Mattarella contro Trump – la mia vignetta per Il Fatto Quotidiano in edicola
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L'articolo Mattarella contro Trump proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani
se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da
alcuni giudici?”. Dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni arriva
l’ennesimo affondo contro i magistrati. Questa volta l’occasione è la pronuncia
della Corte di Appello di Torino per la cessazione del trattenimento dell’imam
Mohamed Shahin, espulso dall’Italia dopo aver giustificato il massacro di Hamas
perpetrato il 7 ottobre. fdff
La premier ricorda con un posto sui social che l’imam era “destinatario di un
decreto di espulsione firmato dal Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi”:
“Parliamo di una persona – scrive Meloni – che ha definito l’attacco del 7
ottobre un atto di ‘resistenza’, negandone la violenza. Che, dalle mie parti,
significa giustificare, se non istigare, il terrorismo”. Dopo la decisione della
Corte d’Appello il 47enne di origini egiziane è stato immediatamente liberato. I
magistrati hanno escluso “la sussistenza di una concreta e attuale
pericolosità”. Inoltre hanno sottolineato che Shahin è da vent’anni in Italia ed
è “completamente incensurato”. Fra i “nuovi elementi” che erano stati presentati
dagli avvocati dell’imam figuravano l’archiviazione immediata, da parte della
procura di Torino, di una denuncia per le frasi che l’uomo aveva pronunciato lo
scorso ottobre durante una manifestazione Pro Pal.
Non solo Meloni. Contro l’ordinanza si sono scagliati tutti gli esponenti dei
partiti di destra: da Fratelli d’Italia a Forza Italia e Lega. Per il
vicepremier e leader del Carroccio, Matteo Salvini, “è l’ennesima invasione di
campo di certa magistratura ideologizzata e politicizzata che si vorrebbe
sostituire alla politica”. Per il capogruppo di Fdi alla Camera, Galeazzo
Bignami, “questa vicenda suona come l’ennesima conferma del livello di
politicizzazione di una parte della nostra magistratura, al punto da mettere a
rischio la stessa sicurezza dei cittadini”. Di “decisione irresponsabile e fuori
dalla realtà”, ha parlato il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio
Gasparri. E adesso arriva anche la presa di posizione della premier.
L'articolo Liberazione imam, Meloni contro i magistrati: “Come garantire
sicurezza se giudici annullano ogni iniziativa?” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Alla fine sarà soltanto una legge inutile che ha distratto parte dell’opinione
pubblica da una manovra che ancora si trascina in Parlamento. Parliamo
dell’emendamento alla legge di Bilancio sulla proprietà dell’oro di Bankitalia.
Una norma per dire che le riserve auree iscritte nel bilancio della Banca
d’Italia appartengono al popolo italiano. Ideona dei parlamentari di Fratelli
d’Italia, loro sì pagati a peso d’oro, sulla quale il ministero dell’Economia ha
dovuto rassicurare la presidente della Banca centrale europea, Christine
Lagarde, che davanti alla stampa non ha potuto non prendere la cosa sul serio e
dirsi preoccupata per le finalità poco chiare dell’emendamento e i rischi per
l’indipendenza della banca centrale sancita dai trattati dell’Ue. Le sarebbe
bastata una risata e invece, per settimane, è toccato inscenare un confronto
istituzionale. Il ministro Giancarlo Giorgetti ha dovuto addirittura inviarle
chiarimenti ufficiali per rassicurarla: che si tratta di una norma “simbolica”,
che nessuno si sogna di trasferire la gestione delle riserve auree o permetterne
la vendita per finanziare lo Stato.
