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Gli italiani pestati dai coloni israeliani: “Sono tornati, vogliono tutta la West Bank”. Feriti e case in fiamme
“Ieri notte i coloni sono tornati al villaggio di Ein al-Duyuk, erano sempre una decina, armati e bardati, come la notte in cui hanno attaccato noi. Solo che stavolta c’erano solo palestinesi, non c’erano internazionali e quindi è stato molto più brutale. Hanno distrutto le telecamere e gli schermi che avevamo installato, sono entrati in altre tre case del villaggio, non solo in quella in cui siamo stati attaccati noi. Ci sono stati 10 feriti di cui due gravi, ancora in ospedale, una è una donna. Il villaggio è terrorizzato, i padri non sanno come proteggere i figli, i bambini sono scioccati”, racconta Ruta, 32 anni, una volontaria campana appena tornata in Italia dalla Cisgiordania, sabato 13 dicembre, con un volo dalla Giordania. Ci sono foto e video di un palestinese non giovanissimo che perde sangue, poi caricato su un’ambulanza 4×4 della Mezzaluna rossa nel cuore della notte. Immagini di case bruciate sono passate anche su Rai News 24. Ein al-Duyuk è una piccola comunità beduina a 2 chilometri a Nord ovest di Gerico, 10-12 famiglie, un centinaio di persone, con lo stesso nome di un villaggio più grande alle porte della città. È nella cosiddetta zona A sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese, i coloni non ci dovrebbero nemmeno entrare ma invece cercano di strappare la terra metro per metro ai palestinesi. I volontari internazionali vanno lì per fare interposizione, nella speranza che i loro passaporti contino ancora qualcosa, in questo caso nell’ambito della campagna Faz3 a guida palestinese con cui collabora anche Assopace Palestina: l’obiettivo è proteggere la raccolta delle olive. La comunità di Ein al-Duyuk, su un’altura considerata strategica, è quasi circondata da colonie e avamposti israeliani. L’unica strada che arriva da Gerico passa vicino agli insediamenti israeliani, in parte è in Area C (controllo israeliano) e in parte contesa. I coloni avevano messo un cancello, poi l’hanno dovuto aprire. Sono in corso i lavori per fare un’altra strada, ma chissà che gli occupanti non si prendano tutto prima. Con altri due nostri connazionali e una ragazza canadese, nella notte tra il 29 e il 30 novembre, Ruta è stata vittima dell’attacco che per qualche giorno ha avuto l’attenzione dei media italiani. Un pestaggio intimidatorio piuttosto efficace. “Sono arrivati alle 4 di notte, hanno sfondato la porta, ci hanno colpiti con schiaffi, calci e pugni e ci hanno rubato tutto: soldi, passaporti e telefoni”, hanno raccontato. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani è stato costretto a dire qualche parola di circostanza su questi “giovani cooperanti che accompagnano le attività dei palestinesi, portano i bambini a scuola, aiutano gli agricoltori e i pastori, costituiscono una sorta di protezione civile per la popolazione locale”. Nessuna protesta ufficiale, naturalmente, come per gli attacchi alla Flotilla in acque internazionali. C’era anche un giovane pugliese, si fa chiamare Tau, 28 anni, laureato in astrofisica, lavora in una ditta di bioedilizia: “Avevo vari ematomi, al naso e alle costole, ferite alle parti genitali da cui non sono completamente guarito. Ho fatto anche una seconda notte di ospedale a Ramallah”, racconta. Anche lui è rientrato ieri in Italia. “Ci hanno chiesto più di dove fossimo, quando dicevo ‘Italia’ facevano come un’espressione di disgusto, forse perché consapevoli della solidarietà italiana verso i palestinesi. Ripetevano ‘dont’t come back, don’t come back’, ‘non tornate’”, dice ancora Tau, anche lui “molto turbato” per il “nuovo attacco al villaggio”. Preferiscono che non siano pubblicate le loro generalità per esteso per non esporsi ulteriormente qui in Italia, rischiano già il divieto di entrare nei Territori per chissà quanti anni. Ruta ci è andata per la prima volta, Tau ci era già stato ad aprile. Hanno sporto denuncia alla polizia palestinese e perfino alle autorità israeliane, che comunque hanno già chiuso il caso. “No evidence”, nessuna prova, dicono. Dall’ospedale di Gerico i palestinesi li hanno portati a Ramallah, lì hanno incontrato il console aggiunto Damiano La Verde. “Voleva anche farci parlare con Tajani, ma non di politica, ci