L’ intero universo e tutti i suoi fenomeni fisici possono essere ricondotti a un
unico modello matematico? C’è stato un tempo in cui ci si illuse che fosse
possibile, quando a Stephen Hawking veniva assegnata la cattedra, che in epoca
moderna era stata di Isaac Newton, all’Università di Cambridge. Nel 1979,
insieme al suo gruppo di ricerca, Hawking lavorava alla teoria del tutto,
chiamata anche TOE (Theory Of Everything). Quello stesso anno, si scatenò una
tempesta improvvisa, che nessuna stazione meteorologica era stata in grado di
prevedere. Nonostante l’attivazione di imponenti operazioni di soccorso, lo
scrittore irlandese James Gordon Farrell perse la vita nella Baia di Bantry. Era
l’autore della cosiddetta Trilogia dell’Impero (1970-1978), una serie di romanzi
sulle conseguenze del colonialismo britannico nel mondo. Qualche mese prima,
Margaret Thatcher vinceva le elezioni e diventava primo ministro del Regno
Unito, incarico che ricoprì per undici anni consecutivi.
Come Hawking, anche Thatcher aveva una sua teoria totalizzante e un metodo per
dimostrarla, ma anche uno scopo ben preciso da raggiungere. La teoria implica
che il capitalismo sia l’unico sistema economico praticabile, al quale non è
possibile contrapporre un’alternativa, ed è sintetizzata nello slogan “There is
no alternative”, contratto in TINA. Il metodo prevede l’attuazione di misure
come le privatizzazioni e il monetarismo, e l’obiettivo era quello di cambiare
la psicologia dei suoi conterranei per portarli a rivivere i grandi fasti del
passato, quando il Regno Unito era la più grande potenza al mondo.
Thatcher intendeva condurre il suo Paese verso il futuro, tornando al passato, e
rafforzare l’orgoglio identitario nazionale attraverso la promozione di una
società atomizzata e individualista. Secondo la sua prospettiva, i cittadini
britannici avrebbero dovuto emanciparsi dall’assistenzialismo statale a partire
dalla questione abitativa: ognuno avrebbe dovuto possedere una casa di proprietà
e questo sarebbe stato possibile attraverso l’erogazione di mutui a tasso
variabile. Nella sua visione, il mondo intero si riconduceva a un unico modello
economico, sociale e politico, secondo i precetti del conservatorismo.
Prometteva di cambiare tutto senza cambiare niente, glorificando le tradizioni e
feticizzando ciò che la storia avrebbe lasciato in eredità al suo popolo.
> Nell’ultima docuserie realizzata per la BBC, Shifty, Curtis mixa filmati
> d’archivio come tracce di un set di musica elettronica, caotico e stordente,
> ripercorrendo gli ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo
> millennio.
Per il giornalista e regista inglese Adam Curtis, Hawking e Thatcher sono due
delle personalità principali connesse dal filo conduttore che percorre gli
ultimi vent’anni del Regno Unito, a ridosso del nuovo millennio. Nell’ultima
docuserie realizzata per la BBC, Curtis mixa filmati d’archivio come tracce di
un set di musica elettronica, caotico e stordente, adottando il tipo di
montaggio caratteristico dei suoi ultimi lavori prodotti per la medesima
emittente. Si intitola Shifty (2025) e condensa in cinque episodi da circa
un’ora molti dei temi cari all’autore, approfonditi in altre produzioni come
HyperNormalisation (2016), il documentario nel quale sostiene che, dagli anni
Settanta in poi, governi, finanzieri e imprenditori dell’industria hi-tech
abbiano progressivamente rinunciato ad affrontare le complessità del reale,
scegliendo di fabbricare un mondo artificiale, più semplice da gestire e
rassicurante da abitare. L’idea di fondo è che la reiterazione di questa
finzione collettiva finisca per trasformarsi in una nuova normalità: un universo
al quale tutti si adeguano, pur di evitare il confronto con il disordine del
presente.
Il concetto di reiterazione (inteso come prassi per rafforzare l’immaginario
egemonico della società dei consumi) è stato indagato anche da Lauren Berlant
nel saggio Cruel Optimism (2011). L’autrice interpreta il presente storico come
un tempo sospeso in cui il desiderio di una “vita buona”, una vita normale, è
paradossalmente condizionato dalla sua impossibilità strutturale di essere
esaudito. L’ottimismo crudele, cifra della condizione neoliberale, nasce proprio
da questo cortocircuito: l’adesione alla normatività e la fede nelle sue
promesse, mantengono i soggetti ancorati a un presente logorante, fatto di
rituali ripetitivi e di speranze differite, come traguardi irraggiungibili e
lontani. In questo senso, sotto la lente di Berlant si teorizza la tenuta del
modello economico capitalistico e la sua forza conservatrice, capace di
perpetuarsi attraverso la produzione di affetti e aspettative.
Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro,
mostrato in Shifty da Curtis. Quando si producono orizzonti immaginifici, si
manipola anche la realtà, nella sua accezione, più prettamente umana di Storia.
Non a caso, il primo episodio della docuserie è intitolato The land of make
believe, il mondo delle favole, e mette al centro l’illusione politica con la
quale ha incantato i suoi elettori per un decennio. L’episodio si apre con una
breve sequenza, estrapolata dal vastissimo archivio della BBC, che mostra la
Thatcher sull’uscio di una sala da pranzo mentre incoraggia un gruppo di bambini
a entrare nella stanza, assieme a una celebrity discutibile: Jimmy Savile.
> Semplificare la realtà, ridurla a un’unica interpretazione e creare un
> immaginario, una fantasia: è stato esattamente quello che ha prodotto la
> leadership di Thatcher, durante l’ascesa e il declino della Lady di ferro.
Si trattava di un personaggio vicino alla leader dei conservatori, il quale
aveva percorso una parabola che dalle miniere di carbone lo aveva portato a
diventare DJ, conduttore radiofonico e televisivo molto famoso nel Regno Unito.
Solo dopo la sua morte, emersero delle accuse di stupro che intaccarono la sua
memoria. Per molti aspetti, Jimmy Savile incarnava la storia del suo Paese: le
miniere di carbone vennero dismesse a partire dagli anni Ottanta, così come le
fabbriche e le industrie, per essere sostituite da un altro modello economico,
regolato dai mercati finanziari, basato sulla vendita di servizi e sulla
speculazione immobiliare. Era lo stadio germinale del sistema tardocapitalista
nel quale oggi sprofonda l’Occidente, trascinando con sé il resto del mondo.
Curtis mostra agli spettatori il veloce declino politico della storia recente
del suo Paese, ma a differenza dei progetti precedenti, il commento del regista
alle riprese d’archivio non è in voice over, bensì sotto forma di didascalie
narrative. La tesi di fondo del regista è suggerita e mai davvero del tutto
approfondita: sfugge e si dissolve, esattamente come il sistema sociale che
racconta. Ne risulta un vortice caleidoscopico e stordente, accentuato da un
accompagnamento sonoro che va dai Joy Division a Gigi D’Agostino, passando dalla
guerra delle Falkland agli scontri con l’IRA e alla censura della BBC di Relax
(1984) dei Frankie Goes to Hollywood. I cinque episodi di Shifty tengono insieme
house party e storia economica, cultura pop e guerre imperialiste; accennano a
cospirazioni e segreti, massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false
promesse, come quelle di Thatcher ai suoi elettori, ma anche di Tony Blair e
Gordon Brown. Si allude anche alla “Stalker Inquiry”, la commissione
parlamentare istituita per indagare sugli abusi delle forze di polizia
britanniche in Irlanda del Nord, immediatamente archiviata. Dalla visione
dell’intera serie, si potrebbe dedurre che Curtis volesse trasferire al suo
pubblico il comune sentire di quelle due decadi di fine Novecento, sospese verso
un futuro inconsistente, vuoto come le ragioni che spinsero all’edificazione del
Millennium Dome, l’arena polifunzionale che fu costruita a Londra per ospitare
una grande esposizione celebrativa del terzo millennio.
> I cinque episodi di Shifty tengono insieme house party e storia economica,
> cultura pop e guerre imperialiste; accennano a cospirazioni e segreti,
> massoneria e aristocrazia, nuovi poveri e false promesse.
La docuserie è costellata di personalità ambigue, oggetto di scandali, come
Geoffrey Prime, un’ex spia britannica, condannato per abusi sessuali su minori e
per aver rivelato informazioni riservate all’Unione Sovietica. Curtis si
sofferma anche su Cecil Parkinson, segretario di Stato sotto il primo governo
Thatcher, costretto a dimettersi dall’incarico quando la sua relazione
extraconiugale venne a galla. Poi, la corruzione di alcuni esponenti dei Tory,
uno fra tutti Ian Greer, coinvolto in prima persona nel “cash-for-questions
affair” insieme all’imprenditore egiziano Mohamed Al-Fayed, che aveva rilevato
il famoso centro commerciale di lusso Harrods. Curtis si sofferma su Al-Fayed in
diversi episodi di Shifty e nell’ultimo monta un estratto di un’intervista
durante la quale l’imprenditore afferma, senza alcun rimpianto, di aver fatto
affari con Greer semplicemente perché voleva fare soldi. Infine, si autoassolve
e dichiara, con parecchio sdegno, che un grande paese come il Regno Unito si era
ridotto a essere amministrato da un gruppo di delinquenti senza morale né etica.