Nonostante la manovra abbia dato ben altri pensieri alla maggioranza, il partito
della premier ha pensato bene di perdere altro tempo. Invece di ritirare
l’inutile emendamento ne ha modificato il testo per ribadire il rispetto delle
norme europee, con l’unico risultato di rendere chiaro a chiunque che non c’è
alcuna precettività: non introduce obblighi, divieti o poteri. Insomma, aria
fritta. Incredibile ma vero, il capogruppo di FdI al Senato, Lucio Malan, è
riuscito a dirsi soddisfatto per l’esito della “storica battaglia”: “Abbiamo
posto il tema in Parlamento fin dal 2014 con un’iniziativa di Giorgia Meloni. Se
ora questa battaglia, come sembra, si trasformerà in una legge dello Stato, non
potremo che essere molto soddisfatti”. L’idea dei fratelli d’Italia, infatti,
non è recente. Meloni ci aveva provato anche durante il primo governo Conte, con
una mozione che pretendeva anche il rimpatrio delle scorte depositate all’estero
per comodità contabile. Mozione respinta dalla maggioranza di Lega e Movimento 5
stelle perché ne avevano presentata una loro che chiedeva di “definire l’assetto
della proprietà delle riserve auree detenute dalla Banca d’Italia nel rispetto
della normativa europea” e di “acquisire le notizie” su quelle detenute
all’estero, oltre che sulle “modalità per l’eventuale loro rimpatrio”. Oggi il
M5s parla di “inutile dibattito sull’“oro degli italiani””. Meglio tardi che
mai.
Inutile perché il Trattato sul funzionamento dell’Ue vieta il finanziamento
diretto allo Stato da parte di Bce e banche centrali nazionali, e sancisce
l’indipendenza di queste dagli Stati membri dell’Unione. Indipendenza che
riguarda anche la gestione delle riserve auree, anche se sono iscritte
contabilmente come bene dello Stato. Per essere ancora più chiari, non è
consentito “prelevare” oro per coprire spese, debito o politiche pubbliche.
Cos’è che Meloni e Salvini non capiscono? Il problema è che i testi normativi
europei, il Trattato sul funzionamento dell’Ue ma anche lo statuto del Sistema
Europeo di Banche Centrali, parlano solo della gestione operativa di queste
riserve. Al contrario, le norme Ue non parlano esplicitamente di “proprietari”.
Così la questione della proprietà formale rimane dibattuta e, in tempi di
sovranismo, inutilmente riscoperta. Tanto rumore per nulla e il nulla, alla
fine, è scritto così: “Fermo restando quanto previsto dagli articoli 123, 127 e
130 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il secondo comma
dell’articolo 4 del testo unico delle norme di legge in materia valutaria, di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, si
interpreta nel senso che le riserve auree gestite e detenute dalla Banca
d’Italia, come iscritte nel proprio bilancio, appartengono al Popolo Italiano”.
Maiuscole comprese, è questa la riformulazione dell’emendamento presentata da
Giorgetti in commissione Bilancio al Senato. ”Siamo a posto: riteniamo che la
questione si possa ritenere chiusa”, ha detto il ministro. Era ora.
L'articolo Oro di Bankitalia, Giorgetti chiude la sceneggiata di FdI. Ecco come
ha riscritto la norma, che resta inutile proviene da Il Fatto Quotidiano.
Al di là del rito, delle forme, dei rispettivi ruoli, davanti al corpo
diplomatico italiano, riunito nell’annuale Conferenza delle ambasciatrici e
degli ambasciatori – in programma oggi e domani tra Roma e Milano – a sentire i
discorsi del ministro degli Esteri e del presidente della Repubblica si colgono
due linee di politica internazionale espressa dai vertici istituzionali. C’è una
“dottrina Mattarella” e una posizione, espressa da Antonio Tajani che sembra più
barcamenarsi che esporre una visione politica.
Il ministro degli Esteri mette l’accento, come da direttive della presidente del
Consiglio, sui rapporti atlantici e sul valore “occidentale” delle alleanze per
cercare di tenere unite le due sponde dell’Atlantico che, invece, su spinta di
Donald Trump, tendono a divaricarsi sempre più. E, però, da questo punto di
vista si pone in forma molto dialettica con il processo di pace in corso,
disponendosi ad accettare compromessi e mediazioni. Dall’altra, la “dottrina
Mattarella”, ribadisce saldamente l’approccio “multilaterale”, si dice
insofferente per quella “disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti
dell’Unione Europea” rigettando l’idea che la Ue possa essere, come nella
narrazione Maga in voga a Washington, “una organizzazione oppressiva, se non
addirittura nemica della libertà”. Ma su questa impostazione, tutto sommato
limpida, chiude qualsiasi strada al rapporto con la Russia la cui aggressione ai
danni dell’Ucraina, “con vittime e immani distruzioni, e con l’aberrante
intendimento, malgrado gli sforzi negoziali in atto, di infrangere il principio
del rifiuto di ridefinire con la forza gli equilibri e i confini in Europa” non
è accettabile in nessun modo. Per respingerla, anzi, Mattarella chiama in causa
la Conferenza di Helsinki sulla Cooperazione e la Sicurezza nel continente,
evento che, invece, è stato chiamato in causa da rinomati giuristi e
costituzionalisti come sponda proprio per impostare invece un possibile dialogo.
