Chi ha paura del consenso di una donna? Nella Giornata Internazionale per
l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, la coalizione di destra ha messo
in scena un grottesco teatrino con lo stop alla modifica della legge sulla
violenza sessuale. Il nuovo testo introduce la centralità del consenso della
vittima nella definizione del reato. A bloccare l’iter, che dopo l’approvazione
all’unanimità alla Camera sembrava scontato, è stata la Lega, seguita da ruota
da Fratelli d’Italia e Forza Italia.
Un eccesso di dietrologia potrebbe far pensare che la stretta di mano tra
Giorgia Meloni e Elly Schlein a favor di telecamere sia stata una mossa per
raccogliere qualche voto in più in due regioni tradizionalmente vicine al
centrosinistra, in prossimità delle elezioni regionali. Una sorta di cinico spot
elettorale? Più probabilmente Matteo Salvini, visto il deludente risultato
elettorale di Fratelli d’Italia, ha voluto mettere in difficoltà Giorgia Meloni,
che si era esposta su questo tema. Un modo per dire ‘qui comando io e questa è
anche casa mia’. Forte del sostegno degli uomini della coalizione.
Dopo lo stop sono arrivate le rassicurazioni di Eugenia Roccella e di Giulia
Bongiorno: la legge sul consenso si farà ma con “modifiche migliorative” e le
attiviste ora temono un depotenziamento della legge… e allora? Meglio la vecchia
normativa che una brutta riforma.
Ma la cosa più grave sono state le dichiarazioni del ministro Matteo Salvini,
che con il suo spregio misogino e sessista ha offeso tutte le donne di questo
paese, paventando un’epidemia di calunnie da parte di “vendicatrici” che
vorrebbero vedere uomini innocenti in carcere. Imbeccato opportunamente, ha
tirato fuori, già che c’era, il somaro di battaglia delle cosiddette
associazioni dei padri separati. “Le denunce strumentali rovinano le famiglie”
ha tuonato. È molto probabile che, se Matteo Salvini si sedesse a un tavolo con
20 uomini, avrebbe vicino a sé almeno tre autori di violenze sessuali, mentre la
probabilità che tra questi ci sia un uomo calunniato per stupro è prossima allo
zero.
I dati Istat sulla violenza sessuale ci dicono che solo il 10% delle vittime
denuncia, mentre l’80% tace. Meno del 30% delle donne che si rivolgono ad un
centro antiviolenza denuncia. Il silenzio è proprio ciò che la destra sembra
volere: che le donne continuino a tacere. Ma sarebbe più onesto che costoro lo
dicessero apertamente: “State zitte! Non denunciate, perché rischiate di
rovinare la vita e la reputazione di tanti rispettabili cittadini”. Tacere, a
patto che non si tratti di immigrati, identificati dal leader della Lega come il
prototipo dello stupratore. Uomini dalla cultura arretrata, anche se alcuni
politici nostrani non hanno esitato ad augurare stupri ad avversarie politiche
come Matteo Camiciottoli, ex sindaco di Pontivrea della Lega, condannato per
aver augurato uno stupro a Laura Boldrini.
La credibilità di una vittima di stupro, lo sappiamo, è inversamente
proporzionale allo status dello stupratore. Se il violento è un “bravo ragazzo”
o un “rispettabile cittadino”, può dormire sonni tranquilli. Nel corso degli
anni, le operatrici dei centri antiviolenza hanno ascoltato testimonianze di
donne che avevano subito violenze sessuali da parte di medici, ingegneri,
imprenditori, preti, appartenenti alle forze dell’ordine, avvocati (sì, anche
penalisti), militari, insegnanti, allenatori, fisioterapisti, politici,
giornalisti, direttori di banca, studenti di prestigiose università e attivisti
dei centri sociali, quelli che stanno sempre in prima linea a lottare contro il
potere, tranne quello che si cullano dentro. Uomini di destra e uomini di
sinistra. Atei o religiosi. La violenza sessuale non avviene solo per mano di
emarginati che aggrediscono donne nel buio delle strade o nei parchi. Avviene
anche in studi eleganti, in uffici confortevoli, in case accoglienti , commessa
in larga parte, da uomini che sono già in relazione con le donne. Sono violenze
che difficilmente vengono denunciate. In 30 anni di esperienza ho seguito
personalmente solo cinque donne che avevano deciso di denunciare. Cinque in 30
anni.
In uno di questi casi, si trattava di una ragazza che, dopo aver accettato un
rapporto sessuale, aveva subito una violenza. Quando mi disse che era
determinata a denunciare, le offrii il sostegno del centro antiviolenza, ma ero
preoccupata per la pesantezza del processo che rischiava di diventare un vero e
proprio tritacarne. Lo abbiamo visto con le 700 domande a cui è stata sottoposta
la donna che ha denunciato Ciro Grillo, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta,
condannati in primo grado dal tribunale di Tempio Pausania. Una ragazza che,
prima di ottenere la condanna, aveva subito una gogna mediatica, con la sua
credibilità messa in dubbio in un processo sommario sui social e sulle pagine
dei giornali. È accaduto anche alle vittime di Alberto Genovese.
Le battaglie femministe, alla fine, vincono perché sono fondate sulla denuncia
di una palese iniquità e anche se sono portate avanti contro un vento che soffia
forte e gelido, riescono a cambiare la cultura. Tutto questo avviene tra passi
avanti e i backlash reazionari. La legge sulla violenza sessuale fondata sul
consenso è stata approvata in Spagna, Svezia, Danimarca, Francia, Belgio,
Irlanda e Germania e non ci sono state “ecatombe” di uomini calunniati. In
Italia, forse ci vorranno vent’anni.
Lo spettacolo penoso offerto dal centrodestra – gira voce che un modulo di
consenso sessuale sia stato distribuito tra i senatori da Porro e Cruciani – ci
fa capire quale sia il livello culturale di chi siede nei banchi del parlamento.
Sul livello culturale degli estensori del modulo, che cali un pietoso velo.
Contro questa legge si è levata una bella fetta della stampa, quella che urla
quando a stuprare una donna non è un italiano bianco, ma un nero o peggio un
“islamico”. Alcuni hanno sventolato la foglia di fico dell’inversione della
prova, una tesi confutata da Paola Di Nicola Travaglini, magistrata e
consigliera di Cassazione; da Fabio Roia, presidente del tribunale di Milano; ma
anche da avvocati.
