di Alessio Mannino
In un tempo in cui si vorrebbe bandire l’odio per decreto con apposite
commissioni sull’hate speech, una sola forma d’odio è ammessa: quella contro i
“fascisti”. Intendiamoci: sono perfettamente legittime le proteste, dentro e
fuori la fiera “Più liberi più libri” conclusasi l’8 dicembre scorso, sulla scia
dell’appello per cacciare la casa editrice di destra radicale “Passaggio al
bosco”. Il campo a sinistra si è diviso, con voci autorevoli come Luciano
Canfora e Massimo Cacciari che hanno liquidato come insensata l’iniziativa.
Perfino Roberto Saviano, le cui antenne sono solitamente ipersensibili al primo
accenno di “pericolo fascista”, si è dichiarato contrario alla richiesta (per
altro abortita) di far la guerra ai libri. Una polemica che, fosse rimasta
nell’alveo della contestazione di un editore, come “Passaggio al bosco”,
dichiaratamente militante, avrebbe mantenuto i contorni di una normale
dialettica politica. È stata la pretesa di espellerlo nonostante si tratti di
una realtà legale, ad aver fatto uscire dai binari una prova di pura
intolleranza che, per di più, ha ottenuto l’effetto di regalare pubblicità
gratuita oltre che di oscurare le altre centinaia di espositori. Inclusi quelli
“antifascisti”.
Chiusosi il caso mediatico, resta una questione più profonda. Sintetizzabile
nella domanda: che senso politico ha, oggi, l’antifascismo? Sul piano storico,
non possono esserci dubbi: la coalizione di cattolici, comunisti, socialisti,
liberali e monarchici che diedero vita alla Resistenza fu il germe da cui nacque
il compromesso costituente a cui dobbiamo, piaccia o no ai nostalgici del
Mascellone, ottant’anni di Repubblica. Il fascismo, in un bilancio complessivo,
rappresentò un’esperienza non solo fallimentare rispetto ai suoi intenti, non
solo disastrosa nel suo esito finale, ma per sua essenza fondata sulla
repressione del presupposto stesso di una vita socialmente libera (e non
soltanto di una società “liberale”): la libertà d’espressione del pensiero.
Leggere e studiare autori che in quella fase del Novecento aderirono o
propagandarono idee fasciste, per non parlare di giganti non assimilabili a tale
etichetta (come, per citarne uno, Ernst Jünger, da cui proviene il nome
dell’editore sotto bersaglio), equivale esattamente a custodire il bene del
libero pensiero. Se va compulsato il Mein Kampf per toccare con mano la
megalomania hitleriana, non si vede perché non possano circolare i testi del
rumeno Codreanu o i romanzi di quel genio di Céline, che pure era un antisemita
viscerale.
Se l’antifascismo oggi ha un valore, non è di essere un fascismo di segno
contrario, che comprime la libertà (e il reato di apologia non c’entra niente,
ricollegandosi alla disposizione transitoria della Carta che vieta la
ricostituzione di organizzazioni recanti il marchio di fabbrica del partito
fascista: la violenza paramilitare). L’antifascismo è coerente con il
significato etimologico quando invece è il contrario del fascismo. Quando cioè
accetta l’altro e il diverso fino all’opposto da sé, almeno fintantoché non
metta concretamente a rischio proprio questo diritto-dovere all’alterità. Se in
Italia fosse individuabile un’obiettiva minaccia al dispiegarsi di opinioni e
visioni alternative, allora sì che si dovrebbe invocare non la censura, ma la
magistratura.
Tutto il resto è strumentalizzare l’opposizione storica al fascismo da parte di
coloro, per citare l’ultimo libro di Antonio Padellaro, che gesticolano da
“antifascisti immaginari”, in un abisso con quelli veri ben esemplificato
nell’incipit: “Se mi chiedete cosa sia per me l’antifascismo rispondo: la cella
del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo in via Tasso”. Non il
salottino di Corrado Augias.
Con la spauracchio del fascismo eternamente alle porte, insomma, siamo di fronte
a un antifascismo “archeologico”, “ingenuo e stupido”, “di tutto comodo e di
tutto riposo”, come diagnosticava Pier Paolo Pasolini già nel 1974 in
un’intervista a Massimo Fini sull’Europeo. Ed è nella misura in cui lo spettro
delle camicie nere (o brune) è assurto a simbolo del Male, che è diventata
un’ossessione su cui è lecito esternare il sentimento più di tutti oggi
proibito: l’odio. Ma un odio privo di contenuto attuale corrisponde a quel
banale meccanismo inconscio noto come proiezione della propria Ombra: chi si
detesta viene accusato di ciò che non si tollera e si nega in sé stessi. Vale a
dire: essere succubi di un molto poco democratico riflesso liberticida.