Si potrebbe discutere ovviamente di quanto una diversa politica estera sia
prerogativa del Quirinale che abilmente e con un tono sempre cordiale e molto
sereno la spiattella davanti al governo – nella Conferenza in corso alla
Farnesina, sono diversi gli ambasciatori che commentano la capacità di
Mattarella di dire cose “contundenti” con la soavità che lo caratterizza. La
divergenza è tanto più rilevante proprio perché esibita davanti al fulcro
dell’attività diplomatica italiana, quelle 130 feluche che devono rappresentare
una posizione chiara davanti ai governi di tutto il mondo. Si tratta,
ovviamente, di sfumature e sottigliezze che, però, nella diplomazia
internazionale costituiscono la sostanza. Mentre Tajani, con un discorso in
realtà molto amministrativo e di basso profilo, invia il messaggio di
derivazione berlusconiana che più gli sta a cuore – la diplomazia a sostegno
delle imprese italiane, “voglio darmi l’obiettivo di raggiungere 700 miliardi di
export entro il 2027” – e esalta la riforma della Farnesina con la nuova
vice-segreteria generale incaricata di supervisionare proprio l’economia, è
Mattarella a esporre una visione politica. Il presidente passa in rassegna,
oltre l’Ucraina, “la tragedia di Gaza”, il dramma nel “Sahel e nel Corno
d’Africa”, le “tensioni” che “si vanno accentuando anche in America Latina e nei
Caraibi, da ultimo con il riaffacciarsi di una sorta di riedizione della
cosiddetta “dottrina” di James Monroe, la cui presidenza si è conclusa
esattamente due secoli fa”.
Il quadro di Mattarella serve a dare risalto al centro della sua visione, il
rilievo che compete “alle istituzioni del multilateralismo e all’Unione Europea”
contro la “tentazione della frammentazione” che si insinua nelle relazioni
internazionali – e persino nel mondo occidentale – “con la ripresa di un metodo
di ostilità che misura i rapporti internazionali su uno schema a somma zero: se
qualcuno ci guadagna significa che qualcun altro ci perde”.
Mattarella ha il merito di mettere in risalto il tema della cooperazione
internazionale, della difesa del diritto, importante il suo attacco alla
“pretesa di imporre punizioni contro giudici delle Corti internazionali per le
loro funzioni di istruire denunce contro crimini di guerra”. Le Nazioni Unite,
quindi, la legalità e un approccio che vuole la “‘ricerca della pace nella
sicurezza’- come ammoniva un illustre inquilino di questo palazzo, Aldo Moro”.
Proprio questo tipo di citazioni fa capire che la sua “dottrina” si colloca su
un pacchetto di storia e cultura politica che innerva una politica
internazionale ben precisa e che affonda nelle direttive costituzionali “del
valore del dialogo internazionale come via privilegiata per affermare il suo
ruolo nel mondo” e nella “Costituzione materiale che ha guidato, senza
discontinuità, il nostro Paese nello scenario internazionale, basandosi su pace,
dialogo, multilateralismo, europeismo, legame atlantico”.
“Quegli orientamenti continuano a rappresentare, ancora oggi, un patrimonio
prezioso che ci può guidare nelle nuove forme con cui si presentano i conflitti”
è la linea offerta dal presidente della Repubblica direttamente agli
ambasciatori. In ossequio alle “poli-crisi” internazionali, Mattarella propone
loro una “poli-diplomazia”. Ma, come sottolineato, proprio questa presentazione
al corpo diplomatico rende plastica la differenza tra Quirinale e governo
mettendo in evidenza una dualità di posizioni istituzionali che, nelle strettoie
della attualità, pongono approcci diversi alla questione ucraina. A riprova che
non si tratta solo di linee politico-culturali, ma di scelte cogenti. In cui a
soffrire di più è il governo. La sua posizione filo-trumpiana rende complesso il
reiterato appoggio all’Ucraina senza accedere alle possibilità di mediazione e
compromesso che si stanno presentando. La “dottrina Mattarella” è più limpida e
anche più secca: quelle mediazioni non vanno accettate.
