di Blackbird
Pier Luigi Bersani, in uno dei suoi ultimi interventi, ha proposto di cambiare
nome al cosiddetto campo largo. Un nome vago, nato per indicare un’alleanza a
geometria variabile che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe riunire l’opposizione
contro un centrodestra che, al contrario, non ha bisogno di epiteti per
presentarsi compatto di fronte all’elettorato.
Quella vaghezza non è casuale: riflette la ben più grave indeterminatezza dei
contenuti di cui l’alleanza dovrebbe farsi portavoce. Su politica estera,
mercato del lavoro, finanziamento dello Stato sociale, fisco e gestione
dell’immigrazione, questo famigerato campo largo sembra avere tante idee quanti
sono i suoi interpreti.
Sarebbe invece auspicabile che l’opposizione partisse proprio dal nome per fare
finalmente chiarezza. Sarebbe bello, insomma, che riscoprisse una parola che i
vincitori degli ultimi trent’anni hanno provato in ogni modo a seppellire:
socialismo.
Eh sì, perché la nostra Repubblica, nata dalle ceneri del fascismo, è nella sua
architettura costituzionale una socialdemocrazia. La Costituzione contiene
tratti di socialismo più o meno espliciti non perché chi l’ha scritta volesse
imporre un’ideologia unica, ma perché quelle donne e quegli uomini sapevano
sulla propria pelle cosa accade quando lo Stato abdica al suo ruolo di garante
dell’uguaglianza sostanziale.
È da questa consapevolezza che nascono l’articolo 3, che impegna la Repubblica a
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno
sviluppo della persona umana; gli articoli 41 e 43, che subordinano l’economia
al bene comune; il 32 e il 34, che sanciscono il diritto universale alla salute
e all’istruzione. Sono le fondamenta di uno Stato sociale che non vuole lasciare
indietro nessuno.
Riscoprire quella parola che molti vorrebbero morta e sepolta significherebbe
dire con chiarezza che il compito dell’opposizione non è soltanto “stare insieme
contro qualcuno”, ma proporre un’idea di Paese fondata su giustizia sociale,
investimenti pubblici strategici, welfare universale, diritti del lavoro e
un’economia orientata ai bisogni di tutti, non al profitto di pochi.
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L'articolo Bersani ha ragione: basta chiamarlo ‘campo largo’, chiamiamolo
socialismo proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Centrosinistra
Sabato scorso, insieme a il Fatto, il Secolo XIX di Genova ha pubblicato il
sondaggio di Youtrend secondo cui, in un’ipotetica primaria tra Conte, Schlein e
Salis, finirebbe ultima proprio la neo-sindaca. Nel caso della testata locale,
la notizia (ferale per i para-renziani in cerca di una pulzella dei Parioli che
li rimetta in sella) suona a segnale che sotto la Lanterna la luna di miele
della martellista olimpica è agli sgoccioli; un po’ per l’ossessiva, palese,
attenzione al posizionamento d’immagine, molto per l’evidente traccheggiare
davanti ai primi nodi amministrativi che incombono.
A partire dalla crisi dello storico polo siderurgico, con la solita alternativa
capestro tra ambiente e occupazione (l’installazione di un forno elettrico
osteggiata dalla popolazione), che vede la pretesa leader civica schierata a
favore del lavoro, per poi tentare di blandire gli abitanti dichiarando che la
sua era una mossa per stanare le mire governative di liquidare l’acciaio
nazionale. L’ennesimo fiasco sul campo della tipologia “migliore dei migliori”
con cui la “sinistra neoliberale alla moda” (copy Sahra Wagenknecht), dedita a
salmodiare il mantra “si vince presidiando il centro moderato” (vedi Lilli
Gruber), si attarda a lanciare ipotetiche candidature patinate per la
riconquista del campo politico. Il Mario Draghi di turno.
Nel frattempo la “sinistra gattamorta” (cacicchi ex comunisti e reperti
democristiani) immagina di liberarsi della tardo-sessantottina Schlein clonando
il modello sconfittista Enrico Letta nell’avatar Ernesto Maria Ruffini (l’idea
fantastica di entusiasmare l’elettorato proponendo un fu direttore della
beneamata Agenzia delle Entrate), oppure traendo dal congelatore il rieccolo
Paolo Gentiloni, benedetto dalla sponsorizzazione di Romano Prodi (sottospecie
“mollacciona” della tipologia “gattamorta”).