ha detto. Ma allora di cosa dobbiamo parlare? Abbiamo rifiutato. Il console diceva che eravano in pericolo e si preoccupava soprattutto di farci ripartire al più presto”, racconta Ruta. È esattamente la preoccupazione del governo israeliano, che non vuole ficcanaso stranieri mentre incoraggia la violenta avanzata dei coloni. I tre italiani non avevano più i loro passaporti, il consolato li ha muniti di un documento provvisorio per il rimpatrio: “Volevano farlo per cinque giorni, poi sono arrivati a quindici ma solo perché io dovevo fare dei controlli in ospedale”, dice Tau. All’aeroporto di Amman sono andati in autobus, nemmeno una macchina del consolato. Ora preparano denunce anche in Italia: hanno subito reati di lesioni e rapina all’estero per motivi chiaramente politici. Il portavoce del ministro Tajani come è suo costume non ci ha risposto. “Eravamo appena arrivati – racconta Ruta – Già la sera prima avevo avuto il primo incontro con i coloni. Erano cinque, tre sono entrati in una casa in costruzione e hanno cominciato a sfondare, gli altri due erano fuori e noi li riprendevamo con il telefonino. Ci puntavano in faccia torcioni accecanti. Poi la notte seguente sono venuti da noi”. Dice ancora Tau: “Ci sono stati attacchi anche al villaggio principale di Ein al-Duyuk, mentre più a nord nel villaggio di Ras al-Ein al-Auja, nella valle meridionale del Giordano, ci sono sette attivisti fissi di Ucp, Unarmed Civilian Protection, che fanno presenza solidale come noi”. E ancora: “I coloni lavorano in tandem con i militari e la polizia: attaccano il villaggio e i militari lo circondano con le macchine per evitare la fuga delle persone. Poi una volta che i coloni hanno fatto le loro barbarie, entrano e arrestano tutti. L’ho visto ad aprile a Jinba, vicino a Masafer Yatta (Cisgiordania meridionale, ndr) e a Bardala, nella Jordan Valley, a Nord. Diversi feriti, serre distrutte, distrutti i tubi della rete idrica. Un tempo funzionava come deterrente la presenza di persone con passaporti internazionali, se filmavi i coloni riuscivi a farli allontanare. Da un anno non è più così, i militari arrestano gli attivisti, li deportano e li bannano da due a dieci anni. Il nostro – sottolinea Tau – non è stato l’unico attacco, ma spesso avvengono in Area C e non vengono denunciati perché lì gli attivisti non potrebbero nemmeno starci”. La campagna Faz3 – ricorda – “si occupa della raccolta delle olive perché c’è una legge israeliana per cui la terra se non ci vai per tre anni passa allo Stato di Israele. Serviva proprio a consentire ai palestinesi di tornare in quelle terre dove non potevano più entrare per gli attacchi dei coloni. Ma questo è l’anno in cui ci sono stati più attacchi negli uliveti, più sradicamenti di alberi, circa 6.200 alberi distrutti tra quelli piantati adesso e quelli secolari o millenari. Siamo andati anche in posti più pericolosi, ma sono arrivati sparando granate assordanti e siamo stati costretti ad andare via. Magari non serve più come deterrente, la nostra presenza. Ma almeno i palestinesi possono dormire una notte di più se c’è uno di noi a fare la guardia”. L'articolo Gli italiani pestati dai coloni israeliani: “Sono tornati, vogliono tutta la West Bank”. Feriti e case in fiamme proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Cisgiordania
Gaza, l’ipotesi di truppe internazionali nella Striscia da gennaio: conferenza Usa a Doha il 16 dicembre
Truppe internazionali potrebbero essere schierate nella Striscia di Gaza già dal mese prossimo. Lo scrive il Times of Israel citando due funzionari Usa in contatto con l’agenzia di stampa Reuters. Sotto l’egida dell’Onu, i contingenti militari garantirebbero la stabilizzazione del territorio scoraggiando ulteriori scontri armati. Tuttavia non è ancora chiaro come verranno disarmati i guerriglieri palestinesi di Hamas. Il tema sarà sul tavolo della conferenza statunitense con i Paesi partner, prevista a Doha il 16 dicembre. I delegati di 25 paesi – riferisce Reuters – discuteranno della pianificazione di una Forza internazionale di stabilizzazione (Isf) per Gaza. Sono tanti i nodi da sciogliere, ma l’aspetto decisivo riguarda la struttura di comando. I funzionari Usa – sotto anonimato – sostengono che lo scopo non sarà combattere Hamas. Poi indicano le altre questioni: le dimensioni, la composizione, l’alloggio, l’addestramento e le regole di ingaggio delle truppe. L'articolo Gaza, l’ipotesi di truppe internazionali nella Striscia da gennaio: conferenza Usa a Doha il 16 dicembre proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Striscia di Gaza
