La velocità con cui Alberto Stefani, nuovo governatore leghista del Veneto, ha
varato la prima giunta del dopo-Zaia non è sufficiente a dissipare nuvole e
criticità di un parto politico-amministrativo pur accompagnato da larghi sorrisi
al momento dell’annuncio, dato in conferenza stampa a Venezia. Il numero degli
incarichi aumenta, la Lega pareggia il conto delle poltrone grazie ad un paio di
“deleghe” specifiche, mentre i Fratelli d’Italia dimostrano di non essere
riusciti a proporre una candidatura di valore per la Sanità, posto che era loro
destinato dagli accordi preelettorali. In termini interni alla Lega si può dire
che il ministro Matteo Salvini piazza un proprio uomo di peso come il
sottosegretario Massimo Bitonci, ma Luca Zaia si consola tenendo in giunta la
sua ex vicepresidente. Quasi un pareggio.
GLI INCARICHI AUMENTANO DEL 50%
Nella giunta precedente gli assessori erano 8, adesso le poltrone sono diventate
12, 4 in più se si considera che ai 10 nuovi titolari si aggiungono due
consiglieri con delega speciale. Con qualche anomalia, perché Elisa De Berti
avendo già fatto due mandati non poteva diventare nuovamente assessore, ma per
lei si aprirà la prospettiva della nuova carica di sottosegretario. Gino Gerosa,
professore di cardiochirurgia dell’ospedale di Padova e cardiochirurgo di fama
internazionale, è il nome più prestigioso, anche se non è un politico, e si
occuperà di Sanità, un pacchetto che in bilancio vale quasi 11 miliardi di euro.
I LEGHISTI
La squadra della Lega (che a novembre ha ottenuto il 36,28 per cento dei voti)
avrà cinque nomi: il sottosegretario al ministero delle Imprese e del Made in
Italy Massimo Bitonci, ex sindaco di Padova, per Imprese, commercio, innovazione
e sburocratizzazione; la sindaca di Ponte di Piave, Paola Roma, per Sociale,
abitare e sport; l’ex sindaco di Orgiano, Marco Zecchinato, per Rapporti
internazionali, urbanistica e identità veneta. Vanno poi aggiunte De Berti che
mantiene – da consigliere delegato – le Infrastrutture, con l’aggiunta
dell’attuazione del programma di governo che le garantirà una presenza pressoché
costante in giunta. Ultima scelta è quella dell’insegnante vicentina Morena
Martini, per la promozione della partecipazione giovanile alla politica.
LA SQUADRA DI FDI
Sul fronte di Fratelli d’Italia (che alle elezioni hanno dimezzato i consensi
con il 18,69 per cento) troviamo, da vicepresidente, l’ex capogruppo Luca
Pavanetto (che avrà anche Turismo e Lavoro), mentre l’ex assessore Valeria
Mantovan si occuperà di Istruzione, formazione e cultura. Gli altri tre sono:
Dario Bond per Agricoltura, Politiche venatorie e aree montane, Filippo Giacinti
per il Bilancio e Diego Ruzza per Trasporti e mobilità. Chiude l’elenco Elisa
Venturini (Ambiente e protezione civile) che segna il ritorno in giunta di Forza
Italia.
LA SANITÀ TRA PUBBLICO E PRIVATO
La scelta del professor Gerosa alla sanità ha risolto molti dei problemi della
maggioranza. Fratelli d’Italia non è riuscita a produrre un nome di valore e
quindi si è vista sfilare l’assessorato di maggior peso a favore di un tecnico.
“È una scelta di altissima qualità” ha detto Stefani. Eppure si tratterà di
verificare se un’eccellenza chirurgica saprà far funzionare la macchina
amministrativa della sanità pubblica. “A mio giudizio si tratta di un
parafulmine per il potere politico, con una sanità sempre più sbilanciata verso
il privato: potranno sempre dire che le scelte saranno di natura tecnica”
commenta il neo consigliere Carlo Cunegato di Alleanza Verdi Sinistra. Il nome
di Gerosa ha coperto il vuoto propositivo dei Fratelli d’Italia, che avevano
ottenuto il boccone più ghiotto, forti della supremazia elettorale alle Europee
2024, anche se poi sono stati ribaltati dalla Lega. La Sanità è così stata
sfilata dall’elenco degli assessori meloniani, che sono tuttavia rimasti cinque.
La continuità con il passato zaiano potrebbe essere garantita per la Lega dalla
presidenza della Commissione salute, nel caso fosse affidata all’ex assessore
Manuela Lanzarin.
