N ell’ormai decennale sfida tecnologica tra Cina e Stati Uniti, è capitato già
più di una volta che fossero gli USA ad arrivare secondi. È successo con il 5G,
dove la Repubblica popolare ha dominato a livello infrastrutturale e di
diffusione. È avvenuto più di recente con le auto elettriche, il 53% delle quali
circola in Cina, patria anche del marchio più di successo al mondo (BYD, la cui
quota di mercato è oltre il doppio di quella di Tesla).
Un altro fondamentale settore in cui la sfida è ancora aperta è quello dei
supercomputer: oggi gli Stati Uniti sono tornati a dominare la classifica
specialistica Top500 con i loro tre computer exascale (in grado cioè di svolgere
un miliardo di miliardi di operazioni al secondo), ma è noto come la Cina,
nell’ormai lontano 2021, sia stata la prima nazione al mondo a sviluppare questi
sistemi. La ragione per cui i computer exascale cinesi non compaiono nella
classifica è legata alla scelta di Pechino di smettere di divulgare i risultati
ottenuti, perdendo di conseguenza il primato ufficiale.
Si potrebbero inoltre citare le tecnologie quantistiche: nel 2017 la Cina è
stata la prima nazione al mondo a portare a termine con successo una
comunicazione satellitare quantistica e oggi, secondo parecchie analisi, sarebbe
in vantaggio anche nello sviluppo dei computer quantistici.
E per quanto invece riguarda l’intelligenza artificiale (IA)? È davvero
possibile che la Repubblica popolare conquisti un primato tecnologico che – per
parafrasare Vladimir Putin – le consentirebbe di “dominare il mondo”? Fino a
questo momento, e nonostante i grandi progressi, non ci sono dubbi sul fatto che
gli Stati Uniti abbiano mantenuto un vantaggio: “Dopo tutto, la tecnologia e la
proprietà intellettuale statunitense dominano ogni livello dell’industria
dell’intelligenza artificiale”, ha scritto Reva Goujon di Rhodium Group: “I
processori Nvidia aumentano la potenza di calcolo di vari ordini di grandezza,
alimentando la rivoluzione della IA; i fornitori di servizi cloud statunitensi,
come Amazon Web Services, Microsoft Azure e Google Cloud Platform,
distribuiscono enormi risorse computazionali; aziende come Google, Meta, OpenAI,
Anthropic e xAI hanno sviluppato i modelli fondativi su cui le aziende di tutto
il mondo fanno affidamento per adattare e ottimizzare le proprie applicazioni”.
L’avanzata dei chip cinesi
I numeri confermano queste affermazioni: per quanto riguarda l’infrastruttura,
al momento i Big Three statunitensi (AWS, Microsoft, Google) detengono il 63%
del mercato cloud globale, mentre il principale fornitore cinese, Alibaba,
arriva soltanto al 4%. Per quanto riguarda la proprietà intellettuale, l’AI
Index Report 2025 di Stanford mostra come la ricerca statunitense sia ancora
dominante nei paper più citati, nonostante la Cina sia avanti per quanto
riguarda la quantità totale di pubblicazioni scientifiche (riproponendo in
chiave accademica il classico scontro qualità vs quantità).
Nel fondamentale settore dei chip, le GPU (Graphics Processing Unit) più
avanzate – progettate da Nvidia e stampate dalla taiwanese TSMC (Taiwan
Semiconductor Manufacturing Company, e che, per effetto delle sanzioni volte a
ostacolarne la crescita tecnologica, non possono essere vendute in Cina) – sono
realizzate con processo produttivo a 4 nanometri e potrebbero a breve scendere
addirittura a 2 nanometri. Nel mentre, la Cina ha raggiunto, grazie alla sua
azienda specializzata SMIC (Semiconductor Manufacturing International
Corporation), chip da 7 nanometri e starebbe lavorando insieme a Huawei, ma non
senza difficoltà, alla produzione di una nuova generazione di chip da 5
nanometri. Nel complesso, si può affermare che la produzione dei chip cinesi sia
indietro di circa 5 anni rispetto agli Stati Uniti.
> Le sanzioni USA hanno obbligato la Cina a trovare una via autarchica
> all’intelligenza artificiale, senza poter fare affidamento né sui chip
> statunitensi, né sui macchinari olandesi per produrli in autonomia. E i
> risultati iniziano a vedersi.
La decisione degli Stati Uniti di vietare l’esportazione dei chip più avanzati e
dei macchinari necessari per produrli (come quelli per la litografia
dell’olandese ASML) ha quindi rallentato lo sviluppo cinese e permesso agli
Stati Uniti di mantenere la loro leadership. Allo stesso tempo, questa strategia
si sta in parte rivelando un boomerang. Come scrive ancora Goujon, “gli
ingegneri cinesi sono sommersi da risorse statali, allo scopo di innovare la
produzione di chip nonostante le restrizioni imposte dagli Stati Uniti”.
In poche parole, le sanzioni USA hanno obbligato la Cina a trovare una via
autarchica all’intelligenza artificiale, senza poter fare affidamento né sui
chip statunitensi, né sui macchinari dell’olandese ASML che avrebbero permesso
di produrli in autonomia. I risultati iniziano a vedersi: HiSilicon (società di
Huawei per la progettazione di chip) e la già citata SMIC (che invece li stampa)
sono ormai in grado di produrre processori – come Ascend 910C – capaci di
prestazioni quasi assimilabili a quelle di A100, la terzultima generazione di
GPU Nvidia (ma sono ancora lontani dai più avanzati H100 e H200, di penultima
generazione, per non parlare della nuova generazione Blackwell).
La distillazione di DeepSeek
Per quanto ancora lontana dalle performance dei chip statunitensi, la Cina sta
quindi dimostrando di essere in grado di fare importanti e autonomi progressi.
Ma a dare ulteriore fiducia alla Repubblica popolare è il fatto che, negli
ultimi mesi, il focus nel campo dell’intelligenza artificiale – e in particolare
dei large language model – abbia iniziato a spostarsi dalle dimensioni
all’ottimizzazione.
