“È chiaro che bisogna boicottare Israele. Hanno ragione quei ragazzi che lo
dicono, che protestano nelle università e che vengono assurdamente rimproverati.
Loro hanno ragione, perfettamente ragione. Sono l’ultimo baluardo della civiltà
europea“. Con questa affermazione, che nel corso del dibattito torna come un
monito e un discrimine politico, Massimo D’Alema imprime una direzione decisa e
dirimente al convegno “Piano Trump: una tregua senza pace?”, organizzato a Roma
dai deputati del Pd: riportare al centro del discorso pubblico italiano ciò che
gran parte della politica e dell’informazione omettono e che invece definisce la
sostanza tragica della crisi mediorientale.
L’ex presidente del Consiglio, oggi alla guida della Fondazione Italianieuropei,
non indulge a cautele. Parla di un “elemento di inganno verso l’opinione
pubblica“, perché ciò che si dispiega davanti agli occhi del mondo “va molto
oltre la guerra di Gaza”: è l’attuazione progressiva “di un piano della destra
israeliana che punta a una soluzione finale del conflitto”, in aperto contrasto
con l’impianto internazionale che dalla Risoluzione 242 dell’Onu in avanti
ribadisce il principio “due popoli, due Stati”. E mentre quella formula continua
a essere “ripetuta retoricamente”, ciò che avanza è “un programma progressivo di
costruzione della ‘grande Israele’ attraverso una politica di pulizia etnica che
mira in parte a espellere i palestinesi, un piano di sottomissione e
colonizzazione che punta a ridurre i palestinesi alle condizioni dei nativi
americani”.
La descrizione è circolare e implacabile: “Molti palestinesi se ne sono andati
già in questi mesi di guerra. Si calcola che la comunità palestinese emigrata in
Egitto sono circa 100mila persone. E quelli che rimangono devono restare dentro
delle enclavi sotto controllo militare israeliano, una sorta di ‘bantustan’
palestinese dentro i confini dello Stato di Israele”. Una strategia che, a
differenza del fragile paradigma internazionale dei ‘due popoli e dei due
Stati’, “viene concretamente implementata” e procede “di fronte all’impotenza o
alla complicità di tanta parte della comunità internazionale”.
L’ex premier ricorda che la violenza sui civili non appare come aberrazione
episodica, ma come tassello funzionale a un disegno: “La ferocia contro la
popolazione civile fa parte non soltanto dell’esplosione di forme brutali di
razzismo fascista, ma è in qualche modo pianificata dentro questa visione”. Un
fenomeno che, precisa, non può essere rubricato a emanazione diretta del solo
governo: “Non riguarda soltanto Netanyahu, ma riguarda una parte importante
della società israeliana, cioè i soldati che, quando attraversano sui blindati i
villaggi palestinesi, sparano ai bambini e se li colpiscono festeggiano. Non
sono Netanyahu, ma giovani israeliani, e non è neanche detto che gliel’abbiano
ordinato. Certamente sanno che se lo fanno non sono puniti”.
La denuncia si sposta poi sul fronte interno, quello dell’informazione italiana
e della sua capacità – o volontà – di raccontare la materialità della tragedia
di Gaza: “L’informazione italiana è censurata, autocensurata, evita di
raccontare le cose più terribili. Questo avviene in altri paesi meno. Se uno
andasse alla televisione italiana a leggere, e io penso che lo farò, un articolo
di Le Monde o del Guardian, verrebbe chiamato antisemita”. Da qui il primo
compito politico: “Bisogna dire all’opinione pubblica italiana quello che
accade, anche a volte raccontando episodi terribili ma significativi. In altri
paesi c’è una maggiore informazione vera, da noi meno e credo questo sia un
primo problema. Noi non possiamo confidare sui governi“.
La sua analisi segna una distanza abissale tra l’Europa di ieri e quella di
oggi: “Prima l’Unione Europea c’era, oggi non c’è più“. La Ue che negli anni
Novanta consentì all’Italia di giocare un ruolo autonomo nelle conferenze di
pace non esiste più: “I governi europei sono un’immagine penosa. Qualche giorno
fa il governo tedesco, di cui fa parte la socialdemocrazia, ha deciso, dato che
c’è la tregua, di riprendere la fornitura di armi a Israele. È difficile
commentare cose di questo tipo”. L’evocazione di quell’Europa “che ci dette la
forza di fare cose che oggi purtroppo non sono pensabili” è insieme memoria e
atto d’accusa.