SALVINI PIAZZA BITONCI
La scelta di Gerosa ha comportato la riduzione per i leghisti a soli tre
assessorati, che si sono rifatti con le due consigliere delegate, mantenendo il
controllo delle Infrastrutture. La lettura politica mostra come Stefani, già
plenipotenziario di Matteo Salvini in Veneto, accentui il controllo del
segretario federale sulla Regione. La scelta di Bitonci, che lascia il governo
nazionale, è un evidente contrappeso allo strapotere elettorale di Zaia, che ha
ottenuto 200 mila preferenze, un modo per girare pagina rispetto ai tre mandati
dell’ex governatore. Quest’ultimo verrà probabilmente eletto presidente del
Consiglio regionale la prossima settimana, anche se poi potrebbe optare per
finire in Parlamento al posto di Stefani o di Bitonci quando si terranno le
elezioni suppletive.
SOCIALE E AUTOSTRADE
Presentando la giunta, Stefani ha sottolineato di aver puntato sulla “qualità”
degli assessori e sulla loro competenza amministrativo. Ha annunciato di voler
puntare sugli interventi sociali e a favore della popolazione anziana, il che
spalanca prospettive inedite in materia di case di riposo e di assistenza alla
popolazione sempre più vecchia. Ha però anche fatto capire come le
infrastrutture subiranno un’accelerazione. Ad esempio il controverso progetto di
far proseguire verso Trento l’autostrada Valdastico è stato indicato come uno
dei punti del programma. “Ho già incontrato il presidente del trentino Maurizio
Fugatti e a gennaio andremo al Ministero delle infrastrutture a discutere della
Valdastico e di una holding autostradale a Nordest”. Affari e cantieri, come nel
caso delle Olimpiadi Milano Cortina 2026, l’eredità di Zaia che non è stata
nemmeno citata.
L'articolo Veneto, Stefani presenta la sua giunta: alla Sanità il cardiochirurgo
Gerosa. E da Roma arriva il sottosegretario Bitonci proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Tag - Lega
Come prevedibile, alla fine la Lega dirà sì all’invio di armi italiane in
Ucraina anche nel 2026. Lo farà trattando con Giorgia Meloni sul testo e
ottenendo di condizionare gli aiuti all’andamento delle trattative di pace, ma
la sostanza non cambia e stride con gli annunci leghisti degli ultimi mesi. Da
Matteo Salvini in giù, a parole infatti il Carroccio si dice da tempo
contrarissimo al riarmo e all’invio di nuove armi. Alla vigilia del nuovo
decreto, è utile un resumé delle promesse mancate leghiste.
“Lasciamo che Trump, Zelensky e Putin lavorino per la pace e per fermare le armi
e blocchino quelli che anche in Europa, invece, hanno tutto l’interesse a
continuare a costruire e vendere armi e allungare la guerra. Sapere che
centinaia di milioni di dollari non sarebbero finite per salvare bimbi o
difendere gli ucraini, ma per ville di lusso, conti all’estero e chissà
cos’altro d uomini vicino a Zelensky ci impone estrema cautela” (Matteo Salvini,
29.11).
“Non è con le armi che finisce la guerra e non è così che intendiamo andare
avanti. Per il futuro chiediamo chiarezza” (Matteo Salvini, 18.11).
“La strategia di infiniti giri di sanzioni e di continuo invio di armi non
risolve la situazione. Bisogna affrontare la questione con sano realismo.
Crediamo che il governo italiano debba interrogarsi seriamente sui finanziamenti
all’Ucraina per rispetto degli italiani. D’altra parte noi pensiamo che
continuare a mandare armi in Ucraina, ipotizzando che possa recuperare i
territori perduti, sia una speranza piuttosto inverosimile” (Silvia Sardone,
14.11).
“Tutti noi auspichiamo la fine della guerra il prima possibile, ma l’invio di
armi non sembra andare in questa direzione” (Stefania Pucciarelli, 14.11).
“Più armi produciamo e inviamo più la guerra va avanti” (Matteo Salvini, 10.11).
“Non servono nuovi missili ma nuovi tavoli come in Medio Oriente” (Matteo
Salvini, 10.10).
“Se dobbiamo fare altro debito, facciamolo per difendere famiglie e imprese dal
caro bollette e tagliare le tasse, costruire ospedali e difendere i confini dai
clandestini. Non certo per acquistare 800 miliardi di euro di armi, o spendere
altri 40 miliardi di euro in Ucraina”. (Alberto Bagnai, 17. 03).
“A sinistra parlano di armi e tasse patrimoniali, la Lega chiede Pace, serenità
e lavoro” (Lega, 7. 03).
L'articolo Armi all’Ucraina, la Lega verso il sì anche per il 2026. Ecco tutte
le volte che Salvini&Co hanno detto “basta” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Lega insiste sul no a un nuovo invio di armi all’Ucraina e lo scontro interno
al governo di Giorgia Meloni si fa sempre più evidente. Martedì sera era stato
lo stesso vicepremier e leader del Carroccio a ribadire la posizione: “Io non
tolgo soldi alla sanità italiana per fare andare avanti una guerra che è persa“,
ha detto Matteo Salvini in un collegamento televisivo a poche ore dall’incontro
a Palazzo Chigi tra la premier e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Così
mentre Meloni assicura a Kiev che “l’Italia continuerà a fare la sua parte”, la
Lega si oppone.