In sintesi estrema: lo sviluppo dei large language model ha fino a oggi seguito
la cosiddetta “legge di scala”, secondo la quale la capacità dei modelli
linguistici aumenta proporzionalmente al crescere dei parametri, dei dati e del
potere computazionale. Una legge che quindi premia chi ha a disposizione, tra le
altre cose, i chip più avanzati da impiegare in fase di addestramento.
> L’arrivo di DeepSeek potrebbe segnare l’inizio di un nuovo ciclo, in cui i
> modelli vengono costruiti sulla base di quelli pre-esistenti, in un processo
> che accelera la fase di sviluppo e riduce i costi computazionali.
Da qualche tempo, questa legge ha però iniziato a mostrare dei ritorni
decrescenti: a fronte di spese in costante aumento, i large language model
ottengono miglioramenti sempre più ridotti. Per questa ragione, e anche alla
luce dell’insostenibilità economica della legge di scala, l’attenzione si è
spostata dalla massimizzazione della potenza di calcolo verso l’ottimizzazione
di modelli preaddestrati e già disponibili, al fine di ottenere da essi delle
prestazioni più avanzate.
Il simbolo di questa transizione è DeepSeek, la startup cinese che è stata in
grado di sviluppare modelli dalle performance vicine a quelle dei sistemi
statunitensi investendo però una frazione dei soldi. Per riuscire in questa
impresa, DeepSeek ha sfruttato un processo noto come distillazione, che consente
a modelli più piccoli di apprendere da quelli già esistenti e più grandi.
Tramite la distillazione, la conoscenza di un modello linguistico di grandi
dimensioni (ribattezzato “insegnante”) viene trasferita a uno più piccolo (lo
“studente”), mantenendo prestazioni simili ma con minori costi computazionali.
In questo processo, il modello più piccolo viene esposto alle risposte e ai
ragionamenti del modello più grande – per DeepSeek sono stati impiegati Qwen di
Alibaba, Llama di Meta e o1 di OpenAI – invece che ai soli dati grezzi,
apprendendo più rapidamente anche schemi complessi.
L’arrivo di DeepSeek potrebbe quindi segnare l’inizio di un nuovo ciclo nello
sviluppo dell’intelligenza artificiale. I modelli non nascono più isolati, ma
vengono costruiti sulla base di quelli pre-esistenti, in un processo che
accelera la fase di sviluppo e riduce i costi computazionali. Il vecchio
sistema, in cui una singola azienda raccoglieva i dati, addestrava e rifiniva il
proprio modello da zero (con costi esorbitanti), potrebbe lasciare sempre più
spazio a questo nuovo meccanismo.
La guerra dei talenti
Da un lato, i progressi nel campo dei chip; dall’altro, la vantaggiosa
trasformazione della fase di addestramento dei modelli linguistici. Un terzo
fondamentale fattore è invece rappresentato dai talenti: gli ingegneri e le
ingegnere in grado di teorizzare, progettare e dare vita ai più avanzati sistemi
di intelligenza artificiale.
> A causa delle politiche migratorie sempre più rigide – e dell’incertezza in
> cui le persone che emigrano negli USA sono costrette a vivere – la percentuale
> di ingegneri del deep learning che decide di fare carriera nella Silicon
> Valley è in costante diminuzione.
Nientemeno che Mark Zuckerberg può aiutarci a capire quanto siano importanti i
talenti in questo settore. Nel tentativo di potenziare l’intelligenza
artificiale di Meta, Zuckerberg ha “rubato” a OpenAI e ad altri colossi del
settore alcuni dei loro principali ingegneri, offrendo compensi che
supererebbero anche quelli delle superstar NBA, toccando vette da 100 milioni di
dollari all’anno. Una cifra mostruosa. Che ci aiuta a capire quanto sia
importante avere a disposizione i migliori talenti a livello mondiale e che ci
porta a parlare di uno dei tasti dolenti, in questo ambito, degli Stati Uniti
dell’amministrazione Trump. A causa delle politiche migratorie sempre più rigide
– e dell’incertezza in cui le persone che emigrano negli Stai Uniti sono
costrette a vivere – la percentuale di ingegneri del deep learning che decide di
fare carriera nella Silicon Valley è in costante diminuzione.
“Dopo aver completato il suo ciclo di laurea nel 2015 in una delle più
prestigiose università cinesi, e dopo aver lavorato come ingegnere del software
a HSBC, Zhou Yijun, 31 anni, sperava di trovare una città nordamericana in cui
prendere il PhD e potenzialmente sistemarsi una volta per tutte”, racconta
Yvonne Lau. “Le politiche di Trump hanno reso la sua scelta facile: ‘Ho pensato:
ok, il Canada è la scommessa più sicura per ricevere il permesso di soggiorno’”.
In verità, il secondo mandato Trump ha solo contribuito ad accelerare una
tendenza già in atto: la percentuale di esperti top tier di intelligenza
artificiale (quelli citati nei paper più importanti) che lavorano negli Stati
Uniti aveva infatti già da qualche tempo iniziato a calare, passando dal 59% del
2019 al 42% del 2022.
Se si considera che la Cina forma circa la metà dei talenti globali
dell’intelligenza artificiale (mentre gli USA sono al 18%), quanto Pechino sta
investendo in questo settore (finanziando anche i laboratori di ricerca
universitari), quanto sta puntando su una narrazione patriottica per riportare a
casa chi lavora all’estero (con tutto il bagaglio di competenze nel frattempo
appreso) e quanto abbia aumentato gli stipendi offerti (per quanto ancora una
frazione di quelli della Silicon Valley), si intuisce quale sia la nazione che
più di ogni altra si stia avvantaggiando della crescente diffidenza
internazionale nei confronti degli Stati Uniti di Trump.
Anche da questo punto di vista, la vicenda di DeepSeek è stata esemplare. Alcuni
ricercatori di Stanford hanno analizzato la biografia degli oltre 200 autori dei
vari paper tecnici pubblicati dalla startup cinese, concludendo come il successo
di DeepSeek “sia fondamentalmente una storia di talento autoctono”: metà del
team di DeepSeek non ha infatti mai lasciato la Cina per motivi di studio o
lavoro, e la metà che lo ha fatto è poi tornata per dedicarsi allo sviluppo
dell’intelligenza artificiale made in China.