Dunque una terra desolata, abitata da tremuli lunari che ci assicurano una sola
certezza: a queste condizioni e contesto dato, Giorgia Meloni è destinata a
vincere sempre. Perché sono stati questi contesti e condizioni a renderla
invincibile. Ma non solo.
Vent’anni fa lo scienziato cognitivo di Berkeley George Lakoff aveva
sintetizzato in un saggio le metafore ad ascendenza familistica di una politica
transitata da discorso pubblico sul governo della società a paravento
illusionistico di un ceto politico inadeguato quanto arrampicatore. Per la
destra varrebbe il tipo “padre severo”, a sinistra troviamo quello “papà
premuroso”. Fermo restando che in Italia ci si è mossi in anticipo rispetto agli
armamentari comunicativi nordamericani, spingendo oltre ogni limite i frames che
irreggimentano il sentire collettivo. Sicché papà premuroso qui diventa mamma
pietosa (che fa la piaga cancrenosa) nella finzione assistenzialistica: la Dc
dopo De Gasperi, da Fanfani ai dorotei (il cui ultimo sopravvissuto è proprio il
presidente Mattarella. Stando alla solita Gruber, “il più amato dagli
italiani”).
Ben più profonda e antica l’evoluzione metaforica sul lato destro, alimentata da
tratti caratteriali sedimentati da secoli nella mentalità nazionale: il
servilismo radicato nel Paese dopo la duplice catastrofe della perdita
dell’indipendenza (l’Italia sotto dominazione straniera) e della regressione
economica (dopo la primazia finanziaria e manifatturiera, il ritorno a
un’agricoltura di sussistenza; nel centro-sud al latifondo) che trasformò
fierezze civiche in subalternità ai nuovi padroni. Quindi, invece del padre
severo, l’uomo della provvidenza; nella cui ombra trova rifugio un popolo
infantilizzato. Il Duce che avanza a gambe divaricate, mascella sporgente e
pugni serrati sui fianchi ora ritorna attualizzato negli stilemi di Meloni, che
all’impraticabilità fisica delle posture mussoliniane supplisce con la
minacciosa voce baritonale da bambina posseduta, tipo serie cinematografica
sull’esorcista.
Un revival che tanto piace a questo italico spirito destrorso, sconvolgendo i
promoter di un ritorno rassicurante del centrismo legge e ordine come nel lungo
dopoguerra, tipo Gruber; che si ostinano a non capire. Non capire che il revival
del Ventennio risponde all’esigenza di uomo forte al potere che già tentò di
incarnare Bettino Craxi (che giustamente il vignettista Forattini disegnava con
tanto di stivali duceschi). Operazione che fallì perché – oltre alla catastrofe
dei conti pubblici causata dall’affarismo smascherato da Tangentopoli – l’onda
lunga della liberazione antifascista ancora manteneva in campo antidoti
resistenziali. Da tempo vanificati con lo scivolamento della sinistra in nuova
destra. Che può offrire all’alternativa soltanto il piatto insapore di un
centrismo conservatore (della rendita di potere lucrata da un ceto politico
colluso: cane non mangia cane).
L’uscita dall’oscurantismo meloniano richiede ben altro delle ricette Neo-Lib:
oltrepassare il familismo declinato in retorica politica grazie all’uscita
kantiana dalla minorità. Vaste programme o utopia velleitaria? Visto che le
indispensabili energie morali e culturali ad oggi sono latitanti.
L'articolo Perché con questa opposizione Giorgia Meloni è destinata a vincere
sempre proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il primo commento ufficiale, ieri, dopo i risultati delle elezioni regionali di
Campania, Puglia e Veneto, da parte di Fratelli d’Italia è stato del
responsabile organizzazione del partito guidato dal Presidente del consiglio
Giorgia Meloni. Ed è parsa a molti sorprendente. Giovanni Donzelli ha sostenuto
che “va fatta una riflessione sulla legge elettorale”, perché, “con il ‘Campo
Largo’ unito, a differenza delle elezioni politiche 2022, se si dovesse votare
oggi non ci sarebbe la stessa stabilità politica né in caso di vittoria del
centrodestra né in caso di vittoria del centrosinistra”. Stabilità che “serve
alla nazione”, ha spiegato Donzelli. “Lo vediamo con lo spread basso e con il
giudizio sull’Italia delle agenzie di reating”.