Poche ore dopo scende in campo un altro big del partito, il capogruppo del
Carroccio al Senato: “Sarebbe bene, vista la situazione attuale, attendere
l’evoluzione delle trattative in corso sul piano di pace Usa così da poter
definire un provvedimento pienamente coerente con il percorso diplomatico
intrapreso e in grado di includere le garanzie di sicurezza per l’Ucraina che
emergeranno dal negoziato internazionale”, ha detto Massimiliano Romeo,
interpellato da Affaritaliani. Posizione confermata in un’intervista al Foglio,
nella quale Romeo sottolinea che “non c’è alcuna fretta, non vedo ragioni per
correre” sul prolungamento per tutto il 2026 degli aiuti militari all’Ucraina:
“Continueremo a sostenere Kiev, senza dubbio, ma il ‘come’ diventa ovviamente
determinante”, spiega. Capogruppo della Lega che contesta anche il concetto di
“pace giusta“, ribadito anche ieri dalla stessa Meloni dopo l’incontro con
Zelensky: “Quando ne sento parlare resto sempre un po’ così. È un concetto che
non mi convince. Esiste la pace possibile, quella che si può fare. E per questo
credo che bisognerebbe ispirarsi di più al pragmatismo“.
L’opposizione interna al governo della Lega ha già prodotto i primi risultati:
pochi giorni fa era slittato il voto in Consiglio dei ministri sul decreto per
inviare pacchetti militari a Kiev. Nonostante questo Meloni e l’altro
vicepremier Antonio Tajani continuano ad assicurare che entro la fine del mese
arriverà l’ok al decreto per la proroga per tutto il 2026 dell’autorizzazione
all’invio di armi a Kiev.
Intanto anche l’eurodeputato della Lega Roberto Vannacci concorda con la
posizione di Romeo: “Siamo in un momento topico del conflitto, secondo me
dobbiamo aspettare di avere una situazione più chiara. Rischiamo di approvare un
decreto che poi tra un mese decade perché la situazione è totalmente cambiata”,
ha detto il vicesegretario del Carroccio. Vannacci si spinge oltre e parla anche
dell’allarme sui droni russi: “Ci dicono che con i droni stanno invadendo l’Ue.
Ma non li catturano mai questi droni? Non abbiamo una prova tangibile“. Per l’ex
generale “c’è una propaganda occidentale molto aggressiva. L’Occidente che ha i
sistemi anti-droni più avanzati del mondo. Possibile che non ne abbiamo
catturato uno?”. Per Vannacci, “l’alternativa” alla pace ragionevole in Ucraina
è “andare a combattere e a morire per Kiev. Perché l’Ucraina non ce la fa e non
serve un generale a dirlo, basta guardare gli indicatori. Solo nel 2025 sono
stati 160mila i giovani che sono scappati dall’Ucraina per evitare il fronte”.
Quindi, chiede: “Cosa facciamo?”.
L'articolo Armi a Kiev, la Lega blocca il governo e congela il decreto: “Prima
le trattative”. Vannacci: “Pericolo droni? Propaganda” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Dio, patria e famiglia non è uno slogan ma il credo che guida la nostra azione
politica”. Lo ha detto al termine del proprio intervento il leghista Rossano
Sasso, poco prima del voto che ha dato il via libera al disegno di legge
Valditara, che riguarda l’educazione sessuo-affettiva e il consenso informato a
scuola. Alle medie e alle superiori si richiede per l’educazione sessuale il
consenso dei genitori dei minorenni. “Il centrosinistra vuole sostituire le
famiglie, perché le ritiene incapaci di educare i figli, con lo Stato, esperti e
attivisti ideologici. Il vostro modello è l’Iran”.
L'articolo “Dio, patria e famiglia non è uno slogan ma un credo”, l’intervento
dell’ultra-leghista Sasso in Aula – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
Se siete mai stati al pratone di Pontida nei giorni in cui è preso d’assalto dai
vessilli col leone di Venezia e dalle spade levate al cielo di Alberto da
Giussano, per ore in sottofondo, instancabile ma affaticata, al microfono avete
senz’altro sentito la sua voce. Speaker per anni alla festa del Carroccio, ad
annunciare il capo, Umberto Bossi, e poi Roberto Maroni e, infine, Matteo
Salvini, finché il definito corso di respiro nazionale, lontano dalle origini,
lo ha costretto lontano dal palco. Leghista della primissima ora, un passato da
ultras della Dea, l’Atalanta, è politico di riferimento di Bergamo e della
Bergamasca, dove il fondatore aveva individuato i fucili pronti a opporsi alla
fu Roma ladrona. Dopo qualche annetto di silenzio ora Daniele Belotti è tornato,
complice l’elezione nella segreteria regionale (perché sì, tocca rispolverare il
passato per riportare al voto i disillusi). Ed è tornato, tra le altre cose, con
un libro autoprodotto, dall’autoironico titolo L’onorevole mononeurico – e
dall’accattivante sottotitolo Quello che nessuno ha mai rivelato sul
“postribolo” di Montecitorio – che racconta la sua prima e fin qui unica
esperienza da parlamentare della Repubblica.