Stati Uniti
“Restituisco il trofeo che ho vinto a Eurovision Song Contest 2024”: il cantante Nemo prende posizione contro la conferma di Israele in gara
A poche ore dall’annuncio dell’Islanda di non partecipare al prossimo Eurovision Song Contest, 2026, che si terrà si terrà a Vienna dal 12 al 16 maggio 2026, anche il vincitore dell’edizione 2024, Nemo, ha preso una decisione netta contro la partecipazione di Israele. L’artista svizzero vincitore dell’edizione 2024 dell’Esc a Malmo, in Svezia, ha deciso di restituire il trofeo della vittoria alla sede dell’Ebu (European Broadcasting Union) a Ginevra. “Se i valori che celebriamo sul palco non vengono vissuti fuori scena, allora anche le canzoni più belle perdono di significato”, ha dichiarato Nemo sui social. + E ancora: “Ho vinto l’Eurovision e con esso mi è stato assegnato il trofeo. E anche se sono immensamente grato alla comunità che ruota attorno a questo concorso, oggi non sento più che questo trofeo debba stare sul mio scaffale“. “L’Eurovision afferma di sostenere l’unità, l’inclusione e la dignità per tutti. – ha continuato – Questi valori hanno reso questo concorso significativo per me. Ma la continua partecipazione di Israele, durante quello che la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite ha definito un genocidio, mostra un chiaro conflitto tra questi ideali e le decisioni prese dall’Ebu”. Poi l’accusa più grave: “Il concorso è stato ripetutamente utilizzato per ammorbidire l’immagine di uno Stato accusato di gravi illeciti, mentre l’Ebu insisteva sul fatto che l’Eurovision è ‘apolitico’. Quando interi Paesi si ritirano a causa di questa contraddizione, dovrebbe essere chiaro che c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Così ho deciso di restituire il mio trofeo alla sede dell’Ebu a Ginevra. Con gratitudine e con un messaggio chiaro: vivete secondo ciò che affermate. Aspetto il momento in cui le parole e le azioni saranno in linea. Fino ad allora, questo trofeo è vostro”. Dopo Spagna, Paesi Bassi, Irlanda e Slovenia, anche l’Islanda ha annunciato il ritiro dal prossimo Eurovision a causa della partecipazione di Israele. L’emittente nazionale Rùv del Paese nord-europeo ha comunicato la sua decisione oggi dopo la riunione del relativo consiglio di amministrazione. L'articolo “Restituisco il trofeo che ho vinto a Eurovision Song Contest 2024”: il cantante Nemo prende posizione contro la conferma di Israele in gara proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu”
“Sì, dopo il 7 ottobre i giovani che obiettano come noi sono aumentati, il nostro movimento cresce, ma è troppo lento. Non si può aspettare che la società israeliana cambi per fermare il genocidio e la pulizia etnica: la comunità internazionale deve agire ora”. Hanno fatto 2.700 chilometri da Tel Aviv per diffondere questo messaggio, ne faranno altre centinaia in giro per l’Italia per essere sicuri che venga ascoltato, accompagnati in un tour da Assopace Palestina. Ido Elam e Ella Keidar Greenberg sono due giovani di 19 anni, obiettori di coscienza o refusenik, come si dice in Israele. Hanno rifiutato di prestare servizio nell’esercito quando sono stati chiamati a farlo raggiunta l’età della leva obbligatoria, come capita a tutti i ragazzi e ragazze israeliane. “Sono attivista contro l’occupazione nei Territori palestinesi da quando ho 14 anni, avendo conosciuto l’apartheid in West Bank mi è stato subito chiaro che non potevo prendere parte alla politica di pulizia etnica messa in pratica dal nostro governo a Gaza”, spiega al Fatto Ella Greenberg. Il 19 marzo 2025, a 18 anni, mentre da quattro era già un’attivista transgender, si è presentata al centro di reclutamento di Tel Hashomer con in mano la lettera di chiamata, e ha dichiarato il suo rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza, l’opposizione all’occupazione e alla guerra in generale. La mossa le è costata un mese di carcere, da cui è uscita l’11 aprile scorso. Aleggia la minaccia di ulteriori misure penali, ma in realtà per Ella, come gli altri refusenik, il trattamento è stato piuttosto