Le opposizioni rispediscono al mittente la proposta. Matteo Renzi dubita delle
reali motivazioni di Fdi e del centrodestra. “Giorgia devi cambiare la Legge di
bilancio non la Legge elettorale. Devi parlare di sicurezza, tasse e di stipendi
non di collegi”. Per il leader di Italia Viva “è evidente che se il
centrosinistra sta insieme Meloni perde – perché, con le opposizioni unite in
coalizione – nei collegi, in due terzi del Paese, il centrodestra non tocca
palla e non vede un collegio. Ora dicono cambiamo la legge elettorale”. E
conclude: “Donzelli ricorda quel bambino quando in piazza perdeva la partita e
diceva il pallone è mio e me lo porto via”.
Dello stesso tenore la risposta che giunge dal Nazareno. La segretaria del Pd
Elly Schlein sottolinea: “Non lo dico io, ma oggi ho letto su qualche giornale
che con questa legge elettorale il 90% dei collegi del Sud andrebbero alla
coalizione progressista”. Dunque, “il loro ragionamento parte dalla paura di
perdere, perché hanno capito che noi, dopo aver faticosamente riunito questa
coalizione, vinceremmo le prossime elezioni politiche e questa non mi sembra la
miglior premessa per fare un cambio di regole”. Chi, e non da oggi, vorrebbe una
modifica in senso proporzionale della legge elettorale è il Movimento 5 Stelle.
Ma il capogruppo alla Camera Francesco Silvestri mette subito in chiaro: “La
nostra proposta è diversa da quella della destra” e comunque, sottolinea
Silvestri, “finché vincevano loro e noi andavamo disuniti alle elezioni, le
legge elettorale andava bene, oggi vogliono cambiare la legge elettorale perché
sanno che non vinceranno”. Per i 5 Stelle la priorità è la Legge di bilancio.
“Adesso si discute di salari, di imprese e famiglie” perché aprire ora un
dibattito sulla riforma elettorale è “un’arma di distrazione di massa per non
parlare del fatto che l’Europa ci dice che uno o due anni saremo il fanalino di
coda, nonostante siamo il Paese che ha preso più soldi del Pnrr”.
L'articolo “Meloni vuole modificare la legge elettorale perché sa di perdere”:
Pd, 5 Stelle e Renzi respingono al mittente l’idea di Fdi proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, analizza, in conferenza
stampa, il voto di ieri e fa un bilancio complessivo di questa lunga tornata
elettorale di elezioni Regionali. “Avevamo detto che i conti si fanno alla fine
e direi che i risultati parlano chiaro. Nelle tredici Regioni che sono andate al
voto, i voti assoluti della coalizione progressista e della coalizione di destra
al governo sono sostanzialmente pari”. Questo è il punto di partenza che fa dire
alla leader dem che “appare chiaro che questa destra non solo non sia
imbattibile e siamo pronti a sfidarla, in una partita aperta – sottolinea –
siamo in partita, vogliamo vincere, siamo pronti ad andare al governo nel 2027
vincendo le elezioni politiche”.
L'articolo Schlein: “Con centrosinistra unito siamo in partita e pronti per
andare al governo nel 2027” proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Carmelo Zaccaria
Una lezione che si può apprendere dalla politica è che non basta essere
ottimisti per vincere, bisogna anche meritarselo. Trovare il modo per restare in
connessione con le persone, innescare i loro desideri, accendere nuovi pensieri,
essere certi della coerenza con gli impegni presi. Come diceva Stefano Benni:
bisogna somigliare a quello che si dice.