Il volume di Belotti (che non vi consigliamo di leggere, così lui sarà contento,
considerato il precedente del suo non-tanto-amico Roberto Vannacci) ha un
pregio. E di questo Belotti è consapevole. Parla all’uomo da Bar Sport,
incarnando Belotti le istanze e il carattere dello stesso: l’uomo medio,
incazzato, con la Rosa in mano, la sigaretta nell’altra (forse), che tra un
commento e l’altro sulla propria squadra del cuore tira fuori un apprezzamento
sull’ultima showgirl che passa in quel momento alla tv. L’uomo che difficilmente
trova spazio sui giornali, ma che vota (Belotti, tra gli altri). Presente il
Pojana di Andrea Pennacchi? È qualcosa di simile, ma più godereccio e con meno
ossessione per il lavoro.
L’esperienza di cui narra il politico bergamasco – con molta autoironia – è
quella della legislatura 2018-2022, quella del Conte 1 e del Conte 2 (il
racconto del libro termina prima della fine della legislatura). E tutto,
letteralmente tutto, è filtrato attraverso gli occhi del pallone (da calcio),
delle dimensioni del pene (dell’autore e dei colleghi parlamentari) e della
vulva (il cui centro, in Transatlantico, stando al racconto di Belotti, è il
divanetto di Vittorio Sgarbi). E così nei primissimi capitoli l’ingresso
nell’Aula di Montecitorio è paragonato all’ingresso nello stadio, i banchi dei
parlamentari sono gli anelli degli impianti. C’è il tifo e ci sono gli insulti.
Tanto che lo stesso Belotti si renderà protagonista di una (sfiorata) rissa,
rimasta memorabile, con annessa rottura di una sedia e scontro col fisicamente
titanico Emanuele Fiano del Pd.
L’esponente della Lega, definendo il Parlamento un “postribolo politico” ed
elencando le specie che lo abitano (l’onorevole paguro, il crostone, lo sfigato,
il chihuahua, il criceto “e altre sottocaste”), si rivolge agli
“istituzionalisti, radical chic, politicamente corretti e acculturati vari: non
prendetevela con il barbaro e non scandalizzatevi per il linguaggio” perché “ci
sono ancora grezzi e rozzi uomini che abitano i Bar Sport di provincia parlando
di f… e pallone“. Di Montecitorio descrive il clima “da funerale”, quando dopo
il voto non si riesce a formare il governo e i parlamentari temono così
follemente il ritorno alle urne (e, dunque, di perdere il posto) che in massa,
pur di ammortizzare i costi dell’assicurazione obbligatoria, hanno prenotato i
nuovi “impianti di onorevoli dentiere“. E poi lo straniamento quando a prendere
la parola in Aula, per la Lega, sono Sasso da Bari, Cantalamessa da Napoli,
Furgiuele da Lamezia Terme e così via. Quando tocca a quest’ultimo e “nel
solenne Emiciclo risuona un vago accento calabro maghrebino, il gallico viene
portato in infermeria causa mancamento“. E ancora: le tresche tra parlamentari
di diversi partiti, la tensione per l’aumento dei prezzi alla buvette, il
ritorno del centrodestra unito dopo la fine del Conte 1. Ma come non manca di
sottolineare il nostro eroe: “Meglio, in Forza Italia c’è più f… che nei 5
stelle”. Bar Sport, Belotti. Un bel bagno di realtà.
Mail: a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it
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L'articolo “Vi svelo il ‘postribolo’ del Parlamento”: il libro dell’ex deputato
della Lega sui vizi e retroscena di Montecitorio proviene da Il Fatto
Quotidiano.
I risultati del censimento nazionale dei dispositivi di controllo della velocità
sono online e consultabili sul sito del ministero dei Trasporti. E hanno portato
alla luce dati che smentiscono definitivamente la narrativa diffusa anche dallo
stesso ministro dei Trasporti, Matteo Salvini. Che per anni ha dipinto l’Italia
come leader mondiale dei controlli stradali, parlando di “giungla degli
autovelox”. La pubblicazione dell’elenco ufficiale dei dispositivi e sistemi di
rilevamento della velocità autorizzati dal ministero dei Trasporti, giunta dopo
la scadenza del 28 novembre per la comunicazione dei dati, invece, offre una
visione dell’arsenale di misuratori ben diversa dagli 11 mila o più autovelox:
“Il 10% degli autovelox di tutto il mondo”, ha twittato Salvini tante volte. Il
suo censimento ha stabilito che ce n’è appena un terzo. Al contrario, i veri
problemi erano già noti. Come la famosa “omologazione”, ma la soluzione ancora
non c’è.