> Se si considera quanto Pechino stia investendo in questo settore e quanto stia
> lavorando per riportare a casa chi lavora all’estero, si intuisce quale
> nazione più di ogni altra stia mettendo a frutto la crescente diffidenza
> internazionale nei confronti degli USA di Trump.
Gli sforzi cinesi per colmare il divario con gli Stati Uniti, insomma, stanno
dando i loro frutti. Secondo alcune stime, anche solo fino a un paio di anni fa
i principali modelli statunitensi superavano abbondantemente quelli cinesi in
termini di accuratezza. La Cina ha rapidamente colmato il divario grazie a
iniziative governative (come il Next Generation AI Development Plan),
investimenti nell’educazione, nella formazione e nella ricerca, una stretta
collaborazione tra Pechino e l’industria tecnologica e massicci finanziamenti
pubblici in data center, infrastrutture energetiche e produzione di
semiconduttori.
Il vantaggio degli Stati Uniti
A questo punto, è importante fare una precisazione: gli Stati Uniti sono ancora
leader globali dell’intelligenza artificiale e i punti deboli della Cina sono
ancora da superare. Nonostante i progressi nel campo dei chip, e nonostante
l’attenzione crescente all’ottimizzazione invece che alla massimizzazione delle
prestazioni, resta il fatto che HiSilicon e SMIC sono ancora parecchi anni
indietro rispetto a Nvidia e TSMC, con il risultato che al momento, e nonostante
la “rivoluzione DeepSeek”, tutti i modelli di frontiera sono ancora di
provenienza statunitense.
C’è poi la questione dei soldi: non sono solo i salari della Silicon Valley a
essere molto più elevati, ma anche gli investimenti privati USA rispetto a
quelli cinesi. L’AI Index di Stanford segnala come nel 2024 gli investitori
statunitensi abbiano riversato nel settore dell’intelligenza artificiale
qualcosa come 109,1 miliardi di dollari contro i 9,3 miliardi della Cina: quasi
12 volte tanto.
A causa della differente struttura economica di Cina e Stati Uniti è però
difficile fare un confronto preciso. Secondo TechWire, per esempio, nel 2025 gli
investimenti complessivi cinesi – compresi quindi quelli pubblici –
raggiungeranno i 98 miliardi di dollari. È invece difficile stimare con
precisione l’investimento pubblico statunitense, spesso in partnership con il
mondo privato, più frammentato e meno pianificato (ma che potrebbe comunque
valere svariate centinaia di miliardi di dollari). Nel complesso, in ogni caso,
il mercato statunitense dell’intelligenza artificiale viene stimato a circa 150
miliardi di dollari per il 2025, oltre il doppio di quello cinese.
> Quella in corso è una guerra fredda dell’intelligenza artificiale, con buona
> parte del Sud globale che sta integrando i sistemi e le infrastrutture di
> intelligenza artificiale di provenienza cinese.
L’unica certezza, in questo mare di numeri, è che la Cina si sta comunque
avvicinando a grandi passi agli Stati Uniti, mentre i perduranti ostacoli
incontrati in questa rincorsa possono essere considerati il prezzo da pagare per
conquistare una crescente e inedita autonomia tecnologica. Quella in corso è
insomma una guerra fredda dell’intelligenza artificiale, attorno alla quale si
stanno inoltre creando dei blocchi politici digitali, con Africa, Sudest
asiatico e parecchie nazioni del Sudamerica (a partire dal Brasile) che stanno
integrando i sistemi e le infrastrutture di intelligenza artificiale di
provenienza cinese.
Di fronte all’avanzata internazionale della tecnologia cinese (sperimentata
anche da aziende di nazioni alleate degli Stati Uniti come Saudi Aramco,
Standard Chartered o HSBC), il “selling point” principale dei colossi della
Silicon Valley si è fatto ideologico ed è stato recentemente riassunto dal
fondatore di OpenAI, Sam Altman: “Vogliamo assicurarci che l’intelligenza
artificiale democratica vinca su quella autoritaria”. Una narrazione in cui
vengono sottolineati i rischi legati all’adozione di una tecnologia che potrebbe
disseminare propaganda pro-Cina, censurare contenuti critici nei confronti del
Partito comunista cinese, essere impiegata a fini di spionaggio, facilitare la
diffusione della sorveglianza di massa nei confronti della popolazione e altro
ancora.
Timori assolutamente realistici, ma che nell’epoca delle pulsioni autoritarie di
Donald Trump – e in una fase in cui Grok, l’intelligenza artificiale sviluppata
da xAI di Elon Musk, si lascia andare a deliri neonazisti e a propaganda
complottista – è fin troppo facile rivolgere anche agli Stati Uniti. Di tutte le
ragioni per cui la sfida tecnologica tra Cina e Stati Uniti è di fondamentale
importanza, la cornice narrativa “libertà vs dittatura” diventa ogni giorno che
passa meno credibile.
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M ikkel Bolt Rasmussen, professore di estetica politica al Dipartimento di arte
e studi culturali dell’Università di Copenhagen, in La controrivoluzione di
Trump (2019) e Fasciocapitalismo (2024), produce un’analisi della politica
(anche delle immagini) di Trump e in generale dei nuovi movimenti, partiti e
leader neofascisti come una politica di alleanza rinnovata tra tardo-capitalismo
e fascismo. Il suo obiettivo è trattare il fascismo all’insegna del suo
adattamento, dunque come un’ideologia che ha aggiornato tanto gli strumenti
quanto il fine. Il neofascismo può servirsi della democrazia liberale (nelle sue
possibilità illiberali) per costruire un’utopia più modesta: la riproduzione
della società del dopoguerra, più semplice e dunque più comprensibile, più
spensierata, profondamente razziale, patriarcale. Insomma, i nuovi fascismi
vogliono restringere il campo delle libertà e della partecipazione democratiche
per difendere il benessere dei Paesi Occidentali, in un momento di crisi
economica, politica, migratoria, bellica, climatica, sanitaria.
