Dalla zona di Astoria, nel Queens, all’Upper East Side: il neo sindaco Mamdani
annuncia che si trasferirà con la moglie nella residenza ufficiale del sindaco
di New York, la Gracie Mansion, lungo l’East River. Uno dei cavalli di battaglia
di Zohran Mamdani durante la campagna elettorale che lo ha poi eletto primo
cittadino è stata la promessa di bloccare il caro affitti. Un tema delicato
nella Grande Mela, dove si può pagare 5/6.000 dollari per un monolocale a
Brooklyn.
Lui, Mamdani, mentre prometteva di mettere un freno alla speculazione, abitava
ad Astoria, nonostante il suo status economico soddisfacente, in una casa ad
affitto calmierato da 2.400 dollari al mese. Gli avversari lo avevano attaccato
su questo punto. Per loro, un rappresentante con uno stipendio soddisfacente
abitava nel Queens solo per questioni di immagine: quella di un politico che a
tutti i costi si vuol mostrare dalla parte del ceto medio-basso che vive lontano
da Manhattan.
L’ex governatore Andrew Cuomo, che si era candidato come indipendente, aveva
accusato Mamdani di aver abusato del sistema di regolamentazione degli affitti;
facendo parte di una famiglia benestante, e con uno stipendio da 142.000 dollari
in qualità di deputato dello Stato di New York in rappresentanza di Astoria,
Mamdani avrebbe dovuto lasciare quella casa ad una persona meno abbiente.
Ora, il primo sindaco musulmano nella storia di New York, dalle idee socialiste
che hanno fatto rizzare i capelli in testa al presidente Trump, ammette che dal
1° gennaio 2026 con la moglie Rama Duwaji si trasferirà nella Gracie Mansion. La
decisione è stata annunciata sui social: “La settimana scorsa siamo andati alla
mostra dei treni del Giardino Botanico di New York e abbiamo visto la nostra
nuova casa! Io e mia moglie Rama abbiamo deciso di trasferirci a Gracie Mansion
a gennaio”. Il cambio di residenza, ha sostenuto il sindaco neo eletto, è da
attribuire a questioni di sicurezza: “Questa decisione è stata presa per
tutelare la sicurezza della nostra famiglia e per l’importanza di dedicare tutta
la mia attenzione all’attuazione del programma di accessibilità economica per il
quale i newyorkesi hanno votato”.
Di certo per la famiglia Mamdani è un cambiamento non da poco: dal monolocale di
Astoria con una stanza da letto a Gracie Mansion, residenza in legno che vanta
226 anni e si estende su quasi 1.000 metri quadrati: ha cinque camere da letto,
una sala da ballo e una vista panoramica sull’East River. Il sindaco gioca la
carta del sentimentalismo: “Ci mancherà molto la nostra casa ad Astoria.
Preparare la cena fianco a fianco nella nostra cucina, condividere un sonnolento
viaggio in ascensore con i nostri vicini la sera, sentire musica e risate
vibrare attraverso le pareti dell’appartamento. Ad Astoria: grazie per averci
mostrato il meglio di New York City”. I suoi sostenitori gli credono: i
detrattori invece ricordano maliziosamente che non è un obbligo per il neo
sindaco andare a vivere nella Gracie Mansion, anche se l’unico a rifiutarsi fu
il sindaco Michael Bloomberg, in carica dal 2002 al 2013.
L'articolo New York, Mamdami lascerà il monolocale per la villa da mille metri
quadrati che è la residenza del sindaco proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Zohran Mamdani
L’ospite in piedi, come di consueto, lui seduto, a mo’ di professore in
cattedra. È lo schema che si è ripetuto alla Casa Bianca, con Donald Trump, che
ha ospitato il neo sindaco di New York, Zohran Mamdani. Il presidente ha
definito Mamdani una figura che “sorprenderà alcuni conservatori”, lasciando
intendere un possibile rapporto collaborativo. Durante la conferenza stampa
congiunta, un giornalista ha chiesto a Mamdani se confermasse di aver definito
Trump un “fascista” in passato. Il sindaco eletto ha tentato una risposta
prudente: “Ho parlato di…”. Ma Trump lo ha interrotto con tono ironico: “Va
bene. Può semplicemente dire di sì. È più facile che spiegarlo. Non mi
dispiace”. Mamdani, sorridendo, ha replicato: “Va bene”.
