di essere trascinate in tribunale.
In Italia cresce il rischio di Slapp – Strategic Lawsuits Against Public
Participation – cause legali strategiche contro chi partecipa al dibattito
pubblico sul tema della violenza maschile contro le donne. Sono strumenti di
intimidazione pensati per zittire chi denuncia abusi, chi si espone, chi osa
rompere il silenzio. L’obiettivo è chiaro: riportare le donne al silenzio.
Il backlash preannunciato da Susan Faludi nel 1991 è qui ed è evidente. Minacce
legali, pressioni di potere, violenza istituzionale: tutto per impedire alle
donne di parlare. Il movimento #MeToo del 2017, che portò milioni di donne a
denunciare pubblicamente violenze e molestie superando i confini geografici
negli Usa e culminò nella condanna del produttore Harvey Weinstein a 24 anni di
carcere, dimostrò quanto la solidarietà e la visibilità possano fare la
differenza. Ma oggi, lo stesso sostegno allo svelamento delle vittime sarebbe
garantito?
Recentemente, alcune operatrici dei centri antiviolenza sono state denunciate
per testimonianze rese in aula durante processi per violenza. La Procura ha
archiviato, ma il danno è stato fatto: stress, intimidazione. Altri casi vedono
uomini imputati per violenza inviare minacce legali tramite i propri avvocati a
chi aveva semplicemente svolto il proprio lavoro: relazioni inviate ai servizi
sociali o alle forze dell’ordine sulle donne accolte nei centri. Tutto finisce
spesso nel nulla, ma intanto il centro perde tempo e risorse preziose, e le
operatrici vengono logorate psicologicamente.
E se da una parte c’è lo Slapp, dall’altra ci sono continue aggressioni digitali
alle pagine social dei Centri antiviolenza, che a volte si amplificano con
shitstorm organizzate, fatte spesso da profili fake che scagliano insulti e
minacce. Gli aggressori attaccano le pagine social dei centri antiviolenza,
prendendo di mira le operatrici e le sopravvissute con campagne coordinate di
umiliazione e di intimidazione. A volte, gli autori di violenza le cui compagne
sono state ospitate nelle case rifugio lanciano accuse pubbliche, volte a
diffamare l’operato dei Centri antiviolenza con l’accusa di sottrazione di
minore. Accuse alle quali le rappresentanti dei Centri antiviolenza
difficilmente possono replicare, sia perché sono tenute alla riservatezza su
quanto viene svelato nel Centro antiviolenza, sia perché difendersi potrebbe
dire esporsi al rischio di denuncia per diffamazione.
Un caso emblematico che rispecchia la situazione che ho appena descritto è
quella capitata dell’attivista croata Tölle, condannata per aver diffamato il
marito di una donna accolta nel suo centro antiviolenza. Tolle aveva respinto
pubblicamente le accuse dell’uomo (di aver sottratto la figlia) spiegando i
motivi per cui il centro antiviolenza aveva accolto la donna e la minore. La
Corte Europea dei Diritti Umani riconobbe la querela fatta dall’uomo come azione
legale intimidatoria. Non si trattò di un normale processo, ma dell’uso distorto
del diritto per silenziare chi difende le donne. Lo Stato croato fu condannato a
risarcire l’attivista.
Quanto alle vittime di violenza, il passo da sopravvissute a imputate può essere
brevissimo. Il rapporto Da sopravvissuta a imputata, pubblicato da Index on
Censorship, conferma la tendenza: in Regno Unito e Irlanda, le sopravvissute
alla violenza sessuale sono sempre più spesso bersaglio di minacce legali,
citazioni in giudizio e intimidazioni da parte di studi legali, solo per aver
raccontato la propria esperienza.
In Italia, donne che denunciano violenza istituzionale sui social o
pubblicamente possono subire lo stesso trattamento: accuse di diffamazione,
cause civili, processi infiniti. Come osserva Elena Biaggioni: “Quello che non
si vuole vedere è la disparità di potere. Tutte le donne che parlano di violenza
sanno che prima o poi dovranno affrontare il timore di una denuncia. Sono forme
di intimidazione che funzionano. Investono anche i Centri antiviolenza. Sono le
parole dei bulli che diventano legge.”