L'articolo Il paradosso dell’odio: proibito a chiunque, tranne che agli
‘antifascisti immaginari’ proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Antifascisti
“In via Cervi, a Cagliari, i neofascisti di CasaPound si radunano davanti al
loro ‘Spazio non conforme’ e iniziano a gridare. Urlano: ‘Dove sono gli
antifascisti?’. Così, tutti convinti. Una volta, due volte, poi una terza.
Finché accade una cosa bellissima. Dal silenzio dei balconi si alza una sola
voce, calma e netta. La voce di una donna: ‘Qui! Io sono antifascista’. E la
verità è questa: gli antifascisti non devono farsi cercare. Sono ovunque, siamo
ovunque. Ora e sempre”. Così il deputato del Pd, Marco Furfaro, in un post su
Instagram nel quale ha condivido il video in questione.
L'articolo Militanti di Casapound urlano “dove sono gli antifascisti?”. E una
donna risponde: “Qui, io lo sono”. Il video proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Marco Marangio
La cultura dovrebbe unire, non dividere. Un concetto semplice e, poiché basilare
del concetto stesso di cultura, non sarebbe difficile da disattendere. Proprio
per questo stupisce che uno degli eventi culturali più importanti dell’anno,
come “Più libri, più liberi” sia divenuto un palcoscenico dove è andata in scena
una tragedia tradotta in commedia. Procediamo con ordine.
Ciò che è accaduto è ormai noto e alla portata di tutti: la presenza di una
piccola casa editrice che pubblica libri di estrema destra non ha solo fatto
discutere, ma letteralmente dividere l’opinione pubblica. Da un lato chi non ha
accettato la sua presenza a tal punto da non prendere parte alla fiera (come
Zerocalcare), dall’altra chi pur non condividendone la presenza vi ha ugualmente
partecipato. Tra le crepe di questa diatriba che ha interamente accompagnato la
quattro giorni di PLPL, schierarsi è stato quasi imprescindibile. Soprattutto
nell’era social più caotica di sempre, in cui prendere parte è divenuta la base
della comunicazione.
Come sempre, la ragione è nel mezzo.
Infatti, se da un lato è giusto che in una fiera del libro (soprattutto delle
piccole e medie case editrici) vi siano espressioni pluraliste e divergenti,
dall’altra è anche essenziale prendere le distanze da chi esprime pensieri,
opere e opinioni, totalmente differenti dalle proprie. Soprattutto quando ad
esprimersi sono ideologie neofasciste. Quindi, che fare? Come comunicare il
proprio dissenso?
Di sicuro, comunicare massivamente il dissenso con la propria assenza,
declinando ogni tipo di invito e partecipazione alla fiera non ha fatto altro
che rendere nota una piccola casa editrice prima d’ora sconosciuta (soprattutto
a chi neofascista proprio non è). Inutile dire che tale atteggiamento ideologico
ha generato un boomerang comunicativo non da poco, poiché l’esporsi in questo
modo non ha fatto altro che regalare involontariamente una campagna di brand
marketing senza precedenti.
Altro modo di comunicare, invece, è stato quello di partecipare a PLPL
manifestando ugualmente il proprio dissenso e la distanza ideologica da tale
casa editrice.
Gli autori e le case editrici che hanno deciso di seguire questa via, infatti,
hanno assolto ad uno dei più grandi pilastri della cultura e, in particolare,
della letteratura: dialogare e criticare le differenze, comunicando al tempo
stesso una profonda divergenza. Non è forse questo il modo migliore per marcare
un confine netto alle ideologie neofasciste? Non è stato forse meglio andare a
PLPL intonando, dinanzi lo stand della casa editrice, un catartico e unitario
coro al suono di Bella Ciao?
Purtroppo, in questo manicheo universo social, fa più engagement un dissenso
aprioristico: costruire il dissenso, comunicando, è più faticoso. Ma è l’essenza
del pensiero libero.
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L'articolo Più libri, più liberi: meglio andare e cantare Bella ciao che non
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