L'articolo L’uscita su Trump e l’approccio multilaterale: il governo Meloni
davanti alla “dottrina Mattarella” sulla politica estera proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Sarà l’ex giudice costituzionale Nicolò Zanon il presidente del comitato unico
della maggioranza per il Sì al referendum sulla riforma Nordio. Dopo ampio
dibattito tra i partiti, la scelta è ricaduta sull’ex vicepresidente della
Consulta, giurista da sempre vicino al centrodestra: 64 anni, ordinario di
Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano, è stato membro del
Consiglio superiore della magistratura in quota PdL e consulente privato di
Silvio Berlusconi (retribuito con 25mila euro) per sostenere
l’incostituzionalità della legge Severino. Fu anche uno dei pochi
costituzionalisti a schierarsi in favore del lodo Alfano, lo scudo berlusconiano
contro i processi alle quattro più alte cariche dello Stato, poi dichiarato
incostituzionale. Mercoledì scorso Zanon è stato ospite ad Atreju, la festa di
Fratelli d’Italia, denunciando che durante la sua esperienza al Csm le correnti
della magistratura erano talmente potenti da aver lottizzato persino gli autisti
e gli addetti alle pulizie. A dicembre 2023, subito dopo la fine del suo
mandato, criticò la sentenza della Corte costituzionale – firmata anche da lui –
che aveva “salvato” l’uso delle intercettazioni dell’ex deputato renziano Cosimo
Ferri nell’ambito del processo disciplinare al Csm sul caso Palamara. Nel farlo
rivelò le discussioni interne alla camera di consiglio, venendo ripreso
pubblicamente per questo dalla stessa Consulta.
Il comitato del centrodestra nascerà ufficialmente giovedì, quando i promotori,
guidati dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, si
vedranno di fronte al notaio per costituirlo. Dei soci fondatori dovrebbero far
parte anche due consigliere del Csm: Isabella Bertolini, in quota Fratelli
d’Italia, e Claudia Eccher, scelta dalla Lega. Il loro ruolo istituzionale,
però, solleva dubbi di opportunità anche all’interno della maggioranza (la
partecipazione di Bertolini a una riunione nella sede di FdI, rivelata dal
Fatto, ha già sollevato parecchie polemiche). Tra i frontman ci saranno anche
l’ex direttore del Giornale Alessandro Sallusti e un giudice della Corte di
Cassazione, Giacomo Rocchi, il cui nome finora era rimasto top secret.
Presidente della Prima sezione penale della Suprema Corte, Rocchi è membro della
fondazione Rosario Livatino, il think tank di giuristi cattolici fondato da
Mantovano: negli anni si è schierato contro vari disegni di legge per
l’ampliamento dei diritti civili, a partire dal quello sul fine vita che, ha
detto, “introdurrebbe il diritto alla morte”. Sul sito della fondazione Livatino
è ancora presente un suo articolo del 2016 intitolato “Lobby gay alla conquista
delle Procure”, che criticava un presunto orientamento dei magistrati favorevole
alla cosiddetta “teoria gender”.
L'articolo Referendum, l’ex giudice costituzionale Zanon guiderà il comitato
della destra. C’è anche la toga ultracattolica Rocchi proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha esteso le
ispezioni ministeriali precedentemente richieste in Toscana ad altri due
istituti scolastici situati in Emilia Romagna. L’intervento fa seguito alle
polemiche suscitate dagli incontri tenuti dalla relatrice speciale dell’Onu per
i territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, che aveva partecipato a
sessioni in videoconferenza con gli studenti mobilitando Fratelli d’Italia che
aveva presentato un’interrogazione al ministro.