lieve, se paragonato a quello riservato ai cittadini e non di origine palestinese incarcerati nel Paese (quasi la metà in detenzione amministrativa senza accuse formulate, secondo le ong dei diritti umani di Israele). “Ora siamo persone libere”, continua Greenberg, “le punizioni per gli obiettori sono piuttosto lievi perché le autorità ci tengono a evitare di farci diventare dei martiri agli occhi degli altri israeliani”. Lei e Ido Elam sono i volti più vista dell’associazione Mesarvot, ossia “noi rifiutiamo” in ebraico, rete che si concentra sull’opposizione al servizio militare obbligatorio e all’occupazione dei territori palestinesi. Piuttosto, come capita a molti attivisti radicali israeliani che definiscono fuori dai denti le politiche del governo di Gerusalemme come apartheid e pulizia etnica, gli obiettori sono tacciati di essere dei traditori, in un Paese in cui l’esercito è un pilastro portante (e visibile) della società, e il servizio militare associato a un dovere morale. Venerdì i due attivisti di Mesarvot saranno al circolo Arci Angelo Mai per un’ultima conferenza, accompagnata dalla proiezione del film Innocence di Guy Davidi (regista noto per il documentario Five broken cameras): “Non lo abbiamo visto neanche noi, ne parleremo”, spiega Ido, intervistato a margine di un incontro al Senato della Repubblica a Roma, ospitato da Alleanza verdi sinistra con, tra gli altri, Nicola Fratoianni e Luisa Morgantini. Il film Innocence è stato lanciato alla Mostra di Venezia nel 2022, ma in Israele praticamente non è stato distribuito. È una critica frontale della militarizzazione della società israeliana, e solleva il tema dei suicidi tra i soldati e degli effetti devastanti del disturbo post traumatico da stress, una sorta di tabù per la politica israeliana, soprattutto per la maggioranza che sostiene Benjamin Netanyahu. In un contesto in cui il racconto pubblico di sh’khol (il lutto per i figli caduti) nel dibattito pubblico prende esclusivamente le forme della commemorazione patriottica dell’eroismo dei caduti. Davanti al pubblico internazionale, Ella e Ido non vogliono portare soltanto la loro testimonianza. Cercano piuttosto di suscitare un ribaltamento di prospettiva: non limitarsi ad ascoltare quella fetta minoritaria di israeliani critici con le politiche più violente portate avanti contro i palestinesi, non aspettare che Mesarvot diventi un’organizzazione di massa prima di agire, ma piuttosto prendersela con i leader, pretendere la massima pressione sul governo Netanyahu da parte della comunità internazionale, per il rispetto del diritto internazionale. “Quello che facciamo non sarà mai sufficiente”, confessa Ella. “Non illudiamoci che le politiche del governo israeliano cambieranno per via di un cambio di mentalità degli israeliani. Se tante persone oggi giustificano il genocidio è perché queste politiche sono reali, se la comunità internazionale si adoperasse per fermarle, per renderle illegali e impossibili, allora vedrete che anche la maggioranza silenziosa cambierà idea”. L'articolo “Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Guerra
Media: “Gli Usa hanno invitato Italia e Germania ad aderire al Consiglio di Pace per Gaza”
Il piano di Donald Trump per la Striscia di Gaza sta per essere definito. E l’Amministrazione statunitense ha invitato l’Italia e la Germania ad aderire al Consiglio di Pace. La notizia è stata riportata da Axios che cita due fonti a conoscenza diretta della questione. È inoltre previsto che a guidare il Gaza Board of Peace sia lo stesso presidente Trump e che i suoi principali consiglieri diventeranno membri del comitato esecutivo internazionale. Secondo la stessa testata statunitense, gli alleati sarebbero stati informati anche sulla Forza internazionale di stabilizzazione (Isf), che dovrebbe essere composta da rappresentanti di diversi Paesi per il mantenimento della pace sotto il mandato delle Nazioni Unite. Indonesia, Azerbaigian, Turchia ed Egitto hanno già detto di voler inviare soldati. Non è ancora chiaro se questi Paesi ne faranno parte e se qualche Stato occidentale accetterà di inviare truppe. La seconda fase dell’accordo per Gaza – recentemente approvato dall’Onu – prevede, infatti, un ulteriore ritiro dei militari israeliani, il dispiegamento delle Isf a Gaza e l’entrata in vigore di una nuova struttura