Una parte degli uomini, terrorizzati all’idea di finire in carcere per stupro,
hanno rumoreggiato sui social. E ci sono stati deliri di avvocati che si sono
esposti pubblicamente nel suggerire di filmare i rapporti sessuali: diteci, cari
avvocati, si deve filmare con o senza il consenso della donna? E che fare poi di
quelle immagini, avvocati, conservarle nel caso del bisogno? Si potrebbe parlare
di isteria collettiva se non fosse che anche la parola isteria è portatrice di
un gap culturale.
Ci vollero 20 anni per trasformare il reato di violenza sessuale in un crimine
contro la persona e non contro la morale. Che a essere ferita dal crimine fosse
una donna e non la morale, all’epoca, sembrava scandaloso. Era una legge che
incideva non solo sul piano giuridico ma anche sul piano simbolico, riconoscendo
che il corpo delle donne non apparteneva alla famiglia o al marito e non
rappresentava l’onorabilità di un uomo. E deputati e senatori, in Parlamento,
resistettero assediati per 20 anni, ferreamente alleati contro i corpi delle
donne. Oggi, l’introduzione del consenso nel dibattito parlamentare suscita
ancora scandalo. E gli uomini si alleano contro la volontà delle donne perché è
quello che il patriarcato li ha addestrati a fare. Da quando nascono.
La società italiana è ancora profondamente allagata dalla cultura dello stupro.
Le pagine come Phica.eu o Mia moglie ci ricordano che il consenso della donna è
imprevisto. Il corpo della donna è un oggetto di scambio tra maschi, trofeo in
un terreno di guerra contro le donne. Troppi uomini interiorizzano la cultura
dello stupro e vivono la sessualità come un atto predatorio, di dominio e
umiliazione nei confronti del corpo femminile.
I 700mila uomini che si scambiavano foto senza il consenso delle partner o che
si divertivano a umiliare donne in politica o nello spettacolo non erano tutti
stupratori, ma condividevano lo stesso immaginario degli stupratori. Tutti
coloro che si spaventano all’idea che il consenso di una donna possa diventare
parte integrante della legge sulla violenza sessuale o hanno la coscienza
sporca, o hanno l’inconscio di paglia. E quindi: a chi fa paura il consenso di
una donna?
L'articolo La destra blocca la modifica della legge sulla violenza sessuale: chi
ha paura del consenso di una donna? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Giornata contro la violenza sulle donne
di Enza Plotino
Anche la scelta di un libro e di un’autrice “d’azione”, con parole (in un mondo
di immagini) crude, brutali che hanno scatenato sentimenti di impotenza, rabbia,
ma anche coraggio e tenacia, è stata indovinata da parte di una Cgil Gallura che
vuole, secondo le parole di Rossano Dore della segreteria, accogliere e dare un
porto sicuro alle tante difficoltà economiche e sociali che attraversano tutti i
lavoratori e le lavoratrici del territorio.
Ma ieri, nel Museo Archeologico di Olbia, l’ascolto era rivolto a giovani
studenti e studentesse di alcune scuole olbiesi che hanno partecipato con i loro
insegnanti alla presentazione del libro di Giuliana Sgrena Me la sono andata a
cercare. L’occasione è la giornata nazionale contro la violenza sulle donne.
Nelle intenzioni degli organizzatori, ma anche delle operatrici – competenti e
fortemente impegnate nel sostegno alle vittime di violenza – e della politica
presente e in ascolto, il desiderio di trovare un “contatto” un punto su cui
costruire la relazione con gli adolescenti di oggi, imprendibili, quasi
sconosciuti nelle loro pulsioni più autentiche.
Portarli sul loro terreno, l’attualità dei conflitti, della violenza che una
donna inviata di guerra ha dovuto affrontare per fare bene il suo mestiere e
portare la verità, senza filtri, in un sistema dell’informazione distorto ma
soprattutto superficiale e il più delle volte falsificato dalla mancanza di
testimonianze dirette, è stata l’idea efficace con cui la Cgil ha scommesso ieri
mattina a Olbia. E ha vinto.
Gli studenti e le studentesse hanno seguito con interesse le parole di Sgrena,
gli scenari di guerra, ma soprattutto il racconto di luoghi e di popolazioni
lontane da noi che ieri sembravano vicinissime, così come questioni drammatiche
tra le quali le pratiche tribali e misogine come l’infibulazione delle bambine
africane o il rapimento dell’autrice, finito con la morte del suo salvatore
Nicola Calipari, ucciso per mano degli americani a pochi metri dalla salvezza.
Tutti noi abbiamo “visto” attraverso le parole di Sgrena. Parole che hanno
colpito nel segno, visto che all’invito di Rita Soro della Cgil di intervenire,
gli studenti hanno messo in evidenza questioni importanti come il bisogno di
verità che i giovani e le giovani generazioni sentono urgente.
“Manca la chiarezza nelle informazioni” ha detto uno studente. Mentre un altro
ha chiesto dove sono, ma soprattutto chi possono essere gli interlocutori delle
loro battaglie. I ribelli, coloro che sono scesi in piazza per difendere la
popolazione palestinese decimata da Israele, si rendono conto che a questa loro
presa di distanza dalle scelte della politica non c’è risposta. Non c’è ascolto.
Sembra tutto vano. Denunce pesanti, richieste di esistere e di non voler essere
considerati merce, numeri per una comunicazione che si sta trasformando in
propaganda. Tanti stimoli hanno attraversato la mattinata e hanno creato un
primo contatto con una scuola che oggi vive il suo momento più buio.
Anche la politica si è messa in ascolto in questa giornata, con Giuseppe Meloni
vicepresidente della Regione Sardegna che ha voluto partecipare fino alla fine
all’iniziativa, esprimendo la propria consapevolezza della drammaticità del
momento per le donne e mostrando le azioni e le misure che una Regione vicina ai
propri concittadini ma soprattutto alle proprie concittadine sta mettendo in
campo per “dare una mano” al bisogno di libertà economica e sociale che le donne
cercano per emanciparsi dagli uomini e da un welfare che le soffoca, impedendo
loro di seguire le proprie aspirazioni.
IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI
CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA
SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST
INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ
INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL
VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA
FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN
RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA”
POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ –
MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM
RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI!
L'articolo Giuliana Sgrena a Olbia per presentare il suo libro ai giovani: Cgil
Gallura vince la scommessa proviene da Il Fatto Quotidiano.
Ribellarsi alla violenza praticata dagli uomini sulle donne è un modo per
continuare anche la lotta contro mafie e mafiosi. Un modo necessario. Quante
donne in Italia hanno pagato con la vita la violenza dei mafiosi? Quante hanno
condotto una resistenza impressionante per contrastarla? Basterebbe evocare le
storie di Franca Viola, che rifiutò il “matrimonio riparatore” dopo aver subito
lo stupro da parte del boss che non poteva accettare il suo “no”, di Lea
Garofalo, assassinata dall’ex marito aiutato dal branco ubbidiente, di Rita
Atria, il cui corpo venne portato in spalla soltanto dalle “donne in nero”
arrivate da Palermo per rendere onore ad una vita maledetta due volte dalla
gogna mafiosa.