I risultati del censimento – Il D.M. n. 367 del 29 settembre di Salvini aveva
imposto alle amministrazioni locali di comunicare entro 60 giorni tutti i
dettagli necessari degli apparecchi: marca, modello, matricola, estremi di
approvazione e collocazione. La comunicazione è condizione necessaria per il
loro legittimo utilizzo. Gli enti locali e le forze dell’ordine che non hanno
inviato i dettagli tecnici sulla piattaforma telematica del ministero devono
spegnere gli apparecchi dal 29 novembre, altrimenti le multe saranno nulle. Ma
quanti sono gli autovelox? Secondo i primi dati elaborati dall’Associazione
sostenitori e amici della Polizia stradale (Asaps) e dall’Associazione Lorenzo
Guarnieri (ALG), il numero totale di apparati di controllo della velocità,
inclusi fissi, mobili e in movimento, presenti in Italia è di 3.625. Altro che
11.000 e addirittura 13.000 autovelox, numeri che ponevano l’Italia al primo
posto nel mondo per i controlli di velocità, come il leader leghista non perdeva
occasione di ricordare. Asaps e ALG hanno commentato che “non siamo i primi al
mondo per i controlli della velocità”, aggiungendo che l’Italia ha probabilmente
meno autovelox di Francia e Inghilterra, e in proporzione al numero di abitanti
e auto, anche meno di Svizzera e Austria. I dati mostrano che la maggior parte
(3.038) è gestita da Polizie Locali, Provinciali e Città Metropolitane, mentre
la Polizia Stradale ne controlla 586, compresi i Tutor autostradali, strumenti
che hanno contribuito a ridurre sinistri, morti e feriti sulle tratte a velocità
più elevata.
Quando Salvini dava i numeri – Già prima del censimento, però, le statistiche
utilizzate dal leader leghista apparivano poco attendibili e tuttavia le
utilizzava per giustificare la stretta sugli autovelox inserita nella riforma
del Codice della strada. Salvini ha ripetuto che “non è possibile che in Italia
ci sia il 10 per cento degli autovelox di tutto il mondo” per difendere
l’obiettivo di controlli meno severi, accusando alcuni sindaci di vedere gli
automobilisti come “un pollo da spennare”. L’origine della statistica che
parlava di oltre 11 mila dispositivi in Italia, aveva indagato già nel 2024
Pagella politica, tra gli altri, usciva da un comunicato stampa del Codacons
basato sui dati della piattaforma specializzata “Scdb.info”, che raccoglie
informazioni principalmente tramite le segnalazioni degli utenti e “su un
veicolo di Scdb.info, che circola per le strade in cerca di rilevatori della
velocità”. Un dato puramente indicativo e risultato inaffidabile, tratto da una
lista non esaustiva e con un metodo di raccolta basato su segnalazioni che
distorce i risultati, anche lasciando fuori intere nazioni o registrando numeri
irrisori in paesi vasti e popolosi. Alla luce del censimento, quel dato sembra
oggi ancora più fuorviante. Asaps e ALG chiedono adesso dove si trovino ora
tutti quegli “autovelox truffa” apparsi sulla stampa, ribadendo che tutti gli
apparecchi fissi sono comunque autorizzati dalle Prefetture, istituzioni che
rappresentano il governo a livello territoriale.
Omologazione e altri problemi irrisolti – Nonostante la sua “guerra” contro gli
autovelox, Salvini non è ancora intervenuto sul nodo dell’omologazione. Il
problema è complesso e riguarda sia gli apparecchi comunali sia quelli della
Polizia stradale: in Italia nessun autovelox è formalmente omologato, dato che
l’iter e i criteri di omologazione non sono mai stati stabiliti e manca ancora
il necessario decreto attuativo. La questione riguarda sia gli apparecchi
comunali sia quelli della Polizia stradale. Le pronunce della Corte di
Cassazione annullano sempre più sanzioni emesse con autovelox autorizzati ma non
omologati. Oggi, quasi il 60% degli apparecchi fissi e oltre il 67% di quelli
mobili, oltre a non essere omologato, è stato approvato prima del 2017, anno
spartiacque che alimenta la “valanga di ricorsi”. Lo stallo persiste nonostante
uno studio scientifico dell’Università di Firenze abbia evidenziato che gli
autovelox sono strumenti utili per la sicurezza stradale e riducono gli
incidenti con conseguenze mortali tra il 15% e il 26%. Per dirla col presidente
dell’Associazione Lorenzo Guarnieri, “gli autovelox non servono a far cassa ma a
salvare vite”. Salvini, che ha spesso utilizzato il termine “omologazione”, non
ha risolto la questione: a marzo scorso aveva annunciato un decreto per
dichiarare omologati gli autovelox approvati dal 2017 in poi, salvo poi
ordinarne il ritiro due giorni dopo. Per non parlare delle possibili
alternative, efficaci e già adottate in altri Paesi, come il semaforo dissuasore
o i “cuscini rallentatori” per l’ambito urbano, che potrebbero migliorare la
sicurezza, in particolare per pedoni e ciclisti, ma che da noi non si vedono
perché il solito ministro non ne ha normato l’uso.