È un paradosso inquietante: denunciare la violenza e trovarsi nuovamente colpite
dalla violenza stessa, questa volta sotto forma di diritto piegato al potere. È
ora di affrontare questa problematica perché la legge non può diventare un’arma
contro chi denuncia violenze, né in aula di tribunale, né sui social.
L'articolo Querele intimidatorie e minacce legali: è lecito usare il diritto per
far tacere chi denuncia violenza? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Da Francesco Pannofino a Woopie Goldberg, Claudia Gerini, Monica Guerritore,
Ricchi e Poveri, Orietta Berti, Giulio Scarpati, Dodi Battaglia, Nino Frassica,
Marco Rossetti. Sono solo alcuni dei nomi degli artisti e delle artiste Nuovo
Imaie che hanno voluto inviare un breve videomessaggio in occasione della
Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Un
appello forte, corale, condiviso e urgente contro ogni forma di violenza di
genere.
Il video, realizzato dal Nuovo Imaie, vuole essere un contributo di
sensibilizzazione e responsabilità sociale. Ha raccolto fin da subito l’adesione
di interpreti ed esecutori. Attori, attrici, doppiatori, doppiatrici, cantanti,
musicisti e musiciste appartenenti a generazioni e linguaggi diversi che hanno
messo la propria voce e il proprio volto a disposizione di un messaggio: la
violenza non è mai un fatto privato, ma un problema culturale e collettivo che
riguarda tutti e tutte.
L'articolo Dai Ricchi e Poveri a Nino Frassica e Woopie Goldberg, artisti uniti
contro la violenza sulle donne: “Non chiamatelo troppo amore” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Valentina ha quattro figli, due maschi e due femmine. Con l’ex marito ha vissuto
11 anni e ora da due è riuscita a voltare pagina e lasciarsi questa storia di
violenza alle spalle. Ad aiutarla a compiere questo passo è stato anche
l’appoggio trovato al CAV, il Centro Antiviolenza Teresa Bonocore, ad Ottavia,
quartiere a nord della Capitale, finanziato dal comune di Roma e gestito dalla
cooperativa sociale Be Free.”Ho deciso di dire basta grazie a mia figlia di 6
anni – racconta Valentina – un giorno mi ha abbracciata, mi ha detto di portare
sua sorella più piccola a scuola e di fermarmi nel parcheggio, perché il padre,
il mio ex marito, aveva comprato 2 coltelli. Questo ha svegliato nella mia
mente, anche se probabilmente già era presente, il pensiero che potessi perdere
la vita per mano del mio ex marito”.
Valentina racconta una storia simile a quella di tante: all’inizio ci si
innamora, va tutto bene, poi dopo poco arrivano le prime avvisaglie, alcuni
comportamenti violenti intervallati da scuse e momenti di “apparente calma”. “Ho
dato subito colpa all’alcool – aggiunge Valentina – perché ne faceva uso,
pensando che passasse ed invece così non è stato”.
Con il tempo la situazione peggiora, l’ex marito comincia ad isolarla dalle
amiche e dagli amici, diventa sempre più geloso, al punto che Valentina comincia
a camminare per strada a testa bassa, per evitare di incrociare lo sguardo di
altre persone. “La cosa più difficile per le donne con cui ho avuto colloqui –
spiega Ludovica Mutarelli, operatrice del Cav Bonocore – è riconoscere la
violenza. Bisogna capire che quando il maltrattante è il marito, per le donne,
che sono state innamorate, è molto difficile unire all’immagine bella dell’ex
compagno, l’immagine negativa di una persona che spesso volontariamente vuole
fare loro del male”.