Eppure questa odiosa declinazione della violenza maschile ha goduto per molto
tempo delle stesse “coperture” culturali di cui ha goduto la mafia in quanto
tale: specchio fedele di un Paese che fa fatica a scegliere la dignità della
persona come valore incomprimibile del proprio patto sociale. Ma in cambio di
cosa? Di una supposta idea di “ordine” pubblico. Una idea aberrante che passa
per la rassegnazione, dichiarata o implicita, alla violenza come unico possibile
collante: una società tenuta insieme dalla “forza di intimidazione del vincolo
associativo” che general omertà ed assoggettamento.
Reagire a questa rassegnazione significa contemporaneamente contrastare con
successo tanto la presa che le mafie ed i mafiosi hanno ancora su tanta umanità
nel nostro Paese, quanto la prepotenza dei maschi letali di cui continuiamo a
leggere sgomenti. Purtroppo le destre illiberali e spesso neo fasciste che
governano l’Italia e dilagano in tanta parte d’Europa e d’America sono parte del
problema e non della soluzione. Lo sono perché fondano il proprio successo
elettorale precisamente sulla “rassegnazione”: la rassegnazione al fallimento
dello Stato di diritto e quindi delle regole come strumento di presidio di
dignità, di libertà e di giustizia. Le destre vincono trasmettendo come un
mantra la loro ricetta disperata: si salvi chi può! Perché non sarà lo Stato a
farlo.
Le prove? La “pace fiscale” ovvero l’impunità per chi evade o, meglio, elude il
pagamento delle tasse, prima manifestazione di quegli “obblighi inderogabili di
solidarietà” di cui all’articolo 4 della nostra Costituzione. I condoni edilizi
ovvero l’impunità per chi si fa i fatti propri disprezzando le regole poste a
tutela del bene comune. L’abolizione del reato di abuso d’ufficio ovvero
l’impunità di chi approfitta della propria funzione pubblica per sistemare amici
o regolare conti.
L’attacco alla indipendenza della magistratura sia attraverso la “riforma”
costituzionale, premessa per il controllo dell’esercizio dell’azione penale da
parte del Governo, sia attraverso la mancata stabilizzazione dei 12.000 precari
della Giustizia, che sono serviti come l’aria. Un attacco che è in perfetta
sintonia con quello alla libertà di informazione, alla sanità pubblica, alla
scuola. La morale della favola è la stessa: ognuno faccia come può, lo Stato si
gira dall’altra parte.
In questa cornice si inseriscono le parole della ministra Roccella: l’educazione
sessuale non serve a niente. Quelle del ministro Nordio: la genetica maschile fa
resistenza alla parità tra i sessi. Quella del ministro Tajani: il diritto
internazionale serve, ma fino ad un certo punto. Le aggressioni mediatiche
contro i giudici che insistono nell’applicare le norme, anche quando queste
contraddicono la manifesta volontà di chi governa. Meglio se sono magistrate
donne, così che le aggressioni possano tingersi di rigurgiti sessisti: come nel
caso della giudice Iolanda Apostolico, della giudice Silvia Albano, della
giudice Cecilia Angrisano, ultima in ordine di tempo, colpevole di aver fatto
valere il preminente interesse dei minori in una situazione complessa che
avrebbe richiesto cautela e rispetto.
La rassegnazione alla ineluttabilità della realtà, la radicale sfiducia verso il
diritto e la cultura come fattori di cambiamento, sono da sempre alleate con le
forme più brutali di esercizio del potere e dunque con le manifestazioni più
odiose del patriarcato: dall’autoritarismo del fascismo alla ferocia mafiosa,
fino alla società della sorveglianza è tutta una storia di abusi, “cinghie” e
manganelli. Una storia alla quale con determinazione e fantasia continueremo ad
opporci, con il sorriso gentile di Franca Viola, che con un “no” ha strappato il
velo sudicio dell’ipocrisia italiana.
L'articolo Ribellarsi alla violenza degli uomini sulle donne è un modo anche per
lottare contro le mafie proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Da quando lei aveva chiesto il divorzio, lui era sprofondato nella
depressione”.
“Non accettava il nuovo compagno, che la madre dei suoi figli si fosse rifatta
una vita senza di lui”.
“Forse Luigi non sopportava di vederla felice”. “Perché Luciana dopo la fine
della loro relazione era rinata, sempre gioiosa, giura chi la incrociava in
quartiere”.
“I due si erano conosciuti nel lontano 1978. Si erano poi trasferiti
nell’appartamento in cui lui l’ha accoltellata a morte. Per vent’anni avevano
condiviso non solo la casa ma anche il lavoro”.
“Nel 2010 l’attività aveva però iniziato ad andare male. Tanto che la coppia era
stata costretta a chiudere l’attività. Data che poi (quasi) coincide con
l’inizio della crisi del rapporto di coppia e delle liti”.
Sono stralci veri di articoli sui femminicidi in Italia. Versi pubblicati sui
nostri giornali ogni qualvolta diamo notizia di una nuova vittima.
Io li chiamo i “romanzi popolari sui femminicidi”. Le pagine dei giornali vanno
riempite, certo, non solo. La ricostruzione del contesto in cui spesso avvengono
i femminicidi è un modo per far capire che crimini di questo genere accadono in
un contesto di assoluta normalità. Ok. Cioè l’assassino non è un mostro
disadattato… è un uomo perfettamente integrato e che conduce una vita anche
familiare apparentemente normale. Va bene. Ci sto. Ma siamo sicuri che stiamo
facendo bene?
Ogni volta che leggo uno di questi “romanzi popolari sul femminicidio” mi chiedo
a chi servono e se servono. Per chi sono scritti? Sicuramente non per le vittime
e nemmeno per i suoi cari, sopravvissuti alla barbarie e alla perdita. Tipo un
figlio, un orfano di femminicidio: cosa se ne fa di un romanzo popolare
sull’uccisione della madre da parte del padre o compagno o fidanzato? Niente.
A lui forse serve sapere se è stato fatto tutto il possibile per salvarla, se le
denunce che aveva presentato sono state prontamente prese sul serio, se la rete
di protezione che doveva attivarsi si è attivata. Alle vittime servono le
inchieste, serve giustizia.