L'articolo Il grande bluff degli Autovelox, Salvini smentito dal suo stesso
censimento. Ecco i dati reali (e i problemi veri) proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Dopo la vittoria della Lega in Veneto, sulle ali di Luca Zaia e delle sue
203mila preferenze, nel Carroccio il trono di Matteo Salvini appare meno solido.
Ora un sondaggio nazionale firmato Youtrend suona il campanello d’allarme per il
segretario e la tenuta della sua leadership. Tra gli italiani infatti c’è più
fiducia in Luca Zaia che in Matteo Salvini e Roberto Vannacci: il 31% del
campione ha espresso “molta o abbastanza fiducia” verso l’ex governatore; solo
il 21 per cento (12 punti indietro) ha indicato la preferenza per il
vicepremier. Rispetto ai due leader, resta indietro il generale e vicesegretario
del Carroccio: il 16 per cento degli intervistati ha “molta o abbastanza
fiducia” in lui. I tre volti della Lega esprimono anime diverse: pragmatica nel
caso di Zaia, populista e orientata a destra per Salvini e Vannacci. Di
quest’ultimo, sono noti gli ammiccamenti al fascismo. Il 9 novembre, a ridosso
delle elezioni in Veneto il generale ha scritto su Facebook che la marcia su
Roma “non fu un colpo di Stato”, sollevando le ire della Lega in Veneto.
IL SONDAGGIO: PIÙ FIDUCIA IN ZAIA CHE SALVINI. L’EX GOVERNATORE PIACE ANCHE
ALL’OPPOSIZIONE
Il sondaggio è stato realizzato tra il 18 e il 22 novembre 2025 su un campione
di 804 persone intervistate, rappresentative dell’elettorato italiano. Se Zaia
diventasse il leader nazionale della Lega, per il 23% degli elettori italiani la
probabilità di votare per il Carroccio aumenterebbe e per l’8% diminuirebbe
rispetto ad oggi; per la metà del campione (il 51%) non cambierebbe nulla mentre
il 18% è incerto. Con Vannacci leader, al contrario, per il 10% questa
probabilità aumenterebbe e per il 27% diminuirebbe. Tuttavia Matteo Salvini
rimane il nome più noto tra gli elettori. Il 95% degli intervistati dice di
sapere chi sia, Zaia è conosciuto dal 77% del campione. Poco sotto Roberto
Vannacci, al 71%.
Il leader veneto, a differenza di Salvini, non è mal visto neppure a sinistra.
Solo il 5 per cento degli elettori del campo largo ha fiducia nel segretario
leghista. Per Zaia invece la quota sale ben al 33 per cento: a sinistra, quasi
uno su tre non disdegna l’uomo del nordest. I risultati cambiano tra gli
elettori di destra: la fiducia in Salvini sale al 57 per cento, quella per Zaia
si attesta al 49 per cento; Vannacci ottiene il 37%.
ZAIA VS VANNACCI IN VENETO
Dopo due mandati da governatore, il Veneto è il feudo di Zaia. Youtrend ha
confrontato i risultati nelle circoscrizioni venete ottenuti dall’ex presidente
(nelle ultime elezioni regionali) rispetto ai voti incassati da Vannacci (nella
tornata delle Europee): il primo ha ricevuto più preferenze nel 95% dei comuni
(532 su 560). In tutti i sette capoluoghi del Veneto Zaia ha ottenuto tra 2 e 3
volte le preferenze del generale, mentre quest’ultimo ne ha prese di più in
appena 26 comuni, principalmente nel Cadore e sull’Altopiano di Asiago. I due
soli (piccoli) comuni dove Zaia e Vannacci sono pari come numero di preferenze
sono Piacenza d’Adige (Padova) e San Nicolò di Comelico (Belluno).
L'articolo Sondaggi, chi ispira più fiducia tra Salvini e Zaia? A destra piace
più il ministro, ma l’ex governatore attirerebbe nuovi elettori proviene da Il
Fatto Quotidiano.
È racchiuso in 203.054 preferenze il plebiscito di Luca Zaia, governatore veneto
che non si è rassegnato alla conclusione di tre lustri di potere. Aveva
fortissimamente voluto restare in sella per la quarta volta. La legge glielo ha
impedito. Avrebbe voluto una lista con il proprio nome, ma gli alleati di
centrodestra non l’hanno consentito. Si è così candidato come capolista in tutte
le sette circoscrizioni del Veneto e ha raccolto una pioggia di voti. Per
l’appunto più di 200mila preferenze su un totale di 607.220 voti raccolti dalla
Lega. Un leghista su tre lo ha scelto, pur sapendo che il suo destino (al di là
delle dichiarazioni di convenienza) non sarà legato al nuovo consiglio regionale
di cui è entrato a far parte. Il numero di preferenze equivale a un elettore su
sei del centrodestra, visto che il neo eletto Alberto Stefani ha ottenuto un
milione 211mila e 356 voti, pari al 64,39 per cento di chi è andato alle urne.