Secondo l’esperienza delle operatrici che lavorano nel CAV di Ottaviano, la
violenza di genere non è cambiata molto negli anni. “Il fenomeno purtroppo è
sempre uguale a sé stesso – spiega Lucia Beretta, che da 10 anni lavora nel
settore ed è responsabile del CAV Teresa Bonocore – quello che forse è un po’
cambiato è l’arrivo di persone sempre più giovani, anche minorenni, che
subiscono atti di violenza da coetanei, professori o da familiari, ma che hanno
voglia di parlare e denunciare”.
Per questo al Centro sottolineano l’importanza dei corsi sesso–affettivi nelle
scuole, per parlare anche ai più giovani di che cos’è il rispetto, il consenso,
la sessualità, che cos’è l’altro o l’altra e sapersi riconoscere nell’altro o
nell’altra.”Oggi mi sento una donna libera – conclude Valentina – io e i miei
figli adesso possiamo dire, senza preoccupazione, se una cosa ci va oppure non
ci va. La mia rivincita è stato sentir dire a mio figlio maggiore che è proprio
bello sentirsi liberi.”
L'articolo “Mia figlia mi ha detto ‘non tornare a casa, papà ha due coltelli’,
così ho lasciato mio marito. Ora siamo liberi”: la storia di Valentina,
sopravvissuta alle violenze proviene da Il Fatto Quotidiano.
Dal tema delle molestie online al revenge porn: questi i temi dell’appuntamento
fissato per martedì 25 novembre alle 18:30 alla Libreria Feltrinelli di largo di
Torre Argentina a Roma, dove si terrà l’incontro “Ricerca del piacere e abuso di
potere ”, parte della rassegna Le relazioni pericolose, dedicata alla lotta
contro la violenza di genere. Il dibattito esplorerà il difficile equilibrio tra
libertà e consenso nell’era digitale. Con lo psichiatra Vittorio Lingiardi, la
scrittrice Lavinia Bianca e le giornaliste Giulia Mariani e Angela Di Berardino,
autrici del podcast ‘A nudo – Il massacro del Circeo’, prodotto da Emons records
in media partnership con ilfattoquotidiano.it. A moderare l’incontro la
giornalista del Fatto Quotidiano Silvia D’Onghia, autrice – tra le altre cose –
del podcast quotidiano “In direzione contraria”
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LE AUTRICI
Nata a Roma, dove vive, o meglio, sopravvive come tutti i romani Angela Di
Berardino ha vissuto per un po’ a Londra tra té e cibi multietnici. Viaggerebbe
continuamente tra Balcani e sud ovest asiatico, si interessa principalmente di
paesi in crisi, anni 70 e lotte per i diritti, in particolare quelli di genere.
Si definisce una persona poliedrica, che tradotto significa che si entusiasma
per qualsiasi essere vivente. Adora ascoltare le storie delle persone e
raccontarle per dare voce a chi rimane ai margini. Non potrebbe vivere senza
queste tre cose: il caffè, il mare al tramonto e le discussioni politiche.
Ha scritto per MicroMega e L’Espresso.
Nata in Umbria, ora a Roma, per un po’ a Siviglia. Giulia Mariani è giornalista
pubblicista, crede che l’utilizzo consapevole del linguaggio sia la chiave di
volta. Si sente al suo posto tra gli articoli ingialliti degli anni 70, su un
aereo per la Serbia, tra i marginalizzati: per raccontare le loro storie. Quando
non cerca di scavare in qualche storia complicata, mangia cibo etnico o fa la
lucertola che legge al sole, meglio ancora se con i piedi a bagno o un gatto
addosso. Si interessa di esteri e questione femminile e i podcast non solo li
fa, ma crede che stiano rivoluzionando il giornalismo. Ha scritto per Il Foglio
e L’Espresso.
L'articolo “Ricerca del piacere e abuso di potere”: il dibattito alla libreria
Feltrinelli di largo Torre Argentina a Roma proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Noi eravamo orfani invisibili, non venivamo considerati dall’istituzione né
tantomeno dalla società perché nessuno si poneva il problema che quando muore
una donna potrebbero esserci dei bambini”. Giuseppe Delmonte è un orfano di
femminicidio. Aveva 19 anni quando sua madre, Olga Granà, venne uccisa a colpi
d’ascia dal padre, che ora si trova in carcere. Era il 1997, la legge sugli
orfani di femminicidio sarebbe arrivata soltanto 21 anni dopo.