Forse questi pezzi pieni di dettagli, sulle cause che potrebbero aver spinto
l’uomo, l’assassino, il responsabile di femminicidio, ad ammazzare, sono anche
scritti talvolta in buona fede, ma sono culturalmente il retaggio di un passato
che dovremmo esserci lasciato alle spalle. I romanzi popolari dei femminicidi
finiscono sui social, nel magico mondo di internet. Ed ecco che diventano
fruibili da una moltitudine vastissima di lettori che li digerisce come vuole,
con gli strumenti che ha.
Il web è pieno di storie di uomini separati che dopo il divorzio magari hanno
perso anche il lavoro, uomini che non accettano la separazione perché
ossessionati “dall’amore” per lei, uomini che quindi alla fine la accoltellano,
strangolano, nascondono il cadavere della donna “amata”. Fermiamoci! “Lo stupro
non è un surrogato dell’amore” scrisse Indro Montanelli il 14 dicembre 1966 in
prima pagina sul Corriere della Sera nel suo editoriale su “La ragazza di
Alcamo”, Franca Viola, colei che con il suo NO categorico al matrimonio
riparatore, supportata dalla famiglia, si rifiutò di sposare il suo carnefice
che l’aveva rapita, picchiata, violentata.
Anche il femminicidio, non è un surrogato dell’amore.
E quindi, prendo sempre in prestito Montanelli che nel 1966, concluse: “Noi
contiamo che da questo processo venga fuori una sentenza che non si limiti a
punire il delinquente, ma che anche condanni in maniera esemplare tutti coloro
che se ne sono fatti complici, materiali o morali, la mentalità ch’essi
incarnano”.
È 25 novembre ogni giorno dell’anno.
L'articolo A cosa servono questi ‘romanzi popolari’ sul femminicidio? Fermiamoci
proviene da Il Fatto Quotidiano.
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza
contro le donne Extinction Rebellion ha occupato l‘ingresso della Rai di via
Verdi a Torino, dove una decina di donne si sono legate tra loro con corde rosa,
verdi e nere e si sono coperte la bocca con scotch nero, mentre è stato esposto
uno striscione “Sleghiamo l’informazione”. “Occupiamo l’entrata della Rai,
perché invece che svolgere il suo compito di informare correttamente la
popolazione propone delle narrazioni distorte“, afferma una portavoce, Elsa. A
suo avviso questo riguarda “i temi dei femminicidi, della crisi ecoclimatica e
del genocidio a Gaza, temi profondamente intrecciati come i nastri con cui ci
siamo legate. Temi segnati dalla più grande delle violenze: il silenzio“.
“Stando a quanto emerge dal rapporto dell’Osservatorio Step – riporta una nota
del movimento -, i media italiani nel raccontare i femminicidi utilizzano ancora
termini come “raptus” – anche se in misura minore negli ultimi anni – e
prediligono l’empatia nei confronti del carnefice e la spettacolarizzazione nei
casi di stupro e violenza sessuale. La scelta delle parole influenza la
percezione del pubblico, e la mancanza di linguaggio e narrazione adeguata nei
media emerge anche nel campo ambientale, come sottolinea il rapporto annuale
dell’Osservatorio Pavia: un ultimo esempio è l’ondata di calore di giugno,
quando meno di un quarto dei servizi nei tg serali citava la crisi climatica
come causa del fenomeno”.
L'articolo Protesta alla Rai di Torino, attiviste occupano l’ingresso:
“Narrazioni distorte sulla violenza sulle donne” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
di Vera Cuzzocrea*
E’ recente e unanime l’approvazione alla Camera della proposta di legge che
modifica il reato di violenza sessuale introducendo il requisito del “consenso
libero e attuale”, in linea con quanto previsto all’art. 36 della Convenzione di
Istanbul e come già avviene in diversi paesi.
L’elemento costitutivo della violenza diventa il consenso che deve essere dato
volontariamente e valutato tenendo conto del contesto in cui avviene l’atto: un
vero e proprio ribaltamento, dagli obiettivi di indagine alla dinamica
processuale. In cui la vittima viene ascoltata nei suoi vissuti e riconosciuta
nella condizione di particolare vulnerabilità che connota il reato e al reo
viene restituita la responsabilità di dimostrare di non aver posto in essere
nessuna forma di costrizione, non solo fisica ma anche psicologica.
E’ l’esito di una rivoluzione culturale che per secoli ha posto la vittima di
violenza sessuale nel paradosso di essere giudicata, costretta a difendersi,
prodotto scenari processuali di vittimizzazione secondaria. L’associazione
Victim Support ha recentemente pubblicato i risultati di una ricerca da cui
emerge che il 73% delle vittime sopravvissute ad uno stupro sarebbero sottoposte
ad una ri-traumatizzazione giudiziaria. Per la durata, gli ascolti multipli
connotati da domande screditanti tese ad indagare le azioni messe in atto per
fermare l’atto, l’eventuale abuso di sostanze stupefacenti, l’abbigliamento
indossato, la vita privata. Domande orientate a indebolire la credibilità della
vittima più che ad accertare le responsabilità dell’autore, di fatto non capaci
di restituire giustizia a chi subisce il reato. Giustizia, come quella che
chiedeva l’avvocata Tina Lagostena Bassi, nella sua arringa conclusiva (Processo
per stupro, 1978). Eppure la giurisprudenza si è espressa sull’irrilevanza della
reazione della vittima nel delitto sessuale, riconoscendo la difficoltà
psicologica vissuta a causa della paura e del frastornamento per
l’imprevedibilità della situazione.
D’altra parte, i reati sessuali sono da sempre caratterizzati da credenze che di
fatto hanno contribuito a normalizzare la violenza, disimpegnando moralmente chi
ne è responsabile e colpevolizzando chi la subisce. E’ solo del 1981
l’abolizione del “matrimonio riparatore”: una pratica che “costringeva” la donna
a sposare il suo stupratore quale “rimedio” al disonore. Come se il danno
prodotto non fosse emotivo e fisico e il diritto violato non fosse alla propria
libertà personale. Quasi non stupisce, considerando che la violenza sessuale,
fino al 1996, era un reato contro la morale pubblica e non contro la persona!
Franca Viola si è ribellata, trent’anni prima, rifiutandosi di sposare il suo
violentatore, denunciandolo e ottenendone la condanna. Lei e molte altre
andrebbero ricordate oggi: sono il 23,4% le donne tra i 16 e i 75 anni vittime
di violenza sessuale (Istat, 2025). E chissà quante altre.
Sollecitando il governo ad investire in azioni strategiche volte a promuovere lo
sviluppo di competenze emotive e socio-relazionali capaci di costruire uno star
bene insieme sano svincolato da logiche di dominio e stereotipi di genere. Fin
dall’infanzia. Si chiama prevenzione ed è necessaria a costruire quella
consapevolezza del consenso. Per chi non sa percepirlo, per chi non sa
ascoltarsi e per noi che troppo spesso abbiamo giudicato senza conoscere
guardando ad un’unica storia possibile.