Nell’assenza di una politica capace di orientare gli eventi, la responsabilità
spetta ai cittadini. Il boicottaggio assume quindi la statura di una scelta
morale e strategica: l’episodio che l’ex presidente del Consiglio racconta (una
signora al supermercato che rimette sullo scaffale un prodotto israeliano)
diventa immagine di una possibile pedagogia civile: “Mi sono complimentato con
lei. Si fa così”.
Il boicottaggio, tuttavia, non basterebbe senza un impegno politico
istituzionale. D’Alema tocca il nodo dell’accordo di associazione Ue-Israele: “È
illegale, è illegittimo. Mi domando persino se non sia possibile un’azione di
fronte alla Corte Europea perché dice che è applicabile solo se c’è il rispetto
dei diritti umani e neppure la Meloni può sostenere che Netanyahu rispetti i
diritti umani”. Di conseguenza quell’accordo dovrebbe diventare “un grande tema
di mobilitazione popolare e di lotta politica nel Parlamento europeo e nei
Parlamenti nazionali”.
Il conflitto, ribadisce D’Alema, ha ormai oltrepassato la soglia in cui le parti
possano trovare un’intesa autonoma: “Lo spazio perché si trovi una soluzione tra
le parti non c’è più. Il rapporto è troppo asimmetrico ed è avvelenato da una
violenza che ha cancellato gli spazi di collaborazione. Senza una forza militare
internazionale non si arriverà mai a fermare le violenze”. La pressione
internazionale e l’attivazione della società civile assumono quindi un ruolo
decisivo.
Il discorso si concentra infine sul governo Meloni e sull’Italia, tratteggiata
come un paese che ha smarrito la sua tradizione diplomatica: “C’è il problema
del governo italiano, della povertà, della furbizia, del nulla che ha
rappresentato l’Italia in questa vicenda rispetto a una nostra tradizione.
Andreotti e Craxi oggi ci appaiono dei giganti. Non avrei mai pensato di passare
la gioventù a combatterli e di passare la vecchiaia a rimpiangerli”. Figure che,
nel confronto con l’oggi, “appaiono come enormi personalità della difesa del
diritto internazionale, dei diritti dei popoli”.
E suggerisce al centrosinistra: “Il governo andrebbe incalzato di più, in modo
più vigoroso e unitario“.
C’è tuttavia un riconoscimento al Pd: “Ho apprezzato il modo in cui il gruppo
dirigente e la segretaria Schlein, a un certo punto hanno preso in mano questa
bandiera (palestinese, ndr)”. E si apre una riflessione politica più ampia: il
tema di Gaza è ormai anche fattore di consenso presso le nuove generazioni.
“Penso che sia un tema seriamente importante, persino dal punto di vista
elettorale del consenso”.
Lo dimostrerebbe il caso americano: “Una delle ragioni per cui hanno perso le
elezioni è quella di avere sostenuto Netanyahu. Trump non ha vinto perché ha
conquistato voti, ha vinto perché i democratici ne hanno persi 9 milioni, e una
parte di questa perdita è avvenuta in un elettorato giovanile proprio come
reazione alle scelte della politica internazionale americana”.
Il monito finale di D’Alema riguarda il centrosinistra italiano, chiamato a non
eludere la questione: sarà, sostiene, una delle linee di frattura che
orienteranno la partecipazione politica dei giovani.
E chiosa con una frecciata ai riformisti filo-israeliani del Pd: “Questa
mobilitazione per Gaza deve continuare. Forse è anche opportuno che il Pd faccia
una sua discussione interna. Ci sono delle sbavature, alcune delle quali sono
anche dolorose, E secondo me non servono. Non servono neanche all’immagine del
Pd. Però non voglio intromettermi da persona esterna e indipendente di
sinistra”.
L'articolo D’Alema: “Israele va boicottato. I giovani che protestano per Gaza
sono l’ultimo baluardo della civiltà europea” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Nella sala Berlinguer di Montecitorio, davanti ai deputati del Pd, alla
segretaria Elly Schlein e al leader della Cgil Maurizio Landini, Massimo D’Alema
torna alla Camera nelle vesti di direttore editoriale di Italianieuropei.