Dopo una nuova circolare agli istituti per ribadire la necessità che ospiti e
relatori garantiscano il contraddittorio quando si tratta di tematiche di
rilevanza politica e sociale, e la richiesta di avviare ispezioni al Liceo
Montale di Pontedera (Pisa) e all’Istituto Comprensivo “Massa 6”, il ministro
conferma che la richiesta è stata fatta l’Emilia Romagna: “Credo che le
ispezioni siano partite anche in questi casi”, ha detto a Milano, a margine
della visita in una scuola. L’obiettivo delle verifiche è lo stesso: accertare
se, come dichiarato da alcuni dirigenti scolastici ai giornali, l’iniziativa sia
stata realizzata senza informali e senza coinvolgere i genitori. Le ispezioni,
aveva già spiegato il ministro, dovrebbero anche chiarire se Albanese abbia,
come riportato dal Giornale e dal Tempo, accusato l’attuale governo di essere
“fascista” o “complice di un genocidio”, o se sia vero che gli studenti siano
stati invitati a occupare le scuole. Accertamento che avverrà “con grande
serenità, ma anche con grande determinazione e fermezza”, ha assicurato il
ministro. Le eventuali conseguenze delle ispezioni saranno di competenza degli
uffici scolastici regionali, che potranno avviare procedimenti in base alla
relazione degli ispettori.
Valditara ha rilanciato sulla scuola “democratica e costituzionale” che deve
prevedere il pluralismo e non l’indottrinamento. Ha ribadito che a scuola si va
per imparare e crescere, acquisendo lo spirito critico e la capacità di leggere
i fatti “senza condizionamenti, senza indottrinamento e senza propaganda”. A chi
gli ha chiesto un commento sulle critiche mosse dal sindacato Cobas Scuola di
Bologna, che aveva parlato di “caccia alle streghe”, ha risposto che
“francamente dei Cobas non mi interessa assolutamente nulla”. Aggiungendo che
coloro che utilizzano l’espressione “caccia alle streghe” dimostrano di non aver
“ancora acquisito una maturità democratica e una consapevolezza dei valori della
nostra Costituzione”. Concludendo, il ministro ha ribadito la sua visione della
scuola: “Io amo la nostra Costituzione, credo nei valori di una scuola libera
che faccia crescere tutti i giovani. Chi non è d’accordo, libero di pensarla
diversamente, ma non mi interessa il suo pensiero”.
L'articolo Albanese, Valditara chiede ispezioni anche in Emilia Romagna. “Serve
contraddittorio. Chi non è d’accordo? Non m’interessa” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il sì all’ampliamento dello stabilimento della fabbrica di bombe nelle campagne
del Sulcis, a pochi chilometri dal mare, “esplode” all’interno della giunta
regionale sarda. “Non posso fare altro”, aveva provato a spiegare la presidente
Alessandra Todde (del Movimento 5 stelle) ufficializzato il via libera
all’autorizzazione. Adesso, però, un partito della maggioranza prendere le
distanze: Alleanza Verdi Sinistra annuncia, infatti, il voto contrario alla
delibera e chiede di ritirarla: “Chiediamo una fase di confronto con la
presidente Todde e il centrosinistra anche sul tema della transizione ecologica
ed energetica”, dichiarano l’assessore ai Lavori pubblici Antonio Piu e i
consiglieri regionali Maria Laura Orrù, Diego Loi e Giuseppe Dessena. Posizione
sostenuta anche dai due leader nazionali del partito.
Una bella grana per Todde che – dopo aveva rallentato l’iter e dato l’illusione
di volerlo contrastare – è pronta a dare l’ok all’ampliamento dello stabilimento
Rwm Italia di Domusnovas, controllata dai tedeschi di Rheinmetall. Una fabbrica
che ha prodotto bombe per l’Arabia Saudita, droni per Israele, armi per Ucraina
e Paesi Nato, con soli 102 dipendenti fissi e molti interinali precari. I lavori
di ampliamento erano già stati completati ma senza autorizzazione definitiva e
l’annuncio della presidente è arrivato dopo un lungo iter che ha visto il
coinvolgimento di più assessorati e una serie di valutazioni tecniche: “Potrei
strappare qualche applauso se dicessi no alla Valutazione di impatto Ambientale
per Rwm, negando una nuova autorizzazione per i manufatti già realizzati. E il
giorno dopo mi ritroverei i tribunali e gli uffici dello Stato che commissariano
la Regione e ottengono lo stesso risultato a cui ora voi vi opponete. La Regione
ha un ruolo che va oltre i desideri della sua persona, ha un incarico
istituzionale che deve svolgere rispettando le leggi”, aveva detto Todde.