Nei testi di Rasmussen non si trova, per programma, un approfondimento della
politica danese, più volte invece portata ad esempio per descrivere il “razzismo
di Stato liberale” delle democrazie occidentali, nonostante un certo
antirazzismo morale: la Danimarca, negli ultimi vent’anni, ha portato avanti
politiche estremamente restrittive nei confronti delle persone ritenute
straniere (con vere e proprie ghettizzazioni, incarcerazioni coatte,
sfruttamento, eradicazione culturale) e per contrastare la migrazione, regolare
o irregolare che sia (con addirittura l’esternalizzazione delle pratiche di
richiesta d’asilo). Dal momento che la Danimarca viene più volte mobilitata come
modello a cui aspirare nel contesto Europeo, in termini anche sociali,
soprattutto in quanto avanguardia in sostenibilità e welfare (per le persone
danesi), ho deciso di contattare direttamente Rasmussen, per ospitare qui la sua
critica.
Ne ho approfittato per chiedergli anche un aggiornamento della sua analisi su
Trump, alla luce del secondo mandato. Ne viene fuori una sorta di profezia dei
futuri noti (possibili) dei Paesi del Nord Globale e, ovviamente, anche
dell’Italia. Il governo Meloni ha approvato una serie di decreti e disegni di
legge culminata con il decreto sicurezza (risultato di una decretazione
d’urgenza del precedente DDL), che secondo molti osservatori rappresenta un
pacchetto repressivo verso il dissenso e oppressivo verso le persone
marginalizzate. Per combattere le realizzazioni storiche del neofascismo
nazionale, bisogna studiare le realizzazioni storiche in altri Paesi.
PROFESSOR RASMUSSEN, NEI SUOI LIBRI, E ANCHE SU EFLUX, PARLA PER LA DANIMARCA DI
“RAZZISMO DI STATO LIBERALE”, UN CONCETTO SIMILE, CREDO, A QUELLO DI “STATO
RAZZIALE INTEGRALE” DI HOURIA BOUTELDJA, APPROFONDITO IN BEAUFS ET BARBARES
(2023). STIAMO PARLANDO DI CONCEPIRE IL RAZZISMO COME UNO STRUMENTO SOCIOTECNICO
(UN “COMPLESSO DI ATTIVITÀ PRATICHE E TEORICHE”) CON CUI L’ESTABLISHMENT
“GIUSTIFICA E MANTIENE IL SUO DOMINIO” RIUSCENDO ANCHE A OTTENERE IL CONSENSO
ATTIVO DEI GOVERNATI. MI PERMETTA UNA PROVOCAZIONE CHE POTREBBE ARRIVARE DA
DESTRA: SE I RISULTATI DI QUESTE POLITICHE, PER ESEMPIO IN DANIMARCA, SONO
“POSITIVI”, CIOÈ PORTANO BENESSERE DIFFUSO, SOPRATTUTTO PER QUELLA PORZIONE DI
POPOLAZIONE RITENUTA “CITTADINA” LEGITTIMA, NON SI TRATTA FORSE DI POLITICHE A
CUI ALTRI GOVERNI POTREBBERO O DOVREBBERO GUARDARE, VISTO CHE L’ALTERNATIVA È
UNA RIVOLUZIONE CHE LO STESSO STATO DEMOCRATICO NON PUÒ VOLERE, OPPURE LA GUERRA
CIVILE?
La situazione danese rende manifesto che la riemersione del fascismo come
fenomeno politico fa parte di una storia molto più lunga e complessa, che non
può essere limitata alla gestione della crisi finanziaria da parte delle élite
politiche delle nazioni europee, e sicuramente non a un presunto aumento del
numero di migranti arrivati in Europa. Nel contesto danese, l’introduzione di
politiche migratorie estremamente dure deve essere inquadrata in una traiettoria
storica ben più lunga, che riguarda il modo in cui la classe lavoratrice è stata
concettualizzata nelle prime fasi della costruzione della versione danese del
cosiddetto Stato sociale scandinavo, cioè nel periodo tra le due guerre e nei
primi anni del dopoguerra. Fin da subito, i socialdemocratici danesi
identificarono la classe lavoratrice con la classe lavoratrice danese. Questa
identificazione si consolidò dopo la Seconda guerra mondiale, quando le classi
lavoratrici locali furono integrate nel processo di nazionalizzazione del
popolo, un processo che ebbe luogo in tutta l’Europa occidentale, compresa la
Danimarca, ma anche in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Italia. La
combinazione tra democrazia nazionale e Stato costituzionale spostò il conflitto
tra proletariato e borghesia ‒ che aveva caratterizzato la ‘guerra dei
trent’anni’ del 20° secolo (dal 1914 al 1945) ‒ su un altro piano. Dopo il 1945,
la relazione tra capitale e lavoro fu riorganizzata sulla base di un compromesso
sociale in cui le masse lavoratrici non solo ottennero salari più alti, ma anche
accesso a un’enorme varietà di beni di consumo, istruzione e cultura; ma, cosa
importante, abbandonarono la precedente speranza in un mondo oltre il lavoro
salariato. Questa è la storia dell’abbandono dell’internazionalismo da parte del
movimento operaio consolidato.
Possiamo raccontare questo sviluppo storico come la storia di una straordinaria
conquista del movimento operaio occidentale, come fa ad esempio Geoff Eley in
Forging Democracy: The History of the Left in Europe, 1850-2000 (2002). Ma è,
ovviamente, anche la storia di come il movimento operaio dimenticò più o meno
rapidamente la violenza razziale nelle colonie e il legame tra questa violenza e
quella fascista in Europa. Aimé Césaire e molti altri militanti anticoloniali
cercarono disperatamente ‒ spesso dall’interno dei partiti comunisti delle
nazioni dell’Europa occidentale ‒ di affermare che la spinta rivoluzionaria
doveva affrontare due problemi e non solo uno. Lo sfruttamento era certamente
l’alfa e l’omega, ma la questione coloniale non poteva essere ignorata e doveva
anch’essa essere affrontata. Il fascismo era stato sconfitto in Europa ‒ e
questo era ovviamente fondamentale ‒ ma era un errore considerare il fascismo
come un’eccezione storica: esisteva un legame diretto tra la barbarie delle
colonie e la violenza dei regimi fascisti dell’Europa tra le due guerre.