“Dopo aver ucciso mia madre, mio padre ha acquisito tutta una serie di diritti
che noi vittime collaterali non avevamo” racconta Delmonte al Fatto.it facendo
alcuni esempi. “Mio padre la settimana dopo ha avuto lo psicologo e ce l’ha da
28 anni gratis, io il primo psicologo l’ho visto dopo 20 anni perché me lo sono
pagato io, ha avuto la possibilità di studiare e ha studiato, a me questa
possibilità è stata tolta perché il mio sogno era quello di fare medicina e a 19
anni non ho più potuto avere questa possibilità né economica e tanto meno
psicologica per affrontare un ciclo di studi così lungo. Mio padre ha avuto la
possibilità di chiedere la grazia al Presidente della Repubblica per il suo
ergastolo, ma per il mio che è quello del dolore non potrò mai chiedere niente a
nessuno”.
Dopo anni di silenzio, Delmonte ha iniziato a girare l’Italia per raccontare in
pubblico la sua storia. E l’anno scorso ha fondato l’associazione Olga (Oltre la
Grande Assenza) per aiutare e stare vicino “alle persone di ogni genere ed età,
che abbiano subito qualsiasi tipo di maltrattamento, violenza, abuso o
aggressione fisica o psicologica”. In particolare agli orfani di femminicidio,
grazie anche a delle borse di studio che integrano le tutele offerte dalla
legge. Dal 2018, l’Italia ha riconosciuto la figura degli orfani di femminicidio
tutelandoli sia da un punto di vista processuale sia economico. “Siamo l’unico
Stato in Europa ad avere una legge sull’orfano di femminicidio, – osserva
Delmonte – è sicuramente una legge apripista ma non è sufficiente perché è stata
fatta secondo me in maniera un po’ superficiale, perché come dico io non puoi
fare una legge sull’orfano di femminicidio senza sapere neanche quanti sono”. Ad
oggi infatti non esistono dati ufficiali sul numero degli orfani di
femminicidio.
La sfida dell’associazione Olga è soprattutto sul piano educativo e culturale.
Una consapevolezza che nasce dalla storia del suo presidente, Delmonte. “Col
tempo ho scoperto che molte persone sapevano quello che succedeva nella nostra
casa, lo sapeva il prete, lo sapeva il medico di famiglia perché trovava i
lividi addosso a mia madre, lo sapeva il ginecologo, lo sapevano i vicini di
casa perché sentivano le urla, però mai nessuno ha fatto qualcosa affinché
questa catena si potesse interrompere” racconta Delmonte sottolineando la
necessità di “non girarsi dall’altra parte perché l’indifferenza uccide”.
L’educazione al rispetto però non può essere affidata esclusivamente alle
famiglie. Il motivo? “L’87% delle violenze minorili avviene all’interno della
stretta cerchia familiare e dunque è fondamentale che questo ruolo sia svolto
dalla scuola perché comunque la maggior parte del tempo dei bambini e degli
adolescenti viene trascorso all’interno della scuola e quindi credo molto in
questo patto di corresponsabilità tra scuola e famiglia”.
Sul piano legislativo e repressivo, l’inasprimento delle pene e la certezza
della pena “sicuramente serve per le vittime collaterali nel senso che riesce
sicuramente a alleggerire un po’ il dolore che si è subito in seguito a quel
reato , ma non è sicuramente la soluzione perché un uomo che vuole uccidere una
donna, se sa che ha l’ergastolo piuttosto che 20 anni o poco meno lo fa comunque
e quindi non è la soluzione al problema”.
L'articolo “Io orfano di femminicidio invisibile per anni. L’Italia ora ci
riconosce ma non basta, non sa neanche quanti siamo”. La storia di Giuseppe
Delmonte proviene da Il Fatto Quotidiano.