Oltre agli scandali, le clip selezionate da Curtis raccontano anche i grandi
eventi cardine del suo Paese alla fine del Novecento, come il Big Bang: il boom
dei consumi fondato sul debito e destinato a provocare molto presto l’ennesima
crisi delle borse britanniche. Un’altra tempesta violenta e improvvisa si
scatena sui cieli del Regno Unito, proprio quando la bolla esplode e arriva al
culmine con il Black Monday, uno dei crash finanziari più drammatici del
ventesimo secolo. La transizione verso i nuovi assetti economici e produttivi
non comporta una rivoluzione reale nelle configurazioni del potere, che resta
nelle mani di quelli che lo hanno sempre detenuto. Eppure, rispetto ai rapporti
di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è la cultura ad
allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte dell’industria del
tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. L’arte diventa merce e le
fabbriche sono trasformate in loft dagli imprenditori del mercato immobiliare.
Si gentrifica il sapere così come i quartieri, demolendo ricordi personali e
memoria collettiva per fare spazio alle catene della grande distribuzione
organizzata, come Netto e Tesco.
> Rispetto ai rapporti di forze, Curtis registra un cambiamento di equilibri: è
> la cultura ad allontanarsi dal mondo della politica per divenire parte
> dell’industria del tempo libero, del lifestyle e dell’intrattenimento. Si
> gentrifica il sapere così come i quartieri.
Rispetto al ruolo dell’arte e della cultura, sia indipendente sia mainstream,
Curtis aveva esplorato tematiche affini nella docuserie Can’t Get You Out Of My
Head (2021), in cui l’attenzione si spostava sull’individuo occidentale odierno,
immerso in un mondo privo di grandi narrazioni collettive. L’emancipazione dai
miti, che in passato orientavano il senso di appartenenza al sistema sociale
egemonico, istiga i singoli individui a generare autonarrazioni proprie per
interpretare e condizionare la realtà. Tuttavia, queste storie personali non
sono mai totalmente originali; al contrario, restano intrecciate alle strutture
di potere e ai modelli del passato, mostrando come il soggetto atomizzato
continui a operare entro i limiti dei sistemi che lo trascendono.
Anche in questa docuserie, l’analisi di Curtis si muove a partire da una visione
materialista della storia: le trasformazioni dei rapporti di produzione e delle
dinamiche di potere globali costituiscono lo sfondo su cui si regge l’intero
racconto, articolato in otto ore di filmati d’archivio. Allo stesso tempo, il
regista non riduce la complessità degli ultimi decenni a un’etichetta unica come
“neoliberalismo”, preferendo argomentare come l’intera classe politica abbia
delegato progressivamente all’apparato finanziario il governo della società,
trasformando il denaro nell’unica misura possibile della realtà, anche in campo
artistico e culturale. In questo scenario, gli individui, pur credendo di essere
liberi, sono intrappolati in una gabbia entro la quale tutto è quantificato e
strumentalizzato secondo criteri economici e di utilità.
Dalla fine del Novecento a oggi, molte cose sono cambiate e la gabbia ha
cominciato a farsi sempre più stretta, inadatta a contenere la complessità della
realtà odierna, ossia quella di un mondo globalizzato e iperconnesso. La
frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata nel quarto episodio
di Shifty anche attraverso la messa in discussione della Teoria del tutto
elaborata da Hawking, superata da quella del multiverso. Secondo Curtis si può
evidenziare una corrispondenza dinamica fra le scoperte scientifiche e i sistemi
sociali che le generano: associa la rivoluzione scientifica a quella
industriale, la Theory of everything all’individualismo estremo della
massificazione dei costumi di fine Novecento, mentre la teoria del multiverso
riflette la complessità e la frammentazione del mondo contemporaneo segnato
dall’avvento di Internet.
> La frattura nell’immaginario neoliberista in crisi è mostrata anche attraverso
> la messa in discussione della Teoria del tutto elaborata da Hawking, superata
> da quella del multiverso, in una corrispondenza dinamica fra scoperte
> scientifiche e sistemi sociali.
L’ultimo episodio della serie termina con un estratto di un’intervista a David
Bowie, il quale sosteneva come almeno fino alla metà degli anni Settanta, la
percezione comune fosse quella di essere sotto l’egida di una società modellata
da una cultura di massa, monolitica e univoca. Verso gli anni Novanta, il
paradigma dominante iniziò a sgretolarsi in molteplici narrazioni. Rispetto a
Internet e alla sua diffusione, Bowie lo definì come una “forma di vita aliena”
dal potenziale “inimmaginabile, esaltante e terrificante” allo stesso tempo. Le
parole del Duca bianco si perdono nelle note di Absolute Beginners. La docuserie
termina con una successione di commenti scritti, nella forma di intertitoli, con
i quali il regista si domanda se l’individualismo nel quale la società
occidentale è stata catapultata sarà mai rovesciato dalle persone che
scopriranno un nuovo senso di unità; oppure se aspirare alla rivoluzione possa
essere solamente un retaggio nostalgico, innescato dal loop storico nel quale
oggi si trova l’umanità.