Analizzare questo legame era cruciale.
L’antifascismo “limitato” (nell’originale “limited anti-fascism”, ndr) che
prevalse nell’Europa occidentale dopo il 1945 non collegò il fascismo come
fenomeno politico alla persistenza della violenza razziale-coloniale nelle
colonie, nelle ex colonie indipendenti e nelle metropoli occidentali, compresa
la feroce opposizione ai movimenti anticoloniali. La prospettiva
antinazionalista e internazionalista, cuore del marxismo rivoluzionario, fu
soppiantata da vari tipi di nazionalismo. È questa una ragione storica per cui
fu così facile per la maggior parte dei partiti socialdemocratici dell’Europa
occidentale abbandonare ogni forma di solidarietà internazionale, sia in tempi
di crisi economica sia in tempi di crescita.
Il periodo dalla fine degli anni Settanta in poi è stato caratterizzato da
un’economia in declino nell’Europa occidentale, rispetto al boom del dopoguerra.
L’epoca della globalizzazione neoliberale ha visto brevi fasi di crescita
seguite da numerose crisi. Guardando da lontano e concentrandosi sulla
riproduzione sociale, tutto il periodo dalla fine degli anni Settanta appare
come un lento declino, anche in economie come quella danese. Un argomento
brutalmente “materialista” potrebbe essere che, dopo un periodo di forte
crescita negli anni Cinquanta e Sessanta, durante il quale l’economia danese ‒
come molte altre in Europa occidentale ‒ era in grado di integrare lavoratori
migranti, l’economia in crisi della globalizzazione neoliberale è stata
un’economia dell’espulsione o dell’assorbimento differenziato, in cui solo
alcuni lavoratori stranieri più qualificati erano benvenuti, mentre molti altri
no.
Il primo cambiamento significativo nel contesto danese è avvenuto a metà degli
anni Novanta: mentre rappresentanti della borghesia danese, tra cui i leader
delle organizzazioni imprenditoriali nazionali, continuavano a sostenere la
necessità di manodopera migrante, i politici iniziarono a opporsi. Inizialmente
erano partiti marginali dell’estrema destra a opporsi a ciò che loro chiamavano
“frontiere aperte” ‒ benché la Danimarca non abbia mai avuto frontiere aperte e,
trovandosi nel Nord dell’Unione Europea, abbia ricevuto un numero
significativamente più basso di rifugiati e migranti ‒, ma ben presto anche i
partiti del centrodestra adottarono questa linea. Dopo alcune iniziali
resistenze tra i leader socialdemocratici della vecchia generazione, anche il
Partito socialdemocratico danese cominciò a competere per il voto razzista. Gli
ultimi 25 anni sono stati un lungo spostamento verso destra.
CON IL SECONDO E IL TERZO GOVERNO DI
Lars Løkke Rasmussen (dal 2015 al 2019), leader del centrodestra, vengono
intraprese politiche migratorie davvero securitarie: per dirne una, subito nel
novembre 2015 sono state adottate 34 restrizioni all’asilo, tra cui il rinvio
del diritto al ricongiungimento familiare.
Per fare due esempi ancora più significativi, abbiamo la cosiddetta legge sui
gioielli (Jewelery Law), che obbligava le persone migranti a consegnare beni di
valore contestualmente alla richiesta di asilo; e il cosiddetto Piano ghetto
(Ghetto Plan), che prevedeva controlli di polizia intensificati, sfratti e pene
doppie nei quartieri con alta disoccupazione ed elevata presenza di minoranze
etniche (una multa di 1000 corone danesi diventava automaticamente di 2000 se il
reato avveniva in uno di quei “ghetti”, e lo stesso valeva per le pene
detentive).
PREVEDE ANCHE L’OBBLIGO PER I BAMBINI DI FREQUENTARE UN PROGRAMMA “PRESCOLARE”
PER APPRENDERE LA LINGUA E I VALORI DANESI, OPPURE LA RIALLOCAZIONE DELLE
PERSONE CONSIDERATE “STRANIERE” (PER “DE-GHETTIZZARE” IL QUARTIERE, CON ANNESSA
RISTRUTTURAZIONE O RICOSTRUZIONE, PER FAVORIRE LA SPECULAZIONE IMMOBILIARE). IN
ITALIA, IL GOVERNO MELONI HA SUGGERITO L’ISTITUZIONE DI “ZONE ROSSE” NELLE
PRINCIPALI CITTÀ ITALIANE. IN QUESTI QUARTIERI, LE FORZE DELL’ORDINE HANNO
POTERI SPECIALI E POSSONO AGIRE PER REPRIMERE LE PERSONE CONSIDERATE
“PERICOLOSE” SECONDO CRITERI MOLTO VAGHI (CHE CON QUESTA DISCREZIONALITÀ SI
PRESTANO DI FATTO A ESSERE APPLICATI A SOGGETTI RAZZIALIZZATI). OVVIAMENTE ANCHE
CITTÀ AMMINISTRATE DA PARTITI DI SINISTRA (COME MILANO E ROMA) NON HANNO ESITATO
AD ACCOGLIERE IL SUGGERIMENTO.
È una tendenza naturale. Oggi tutti i partiti del Parlamento danese hanno di
fatto adottato una posizione estremamente xenofoba nei confronti dei migranti.