Non la pensano come lei gli alleati. “La Sardegna sostiene già un carico
militare sproporzionato e aggiungere un’industria di armi vuol dire condannarla
a essere retrovia di un’economia di guerra, riproponendo il vecchio ricatto del
lavoro in cambio di attività invasive che consumano territorio, dividono le
comunità e non lasciano futuro, solo capannoni vuoti e giovani costretti ad
andare via. Rivendichiamo invece uno sviluppo fondato sulle risorse dell’isola,
sulla pace, sulla qualità dell’ambiente e sulla dignità del lavoro, non
sull’ennesima fabbrica di armi”, scrivono assessore e consiglieri di Avs.
“Condivido in pieno la loro iniziativa”, commenta il leader di Sinistra italiana
Nicola Fratoianni: “Bisogna votare no all’ampliamento della fabbrica di armi ed
è utile quindi aprire un confronto con la presidente Todde per trovare soluzioni
alternative”, aggiunge. Sulla stessa linea Angelo Bonelli che invita la giunta
regionale a “votare no all’ampliamento perchè non solo dobbiamo essere coerenti
con quello che diciamo, ma la Sardegna è e deve restare una Regione di pace. Non
possiamo permetterci -avverte il leader di Europa verde – che una delle più
grandi industrie europee di armi come la tedesca Rheinmetall – produttrice di
droni, munizioni, che vende a Israele e sono state utilizzate a Gaza– ampli la
sua fabbrica”. “Questa delibera va bocciata e siamo pronti a sostenere tutte le
azioni giuridiche a sostegno dell’iniziativa di Avs”, conclude Bonelli. La
giunta regionale potrebbe comunque approvare la delibera anche senza il voto
dell’assessore di Avs. Ma rappresenterebbe un fatto politico che potrebbe avere
conseguenze sulla maggioranza che sostiene Todde.
L'articolo Sardegna, tensioni in giunta. Avs contro Todde: “No all’ampliamento
della fabbrica di bombe. Ritirate la delibera” proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Giovanni Muraca
A Castel Sant’Angelo si è conclusa la kermesse del partito di maggioranza del
governo, Atreju. Manifestazione che ha visto Fratelli d’Italia mettere in
pratica il famoso piano che posiziona Giorgia Meloni e tutta la compagine di
partito in una posizione più “pop”. Una strategia che descriveva bene Giacomo
Salvini prima dell’estate. Un rilancio che cancella gli “estremismi di partito”
che ha l’intento di far entrare un partito – ormai a stelle e fiamma tricolore –
digeribile anche a quella parte moderata di elettorato.
Spente le luci del palco romano, si ritorna alla normalità di un paese ormai al
baratro. I conti sono in ordine, ma dietro a politiche di austerità che lasciano
– ancora una volta – le persone a sopravvivere se non a morire di fame. Priorità
di un governo che non sa dove girarsi. Tolto l’emendamento proposto sempre da
Fd’I sull’innalzamento del contante a 10.000 euro con flat tax annessa e dietro
a obbligo di fatturazione cartacea (dove sappiamo che anche le fatture possono
essere tranquillamente fittizie), arriva un ddl contro chi “esalta” la mafia.
Ddl a firma Maria Carolina Varchi depositato a ottobre.
Leggendo il disegno è palese quanto sia dedicato “ai soliti nemici” e non al
vero e proprio atto. Il testo riporta: chi ripropone personaggi mafiosi con
intento “apologetico”, chi “esalta fatti, metodi, princìpi” mafiosi , “serie
televisive che mitizzano personaggi reali o immaginari delle varie associazioni
criminali di stampo mafioso”. Se tanto mi dà tanto, allora questo si potrebbe
tradurre e imputare ai libri di Saviano, dei Procuratori Gratteri e Di Matteo e
alle serie TV come Gomorra e Mare Fuori.