Nel tentare la “remuntada” la sinistra, nel suo insieme, deve essere non solo
convincente ma soprattutto “conveniente”. L’elettore deve avere la percezione
che il suo voto è davvero essenziale, decisivo e che la sua scelta lo farà stare
meglio. E dovrà sentire nell’intimo il privilegio di trovarsi in buona
compagnia, di appartenere ad un unico e promettente destino, alla visione di un
futuro più fecondo e coinvolgente. Al di là della qualità dei singoli candidati
sarebbe necessaria una scossa o, come la chiama Elias Canetti, una “scarica”,
che colpisce allo stesso modo i componenti della massa che, all’unisono, si
liberano delle loro differenze sentendosi eguali.
La sinistra dopo tre anni di opposizione sarà capace di suscitare una scarica?
Meriterà di essere votata? Ad ascoltare i mugugni e i sussurri smozzicati
qualcosa si muove, ma ancora non basta. L’impressione è che non sono i temi o i
programmi che disuniscono e tengono distanti i partiti di sinistra, quanto i
continui distinguo, le titubanze linguistiche, le esacerbanti manfrine e
punzecchiature che animano il dibattito del campo largo che, strano che non si
capisca, non suscitano particolare interesse nel proprio elettorato. E questo
nonostante della sinistra ci sia un gran bisogno in un mondo così diseguale, per
retribuzioni e patrimonio.
La metà più povera della popolazione mondiale possiede una ricchezza irrisoria,
mentre il 10% più ricco ne possiede quasi l’80%. Che altro serve alla sinistra
per compattarsi di fronte al dilagare di ricchezze “smodate”, alla prepotente
ascesa di un sistema finanziario profondamente ingiusto fondato sul profitto e
l’accumulazione di capitale che lascia poco spazio al welfare, e continua a
prosperare a scapito di una riduzione degli spazi democratici? La sinistra si
accorge di non rappresentare più gli ultimi ma neanche più i penultimi, quelli
smarriti e umiliati dalla storia, quelli privi di caratura sociale, deprezzati e
messi forzatamente ai margini a cui la convenienza ad andare a votare è vicina
allo zero.
Essere convenienti non significa voler “solo” tassare i superprofitti, ma fare
proposte concrete di revisione per arginare lo strapotere di un neoliberalismo
avido di rendite e nemico giurato di una più equa distribuzione del reddito. Ed
è pur vero che il costo dell’energia è la più alta del mondo, questo lo sa
benissimo chi paga le bollette, ma l’elettore vuole essere certo che saranno
adottate misure pubbliche stringenti per evitare rialzi ingiustificati, a costo
di dover intervenire sulle lobby dell’energia intente a cavalcare qualsiasi
evenienza pur di arraffare corposi e arbitrari dividendi.
E’ sicuro che la sinistra al governo farà pagare ai balneari un prezzo giusto
per delle concessioni acquisite e conservate quasi a titolo gratuito? Riuscirà a
tutelare le spiagge libere e la semplice fruizione del mare diventato quasi
inaccessibile anche alla vista? E tanto ancora, naturalmente. Per avere un
rimbalzo elettorale bisogna farsi percepire come una forza che risolve i
problemi e non li perpetui, e neanche li tollera o li nasconde. E non si tratta
di avere più centro o più radicalità nella coalizione, come appare inutile
concionare su chi debba guidare le truppe all’assalto della destra, se prima non
si arruolano armigeri e si sventolano nuovi vessilli su territori abbandonati da
tempo.
Più che un campo largo servirebbe recuperare unitariamente più persone per
costruire un blocco sociale più largo e compatto. Ma per farlo bisogna fermarsi
a capire assumendo una postura politica che richiede sacrificio, passione e
intransigenza, oltre che sapienza tattica.
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L'articolo Per la ‘remuntada’ della sinistra serve una scarica: qualcosa si
muove, ma ancora non basta proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Pietro Francesco Maria de Sarlo
O il consigliere Garofani è un agente di Putin oppure mi viene il dubbio che ci
sia un tentativo di costruire un Ulivo 2.0, magari con la benedizione del Colle.
La prima ipotesi è solo una celia. Meglio sottolinearlo visto che ormai
attribuiamo al malvagio Putin la qualunque.