Siccome nella lista si potevano indicare solo due nomi, un candidato uomo e una
candidata donna, la presenza di Zaia ha comunque provocato delusioni e
bocciature per non pochi degli altri candidati leghisti, rimasti fuori
dall’elenco dei 19 eletti dal partito.
IL FATTORE Z. PROVOCA IL RIBALTONE
I numeri disegnano la forza di traino che il fattore Z. ha portato in queste
elezioni, consentendo alla Lega di doppiare Fratelli d’Italia, da cui era
distanziata alle europee del 2024: 13,15 per cento al partito di Salvini, 37,58
per cento al partito di Meloni. Adesso la Lega è al 36,28 per cento, il doppio
del 18,69 per cento di FdI, infatti i seggi dei padani sono 19 quelli del
partito di governo solo 9, mentre le aspettative del coordinatore regionale Luca
De Carlo erano esattamente opposte. Zaia con 203.054 preferenze ha ottenuto più
voti di tutti gli altri leghisti e leghiste messi assieme. Le donne hanno
registrato 99.756 preferenze, gli uomini 97.793 voti, comunque al di sotto di
quota 200 mila. È solo così che gli uomini (Zaia compreso) hanno contato 298.847
preferenze, circa la metà dei 607 mila voti della Lega, il che significa che
metà dell’elettorato si è accontentato di mettere una croce sul simbolo, senza
esprimere una preferenza individuale, a dimostrazione che il simbolo della Lega
gode di una attrattiva che esula da quella dello stesso ex governatore.
TREVISO LA ROCCAFORTE
Zaia ha costruito il proprio successo personale, a costo di cannibalizzare la
Lega, a partire dalla provincia di Treviso dove ha ottenuto 48.253 preferenze e
la Lega ha raggiunto il 40,78 per cento. Lì i padani hanno registrato 127.882
voti, pari al 40,78 per cento. Le preferenze attribuite a un candidato-donna
sono state 21.088, agli altri uomini 18.438. Lo strapotere di Zaia ha fatto
qualche vittima illustre, come l’ex portavoce dell’intergruppo leghista in
consiglio regionale Alberto Villanova. Secondo feudo, la provincia di Vicenza,
con 44.252 preferenze su 119.680 voti leghisti. Anche in questo caso gli altri
candidati non hanno preso tutti assieme i voti di Zaia, con il risultato di
un’esclusione eccellente, quella di Roberto Ciambetti, con alle spalle quattro
legislature, di cui due da presidente del consiglio regionale. Zaia ha raccolto
nelle altre province venete le seguenti preferenze: 35.701 a Padova, 32.961 a
Venezia, 29.078 a Verona, 6.883 a Rovigo e 5.926 a Belluno.
“HO VOLUTO QUESTA PROVA”
Il governatore uscente ha spiegato così la sua soddisfazione. “Mi si apre il
cuore. Mi sono messo a disposizione perché Alberto Stefani mi aveva chiesto se
gli davo una mano. Ho voluto questo banco di prova. Penso a un segno di
vicinanza e ringraziamento, dopo quindici anni e mezzo i cittadini mi vogliono
ancora bene”. Ha una spiegazione anche per la bassa affluenza, considerando che
su 4 milioni 294 mila elettori, sono andati a votare solo un milione 917 mila
cittadini, mentre 2 milioni e 377 mila sono rimasti a casa. Naturalmente la
lettura è centrata su se stesso e non sulla disaffezione generale per effetto di
una gestione della politica veneta non soddisfacente: “Molti si sono arrabbiati
per il trattamento che ho avuto, il terzo mandato negato, il no alla Lista Zaia.
L’avevo detto: la Lista Zaia non essendo un soggetto politico avrebbe portato
più gente a votare e avremmo avuto più consiglieri di maggioranza”.
Glissa, come ha fatto in questi mesi, sul suo futuro. Non sa se farà il
presidente del consiglio regionale, impegno che non sembra gradire, visto che
richiederebbe una presenza continua nell’assemblea dove da governatore negli
ultimi cinque anni si è presentato solo per una manciata di sedute, con un tasso
di assenteismo del 94 per cento. Non sa neanche se farà l’assessore, ma la sua
presenza sarebbe molto ingombrante per il neo eletto Stefani, che sentirebbe sul
collo il fiato del predecessore. Una cosa però aggiunge, a dimostrazione di come
le sue ambizioni non siano ancora finite nel cassetto: “Non ho avuto paura di
misurarmi con l’elettorato e ora sono perfettamente ricandidabile alla
presidenza della Regione. È questa l’assurdità della legge che non hanno voluto
cambiare”. Non ha digerito il boccone amaro e sembra dimenticare che se è
formalmente rieleggibile occorre attendere che vada a compimento la legislatura
che dura cinque anni.