Incluso il partito di sinistra, l’Alleanza Rosso-Verde, che magari critica la
retorica dei socialdemocratici, ma che comunque sostiene sempre il governo
socialdemocratico, indipendentemente dalle politiche vili che adotta. Dai primi
anni Duemila, vari governi di centrodestra e centrosinistra hanno portato avanti
una lunga lista di misure muscolari finalizzate non solo a limitare il numero di
persone migranti e rifugiate, ma a porre fine alla migrazione. Come ha detto la
prima ministra Mette Frederiksen nel 2019: “Non possiamo promettere zero
richiedenti asilo, ma possiamo sicuramente proporre una visione in tal senso£.
Questa visione ha preso forma in una serie di iniziative bizzarre, tutte con
l’obiettivo di stigmatizzare ed emarginare non solo migranti o richiedenti
asilo, ma anche figli di migranti, cittadini danesi nati o cresciuti in
Danimarca.
Oggi è impossibile distinguere la posizione sull’immigrazione del Partito
popolare danese (di stampo fascista) da quella dei socialdemocratici. Sono
completamente allineati. E ciò non è un caso: è stata una strategia esplicita
del Partito socialdemocratico adottare ogni proposta del Partito popolare
danese, anche le più folli. Elettoralmente ha funzionato: oggi il Partito
popolare danese ha meno del 5% dei voti, mentre in passato aveva oltre il 25%.
Per decenni il Partito popolare danese ha parlato insistentemente di auto
bruciate, pompieri attaccati e ragazze danesi stuprate da uomini musulmani. Oggi
sono i socialdemocratici a portare avanti quella retorica, stigmatizzando
continuamente gli “stranieri” e dipingendoli come una minaccia al futuro del
Paese, arrivando perfino a suggerire che costituiscano un esercito segreto di
infiltrati.
Nel 2024, Frederik Vad, portavoce del Partito socialdemocratico
sull’immigrazione, ha annunciato “un nuovo fronte nella politica migratoria” con
l’obiettivo di combattere “gruppi di immigrati che minano a destabilizzare la
società danese dall’interno”. Se fino ad allora i socialdemocratici avevano
almeno cercato di distinguere tra “immigrati ben integrati” e “indesiderabili”,
Vad ha abbandonato questa distinzione, dichiarando che non si può mai essere
sicuri che un immigrato abbia realmente adottato i valori danesi. Anche se un
immigrato conduce apparentemente “una vita normale”, facendo il medico o il
poliziotto, come possiamo essere certi che non stia in realtà usando la sua
posizione per minare la società danese?
ESPRIMERE QUESTO DUBBIO SIGNIFICA AMMETTERE DI ESSERE RAZZISTI.
“Una società parallela [così si definisce uno spazio in cui i musulmani
ignorerebbero le regole e i valori danesi] non è più solo un quartiere
residenziale a Ishøj [uno dei distretti etichettati come ghetto]. Può essere
anche un tavolo della mensa in un’agenzia governativa. Può essere anche una
farmacia in North Zeland”. Questa dichiarazione di Vad è stata solo l’ultima di
una lista apparentemente infinita di affermazioni islamofobe e xenofobe, che non
solo mettono in dubbio il valore morale di cittadini specifici, ma legittimano
ogni tipo di politica escludente. Se un tempo la Danimarca veniva citata come
uno dei migliori esempi di stato sociale socialdemocratico ‒ lo stesso Bernie
Sanders, nel 2016, parlava con ammirazione della Danimarca durante la sua
campagna elettorale ‒, oggi il Paese è all’avanguardia nella reazione
nazionalista, ammirato da politici fascisti di tutta Europa ansiosi di imparare
dal “modello danese”.
NEL SUO LIBRO LA CONTRORIVOLUZIONE DI TRUMP LEI ANALIZZA LA CAMPAGNA ELETTORALE
PARTENDO DAL PRIMO MANDATO DI TRUMP. GIÀ ALLORA, BEN PRIMA DELL’OPINIONE
PUBBLICA, RICONOSCEVA IN TRUMP UN FASCISTA. IN QUESTO SECONDO MANDATO, GIÀ MOLTO
PIÙ AGGRESSIVO, LA SUA ANALISI È CAMBIATA?
Il periodo del compromesso sociale tra capitale e lavoro nei centri
dell’accumulazione, sotto l’egemonia statunitense, è definitivamente finito.
Siamo entrati in un periodo di transizione, in cui è difficile avere una visione
d’insieme. Le certezze precedenti stanno scomparendo, e non è chiaro cosa ci
attende. Trump è una scorciatoia per questo cambiamento. Molti concetti politici
tradizionali chiaramente non funzionano più, ed è difficile applicarli. Per
questo tante persone fanno riferimento alle frasi di Gramsci sull’interregno, in
cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è ancora nato. Con Stuart Hall, che
si ispirava molto a Gramsci ma combinava le sue teorie con quelle di Althusser e
altri, possiamo forse comprendere la situazione storica attuale come una
congiuntura, cioè una situazione storica specifica, aperta, che richiede
un’analisi dettagliata, focalizzata sulle caratteristiche del momento presente,
ma radicata in un processo storico più lungo. Questo tipo di analisi della
situazione è ciò che ho cercato di sviluppare in La controrivoluzione di Trump,
dove mi sono concentrato sugli elementi distintamente nuovi del fenomeno Trump,
indicando al contempo le condizioni storiche che lo hanno reso possibile e ciò
di cui può essere considerato una continuazione. Mi sono mosso quindi tra
l’analisi della congiuntura, di un periodo e del modo di produzione
capitalistico. È per questo che è diventata una descrizione del ritorno di una
nuova forma paradossale di fascismo, ciò che chiamo fasciocapitalismo (late
capitalism fascism) sullo sfondo del crollo della globalizzazione neoliberale e
di una crisi profonda e persistente dell’economia globale.