Nonostante l’ampia risonanza ottenuta, una parte della critica britannica ha
espresso giudizi più cauti su Shifty, ritenendola meno originale rispetto ai
lavori precedenti di Curtis. Alcuni hanno osservato che la docuserie non apporta
nuove prospettive, limitandosi a reiterare temi già esplorati. In alcuni
passaggi, la narrazione è risultata persino ingenua, specialmente quando il
regista si lascia andare ad affermazioni improbabili, come quando sentenzia che
le privatizzazioni sono state inventate dai nazisti. Altri interventi critici
più equilibrati hanno riconosciuto il valore estetico e simbolico della serie,
sottolineando la sua capacità di costruire suggestioni visive e sonore, ma ne
hanno comunque evidenziato la difficoltà nel produrre un discorso inedito
rispetto al corpus complessivo delle produzioni precedenti.
L’impressione generale è che Shifty riproponga un universo concettuale già noto
agli spettatori più avvezzi alle sue opere, senza offrire una vera e propria
evoluzione concettuale o teorica. Se non altro, l’ultima docuserie di Curtis ha
il merito di accendere l’attenzione su un tema: il capitalismo non è affatto il
sistema migliore possibile, da auspicare quasi come se fosse una conseguenza
necessaria nella progressione dei fatti storici. Credere che sia il modello più
efficace è semplicemente una credenza, un mito. Per certi aspetti, è esattamente
ciò che sosteneva Mark Fisher quando definiva il capitalismo come una forma di
dominio ideologico, capace di colonizzare ogni aspetto della vita.
> La docuserie di Curtis ha il merito di accendere l’attenzione su un tema: il
> capitalismo non è affatto il sistema migliore possibile, da auspicare quasi
> come se fosse una conseguenza necessaria nella progressione dei fatti storici.
E se persino la storiografia e l’analisi dei fatti storici fosse stata
colonizzata dal pensiero egemonico capitalista? L’antropologo David Graeber e
l’archeologo David Wengrow, autori di L’alba di tutto. Una nuova storia
dell’umanità (2021), riprendono la tesi dello storico delle religioni Mircea
Eliade secondo la quale la concezione lineare del tempo è un’invenzione
relativamente recente, che può essere ricondotta principalmente a due fattori
interconnessi: il pensiero escatologico delle religioni abramitiche residuale
nella concezione evoluzionistica della storia umana di derivazione positivista.
Parafrasando Eliade, Graeber e Wengrow sostengono che la prospettiva temporale
progressiva ha spodestato quella ciclica della filosofia greca antica e delle
“società tradizionali”, con “catastrofiche conseguenze sociali e psicologiche”.
Nella concezione lineare del tempo i fatti storici accadono come rivoluzioni che
irrompono e cambiano il corso degli eventi, come in un dipanarsi di “sequenze
cumulative” necessarie all’evoluzione della civiltà umana: si pensi alla
rivoluzione agricola del Neolitico, a quella scientifica in epoca illuminista o
a quella industriale di fine Ottocento. Descrivere la storia come un susseguirsi
di accadimenti radicali improvvisi ha delle conseguenze. La tesi di Graeber e
Wengrow è che questo tipo di approccio storiografico sia ideologico, per non
dire mitologico, e che abbia delle implicazioni politiche, rendendo l’umanità
meno capace di “affrontare le traversie della guerra, dell’ingiustizia e della
sfortuna, gettandoci invece in un’età di ansia senza precedenti e, a lungo
andare, di nichilismo”. Accettare la logica del dominio e considerare
inevitabile che la civiltà umana tenda verso l’accumulo di ricchezze significa
raccontare la specie umana come “molto meno premurosa, creativa e libera” di
quanto non lo sia.
L’ultimo capitolo del saggio L’alba di tutto si conclude con una serie di
considerazioni a proposito del nichilismo insito nella concezione lineare del
tempo, teso verso un progresso inesauribile. Una tale concezione inibisce la
possibilità di considerare la storia come l’insieme di scelte collettive, lente
e stratificate, attraverso le quali le comunità hanno deciso quali pratiche
adottare nella vita quotidiana e quali confinare alla sperimentazione o al rito.