L’ennesimo ddl che profuma di proibizionismo. Proposta che sembra più un
ulteriore colpo alla “cancel culture” attivata da quando governi ultra
conservatori sono saliti al potere. E fa specie quando a questo si allineano
documenti che raccontano di piani eversivi che arrivano da oltre oceano per
distruggere l’Europa – già debole grazie all’attuale Commissione – dall’interno,
utilizzando paesi “amici” come Italia e Polonia per attuarli.
La sovranità tanto cara alla maggioranza attualmente si misura in
un’infrastruttura di Telecom ormai di KKR – fondo americano, Stellantis che
ormai è entità straniera, ITA Airways che per il 41% è di Lufthansa – compagnia
di bandiera tedesca. Mancava solo che un gruppo editoriale come Gedi venisse
venduto. Ma a chi? A un magnate con la foto di Donald Trump sulla scrivania. Una
sorta di assist che mette a tacere un media di “opposizione”. Abbiamo passato
una settimana a parlare della famiglia nel bosco, nel 2023 di Peppa Pig, di
Frecciarossa che fanno fermate speciali per i ministri e di acqua che fa
ammalare.
Mentre l’opposizione è occupata a parlare di leadership di questo campo largo
anziché prendere l’attuale maggioranza in contropiede su temi come questi e
facilitare una possibile vincita alle politiche del 2027, qual è realmente
l’agenda di governo nei prossimi mesi? Cosa stiamo realmente facendo per la
lotta alle mafie? Se non fosse per i procuratori – anch’essi isolati e presi di
mira dal governo per il Referendum primaverile per la divisione delle carriere –
del tema, non è che se ne sente molto parlare.
Gli unici in auge al momento sono sempre la difesa, il Rearm Europe (o Readiness
– per indorarci la pillola), circondati da emendamenti come questo che trovano
contraddizioni con l’immobilismo di questo esecutivo. Negli incontri che
Salvatore Borsellino – fratello di Paolo, magistrato tanto menzionato e caro
alla Premier – fa nelle scuole, una delle frasi di apertura degli stessi è
sempre: “La Mafia non è solo quella che conosciamo, ma Mafia è anche fare i
propri interessi a discapito degli altri”.
Se questa frase fosse una legge, saremmo un paese in salute in vari ambiti. Ma
perché migliorarsi quando si potrebbe far ancora di più? Magari un altro decreto
che cancelli determinate parole dal dizionario. Come si dice, tolta la parola,
risolto il problema.
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L'articolo Arriva la legge contro chi “esalta” la mafia: è palese che sia
dedicata ai soliti nemici proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’Ue resista ai tentativi di ingerenze internazionali, non ceda alla
criminalizzazione del diritto internazionale e, allo stesso tempo, rimanga in
guardia rispetto al tentativo russo di “ridefinire con la forza i confini in
Europa”. Il lungo intervento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella,
in occasione della Conferenza degli ambasciatori alla Farnesina contiene un
appello alla classe diplomatica italiana, quello di continuare nello sforzo del
dialogo in un mondo che sta andando verso una sempre maggiore tensione
internazionale, col rischio, ha aggiunto, di “un generale arretramento della
civiltà”.
Sotto accusa, seppur in maniera implicita, sono le strategie messe in campo dal
presidente americano, Donald Trump, che sul dossier ucraino, e non solo, sta
continuando a prendere di mira l’Unione europea, arrivando a prevederne la
disgregazione nel caso in cui non “torni alla salvaguardia dei valori
tradizionali” e a una maggiore “libertà di stampa”. Parole che le istituzioni di
Bruxelles hanno già bollato come ingerenza. Adesso anche il capo dello Stato le
condanna: “Appare a dir poco singolare che, mentre si affacciano in ambito
internazionale esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e
le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei
confronti della Unione europea, alterando la verità e presentandola anziché come
una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e i diritti dei
popoli, sviluppatasi anche con la condivisione e l’apprezzamento dell’intero
Occidente, come una organizzazione oppressiva se non addirittura nemica della
libertà”.