* Vicepresidente Ordine Psicologi Lazio
L'articolo Il consenso ‘libero e attuale’ è frutto di una rivoluzione culturale.
Ora facciamo prevenzione proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quando si parla di violenza di genere, spunta sempre fuori la carta
dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, dando il via a polemiche ormai
cicliche: sì? No? Chi? Come? Quando?
E mentre ci chiediamo se sia legittimo parlare con i minorenni di relazioni,
sentimenti e rapporti – ovviamente in chiave diversa e con strumenti e linguaggi
eterogenei tra scuola primaria e secondaria – loro si arrangiano come possono,
navigando in solitaria uno sconfinato mare di informazioni e profili social che
suggeriscono tutto e il contrario di tutto. So già che molti diranno: “Ai nostri
tempi non esisteva l’educazione sessuale, eppure abbiamo costruito relazioni e
famiglie!”. Beh, si può dire che la realtà prima degli anni 2000 fosse un mondo
a parte rispetto a quella attuale; se è vero che permane un concetto comune di
desiderio e di attrazione, è altrettanto vero che le relazioni, oggi, sono più
complesse, intrecciate alla gestione non solo di sé, ma della propria immagine
social, dell’accesso a informazioni, consigli, video e tutorial in rete, nonché
di possibili contatti con forme di abusi e violenze sempre più subdole e
meschine. Penso alla diffusione di materiale intimo senza consenso, alle dick
pics, allo stalking digitale e alla manipolazione che ormai avviene tipicamente
tra le chat di messaggistica istantanea.
Faccio davvero fatica a comprendere il desiderio di molti genitori di ignorare
tutti questi pericoli e di lasciare al coraggio dei propri figli un’eventuale
richiesta di aiuto. Sembra ci sia una tendenza a ritrarsi quando si parla della
sfera sessuale e desiderante dei minori, eppure è una fetta enorme della loro
esistenza, soprattutto nella fase adolescenziale: la crush, le “seghe”, le troie
(quelle delle canzoni trap), la depilazione, le foto hot da mandare in chat,
l’essere gay o lesbiche, l’abitare un corpo non conforme agli standard, la
gelosia che sembra renderti folle… e se ne parlano, va ancora bene, siamo
fortunati. Tanti di loro, però, non riescono a portare fuori di sé tutte le
domande e vi restano aggrovigliati, chiedono aiuto a ChatGpt. “Ehi chat, cosa mi
consigli di fare se…?”; tanti studenti mi confessano di usare l’intelligenza
artificiale per chiacchierare di problemi personali, un interlocutore che non
giudica e non fa vergognare per eventuali errori o mancanze.
Quasi un adolescente su due usa l’Ai per avere conforto e consigli: dovrebbe
suonare un campanello d’allarme! Ci stiamo rifiutando di instaurare un dialogo
su temi di cui sì, gli adolescenti hanno vergogna; gliela stiamo trasmettendo
anche noi, moltiplicandola, e loro risolvono nel modo più semplice: eliminando
il fattore umano. E se da una parte l’intelligenza artificiale può essere utile
per gli aspetti pratici (es. sa spiegarti passo passo come indossare un
preservativo), contemporaneamente svuota di significato il concetto stesso di
educazione, intesa non come mera trasmissione di informazioni, ma come scambio
reciproco di conoscenze ed esperienze, creazione di strumenti e nuove
consapevolezze.
Uno degli aspetti più faticosi da fronteggiare, ma anche tra i più efficaci, è
la diversa percezione che ragazzi e ragazze hanno della vita nei panni
dell’altro genere. Spesso i maschi adolescenti credono che per le ragazze la
quotidianità delle relazioni sia più semplice (le persone tendono a trattarle
con più gentilezza, non devono mai fare il primo passo e altri retaggi di una
cultura che le dipinge come passive rispetto al contesto) e le ragazze sono
convinte che per i maschi tutto fili più liscio (scarsa emotività, più talento
nel mascherare gli stati d’animo, meno paura nelle situazioni pericolose e altre
convinzioni basate non necessariamente su quello che i loro compagni di classe
sono, ma su come ci si aspetta che siano).
Nel mio ultimo libro dedicato agli adolescenti (Le cose come stanno, People) è
presente un inserto dal titolo “perché il patriarcato danneggia anche gli
uomini?”. È una parola spaventosa “patriarcato”, i più giovani non si sentono
parte di questo problema e non gli sembra neanche una realtà così concreta,
quanto piuttosto un fatto storico, un contesto superato. La fatica, dunque,
diventa riconoscere le tracce di quel sistema nei nostri comportamenti
quotidiani; e dico “nostri” non a caso: anche le donne possono essere
maschiliste! (Lo fa emergere chiaramente Karen Ricci, fondatrice della community
@caraseimaschilista). Così, gli adolescenti devono imparare a gestire i primi
approcci con maggior cura e rispetto, a comunicare i propri limiti, a saper dire
o ricevere un “no” facendo i conti con le sue conseguenze.
Non è raro che a scuola si parli di notizie di attualità e se si sceglie di
affrontare il tema della violenza di genere i fatti di cronaca non finiscono
mai, ce ne sono mille per qualsiasi sfaccettatura: dalle molestie alle
discriminazioni sul lavoro, dai femminicidi agli stupri di gruppo passando per
la transfobia. Studenti e studentesse difficilmente si tirano indietro quando
entrano in gioco queste tematiche, anche il più restìo ha qualcosa da dire,
foss’anche accusare le ragazze di farsi offrire un cocktail per poi sparire.
Riuscire a dialogare da un punto di partenza come questo non è mai facile, però
la vera sfida è già superata: attirare la loro attenzione. L’interesse si
accende perché sono coinvolti, perché molti di questi problemi “scottano” sulla
loro pelle, sia come vittime che come carnefici che si sentono chiamati in
causa. E quando la discussione si apre, il tempo non è mai abbastanza, mai.
Ricordo le mie classi a seguito del femminicidio di Giulia Cecchettin: dopo
averne parlato insieme, decidemmo di fare un minuto di rumore, anziché un minuto
di silenzio. Eravamo commossi, arrabbiati e anche chi tra loro non avrebbe
saputo fare un discorso sulla violenza sistemica o sull’importanza della
prevenzione, percepiva il problema in modo lampante: ci sono persone che non
sanno gestire il rifiuto. Filippo Turetta non è stato il primo, né l’ultimo; non
crogioliamoci nell’illusione consolatoria che domani non possa essere nostro
figlio, un nipote, uno studente. Facciamo l’operazione al contrario: non
chiediamoci più “e se fosse mia/tua figlia ad aver subito ciò?” quando parliamo
di violenza di genere; chiediamoci invece “e se fosse mio/tuo figlio ad aver
commesso un abuso?”.