Ciò che vale per la creatività tecnologica vale, naturalmente, ancora più per la
creatività sociale. Il dominio dell’uomo sulla natura, le società gerarchiche e
l’accumulo di ricchezze o la logica del profitto non erano inevitabili. Non è
affatto corretto sostenere che non esista un’alternativa; semmai, per dirla con
Graeber e Wengrow: “Se qualcosa è andato storto nella storia dell’umanità […]
forse prese a farlo proprio quando gli uomini persero la libertà di immaginare e
di attuare altre forme di esistenza sociale […] al punto che ora alcuni
ritengono che questo particolare tipo di libertà non ci sia mai stato, o non sia
mai stato esercitato, per quasi tutta la storia dell’umanità.”
> Descrivere la storia come un susseguirsi di accadimenti radicali improvvisi ha
> delle conseguenze. La tesi di Graeber e Wengrow è che questo tipo di approccio
> storiografico sia ideologico, per non dire mitologico, e che abbia delle
> implicazioni politiche.
Lo stesso sistema neoliberista che incita al pensiero “out of the box”, che
invita a essere non convenzionali (“Stay hungry, stay foolish”), paradossalmente
impone una reductio ad unum, all’omologazione: “siate diversi tutti allo stesso
modo” è il vero slogan di questi tempi. Ancora, si tratta dello stesso sistema
che continua a ignorare proposte realmente alternative a quelle della narrazione
dominante, come il pensiero tentacolare, lo Chthulucene di Donna Haraway, e che
torna indietro invocando valori reazionari e antiscientifici.
Per uscire dal loop è necessario esercitare la libertà, a partire
dall’immaginazione. La vera domanda è se l’umanità possiede ancora le capacità
per farlo.
L'articolo Shifty. Cos’è andato storto? proviene da Il Tascabile.
Tag - regno unito
N el primo dei tre episodi che compongono il film Mystery Train di Jim Jarmusch
(1989), Mitsuko e Jun, una coppia di giovani giapponesi ossessionati da Elvis
Presley, giungono in un hotel di Memphis per intraprendere un pellegrinaggio
laico nei luoghi in cui è cresciuto il “re del rock and roll”. Quando arrivano,
è notte. Vengono accompagnati alla loro stanza dal facchino dell’albergo, posano
l’enorme valigia rossa sul letto ‒ l’unico bagaglio che hanno con sé ‒ e una
volta rimasti soli, si incagliano immediatamente in un tempo immobile, annoiato.
Seduta sul pavimento, Mitsuko si distrae incollando su un quadernetto immagini
di Elvis ritagliate da giornali, Jun comincia a scattare decine di fotografie
alla stanza. Incuriosita, Mitsuko gli chiede: “Perché fai foto solo alle stanze
in cui soggiorniamo e mai a quello che vediamo fuori mentre viaggiamo?” e Jun le
risponde: “Quelle altre cose sono nella mia memoria. Le camere d’albergo e gli
aeroporti sono le cose che dimenticherò”.
Luoghi e nonluoghi
Negli anni, non ho avuto la stessa lungimiranza di Jun e ho finito per
dimenticare molti luoghi. Come lui, mi riferisco alle camere d’albergo, così
come agli ostelli e agli Airbnb, ma più ci rifletto più mi accorgo di come
questa categoria di spazi abbia in tempi recenti cominciato a perdere la sua
specificità. Se un tempo rappresentavano un mondo a sé, quello della
transitorietà e della transazionalità dell’hospitality, oggi invece mi sembra si
confondano sempre più, almeno nella mia esperienza di vent’anni a zonzo per
l’Europa e non solo, con ciò che ho sempre identificato come “casa”‒ quel luogo
che, almeno sulla carta, dovrebbe incarnare un maggiore senso di appartenenza,
in qualità di spazio intimo, identitario.
Dopo aver rivisto Mystery Train, per giorni non ho potuto fare a meno di
ripensare alla filmografia di Jarmusch, e subito mi ha colpito la frequenza con
cui il regista, nei suoi primi film, abbia spesso scelto come ambientazione
spazi liminali: il taxi (Night on Earth, 1991), la prigione (Down by Law, 1986),
i motel, i bar e gli aeroporti (Stranger than Paradise, 1984). Il tipo di
luoghi, insomma, che Marc Augé mi ha educato dai tempi di un esame della
triennale a identificare come nonluoghi ‒ anche se è interessante notare come i
film appena menzionati siano antecedenti a questo concetto, visto che l’opera
del filosofo francese è stata pubblicata solo nel 1992. Questo mi ha fatto
pensare che Jarmusch avesse già intuito qualcosa su come alcuni luoghi non solo
rappresentino, ma inducano all’alienazione.