di governo, che include il Consiglio di Pace. Come già trapelato nei giorni scorsi, del Board non farà parte Tony Blair, dopo la ferma opposizione dei Paesi arabi. Rimangono però ancora dubbi sulle tempistiche sull’inizio della fase due. UN GENERALE USA A CAPO DELLA FORZA INTERNAZIONALE Secondo quanto trapela, il tycoon starebbe anche pianificando la nomina di un generale americano a capo della Forza Internazionale. Una nomina che sarebbe finalizzata ad accrescere ulteriormente la responsabilità degli Stati Uniti nella messa in sicurezza e nella ricostruzione della Striscia, mentre a Gaza si continua ancora a morire anche per le inondazione e il freddo. Gli Stati Uniti hanno già istituito un quartier generale civile-militare in Israele per monitorare il complesso cessate il fuoco e coordinare gli aiuti umanitari. Gli Usa guiderebbero così la forze di sicurezza dell’enclave senza però inviare truppe americane sul terreno. La notizia sarebbe stata già comunicata dall’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Mike Waltz al primo ministro Benjamin Netanyahu e ad altri funzionari. “Waltz ha persino affermato di conoscere personalmente il generale e ha sottolineato che è una persona molto seria”, ha detto un funzionario israeliano. Gli Stati Uniti hanno anche proposto che l’ex inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Nickolay Mladenov ricopra il ruolo di rappresentante del Board of Peace sul campo a Gaza, collaborando con un futuro governo tecnocratico palestinese, secondo fonti informate. L'articolo Media: “Gli Usa hanno invitato Italia e Germania ad aderire al Consiglio di Pace per Gaza” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Stati Uniti
La Palestina già dimenticata? Il silenzio rende i popoli preda di interessi affaristici
La Palestina è stata nuovamente e volutamente cancellata dall’attenzione dei mezzi di comunicazione che sono fortemente controllati da governi e da interessi economici e finanziari. La mobilitazione mondiale dell’umanità contro il genocidio, la missione di pace della Global sumud flotilla, le piazze come fiumi in solidarietà nei confronti del popolo palestinese, avevano messo seriamente in difficoltà i governi occidentali, sempre più complici, anche sul piano giuridico, del genocidio messo in atto dal terrorismo di stato israeliano. Hanno cominciato ad avere tutti timore, da Trump a Meloni per passare alle varie cancellerie occidentali, che il vento straordinario di umanità e partecipazione li potesse travolgere. All’inizio eravamo davvero in pochi a parlare di crimini di guerra e di genocidio, poi un poco alla volta la verità è stata, come sempre, rivoluzionaria. Hanno dovuto costruire, con Trump in testa, in fretta e furia una piattaforma di una pseudo pace imposta dall’alto, quindi ingiusta già solo per questo, che per ora è poco più di una fragile tregua, mentre Israele continua ad uccidere, massacrare, occupare, abusare. Un cessate il fuoco imposto alle parti dalle establishment mondiali per evitare che i popoli potessero prendere il sopravvento e scrivere la storia. Pensavano di cancellare definitivamente la Palestina e si sono ritrovati un mondo sempre più palestinese. Merito soprattutto dell’eroica resistenza palestinese e del martirio di decine di migliaia di palestinesi. Ma non vi può essere pace senza giustizia e verità e qui veniamo alle note assai dolenti perché, con la prevalenza sempre più della legge del più forte e della umiliazione del diritto internazionale, sarà sempre drammaticamente più difficile garantire giustizia ad un popolo che ha sofferto nella storia così tanto. La Palestina sarà ancora di più terra di conquista, non solo del progetto criminale sionista israeliano, che porta alla sua cancellazione, ma anche delle altre forze colonialiste che punteranno a lucrare enormi affari sulle macerie provocate dalle bombe e dai missili dello sterminio di massa. Ecco anche come si muove l’economia capitalistica e liberista, soprattutto quando entra in crisi non congiunturale ma strutturale, con le guerre, il traffico d’armi, la distruzione, la ricostruzione, i domini, le occupazioni, il disegno di un nuovo ordine mondiale economico e politico fondato sulla paura e sulle oligarchie di finte democrazie sempre più solo formali ed apparenti ma che agiscono al di fuori del diritto internazionale. In