Per quanto io creda profondamente nel valore dell’educazione affettiva e
sessuale sin dai primi anni di scuola, non bisogna farsi ingannare: non si
tratta della formula magica che risolve il problema della violenza maschile
contro le donne. Immaginando che tra qualche anno possa entrare nei curricoli
delle scuole (utopia, ahimè), prima che si vedano gli effetti a lungo termine
sulla società dovrebbe passare almeno qualche decennio. E intanto? Non possiamo
confidare nella scuola come unica ancora di salvezza. Noi adulti in primis
dobbiamo riconoscere l’esigenza di cambiare rotta: l’educazione alle relazioni
va portata nelle aziende, negli enti pubblici, tra i docenti, nei luoghi dello
sport e nei presidi della cultura. La pedagogia dell’esempio, da Plutarco a
oggi, ci affida grandi responsabilità: la testimonianza e l’imitazione sono
strumenti insostituibili nello sviluppo delle capacità utili alla crescita e
all’apprendimento, comprese quelle relazionali.
Chiediamoci, a questo punto: stiamo facendo abbastanza? Checché ne dica la
ministra Roccella (la quale non ha chiaro che più denunce per violenza non
corrispondono in modo diretto a più violenza, ma a una maggiore capacità di
riconoscerla e denunciarla), la risposta è no.
L'articolo La sessualità è una fetta enorme delle vite dei ragazzi: faccio
fatica a capire chi vuole ignorare tutto questo proviene da Il Fatto Quotidiano.
La riforma che introduce il consenso libero e attuale al centro della violenza
sessuale cambia il lessico del dibattito ma non le regole del processo penale:
resta un reato gravissimo, con pene elevate, che si fonda su un accertamento
probatorio pieno, oltre ogni ragionevole dubbio, e non su automatismi morali.
Per il difensore di un ragazzo accusato di stupro lo scenario non è la “guerra
alle donne”, ma una responsabilità tecnica più alta: da un lato impedire che il
nuovo testo si traduca in condanne simboliche fondate sul clima sociale;
dall’altro evitare che la difesa diventi il luogo in cui si riciclano gli
stereotipi di genere che la riforma prova a scardinare. Nei casi tipici di
“parola contro parola” – nessuna violenza fisica evidente, nessun testimone
diretto, pochi riscontri – la prima bussola è ricordare al giudice che
l’elemento centrale del nuovo 609-bis non è l’idea astratta di violenza ma la
prova concreta della mancanza di consenso: spetta al pubblico ministero
dimostrare che l’atto è stato compiuto nonostante, o approfittando, del dissenso
della persona offesa; non spetta alla difesa certificare un consenso impossibile
da “dimostrare” in positivo.
Questo non autorizza il vecchio copione del massacro in aula: la persona offesa
resta un teste centrale e vulnerabile, ma non è intoccabile; il difensore serio
lavora su coerenza, costanza, precisione del racconto, raccordo con gli altri
dati (chat, spostamenti, video), non sulla vita sessuale pregressa,
sull’abbigliamento o sulle fantasie degli imputati. La linea di confine è
chiara: interrogare in modo serrato sui fatti è legittimo, alludere a “ragazze
facili” è già vittimizzazione secondaria e, oggi, anche un boomerang processuale
che rivela l’avvocato scarso.
Nel nuovo contesto il vero terreno di scontro diventano le tracce digitali:
messaggi prima e dopo, vocali, foto, geolocalizzazioni, storie social. Il
difensore deve ricostruire l’intera sequenza: chi cerca chi, chi propone
l’incontro, come si parla (o non si parla) di sesso, se emergono esitazioni,
paure, ripensamenti. Sulla base della giurisprudenza consolidata l’attendibilità
della persona offesa può reggere una condanna anche senza altri testimoni, ma
richiede comunque un racconto internamente logico ed esternamente compatibile
con i dati oggettivi; è lì che la difesa deve battere, non sul pregiudizio.
Allo stesso tempo è essenziale lavorare sul cliente: molti giovani imputati
arrivano in studio ripetendo “era consenziente” perché confondono il “non ha
detto di no” con un sì; il penalista, prima ancora di pensare alla linea
processuale, deve spiegare che nel nuovo quadro il consenso è una costruzione
positiva, fatta di parole, gesti, partecipazione, e che frasi da spogliatoio
(“ci stava”, “se l’è cercata”) in chat o sui social non solo sono moralmente
miserabili, ma diventano materiale probatorio devastante. Nella gestione del
procedimento il difensore dovrà anche proteggere il processo dal cortocircuito
mediatico: niente conferenze stampa identitarie, sì a interventi mirati quando
la presunzione d’innocenza viene calpestata; spiegare al ragazzo che ogni post,
ogni like, ogni meme sull’accaduto può trasformarsi in un indice di totale
disprezzo per la libertà sessuale altrui.
Nei casi davvero opachi, poi, il garantismo non è la difesa a oltranza
dell’innocenza in astratto, ma la verifica onesta dell’esistenza del ragionevole
dubbio: se non c’è, ha senso discutere di riti alternativi e percorsi di
responsabilizzazione invece di spingere verso processi distruttivi per tutti. Ed
è proprio dalla consapevolezza processuale che nasce questo mio “prontuario” per
i ragazzi: le dieci regole per non farsi accusare – in realtà, per non diventare
aggressori, neppure per ignoranza.
1. Se non è un sì chiaro, è un no; una ragazza rigida, che “lascia fare”, che
guarda altrove o dice “non lo so” non sta dando consenso, e la risposta corretta
è fermarsi.
2. Chiedere è obbligatorio, non goffo; “ti va se ti bacio?”, “vuoi continuare?”
sono la normalità, e davanti a esitazioni si chiude la partita, non si
interpreta.
3. Alcol e droghe annullano il consenso; se lei è ubriaca o alterata, il
rapporto è semplicemente da escludere.
4. Il sì non è un contratto irrevocabile; può dire sì a un bacio e no al resto,
può spogliarsi e cambiare idea in qualsiasi momento, e dal primo “basta”, anche
sussurrato, ogni insistenza diventa violenza.
5. Pressione psicologica, senso di colpa e ricatti emotivi (“dai, non fare la
bambina”, “allora perché sei venuta qui?”) non sono seduzione ma strumenti di
dominio; se hai bisogno di fare leva sulla sua paura o sul suo senso di colpa,
sei già oltre il confine.