Naturalmente, le riflessioni sulla relazionalità degli spazi vissuti hanno
precedenti illustri. Penso agli spazi quotidiani dissezionati da Georges Perec,
alle eterotopie di Michel Foucault, alla liminalità dei luoghi rituali di Arnold
van Gennep prima, e Victor Turner poi: privato, politico, sociale. Tuttavia,
mentre proseguivo su questa linea di pensiero, qualcosa continuava a riportarmi
sulle stanze d’albergo e sull’idea di casa. Facendo avanti e indietro tra queste
due categorie distinte, questo andirivieni ha cominciato a sfumarne e consumarne
i contorni, e a renderle sempre meno distinte di quanto pensassi, per poi
cristallizzarsi in un sospetto: l’appartamento moderno sta forse sempre più
scivolando verso il nonluogo?
> L’appartamento moderno sta forse sempre più scivolando verso il nonluogo?
È una domanda audace, ne sono consapevole, ma nel porla mi avvalgo del benestare
di Marc Augé, secondo cui “la possibilità del nonluogo non è mai assente da
nessun luogo”, soprattutto nell’attuale surmodernità, o modernità eccessiva ‒ di
tempo, di spazio, di ego. Le premesse ci sono, quindi; ma andiamo con ordine.
Essendo l’appartamento uno spazio (e in quanto tale, direbbe Foucault,
“nell’esperienza occidentale ha una storia” fatta di regolamentazioni e
decodificazioni), per indagare il sospetto che stia diventando un nonluogo mi
trovo costretto ad avventurarmi in territori più impervi rispetto a quelli della
letteratura o del cinema. Territori come quello delle normative e delle leggi,
che in questo caso si rivelano sorprendentemente più eloquenti della
rappresentazione. È lì, infatti, che ritrovo quel possibile “intreccio fatale
del tempo con lo spazio” di cui parla Foucault, che è alla base di come
percepiamo i luoghi che abitiamo.
Normative e leggi
Un articolo del Corriere della Sera del 2024 sostiene che in Italia, secondo
la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto di un immobile
urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia, questa direttiva
sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al proprietario di casa
nello stipulare contratti molto più brevi: ‘contratti turistici’ di pochi
giorni, ‘contratti transitori’ che riducono la durata minima a un mese,
‘contratti studenteschi’ con durate anche di sei mesi. Generalmente, continua
l’articolo, la tipologia più popolare rimane quella del contratto ‘a canone
libero’, con durata di quattro anni prorogabili a discrezione del proprietario
di altri quattro (conosciuto anche come contratto 4+4).
Queste dinamiche rispecchiano mediamente i modi contrattuali diffusi nel resto
d’Europa, dove la durata degli affitti oscilla tra uno e tre anni. È quanto
accade anche in Germania, dove vivo dal 2013 e la legge sembra flessibile quanto
in Italia, permettendo ai proprietari degli immobili di modellare
arbitrariamente le condizioni che impongono agli affittuari. La normativa sugli
affitti tedeschi dice che i contratti devono avere una durata minima di due anni
e disdetta possibile solo a fronte di un preavviso di tre mesi. Il costo degli
affitti è regolamentato dal Mietpreisbremse (freno degli affitti), che non
consente di superare del 10% la media del quartiere (come spiega un articolo di
Rivista Studio, però, questa misura non si applica alle “case già arredate che
vengono messe in affitto per brevi periodi e per motivi di lavoro”). Un’altra
clausola comune è quella del sistema Staffelmiete che permette aumenti annuali
progressivi del costo dell’affitto fino a un massimo del 15% nell’arco di tre
anni.
Queste sono le condizioni standard, tuttavia le eccezioni sono all’ordine del
giorno, in Germania come in Italia come nel resto d’Europa. Ricordo tre anni fa
quando a Berlino mi fu proposto un contratto di affitto della durata di quattro
anni, senza possibilità di rinnovo, e ogni anno il costo sarebbe aumentato del
12%, in barba alla regolamentazione dello Staffelmiete. Quando il proprietario
me lo propose, aspettandosi che firmassi immediatamente, non esitai a fargli
notare che un aumento annuale simile era ridicolo. Lui rispose, “È assolutamente
normale, invece: è pensato per rispecchiare l’inflazione”. Forse pensava che
dietro la mia titubanza linguistica nel parlare tedesco burocratico si celasse
anche una certa titubanza di pensiero? Non riuscii a frenare una risata, “Sta
scherzando, vero? Un’inflazione del 12% annuo? Per quattro anni di fila?”
> In Italia, secondo la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto
> di un immobile urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia,
> questa direttiva sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al
> proprietario nello stipulare contratti molto più brevi.