Italia, poi, siamo al continuo tradimento della Costituzione, una sorta di recidiva reiterata con la garanzia però dell’impunità, dove l’art. 11 in cui la guerra è ripudiata viene preso a calci istituzionali ormai da anni. La guerra è il peggiore fatto umano che la storia conosca, non sono mai i popoli a volerla, la subiscono, ma l’indifferenza ed il silenzio dei popoli può però diventare humus essenziale per gli interessi egoistici, affaristici, politici e criminali di governanti senza scrupoli. Ci vorrebbe una grande mobilitazione contro le guerre, per la pace e la fratellanza universale, a sostegno dei popoli oppressi. Solo il risveglio delle coscienze e le mobilitazioni individuali e collettive spaventano il sistema. Rimuovere gli ostacoli alla pace ed attivare la sovranità popolare non è solo un diritto e nemmeno un dovere, è di più, è una missione costituzionale. L'articolo La Palestina già dimenticata? Il silenzio rende i popoli preda di interessi affaristici proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Unifil denuncia: “Colpi dell’esercito israeliano contro un convoglio Onu in un’area della Blue Line. Grave violazione”
La missione delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) ha denunciato che un proprio convoglio è stato bersaglio di colpi sparati dall’esercito israeliano mentre pattugliava un’area della Blue Line, in territorio libanese. L’episodio, avvenuto ieri nei pressi della località di Sarda, è stato reso noto attraverso un comunicato ufficiale. Nessun peacekeeper è rimasto ferito. Secondo la ricostruzione dell’Unifil, i militari a bordo dei veicoli della missione stavano effettuando un pattugliamento regolarmente programmato. In quel momento, un carro armato Merkava dell’Idf avrebbe aperto il fuoco. “Una raffica di mitragliatrice da dieci colpi è partita verso il convoglio, mentre altre quattro raffiche da dieci colpi sono andate nelle vicinanze”, si legge nella nota. Unifil afferma di aver immediatamente attivato i canali di collegamento con l’Idf, chiedendo lo stop ai colpi. La forza Onu sottolinea inoltre che l’esercito israeliano era stato informato “in anticipo della posizione e dell’orario del pattugliamento previsto”, in conformità alla prassi abituale. Nel comunicato la missione definisce l’accaduto “una grave violazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza” e invita le forze israeliane a “cessare comportamenti aggressivi e attacchi contro o vicino ai peacekeeper”, ricordando la delicatezza della situazione lungo il confine. Fonti informate precisano che i soldati coinvolti nell’episodio appartengono ai contingenti francese e finlandese del Force Commander Reserve di Unifil. Non risultano militari italiani tra i peacekeeper coinvolti. Il 16 novembre scorso un altro episodio. Tel Aviv aveva giustificato i colpi sostenendo “che fosse stato un incidente causato dal maltempo”. A settembre le granate israeliane avevano sfiorato i caschi blu innescando anche una serie di reazioni internazionali. Il 27 ottobre scorso invece era stato lo stato israeliano ad accusare l’Onu di aver abbattuto un drone. FOTO DI ARCHIVIO L'articolo Unifil denuncia: “Colpi dell’esercito israeliano contro un convoglio Onu in un’area della Blue Line. Grave violazione” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Libano
Il ministro israeliano Ben Gvir indossa una spilla a forma di cappio durante la discussione sulla pena di morte
Un cappio giallo appuntato sulla giacca. Così il ministro israeliano estremista Itamar Ben Gvir e i parlamentari del suo partito di ultradestra Otzma Yehudit si sono presentati alla discussione in commissione sul disegno di legge per introdurre la pena di morte per i terroristi che uccidono cittadini israeliani. Le spille dorate al petto ricordano i distintivi con nastro giallo indossati per sensibilizzare l’opinione pubblica sul rapimento degli ostaggi da parte dei miliziani di Hamas il 7 ottobre 2023. L’ufficio del ministro, riporta il Times of Israel, ha fatto sapere che rappresentano “l’impegno dei parlamentari a chiedere la pena di morte per i terroristi” e inviare “un messaggio chiaro che i terroristi meritano di morire“. Il ministro per la Sicurezza nazionale, figura di punta dell’ultradestra messianica israeliana, non è nuovo a questo tipo di uscite e provocazioni. Già dopo l’approvazione