L'articolo “Secondo lei Trump è fascista?”, alla domanda a Mamdani risponde il
presidente Usa: “Dica di sì, è più facile” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Dopo avere trascorso gli ultimi mesi a scambiarsi accuse reciproche, Donald
Trump e il neosindaco socialista di New York, il musulmano Zohran Mamdani, si
sono incontrati alla Casa Bianca nel pomeriggio del 21 novembre (le 15 negli
Usa, le 21 in Italia), per suggellare la tregua deponendo l’ascia di guerra. Sul
tavolo c’erano le minacce di militarizzare la città lanciate dal presidente, ma
già alla vigilia dell’incontro il tono si è ribaltato, con il Tycoon disponibile
alla collaborazione verso il primo cittadino della Grande mela. Le dichiarazione
successive hanno siglato la tregua tra i leader ai lati opposti dello
schieramento politico.
LA SINTONIA TRA IL SINDACO E IL PRESIDENTE
Il presidente ha assicurato all’ex rivale “un grande aiuto” a realizzare il suo
programma. “Sarà un grande sindaco”, ha proseguito un’entusiasta Donald Trump,
“lo aiuterò a realizzare i suoi sogni per New York”. Al suo fianco durante la
conferenza stampa, Zohran Mamdani sorrideva più che compiaciuto. Anche lui ha
abbandonato le ostilità verso il presidente definendo l’incontro “molto
produttivo”. Il sindaco ha indicato gli obiettivi comuni con la Casa Bianca, in
primis la lotta al carovita nella Grande Mela e l’esigenza di case a buon
mercato: i due cavalli di battaglia della sua campagna. Toni lontani anni luce
dalle frecciate reciproche dei mesi scorsi. Sparito dal vocabolario del
presidente l’appellativo “comunista”. Anzi, Trump ha ammesso che “alcune delle
idee” del socialista sono “come le sue”, e che ora che lo ha incontrato “è
sicuro che si troverebbe bene nella New York di Mamdani”.
TRUMP: “COLLABOREREMO SUI MIGRANTI”
Eppure poco prima dell’incontro la Camera aveva approvato una risoluzione per
denunciare gli “orrori del socialismo“. In conferenza stampa invece è esplosa la
sintonia, tra i due. Quando un reporter ha chiesto a Mamdani se pensasse ancora
che Trump fosse un “fascista“, il presidente scherzando lo ha invitato a
rispondere così: “sì, è più facile che spiegare”. Trump ha dribblato la domanda
sulla risoluzione contro il socialismo. Al quesito se condividesse l’opinione
della repubblicana Stefanik che il primo cittadino è un “jihadista“, lui ha
risposto: “Ho incontrato una persona molto razionale”.
Trump si è detto ottimista su uno dei temi più divisivi: gli interventi
dell’Ice, l’agenzia federale sull’immigrazione e la sicurezza delle frontiere:
“Penso che troveremo una soluzione”, ha detto il tycoon, favorevole ad una
stretta schierando i reparti anche a Chicago e Charlotte. Da quando Trump ha
assunto il controllo federale delle forze di polizia di Washington e ha
mobilitato le truppe della Guardia Nazionale, ha lanciato l’idea che New York
fosse la prossima destinazione. Mamdani invece è stato critico dell’Ice. Trump
ha affermato che durante l’incontro Mamdani ha parlato di come “vuole una New
York sicura”. “Quindi lavoreremo insieme. Faremo in modo che se ci sono persone
orribili lì, vogliamo farle uscire – ha aggiunto Trump -. Penso che lui voglia
farle uscire forse più di me”.
LA NUOVA GUARDIA DEM
Per prepararsi all’incontro Mamdani ha avuto lunghe conversazioni con i big del
Partito democratico, dalla governatrice di New York, Kathy Hochul, al leader
della minoranza alla Camera, Hakeem Jeffries, al veterano del Senato Chuck
Schumer. Ma al suo fianco nello Studio Ovale c’era la nuova generazioni dei dem:
Elle Bisgaard-Church e Morris Katz (due consiglieri chiave) e la portavoce Dora
Pekec; l’età media è sotto i 30 anni, come tutta la cerchia ristretta di Mamdani
. Quando gli è stato chiesto se si senta già il leader del partito democratico,
il primo cittadino ha minimizzato: “Sono il sindaco di New York, la mia
attenzione è tutta su quello”.