Una delle sfide poste da fenomeni politici come Trump, nel 2016 e ora di nuovo
nel 2024-2025, è che egli è chiaramente un fascista – la sua politica è un
ultranazionalismo palingenetico, nei termini di Roger Griffin – ma non rientra
in tutte le caratteristiche che comunemente associamo ai movimenti fascisti
dell’epoca tra le due guerre. È quindi importante sviluppare nuovi concetti per
descrivere il nuovo fascismo, per cogliere ciò che c’è di nuovo nel fascismo
contemporaneo. Per questo dedico un intero capitolo alla lettura del discorso
inaugurale di Trump in La controrivoluzione di Trump. Cerco di analizzare i
tropi fondamentali della sua visione politica, per quanto incoerente possa
apparire. Questa analisi ravvicinata si radica in un’analisi di un processo
politico ed economico più ampio, caratterizzato da una lunga crisi delle
economie dei Paesi avanzati, soprattutto degli Stati Uniti. Mi rifaccio a Ernst
Mandel e Loren Goldner, e descrivo gli ultimi 50 anni come un lungo atterraggio
forzato economico, in cui il boom del dopoguerra è stato sostituito dalla
globalizzazione neoliberale sotto forma di delocalizzazione, privatizzazioni,
ritorno del lavoro precario e crescita del credito e del debito.
COME RIESCE TRUMP IN QUESTA CONTRORIVOLUZIONE? HA AVUTO UN RUOLO
L’AMMINISTRAZIONE BIDEN? E LA CANDIDATURA DI HARRIS?
Trump riconosce e indica costantemente la miseria economica che molti americani
vivono. La crisi finanziaria ha messo in evidenza una tendenza fatta di decenni
di tagli alla riproduzione sociale negli Stati Uniti. Per lungo tempo, questa
realtà è stata mascherata da debiti e prestiti, ma dopo la crisi finanziaria è
diventato evidente che l’economia cresceva sempre meno, e soprattutto quanto
fosse distribuita in modo ineguale la ricchezza, e quanto fosse difficile per
molte famiglie arrivare a fine mese. Mentre Obama, Clinton, Biden e Harris
continuavano a ripetere che andava tutto bene e che si sarebbe proseguito con le
stesse politiche per altri quattro anni, Trump gridava che tutto stava andando
in malora – e molti americani si identificavano in questa percezione. È così che
si vive in molte città di cui i media americani ed europei parlano raramente.
Nell’elezione del 2024, l’inflazione è stata un tema centrale per molti, ma
l’inflazione maschera una tendenza più lunga di declino e di collasso. Trump ha
parlato costantemente di questo collasso. Indubbiamente lo sta accelerando, ma
lo ha indicato e riconosciuto. I democratici no.
Le soluzioni proposte da Trump sono guerre commerciali e protezionismo, ma
ancora di più l’attacco a specifici gruppi di persone identificati come nemici
della comunità nazionale. Make America Great Again è la visione di un popolo
minacciato che deve tornare forte attraverso l’esclusione e il ripiegamento su
sé stesso, politicamente, culturalmente ed economicamente. I nemici di questa
comunità sono gli stranieri, dai messicani ai cinesi, ma anche i “leftist” e le
persone transgender, chiunque possa essere rappresentato come una minaccia alla
supremazia maschile bianca o che faccia sentire insicuri gli uomini bianchi.
Nel libro, affianco alle analisi del neoliberismo anche spunti da varie
generazioni di analisi marxiste del fascismo, che sottolineano la connessione
tra capitalismo come sistema politico-economico e totalità sociale, e fascismo
come movimento politico e culturale che emerge in situazioni di crisi per
evitare un cambiamento socio-materiale – in altre parole, per evitare una
rivoluzione. La dimensione controrivoluzionaria di Trump è diventata ancora più
evidente da quando ho scritto La controrivoluzione di Trump. Ricordiamo quanto
furono grandi le proteste dopo l’uccisione di George Floyd nell’estate 2020:
sono state le più estese proteste nella storia americana degli ultimi decenni.
Le immagini della stazione di polizia in fiamme a Minneapolis hanno
profondamente spaventato la classe dirigente statunitense. Più di duemila grandi
città sono state teatro di manifestazioni e rivolte. Interi quartieri sono stati
liberati dalla polizia. È stata una protesta che ha messo in discussione
l’ordine dominante. Come ha descritto anche Idris Robinson, la folla che ha
partecipato alle proteste era molto più eterogenea rispetto al passato. Occupy
era un movimento composto perlopiù da studenti bianchi delle grandi città; BLM
(Black Lives Matter) nel 2013 e 2014 era principalmente afroamericano. Le
proteste del 2020 sono state sicuramente guidate da neri americani, ma hanno
coinvolto una moltitudine di persone. La rivolta per George Floyd ha mostrato la
possibilità di una rottura radicale. Ogni analisi della rielezione di Trump nel
2024 deve tenere conto di quella rivolta.
Seguendo Karl Korsch e Amadeo Bordiga, in La controrivoluzione di Trump descrivo
la politica di Trump come una controrivoluzione preventiva, volta a far
deragliare una potenziale rivoluzione. Il progetto è bloccare la formulazione di
una nuova visione. Impedire che prenda forma e diventi un’alternativa. Non siamo
ancora a quel punto; non abbiamo un movimento rivoluzionario, e difficilmente
sappiamo cosa significhi oggi “rivoluzione”, né teoricamente né praticamente.
Questo è, naturalmente, uno dei maggiori problemi. Ma il secondo mandato di
Trump serve soprattutto a evitare che ciò accada, a impedire l’emersione di
un’altra partizione del sensibile, come direbbe Jacques Rancière.
IL RUOLO DI MUSK QUAL È?
Centrale. La dimensione controrivoluzionaria era già evidente nel 2016, e oggi
lo è ancora di più. Come il fascismo interbellico, Trump si nutre di
disgregazione e resistenza, ma le devia verso altrove. Cerca di presentarsi come
un’alternativa a Washington D.C., come un outsider rispetto alla classe
politica, e in questo modo cerca di cannibalizzare e mediare l’enorme
insoddisfazione e paura che permeano la società americana. Vuole «prosciugare la
palude», come dice lui. Gli attacchi di Trump ai media mainstream americani,
come CNN e MSNBC, sono ora qualificati come illegali da lui stesso, parte di una
lotta contro i tribunali, e il progetto DOGE (Department of Government
Efficiency) di Musk è la forma che sta assumendo questa lotta. Nel suo primo
mandato era relativamente impreparato, anche se all’inizio aveva Stephen Bannon
al suo fianco. Ma ora è molto più preparato. Il Project 2025 della Heritage
Foundation sembra un vero e proprio manuale operativo; nel primo mese del
secondo mandato Trump ha emesso una raffica di ordini esecutivi che anticipano
espulsioni di massa e guerre commerciali. Allo stesso tempo, Musk e la sua task
force DOGE stanno facendo irruzione nella macchina dello Stato federale per
cercare modi di tagliare il bilancio statale e licenziare dipendenti pubblici.