in prima lettura del disegno di legge si era presentato alla Knesset con un vassoio di dolcetti che poi aveva distribuito a tutti per festeggiare il via libera. Dopo il via libera del mese scorso il disegno di legge è stato oggetto di successive modifiche e ora deve deliberare il Comitato per la Sicurezza Nazionale. Secondo il consulente legale del comitato, però, nella sua forma attuale pone diverse difficoltà costituzionali. Contestato da tutti i gruppi israeliani per i diritti umani, il disegno di legge è una delle bandiere del partito di Ben Gvir. Nel corso dell’udienza di ieri, il ministro ha affermato che il cappio è solo “una delle opzioni attraverso le quali applicheremo la pena di morte per i terroristi. Certo – ha aggiunto – c’è l’opzione della forca, della sedia elettrica e anche l’opzione dell’iniezione letale”. Ben Gvir si è poi dichiarato orgoglioso delle condizioni sempre più disastrose dei prigionieri palestinesi sotto la sua supervisione, alla luce dell’aumento dei decessi. “Stamattina ho visto che è stato pubblicato che sotto Itamar Ben Gvir sono morti 110 terroristi. Hanno detto che non si è mai verificato nulla di simile dalla fondazione dello Stato”, ha affermato, negando che il servizio carcerario abbia avuto un ruolo nelle morti: “Sono arrivati malati o sono morti a causa di varie ferite”. L'articolo Il ministro israeliano Ben Gvir indossa una spilla a forma di cappio durante la discussione sulla pena di morte proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Blitz della polizia israeliana nella sede dell’Unrwa a Gerusalemme est: sostituita la bandiera dell’Onu
Nella mattina di lunedì 8 dicembre, la polizia israeliana ha fatto irruzione della polizia israeliana nella sede dell’Unwra a Gerusalemme est. Lo ha denunciato il direttore dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi Philippe Lazzarini. Sono stati sequestrati computer e altre componenti It, oltre che mobili e altre attrezzature. Le comunicazioni sono state tagliate ed è stata ammainata la bandiera, sostituita da quella israeliana. La polizia era accompagnata da funzionari del comune. Il personale dell’agenzia era stato costretto a lasciare il sito all’inizio dell’anno. “Ma qualsiasi passo venga fatto a livello interno, il compund mantiene lo status di sito Onu, immune da interferenze di qualsiasi tipo”. “Quest’ultima azione rappresenta un flagrante mancanza di rispetto degli impegni presi da Israele come Paese membro dell’Onu per proteggere e rispettare l’inviolabilità dei siti dell’Onu”, ha dichiarato Lazzarini in un post su X. Dura condanna del blitz anche da parte del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres che lo ha definito una violazione della Carta delle Nazioni Unite e ha chiesto a Israele di rispettare gli obblighi che spettano a ogni Stato membro. L'articolo Blitz della polizia israeliana nella sede dell’Unrwa a Gerusalemme est: sostituita la bandiera dell’Onu proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Reporter senza frontiere: “67 giornalisti uccisi nel 2025, la metà a Gaza dall’esercito israeliano”
Sono 67 i giornalisti uccisi nel mondo dal 1 dicembre 2024 al 1 dicembre 2025. Lo rende noto Reporter senza frontiere (Rsf) nel suo bilancio annuale pubblicato oggi. Il numero “è tornato a crescere, a causa delle pratiche criminali delle forze armate regolari e non e della criminalità organizzata“, spiega l’associazione secondo la quale “i giornalisti non muoiono, vengono uccisi”. Dei 67 professionisti dei media uccisi nell’ultimo anno, quasi la metà (43%) è stata uccisa a Gaza dalle forze armate israeliane e il 79% (53) è stato vittima della guerra o delle organizzazioni criminali. Nel Messico, paese afflitto dai cartelli della droga, ad esempio, il 2025 è stato l’anno più mortale degli ultimi tre per i giornalisti. Nel frattempo, 503 giornalisti sono dietro le sbarre in tutto il mondo. Inoltre, a un anno dalla caduta di Bashar al-Assad, molti dei giornalisti arrestati o catturati sotto il suo regime rimangono introvabili, rendendo la Siria il Paese con il più alto numero di professionisti dei media scomparsi. L'articolo Reporter senza frontiere: “67 giornalisti uccisi nel 2025, la metà a Gaza dall’esercito israeliano” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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