L’Ulivo 1.0 è stato un capolavoro. Una minoranza proveniente dalla vecchia DC e
dal PPI, grazie ai voti della sinistra stordita dalla caduta del Muro e della
delusione del socialismo reale, ha preso in mano il Paese e lo ha governato
direttamente o per interposto deep state per tutta la seconda Repubblica, fino
al tentativo del M5S di costruire un nuovo orizzonte politico e culturale.
Dal primo Ulivo a oggi è cambiato il mondo. All’epoca si credeva ancora in una
sinistra riformista che avrebbe opposto resistenza alla deriva antisociale della
destra e all’affarismo commisto tra pubblico e privato rappresentato da
Berlusconi. L’idea era che la mediazione delle istanze sociali, potessero essere
fatte all’interno di un unico partito che diventava così il Partito Stato. Prese
le decisioni al suo interno ogni dibattito era inutile e c’era solo da vendere
queste decisioni al popolo bue, fare propaganda insomma.
C’è stato, almeno fino al 2018, un dominio incontrastato culturale prima che
politico, di questo gruppo di cui a pieno titolo fanno parte oltre a Prodi lo
stesso Mattarella e poi Gentiloni, Letta, Renzi, Fassino, Franceschini, Draghi e
Monti, forse l’unico laico, e nelle forme più destrorse prima Binetti e ora
Picierno, Calenda, Guerini e via andare. Questi hanno determinato politiche
economiche allineate ai principi della destra liberista e della prevalenza delle
ragioni del mondo della finanza e dell’impresa, quello che una volta si chiamava
il Capitale, a scapito delle faticose conquiste sociali fatte prima in Europa e
poi in Italia per tutta la Prima Repubblica. Conquiste fatte grazie
all’equilibrio faticoso tra l’economia di mercato e quella pianificata che è
saltato con la caduta del Muro. Si è così costituito un legame molto forte tra
la minoranza del centrismo cattolico e le burocrazie nazionali ed europee che
hanno insieme ritenuto di essere in possesso delle uniche strategie economiche
possibili di gestione della Cosa Pubblica.
Da questa visione è nato lo smantellamento dello Stato imprenditore togliendo
una leva fondamentale alla realizzazione delle politiche industriali ormai prive
della sponda delle imprese di Stato. Persino monopoli naturali, come le
autostrade l’acqua e le reti, sono state cedute ai privati. Che questo sia stato
un bene è tutto da dimostrare. Nella realtà si è trattato di trasferire
ricchezze pubbliche, come Telecom o Autostrade, a privati che ne hanno fatto
carne di porco.
Peggio la teorizzazione dell’Europa a guida franco-tedesca con la linea
economica dettata dalla Ue esautorando di fatto i parlamenti nazionali. La
lettera Draghi–Trichet del 2011 è solo un esempio dell’attacco al
parlamentarismo portato alle istituzioni parlamentari dal Pd di Bersani, da
Napolitano, da Draghi e soprattutto dalla Ue. Quando Draghi in Europa chiede che
agisca ‘come se fosse un unico Stato’ in tema di difesa in quel ‘come se’ c’è il
disprezzo di 27 Costituzioni. Se l’Europa deve funzionare ‘come se’ significa
che le decisioni rimangono in mano a pochi autocrati autoreferenziali che
decidono pace e guerra e distribuzione delle ricchezza con un disprezzo evidente
di ogni tipo di processo democratico.
C’è stata la possibilità con il Conte 2 di creare un nuovo Ulivo su basi
diverse. Ma questo supponeva mettere in discussione tutto l’operato della
seconda Repubblica e dell’Europa e questo non era possibile. Abbiamo assistito
disgustati a un attacco sistematico dei media e dello stesso Pd al governo Conte
con la richiesta del Mes, strumento causa di sofferenza ai greci, e non solo, e
ritenuto tossico persino dalla europeista Fondazione Delors, ma non dal Pd che
voleva mettere l’Italia sotto tutela della Ue. Un nuovo Ulivo? No, grazie. Mi è
bastato il primo.
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L'articolo Un Ulivo 2.0? No, grazie proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nella sala Berlinguer di Montecitorio, davanti ai deputati del Pd, alla
segretaria Elly Schlein e al leader della Cgil Maurizio Landini, Massimo D’Alema
torna alla Camera nelle vesti di direttore editoriale di Italianieuropei.