Per il momento resterà in consiglio regionale, con un ruolo di padre nobile. Il
prossimo anno si terranno le elezioni del sindaco di Venezia e le supplettive
per sostituire in Parlamento il posto che sarà lasciato libero da Alberto
Stefani. Con il bagaglio di preferenze che ha ottenuto, Zaia non ha che da
chiedere. Il referendum che ha indetto sulla propria persona porterà ancora
frutti copiosi alla sua vigna che si trova nel cuore dello Zaiastan.
L'articolo In Veneto il fattore Zaia provoca il ribaltone a destra: più di
200mila preferenze personali e la Lega doppia Fdi proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Armi sì, armi no. In attesa della presentazione del dodicesimo pacchetto di armi
all’Ucraina prevista per il 2 dicembre al Copasir, la questione divide non solo
i leader dei partiti di maggioranza ma anche la base. Per rendersene conto basta
fare un giro tra i militanti che hanno riempito il teatrio Geox di Padova per la
chiusura della campagna elettorale per le regionali. “Sono assolutamente
contraria, Zelensky ci sta prendendo in giro” racconta al Fatto.it una storica
militante leghista. Nella base del Carroccio in tanti non vedono di buon occhio
l’invio di armamenti. Tra questi c’è anche un ex militare: “Sono per la difesa
dei popoli ma se un popolo continua a mandare i suoi cittadini in guerra, io non
sono d’accordo a mandare le armi in Ucraina, servirebbe sedersi a un tavolo e
finire tutto”. Se ci si sposta nella parte di teatro occupata dai sostenitori di
Giorgia Meloni l’opinione cambia. “Se non gli diamo una mano, Putin distruggerà
l’Ucraina” racconta un elettore di Fratelli d’Italia. E c’è chi sarebbe stato
disposto pure ad andare a combattere in Ucraina: “Ma ho 78 anni e non mi hanno
ascoltato” racconta sorridendo. La fiducia nella posizione della presidente del
consiglio rimane. “È un argomento molto delicato – conclude una meloniana – ma
come dice la nostra premier per la difesa è bisogna fare così purtroppo”.
L'articolo Armi a Kiev sì o no? La base del centrodestra in Veneto è divisa:
leghisti compatti per il no, militanti di FdI a favore (ma con qualche
defezione) – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
Unito sul palco, ma diviso in platea. Il centrodestra chiude la campagna
elettorale per le regionali venete al teatro Geox di Padova. Tajani, Salvini e
Meloni si abbracciano per le foto di rito di fronte a più di tremila persone e a
un mare di bandiere di blu di Fratelli d’Italia. Qui la vera sfida non sembra
essere quella con il centrosinistra. “Quella l’abbiamo già vinta” racconta con
fiducia un militante leghista. “L’obiettivo non è vincere, e lo dico con
sobrietà, umiltà e scaramanzia, ma stravincere” aggiunge Salvini dal palco. Ma
in questa terra dove dove il Carroccio faceva il pieno di voti fino a pochi anni
fa, il derby è tra Lega e Fratelli d’Italia. “Una sana competizione” dice il
responsabile dell’organizzazione di Fdi Giovanni Donzelli prima di entrare in
sala. Ma parlando con la base meloniana ancora scottata dalla mancata scelta del
suo candidato alla presidenza si è davanti a una “pseudo guerra intestina
all’interno della coalizione tra Lega e Fdi”. Da anni, il partito di Giorgia
Meloni sta conquistando terreno in Veneto proprio ai danni dei leghisti. “Noi
votavamo Lega ma adesso non più – spiega un ex elettrice del Carroccio – perché
Salvini ogni tanto fa le bizze, dice le cose bene e poi, dipende…”. In sala la
conta delle bandiere viene vinta da Fratelli d’Italia. Il vessillo blu con la
Fiamma domina in platea. Poche le bandiere della Lega, ancora meno quelle con il
leone alato di San Marco. E quando sale sul palco il “Doge” Luca Zaia sventolano
solo le bandiere leghiste, mentre quelle di Fdi e Forza Italia rimangono basse.
Nessuna standing ovation per colui che ha governato il Veneto per quindici anni.
Se ne accorge pure il leader di Noi Moderati Maurizio Lupi che all’inizio del
suo intervento ringrazia Zaia e chiede per lui un “applauso più caloroso e più
forte “. Al contrario quando è il turno della presidente del Consiglio Giorgia
Meloni, tutto il teatro si alza in piedi sventolando le bandiere della
coalizione. Stando alle bandiere presenti in sala, il derby per ora è vinto da
Fdi.
L'articolo Veneto, per i militanti a destra la sfida è tra Lega e Fdi: “Votavo
Carroccio, ma di Salvini non c’è da fidarsi”. “Chi vince? Ce la giochiamo”
proviene da Il Fatto Quotidiano.