L'articolo Mamdani incontra Trump alla Casa Bianca. Il presidente: “Lo aiuterò a
realizzare i suoi sogni per New York” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nella sala Berlinguer di Montecitorio, davanti ai deputati del Pd, alla
segretaria Elly Schlein e al leader della Cgil Maurizio Landini, Massimo D’Alema
torna alla Camera nelle vesti di direttore editoriale di Italianieuropei.
L’occasione è la presentazione dell’ultimo numero della rivista, dedicato al
lavoro e alle trasformazioni economiche, con la partecipazione anche di Cecilia
Guerra, responsabile Lavoro della segreteria nazionale del Pd, e dell’ex
commissario europeo Nicolas Schmit.
Ma più che un intervento accademico, quello di D’Alema si trasforma in un monito
politico: serve un’opposizione compatta, un “campo largo” capace di ritrovare un
linguaggio comune e una prospettiva credibile di governo.
Il cuore della sua analisi è la questione del lavoro, che per l’ex premier non
riguarda solo una parte della società, ma “ha a che vedere col destino del
nostro Paese” e con la capacità competitiva del sistema produttivo. Per D’Alema,
la destra al governo incarna un modello “destinato inesorabilmente al declino”,
incapace di reggere le sfide globali, tecnologiche e soprattutto demografiche.
“La politica dei confini chiusi significa per l’Italia di qui a 50 anni avere 40
milioni di abitanti con età media 62 anni – avverte – e cioè la fine di tutto:
sistema economico, welfare, pensioni. Un Paese che respinge, invece di attrarre,
lavoratori giovani finirà per perdere anche i propri”.
Da qui la necessità di rimettere al centro dignità, diritti e retribuzioni: non
per ideologia, ma perché l’Italia potrà competere soltanto investendo nella
qualità del lavoro, nell’innovazione e nella capacità di far crescere i consumi
interni in un mondo attraversato da conflitti e rallentamenti del commercio
globale. “Riconoscere dignità del lavoro è centrale per l’avvenire del Paese”,
insiste l’ex leader dei Ds.
Ma l’analisi economica si intreccia con un allarme democratico: l’astensione
dilaga, soprattutto nelle fasce sociali più fragili, dove si sfiora il 70%. È un
sistema “censitario”, dove votano quasi solo i ceti più forti.
D’Alema vede un’indicazione preziosa nell’esempio americano: la recente vittoria
di Zohran Mamdani, neo-sindaco socialdemocratico di New York City, eletto il 4
novembre 2025 grazie alla capacità di mobilitare “la parte più marginale della
popolazione”. “Hanno votato per lui sapendo che avrebbe affrontato il caro
affitti e il caro vita“, sottolinea, aggiungendo come l’impegno su condizioni
concrete di vita abbia convinto gli esclusi a tornare alle urne.
Da qui l’appello ai leader del centrosinistra, e in particolare al Pd:
ricostruire un dialogo stabile e più forte con sindacati e mondo culturale. “C’è
una parte importante della cultura che vuole dare un contributo… Bisognerebbe
chiamarla in modo più esplicito”, ammonisce, ricordando che questa
responsabilità non è di un solo partito, ma dell’intera coalizione. Perché,
avverte, “si vince o si perde tutti insieme” e “le egemonie di partito dentro
una coalizione hanno un valore relativo”.
D’Alema richiama anche un passaggio del libro Manifesto per un’altra economia e
un’altra politica dell’economista e storico Emanuele Felice, che lui stesso ha
recensito per la rivista: la storia dell’indice di Gini, misura statistica della
disuguaglianza economica in una popolazione, che è cresciuta senza sosta dagli
anni Sessanta, ma si è invertita in due soli momenti. Ovvero, alla fine dei
Settanta grazie alle riforme sociali della sinistra, e nel 1998 con le politiche
dell’Ulivo. “È la dimostrazione che si può conciliare rigore finanziario e
riduzione delle diseguaglianze“, sostiene, rivendicando investimenti dell’epoca
in sanità con la riforma Bindi, scuola e Mezzogiorno.
E conclude: “Lo dico perché questo fa parte del vostro patrimonio storico, noi
siamo vecchi oramai, ed è qualcosa che appartiene all’ordine delle possibilità e
alla storia della sinistra in questo paese”.
L'articolo D’Alema striglia il campo largo: “Si vince o si perde tutti insieme.
Bisogna parlare agli esclusi e coinvolgere la cultura” proviene da Il Fatto
Quotidiano.