L’occasione è la presentazione dell’ultimo numero della rivista, dedicato al
lavoro e alle trasformazioni economiche, con la partecipazione anche di Cecilia
Guerra, responsabile Lavoro della segreteria nazionale del Pd, e dell’ex
commissario europeo Nicolas Schmit.
Ma più che un intervento accademico, quello di D’Alema si trasforma in un monito
politico: serve un’opposizione compatta, un “campo largo” capace di ritrovare un
linguaggio comune e una prospettiva credibile di governo.
Il cuore della sua analisi è la questione del lavoro, che per l’ex premier non
riguarda solo una parte della società, ma “ha a che vedere col destino del
nostro Paese” e con la capacità competitiva del sistema produttivo. Per D’Alema,
la destra al governo incarna un modello “destinato inesorabilmente al declino”,
incapace di reggere le sfide globali, tecnologiche e soprattutto demografiche.
“La politica dei confini chiusi significa per l’Italia di qui a 50 anni avere 40
milioni di abitanti con età media 62 anni – avverte – e cioè la fine di tutto:
sistema economico, welfare, pensioni. Un Paese che respinge, invece di attrarre,
lavoratori giovani finirà per perdere anche i propri”.
Da qui la necessità di rimettere al centro dignità, diritti e retribuzioni: non
per ideologia, ma perché l’Italia potrà competere soltanto investendo nella
qualità del lavoro, nell’innovazione e nella capacità di far crescere i consumi
interni in un mondo attraversato da conflitti e rallentamenti del commercio
globale. “Riconoscere dignità del lavoro è centrale per l’avvenire del Paese”,
insiste l’ex leader dei Ds.
Ma l’analisi economica si intreccia con un allarme democratico: l’astensione
dilaga, soprattutto nelle fasce sociali più fragili, dove si sfiora il 70%. È un
sistema “censitario”, dove votano quasi solo i ceti più forti.
D’Alema vede un’indicazione preziosa nell’esempio americano: la recente vittoria
di Zohran Mamdani, neo-sindaco socialdemocratico di New York City, eletto il 4
novembre 2025 grazie alla capacità di mobilitare “la parte più marginale della
popolazione”. “Hanno votato per lui sapendo che avrebbe affrontato il caro
affitti e il caro vita“, sottolinea, aggiungendo come l’impegno su condizioni
concrete di vita abbia convinto gli esclusi a tornare alle urne.
Da qui l’appello ai leader del centrosinistra, e in particolare al Pd:
ricostruire un dialogo stabile e più forte con sindacati e mondo culturale. “C’è
una parte importante della cultura che vuole dare un contributo… Bisognerebbe
chiamarla in modo più esplicito”, ammonisce, ricordando che questa
responsabilità non è di un solo partito, ma dell’intera coalizione. Perché,
avverte, “si vince o si perde tutti insieme” e “le egemonie di partito dentro
una coalizione hanno un valore relativo”.
D’Alema richiama anche un passaggio del libro Manifesto per un’altra economia e
un’altra politica dell’economista e storico Emanuele Felice, che lui stesso ha
recensito per la rivista: la storia dell’indice di Gini, misura statistica della
disuguaglianza economica in una popolazione, che è cresciuta senza sosta dagli
anni Sessanta, ma si è invertita in due soli momenti. Ovvero, alla fine dei
Settanta grazie alle riforme sociali della sinistra, e nel 1998 con le politiche
dell’Ulivo. “È la dimostrazione che si può conciliare rigore finanziario e
riduzione delle diseguaglianze“, sostiene, rivendicando investimenti dell’epoca
in sanità con la riforma Bindi, scuola e Mezzogiorno.
E conclude: “Lo dico perché questo fa parte del vostro patrimonio storico, noi
siamo vecchi oramai, ed è qualcosa che appartiene all’ordine delle possibilità e
alla storia della sinistra in questo paese”.
L'articolo D’Alema striglia il campo largo: “Si vince o si perde tutti insieme.
Bisogna parlare agli esclusi e coinvolgere la cultura” proviene da Il Fatto
Quotidiano.