Temporeggiai dicendogli che ci avrei pensato su. Ero disperato, avevo
assolutamente bisogno di un appartamento. Corsi immediatamente dal mio
Mieterverein (“associazione degli inquilini”), un’istituzione tutta tedesca che
tutela i diritti degli affittuari e fornisce consulenza legale gratuita ai soci
a fronte di una quota d’iscrizione annuale di circa 100 euro. Anche l’avvocato
del Mieterverein scoppiò a ridere leggendo il contratto e mi disse, “Certo,
firmalo pure, perché è completamente illegale. Appena firmato gli facciamo
causa. Tranquillo, i contratti con clausole illegali non sono validi.” Infine
non me la sentii di cominciare una relazione del genere con un nuovo
proprietario di casa, consapevole che sarebbe stata tossica fin dall’inizio.
Continuai la mia ricerca.
Affitti e subaffitti
Mentre visitavo un numero spropositato di appartamenti che non riuscivo ad
accaparrarmi (tra cui un tarkovskyano 40 metri quadrati senza cucina né
sanitari, di cui avrei dovuto farmi carico personalmente), trovai come soluzione
temporanea un meraviglioso appartamento di 70 metri quadrati in sublocazione per
otto mesi, nella bella Prenzlauer Berg. Dopodiché, mi spostai per tre mesi in un
50 metri quadrati in un angolo particolarmente caotico di Neukölln. E infine,
per due mesi soltanto in un minuscolo 30 metri quadrati a Kreuzberg. Per chi
vive o ha vissuto in qualsiasi grande città europea, questa storia vagamente
picaresca non è certo una novità.
Come racconta un articolo del novembre del 2023 apparso su The Berliner, il
problema dei contratti brevi è strettamente legato alla carenza di nuovi
appartamenti, a causa di un continuo incremento della popolazione: “Secondo
l’Ufficio di statistica di Berlino-Brandeburgo, alla fine del 2022 vivevano a
Berlino almeno 141.000 persone in più rispetto a cinque anni prima, e un piano
di sviluppo urbano della città pubblicato nel 2019 sostiene che Berlino ha ora
bisogno di almeno 194.000 appartamenti in più entro il 2030 per tenere il passo
con questa crescita demografica.” La carenza di alloggi rende il mercato degli
affitti della capitale tedesca sempre più competitivo e allo stesso tempo mette
nelle mani dei proprietari e delle agenzie immobiliari (Hausverwaltung) un
potere immenso.
In questo scenario sempre più distopico, i fortunati berlinesi che vantano un
vecchio contratto a tempo indeterminato (Unbefrister Mietvertrag) tendono a
tenerselo stretto, anche nel caso programmassero di lasciare la città per più o
meno lunghi periodi, e optano per il subaffitto, spesso in tutta segretezza,
senza coinvolgere il proprietario di casa o l’agenzia che gestisce l’immobile.
Questo ha dato origine, negli ultimi anni, a un mercato che “prospera grazie a
una massa involontaria di persone intrappolate in un circolo di alloggi a breve
termine, Airbnb prolungati e altri accordi temporanei”. Senza considerare che
queste soluzioni di subaffitto comportano spesso costi più elevati degli affitti
regolari ‒ perché vuoi non farci la cresta? ‒ e i disperati alla ricerca di un
tetto in molti casi devono accettare, per dividere le spese, di trovarsi uno o
più coinquilini.
> La carenza di alloggi rende il mercato degli affitti della capitale tedesca
> sempre più competitivo e allo stesso tempo mette nelle mani dei proprietari e
> delle agenzie immobiliari un potere immenso.
Per fortuna, da un paio d’anni mi sono svincolato, almeno temporaneamente, da
queste logiche, quando ho infine firmato un contratto d’affitto per
l’appartamento in cui risiedo ora, da solo. Il mio attuale proprietario mi
propose dapprima quattro anni con clausola di rescissione con due mesi di
preavviso (invece dei tre previsti per legge). Un anno dopo, mi concesse una
piccola grazia, comunicandomela con una lettera che cominciava così: “Visto che
ti considero un buon inquilino, ho deciso di proporti un prolungamento a otto
anni…” Lasciandomi però la sorpresa alla fine: uno Staffelmiete del 2% annuo.
Bene ma non benissimo, insomma. Senza considerare che comunque tra cinque anni,
se ancora vivrò a Berlino, mi ritroverò nella condizione di dover cercare casa
in un mercato immobiliare con molta probabilità più impossibile di quanto lo sia
oggi.
Occasioni ed erosioni
Quando ci si trova in balia di contratti sempre più restrittivi che impongono di
cambiare casa ogni pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli
appartamenti ammobiliati diventa inevitabile. Si impara presto, nell’innegabile
scomodità del dover traslocare di continuo, che gli appartamenti ammobiliati
offrono un servizio fondamentale. Con il loro particolare universo fatto di
arredi più o meno usurati, soprammobili e souvenir che raccontano storie non
nostre, materassi e cuscini ingialliti dal tempo e dai sudori notturni di chissà
chi, gli appartamenti prearredati offrono una straordinaria libertà: si possono
chiamare “casa” non appena si appoggiano le valigie a terra e li si può
dimenticare altrettanto facilmente, abbandonandoli in qualsiasi momento così
come li si è trovati.