6. I messaggi contano più delle intenzioni dichiarate a posteriori; se il giorno
dopo lei scrive che “ci è stata male”, che “non voleva davvero”, che “si è
sentita costretta” o parla apertamente di violenza, il ragazzo non deve
cancellare chat, minimizzare, rovesciare la colpa o, peggio, girare gli
screenshot agli amici, perché così costruisce da solo il processo contro di sé;
la risposta più corretta – umana e, paradossalmente, anche difensiva – è
qualcosa come: “Non mi rendevo conto che ti fossi sentita così, mi dispiace
sinceramente; se vuoi parlarne sono disponibile, se preferisci non sentirci più
lo rispetto”, dopodiché si smette di insistere, non si cerca di convincerla che
esagera, non la si minaccia se accenna alla denuncia e, se la situazione
precipita, ci si rivolge a un avvocato senza aggiustamenti fai-da-te.
7. Evitare situazioni di isolamento con persone quasi sconosciute, specie dopo
alcol; pensare di “portarla a casa” dopo mezz’ora di conoscenza e considerare
tutto ciò che accade come scontato è un errore grave e ingenuo.
8. Il branco non attenua, aggrava; partecipare a scene in cui un gruppo preme,
filma, commenta mentre una sola persona è vulnerabile significa esporsi non solo
a una responsabilità morale, ma a imputazioni pesanti, quindi allontanarsi di
corsa dalla scena.
9. Non esiste un diritto all’happy end, nessuna cena pagata, nessun flirt,
nessuna chat esplicita genera un credito sessuale da esigere.
10. Regola di chiusura, da insegnare come una formula di procedura penale
domestica: se non sei sicuro al cento per cento che lei voglia davvero, qui e
ora, ti fermi.
La nuova legge sul consenso non è un complotto contro i “bravi ragazzi”, è un
invito a costruire relazioni in cui libertà sessuale, responsabilità e prova
processuale non siano mondi separati; chi non vuole finire in un’aula di
giustizia deve cominciare da qui.
L'articolo Violenza sulle donne, un prontuario per avvocati e dieci regole per i
giovani dopo la legge sul consenso proviene da Il Fatto Quotidiano.
Se nel Medioevo alle donne veniva imposta la mordacchia, oggi ci sono strumenti
più sofisticati contro le donne che svelano, parlano, prendono posizione
pubblica contro la violenza sessista: cause legali minacciose, intimidazioni
giudiziarie e attacchi mediatici. A finire nel mirino non sono solo le vittime
di violenza e attiviste femministe, ma anche operatrici dei centri antiviolenza
e giornaliste che raccontano la vittimizzazione istituzionale delle donne. A
volte ci sono giornaliste che vengono condannare in cause civili per
diffamazione, anche se quanto hanno scritto era basato su documenti ufficiali e
si trasforma la verità in un’imputata.
È lecito usare il diritto per soffocare la voce di chi denuncia violenza? La
legge serve a proteggere le persone dalla calunnia, certo. Ma le vittime devono
poter parlare, denunciare pubblicamente ciò che hanno subito, senza il rischio
di essere trascinate in tribunale.
In Italia cresce il rischio di Slapp – Strategic Lawsuits Against Public
Participation – cause legali strategiche contro chi partecipa al dibattito
pubblico sul tema della violenza maschile contro le donne. Sono strumenti di
intimidazione pensati per zittire chi denuncia abusi, chi si espone, chi osa
rompere il silenzio. L’obiettivo è chiaro: riportare le donne al silenzio.
Il backlash preannunciato da Susan Faludi nel 1991 è qui ed è evidente. Minacce
legali, pressioni di potere, violenza istituzionale: tutto per impedire alle
donne di parlare. Il movimento #MeToo del 2017, che portò milioni di donne a
denunciare pubblicamente violenze e molestie superando i confini geografici
negli Usa e culminò nella condanna del produttore Harvey Weinstein a 24 anni di
carcere, dimostrò quanto la solidarietà e la visibilità possano fare la
differenza. Ma oggi, lo stesso sostegno allo svelamento delle vittime sarebbe
garantito?
Recentemente, alcune operatrici dei centri antiviolenza sono state denunciate
per testimonianze rese in aula durante processi per violenza. La Procura ha
archiviato, ma il danno è stato fatto: stress, intimidazione. Altri casi vedono
uomini imputati per violenza inviare minacce legali tramite i propri avvocati a
chi aveva semplicemente svolto il proprio lavoro: relazioni inviate ai servizi
sociali o alle forze dell’ordine sulle donne accolte nei centri. Tutto finisce
spesso nel nulla, ma intanto il centro perde tempo e risorse preziose, e le
operatrici vengono logorate psicologicamente.
E se da una parte c’è lo Slapp, dall’altra ci sono continue aggressioni digitali
alle pagine social dei Centri antiviolenza, che a volte si amplificano con
shitstorm organizzate, fatte spesso da profili fake che scagliano insulti e
minacce. Gli aggressori attaccano le pagine social dei centri antiviolenza,
prendendo di mira le operatrici e le sopravvissute con campagne coordinate di
umiliazione e di intimidazione. A volte, gli autori di violenza le cui compagne
sono state ospitate nelle case rifugio lanciano accuse pubbliche, volte a
diffamare l’operato dei Centri antiviolenza con l’accusa di sottrazione di
minore. Accuse alle quali le rappresentanti dei Centri antiviolenza
difficilmente possono replicare, sia perché sono tenute alla riservatezza su
quanto viene svelato nel Centro antiviolenza, sia perché difendersi potrebbe
dire esporsi al rischio di denuncia per diffamazione.
Un caso emblematico che rispecchia la situazione che ho appena descritto è
quella capitata dell’attivista croata Tölle, condannata per aver diffamato il
marito di una donna accolta nel suo centro antiviolenza. Tolle aveva respinto
pubblicamente le accuse dell’uomo (di aver sottratto la figlia) spiegando i
motivi per cui il centro antiviolenza aveva accolto la donna e la minore. La
Corte Europea dei Diritti Umani riconobbe la querela fatta dall’uomo come azione
legale intimidatoria. Non si trattò di un normale processo, ma dell’uso distorto
del diritto per silenziare chi difende le donne. Lo Stato croato fu condannato a
risarcire l’attivista.
Quanto alle vittime di violenza, il passo da sopravvissute a imputate può essere
brevissimo. Il rapporto Da sopravvissuta a imputata, pubblicato da Index on
Censorship, conferma la tendenza: in Regno Unito e Irlanda, le sopravvissute
alla violenza sessuale sono sempre più spesso bersaglio di minacce legali,
citazioni in giudizio e intimidazioni da parte di studi legali, solo per aver
raccontato la propria esperienza.