L’occasione è la presentazione dell’ultimo numero della rivista, dedicato al
lavoro e alle trasformazioni economiche, con la partecipazione anche di Cecilia
Guerra, responsabile Lavoro della segreteria nazionale del Pd, e dell’ex
commissario europeo Nicolas Schmit.
Ma più che un intervento accademico, quello di D’Alema si trasforma in un monito
politico: serve un’opposizione compatta, un “campo largo” capace di ritrovare un
linguaggio comune e una prospettiva credibile di governo.
Il cuore della sua analisi è la questione del lavoro, che per l’ex premier non
riguarda solo una parte della società, ma “ha a che vedere col destino del
nostro Paese” e con la capacità competitiva del sistema produttivo. Per D’Alema,
la destra al governo incarna un modello “destinato inesorabilmente al declino”,
incapace di reggere le sfide globali, tecnologiche e soprattutto demografiche.
“La politica dei confini chiusi significa per l’Italia di qui a 50 anni avere 40
milioni di abitanti con età media 62 anni – avverte – e cioè la fine di tutto:
sistema economico, welfare, pensioni. Un Paese che respinge, invece di attrarre,
lavoratori giovani finirà per perdere anche i propri”.
Da qui la necessità di rimettere al centro dignità, diritti e retribuzioni: non
per ideologia, ma perché l’Italia potrà competere soltanto investendo nella
qualità del lavoro, nell’innovazione e nella capacità di far crescere i consumi
interni in un mondo attraversato da conflitti e rallentamenti del commercio
globale. “Riconoscere dignità del lavoro è centrale per l’avvenire del Paese”,
insiste l’ex leader dei Ds.
Ma l’analisi economica si intreccia con un allarme democratico: l’astensione
dilaga, soprattutto nelle fasce sociali più fragili, dove si sfiora il 70%. È un
sistema “censitario”, dove votano quasi solo i ceti più forti.
D’Alema vede un’indicazione preziosa nell’esempio americano: la recente vittoria
di Zohran Mamdani, neo-sindaco socialdemocratico di New York City, eletto il 4
novembre 2025 grazie alla capacità di mobilitare “la parte più marginale della
popolazione”. “Hanno votato per lui sapendo che avrebbe affrontato il caro
affitti e il caro vita“, sottolinea, aggiungendo come l’impegno su condizioni
concrete di vita abbia convinto gli esclusi a tornare alle urne.
Da qui l’appello ai leader del centrosinistra, e in particolare al Pd:
ricostruire un dialogo stabile e più forte con sindacati e mondo culturale. “C’è
una parte importante della cultura che vuole dare un contributo… Bisognerebbe
chiamarla in modo più esplicito”, ammonisce, ricordando che questa
responsabilità non è di un solo partito, ma dell’intera coalizione. Perché,
avverte, “si vince o si perde tutti insieme” e “le egemonie di partito dentro
una coalizione hanno un valore relativo”.
D’Alema richiama anche un passaggio del libro Manifesto per un’altra economia e
un’altra politica dell’economista e storico Emanuele Felice, che lui stesso ha
recensito per la rivista: la storia dell’indice di Gini, misura statistica della
disuguaglianza economica in una popolazione, che è cresciuta senza sosta dagli
anni Sessanta, ma si è invertita in due soli momenti. Ovvero, alla fine dei
Settanta grazie alle riforme sociali della sinistra, e nel 1998 con le politiche
dell’Ulivo. “È la dimostrazione che si può conciliare rigore finanziario e
riduzione delle diseguaglianze“, sostiene, rivendicando investimenti dell’epoca
in sanità con la riforma Bindi, scuola e Mezzogiorno.
E conclude: “Lo dico perché questo fa parte del vostro patrimonio storico, noi
siamo vecchi oramai, ed è qualcosa che appartiene all’ordine delle possibilità e
alla storia della sinistra in questo paese”.
L'articolo D’Alema striglia il campo largo: “Si vince o si perde tutti insieme.
Bisogna parlare agli esclusi e coinvolgere la cultura” proviene da Il Fatto
Quotidiano.