Mi sono illuso per anni che questa libertà mi rappresentasse e un po’ mi
piacesse: come per la sindrome di Stoccolma, chiamiamola rassegnazione. L’idea
di dover lasciare qualsiasi posto da un momento all’altro, sempre pronto a
impacchettare tutto in poche ore e partire. Dove sarei andato? Una soluzione
l’avrei trovata: si trova sempre. Ero libero, libero di andare dove volevo,
ovunque e all’improvviso.
Solo recentemente ho capito che non si trattava affatto di libertà, ma del suo
esatto opposto. Come sostiene James Greig in un articolo per Dazed, “la crisi
abitativa comporta una ‘disastrosa perdita di libertà’ […] Abbiamo meno libertà
di scegliere dove vivere, meno libertà di sentirci sicuri e di vivere vite
dignitose. Oggi, tutti tranne i giovani più benestanti sono soggetti alla
precarietà abitativa in qualche forma (il che comprende avere difficoltà a
pagare l’affitto, il sovraffollamento, dover traslocare frequentemente, o
spendere un’alta proporzione del proprio reddito per l’alloggio)”.
> Quando ci si trova in balia di contratti che impongono di cambiare casa ogni
> pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti
> ammobiliati diventa inevitabile.
Greig si riferisce a quanto accade in Regno Unito, dove è ancora in vigore ‒
almeno per ora ‒la discussa Section 21, una norma tutta britannica che consente
dai tempi dell’Housing Act 1988 ai proprietari di casa di sfrattare gli
inquilini con contratti a breve termine presentando un preavviso di soli due
mesi, senza dover fornire alcuna motivazione (la cosiddetta no-fault eviction).
La Section 21 è uno strumento che rende il mercato degli affitti infinitamente
più instabile per gli inquilini, che finiscono così per sentirsi sempre di
passaggio, ospiti temporanei, o meglio utenti, consumatori di uno spazio
trasformato in servizio, che si riceve soltanto in prestito e che non offre
neppure, scrive Greig, “la garanzia che non venga strappato via da sotto i
piedi” prima del termine concordato:
> Questo tipo di precarietà causa un’ansia ambientale cronica. Rende più
> difficile rilassarsi, godersi il tempo che si ha nel posto in cui si vive […]
> Si avverte un senso di nostalgia anticipatoria, aspettando il giorno in cui si
> verrà cacciati. Permettere a sé stessi di provare qualsiasi tipo di
> attaccamento sembra inutile: perché preoccuparsi di legare con la propria
> comunità locale quando si sa di essere lì in prestito? Non c’è da
> meravigliarsi che la solitudine sia così comune quando le persone sono
> disincentivate dal mettere radici nelle aree in cui vivono. Una casa dovrebbe
> fornire sicurezza, protezione, qualche tipo di barriera dal mondo esterno. Se
> funzioni realmente così in pratica, non ne sono sicuro, ma la sua assenza può
> certamente essere sentita.
L’idea di appartamento rischia di perdere l’aspetto intimo e identitario, caldo
e generativo, che siamo soliti attribuirgli e cercarvi: quel senso originale di
‘casa’ che, trasloco dopo trasloco, ho finito col non aspettarmi più.
Dev’essere, credo, un po’ come succede con le delusioni d’amore: si impara a
ridimensionarsi, si rimpiccioliscono le aspettative ‒ rubando le parole a Garth
Greenwell di Purezza ‒ “attraverso un’erosione forse necessaria alla
sopravvivenza, e di cui forse devi ancora pentirti”.
Questa erosione, nel mio caso, ha finito per dare forma al tipo di rapporto
particolare che instauro con gli appartamenti: una relazione simile in tutto e
per tutto a quelle situationship distaccate, più o meno etiche, più o meno
consapevoli ‒ caratterizzata, anche questa, da un’uguale quantità di attrazione
e fastidio, e che richiede un’immensa, sempre rinnovata forza di accettazione e
perseveranza. La perseveranza nel dire “benvenuto”, e ogni volta crederci
davvero in quella parola, rivolta a un gran numero di appartamenti che sono
consapevole fin dall’inizio saranno soltanto temporanei; e l’accettazione,
infine, dell’addio rivolto a quello stesso numero di appartamenti, vicinati,
quartieri, città, che finisco sempre per lasciare alle spalle, proprio come una
stanza d’albergo alla fine di una vacanza.
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