In Italia, donne che denunciano violenza istituzionale sui social o
pubblicamente possono subire lo stesso trattamento: accuse di diffamazione,
cause civili, processi infiniti. Come osserva Elena Biaggioni: “Quello che non
si vuole vedere è la disparità di potere. Tutte le donne che parlano di violenza
sanno che prima o poi dovranno affrontare il timore di una denuncia. Sono forme
di intimidazione che funzionano. Investono anche i Centri antiviolenza. Sono le
parole dei bulli che diventano legge.”
È un paradosso inquietante: denunciare la violenza e trovarsi nuovamente colpite
dalla violenza stessa, questa volta sotto forma di diritto piegato al potere. È
ora di affrontare questa problematica perché la legge non può diventare un’arma
contro chi denuncia violenze, né in aula di tribunale, né sui social.
L'articolo Querele intimidatorie e minacce legali: è lecito usare il diritto per
far tacere chi denuncia violenza? proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nella Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne si celebra soprattutto la
lotta contro la violenza patriarcale familiare. Si invitano le donne ad alzare
la loro voce, a dire no a ogni forma di atteggiamento o comportamento violento
da parte di qualsiasi uomo da loro conosciuto. Molestie, stupri, aggressioni,
così come un linguaggio che svaluta, insulta, ferisce. Ma poco si riflette, in
questa giornata, sulla violenza di uno Stato che le donne non le aiuta in nessun
modo, lasciandole sole e senza strumenti. Non le aiuta né dal punto di vista
economico, né rispetto al sostegno sui compiti immensi e gravosi di cura che le
donne hanno sulle proprie spalle.
La povertà: le donne, specie quelle single con figli, ma non solo, sono spesso
povere, nel senso che vivono con redditi minuscoli e precari. E anche quando
magari il reddito del marito è più elevato e c’è un relativo benessere
economico, questo non toglie che, seppure non povere formalmente, le donne si
ritrovino a dipendere dall’altro, a chiedere, dunque non in condizione di
libertà. E che difficilmente possano decidere liberamente di separarsi, se c’è
una situazione pesante o molto pesante.
A maggior ragione non sono libere le donne che vivono da sole con redditi bassi
o nulle. Cosa dà il governo a queste donne, spesso con figli? Non c’è più un
reddito antipovertà nel nostro paese, sostituito da un assai più restrittivo ed
escludente Assegno di inclusione. Arriva qualcosa per i figli attraverso
l’assegno unico, qualche bonus, e basta. Milioni di donne in Italia vivono
questa condizione di assoluta precarietà, che corrisponde a un’ansia continua.
Ma poi c’è la violenza di uno Stato che ti lascia fuori dagli asili nido,
nonostante i bambini siano sempre di meno. Che non ti consente neanche di
scaricare le spese, spesso immense di una babysitter. Che ti costringe – questa
anche è violenza – a prenderti cura dei tuoi figli oppure lavorare.
Si dirà che questa violenza è sulla famiglia in generale, quindi anche sugli
uomini. Certo, è così. Ma poiché i lavori di cura sono soprattutto al femminile,
le gravi carenze dello stato ricadono soprattutto sulle donne. Prendiamo il tema
del caregiving. Oggi non c’è donna di mezza età che non abbia figli ancora da
curare e anziani da assistere, con un carico enorme che spesso si traduce in
esaurimenti psicofisici se non malattie. Ebbene, di recente il governo ha
annunciato in pompa magna un piano per i caregiver che sarebbe “una svolta”.
Come al solito, se poi si vanno a vedere i criteri ci si rende conto di cosa si
tratta davvero. Anzitutto, i 250 milioni sono a partire dal 2027. Poi si
prevedono 1.200 euro ogni 3 mesi solo per chi superi le 90 ore di carico
settimana, stiamo quindi parlando di circa 15 ore al giorno. Ma attenzione,
l’Isee deve essere sotto 15.000 e il reddito da lavoro sotto 3.000 lordi annui.
Ci sono altre figure di caregiving con meno ore, che non hanno alcun contributo
economico, pur magari dedicando 30 ore settimanali ad un parente malato.
E allora, si torna sempre alla mancata assistenza, che è comunque una forma di
violenza. Alla fatica del vivere stipendi miseri, inferiori a quelli degli
uomini, anche a parità di mansioni, comunque tendenzialmente più precari; a
questa fatica si aggiunge il carico di figli che hanno una quantità di esigenze
e bisogni spaventosi, che comportano un carico psicologico ed economico senza
pari, per il quale non c’è nessun sostegno dello stato, solo la giungla del
privato (spesso con ottimi professionisti, ma tutto a pagamento). C’è poi la
cura degli anziani, anche qui, come abbiamo visto, senza alcun sostegno statale.
La questione si aggraverà quando le pensioni saranno sempre più minuscole, e
tutti sanno quanto costa un’assistenza a un anziano con una o più patologie
croniche: in termini di farmaci, in termini di visite mediche, in termini di
assistenza in casa o in una struttura.
A proposito di farmaci: è una violenza, piccola ma simbolica, lo penso da
sempre, che tutti i farmaci per curare le infezioni vaginali o ginecologiche in
senso lato siano a pagamento, così come la contraccezione ormonale. Ci vogliono
in forma e in salute per lavorare e guadagnare, per fare figli, per assistere i
cari malati, però neanche abbiamo diritto a crede anti-locali gratuite.
Di nuovo, si potrebbe dire che tutto ciò è la violenza di questo sistema su
tutti noi, ormai costretti a sopravvivere sapendo che nessun aiuto reale, se non
prese per i fondelli come i bonus, arriveranno dal governo e dallo stato in
generale. Però, ripeto, in questa situazione le donne sono più vulnerabili,
perché considerate più adatte alla cura di figli e anziani: forse, chissà,
potrebbe anche essere vero ma non è retribuita e allora qui c’è un problema
enorme. Penso allora che riflettere anche su questo tipo violenza – che poi si
somma agli tipi, perché anche chi è vittima di violenza fisica risente degli
aspetti economici – sia importante.
Se le donne sono costrette a vite all’insegna dell’angosciosa sopravvivenza,
questo rappresenta una forma di maltrattamento, coercizione e sopruso di cui lo
Stato, e chi ci governa, è per primo responsabile. Quello Stato che oggi
taglierà molti nastri e parteciperà a tante – inutili? – cerimonie contro la
violenza sulle donne.
L'articolo È violento anche lo Stato che lascia sole le donne nella povertà e
nella precarietà proviene da Il Fatto Quotidiano.