L’obiettivo è minare il funzionamento standard dello Stato americano.
L’amministrazione americana deve essere distrutta, sia concretamente sia
simbolicamente.
Il contributo di Trump al movimento controrivoluzionario è che esiste una sorta
di contrappeso integrato nella democrazia nazionale che permette l’introduzione
di uno stato d’emergenza. Per questo non basta rispolverare un antifascismo
d’altri tempi che si oppone al fascismo e alla democrazia nazionale. Dobbiamo
anche parlare di capitalismo – come ha detto emblematicamente Horkheimer nel
1939 – e di anticapitalismo. Ecco perché insisto nell’includere l’intero nuovo
ciclo di proteste dal 2011 in poi. Una delle costanti di queste proteste è il
rifiuto della violenza poliziesca. Molte proteste sono scoppiate dopo
l’uccisione da parte della polizia dell’ennesima persona proletaria. Abbiamo una
sequenza che va da Mohamed Bouazizi in Tunisia nel 2010 a Mark Duggan in
Inghilterra nel 2011, da Eric Garner negli Stati Uniti nel 2014 a George Floyd
nel 2020, Giovanni López in Messico nello stesso anno, fino a Nahel Merzouk in
Francia nel 2023. Le nuove proteste rifiutano l’apparato repressivo dello Stato.
Anche perché, più le economie si restringono, più devono controllare chi è
destinato a sopravvivere ai margini delle stesse. Oggi, sempre più proletari si
scontrano direttamente con lo Stato.
P
erò abbiamo tutti grande difficoltà nel dire Trump un fascista, se guardiamo ai
leader del fascismo della prima metà del Novecento.
Se confrontiamo Trump con i leader fascisti interbellici come Hitler e
Mussolini, Trump appare stranamente vuoto. È così contraddittorio che è
difficile attribuirgli una ideologia politica coerente. Naturalmente dobbiamo
ricordare che anche il fascismo interbellico era già caratterizzato da
contraddizioni e frammentazioni. Il fascismo era sia moderno sia nostalgico,
prendeva in prestito elementi estetici dal movimento operaio pur combattendolo
con ogni mezzo.
La paura del comunismo giocò un ruolo importante per Mussolini e Hitler. Ma
mentre il fascismo italiano riuscì ad assorbire buona parte dell’impulso
rivoluzionario e a parassitarlo, il nazismo tedesco era finale [Rasmussen scrive
letteralmente “was final”: intende dire che giunse al potere alla fine di un
processo di crisi durante il quale l’impulso rivoluzionario era già parzialmente
esaurito, ndr] e dovette confrontarsi con una profonda crisi economica. Ma
allora come oggi il fascismo è un fenomeno della sovrastruttura, cioè si
manifesta soprattutto come progetto politico-culturale. Ed è per questo che oggi
è così politicamente efficace. La lunga depoliticizzazione neoliberale, per cui
la democrazia rappresentativa nazionale è stata svuotata di contenuto e
trasformata in amministrazione, fornisce un terreno fertile ai nuovi fascisti,
che – come pochi altri – sanno mobilitare elettori che faticano a vedere
differenze tra i partiti tradizionali, che da decenni si alternano nell’imporre
politiche di austerità. Oggi, solo i fascisti riescono ad attivare le masse.
MA INSOMMA, QUAL È L’OBIETTIVO DI TRUMP?
Trump vuole salvare la democrazia, la vera democrazia, ovviamente. Una
democrazia che negli Stati Uniti non include tutti. Molte persone devono essere
eliminate. Devono finire a Guantanamo o semplicemente essere espulse. Perché
tutto – dai migranti agli attivisti pro-Palestina – è una minaccia per la
democrazia americana, e quindi va deportato. È per questo che l’ICE (Immigration
and Customs Enforcement) detiene Mahmoud Khalil e deporta 238 venezuelani in El
Salvador, appellandosi a vecchie leggi usate solo in tempi di guerra, per
esempio durante la Seconda guerra mondiale. Con Claude Lefort possiamo
comprendere il fenomeno Trump come una risposta totalitaria al paradosso
fondamentale della democrazia: il fatto che il luogo del potere sia vuoto. La
democrazia è caratterizzata dalla sospensione di ogni nozione tradizionale di
gerarchia naturale e di criteri di inclusione. Quando si decapita il re, nessuno
può più rivendicare un diritto speciale al potere. Ma in situazioni di crisi,
questo vuoto diventa un problema, che si tenta di risolvere attraverso una
scorciatoia totalitaria, per cui un leader invoca un principio di
identificazione per colmare quel vuoto.
È ciò che vediamo nella retorica stranamente autoerotica che Trump articola
costantemente: Trump è ricco quindi può rendere forte l’America; l’America è
forte perché Trump è forte e sa fare buoni affari; gli americani amano Trump
perché è forte; gli altri stanno imbrogliando l’America, quindi Trump deve
ripulire e costruire muri; Trump è accusato di tutto perché gli altri vogliono
mantenere l’America debole, ecc. L’America è la comunità immaginaria che
permette a Trump di unire gli opposti. Riesce a rappresentare sia gran parte
della classe operaia americana, sia quella che Davis ha chiamato «classe media
lumpen», che trae reddito da immobili, casinò, compagnie di sicurezza e prestiti
privati, e ovviamente parti significative della classe capitalista come quella a
capo dell’industria dell’energia, delle armi e ora della tecnologia. Parla a
tutti quei lavoratori che si identificano nell’immagine del lavoratore bianco,
anche se non sono razzializzati come bianchi.
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