Articolo in aggiornamento
L'articolo Mattarella contro gli attacchi di Trump: “Disordinata e
ingiustificata aggressione all’Ue. La Russia vuole ridefinire in confini europei
con la forza” proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Susanna Stacchini
Limitarsi a biasimare chi rinuncia ad esprimere il proprio voto, è un modo per
giudicare l’estetica e non la sostanza. Le proporzioni dell’astensione sono
tali, da rendere indispensabile un’analisi attenta, in grado di ricercare le
radici profonde del fenomeno. Oggi invece, a partire dalle Istituzioni, passando
per la politica e una larga parte della stampa, l’approccio alla questione è
superficiale e inadeguato. Con l’indifferenza verso la disaffezione al voto, la
politica confessa la rinuncia alla sua funzione più nobile, mettersi a servizio
della gente, confermandosi al contrario, espressione esclusiva di una ristretta
casta di potenti benpensanti.
Dietro ogni non voto c’è la storia di una vita. Dietro ogni non voto c’è
emarginazione, miseria, malattia e disincanto. Dietro un non voto c’è il giovane
precario che non può progettare il suo futuro, c’è la giovane coppia che
rinuncia ad avere figli, perché non può permetterseli, c’è il lavoratore povero
che ha smesso di curarsi. Dietro il non voto c’è il disoccupato e l’inoccupato,
distinguo peraltro sterile e offensivo. C’è l’anziano che vive in situazione di
povertà assoluta. C’è il mendicante, per il quale mangiare un pasto caldo o
dormire al coperto e all’asciutto, è un’incognita giornaliera.
Dietro il non voto ci sono l’Infermiere e il Medico di una sanità pubblica allo
sfascio. Ci sono i figli della madre morta di tumore, in attesa della risposta
dell’esame istologico. C’è la persona, parte offesa in un procedimento penale
che, grazie alla mannaia della prescrizione e improcedibilità, vede svanire il
suo sogno di giustizia. C’è il giovane costretto a migrare all’estero, per
vedere riconosciuti e valorizzati i suoi studi. C’è il genitore del ragazzo
morto suicida, complice una sanità pubblica ormai al collasso. C’è il padre di
famiglia, stretto nella morsa di uno sfratto esecutivo. Dietro il non voto c’è
sfiducia, senso di impotenza e la certezza di non avere alcuna possibilità di
riscatto.
In questo contesto, si è ridotto ai minimi storici anche quell’elettorato di
fedelissimi, per i quali il voto non è una scelta, ma una fede e che per
decenni, si è recato al seggio, orgoglioso di votare il “meno peggio”. Così oggi
che il numero degli astenuti supera addirittura il 50% degli aventi diritto al
voto, nessuna forza politica, partiti, movimenti, coalizioni, leader, possono
arrogarsi il diritto di dichiarare vittoria. Le proporzioni della
disassuefazione al voto, sono inequivocabili, non lasciano scampo.
La politica ha perso e insieme a lei, tutti noi. Quello dell’astensione è un
dato allarmante e monitor per la nostra democrazia, peraltro destinato ad
aggravarsi, in considerazione della sfrontatezza con cui viene ignorato. Nessun
approfondimento, nessun focus, complice una politica che evita come la peste,
qualunque domanda nel merito. La politica, invece di metterci la faccia e
prendersi le proprie responsabilità, preferisce burlarsi di una crisi di
rappresentanza senza precedenti. Evitare qualunque analisi dei numeri assoluti,
focalizzando l’attenzione esclusivamente su quelli percentuali, è funzionale al
loro tornaconto. Infatti, se pur da profana in materia, credo di poter sostenere
che se l’affluenza al voto è di circa il 47% degli aventi diritto e un partito
ottiene il 31%, la percentuale effettiva del suo consenso è del 14,57% circa.
Una fotografia questa che smonta nei fatti, molte delle tante sbandierate
vittorie. E una politica che, incurante dei pericoli a cui ci espone, ricorre a
narrazioni fuorvianti e faziose, pur di proclamare vinti e vincitori, diventa
usurpatrice del suo stesso nome. Non è un segreto che l’ordine democratico si
regga sul rapporto di fiducia fra Stato e cittadini. Un rapporto venuto meno da
tempo, da recuperare con estrema urgenza. E in qualità di cittadini attivi del
processo democratico, tornare ad esercitare quella funzione di controllo che ci
compete e che già in passato, si è dimostrata determinante nel contrasto di
derive autoritarie.
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L'articolo Dietro ogni non voto c’è una storia di emarginazione, sfiducia e
disincanto proviene da Il Fatto Quotidiano.