“Ieri notte i coloni sono tornati al villaggio di Ein al-Duyuk, erano sempre una
decina, armati e bardati, come la notte in cui hanno attaccato noi. Solo che
stavolta c’erano solo palestinesi, non c’erano internazionali e quindi è stato
molto più brutale. Hanno distrutto le telecamere e gli schermi che avevamo
installato, sono entrati in altre tre case del villaggio, non solo in quella in
cui siamo stati attaccati noi. Ci sono stati 10 feriti di cui due gravi, ancora
in ospedale, una è una donna. Il villaggio è terrorizzato, i padri non sanno
come proteggere i figli, i bambini sono scioccati”, racconta Ruta, 32 anni, una
volontaria campana appena tornata in Italia dalla Cisgiordania, sabato 13
dicembre, con un volo dalla Giordania. Ci sono foto e video di un palestinese
non giovanissimo che perde sangue, poi caricato su un’ambulanza 4×4 della
Mezzaluna rossa nel cuore della notte. Immagini di case bruciate sono passate
anche su Rai News 24.
Ein al-Duyuk è una piccola comunità beduina a 2 chilometri a Nord ovest di
Gerico, 10-12 famiglie, un centinaio di persone, con lo stesso nome di un
villaggio più grande alle porte della città. È nella cosiddetta zona A sotto il
controllo dell’Autorità nazionale palestinese, i coloni non ci dovrebbero
nemmeno entrare ma invece cercano di strappare la terra metro per metro ai
palestinesi. I volontari internazionali vanno lì per fare interposizione, nella
speranza che i loro passaporti contino ancora qualcosa, in questo caso
nell’ambito della campagna Faz3 a guida palestinese con cui collabora anche
Assopace Palestina: l’obiettivo è proteggere la raccolta delle olive. La
comunità di Ein al-Duyuk, su un’altura considerata strategica, è quasi
circondata da colonie e avamposti israeliani. L’unica strada che arriva da
Gerico passa vicino agli insediamenti israeliani, in parte è in Area C
(controllo israeliano) e in parte contesa. I coloni avevano messo un cancello,
poi l’hanno dovuto aprire. Sono in corso i lavori per fare un’altra strada, ma
chissà che gli occupanti non si prendano tutto prima.
Con altri due nostri connazionali e una ragazza canadese, nella notte tra il 29
e il 30 novembre, Ruta è stata vittima dell’attacco che per qualche giorno ha
avuto l’attenzione dei media italiani. Un pestaggio intimidatorio piuttosto
efficace. “Sono arrivati alle 4 di notte, hanno sfondato la porta, ci hanno
colpiti con schiaffi, calci e pugni e ci hanno rubato tutto: soldi, passaporti e
telefoni”, hanno raccontato. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani è stato
costretto a dire qualche parola di circostanza su questi “giovani cooperanti che
accompagnano le attività dei palestinesi, portano i bambini a scuola, aiutano
gli agricoltori e i pastori, costituiscono una sorta di protezione civile per la
popolazione locale”. Nessuna protesta ufficiale, naturalmente, come per gli
attacchi alla Flotilla in acque internazionali.
C’era anche un giovane pugliese, si fa chiamare Tau, 28 anni, laureato in
astrofisica, lavora in una ditta di bioedilizia: “Avevo vari ematomi, al naso e
alle costole, ferite alle parti genitali da cui non sono completamente guarito.
Ho fatto anche una seconda notte di ospedale a Ramallah”, racconta. Anche lui è
rientrato ieri in Italia. “Ci hanno chiesto più di dove fossimo, quando dicevo
‘Italia’ facevano come un’espressione di disgusto, forse perché consapevoli
della solidarietà italiana verso i palestinesi. Ripetevano ‘dont’t come back,
don’t come back’, ‘non tornate’”, dice ancora Tau, anche lui “molto turbato” per
il “nuovo attacco al villaggio”. Preferiscono che non siano pubblicate le loro
generalità per esteso per non esporsi ulteriormente qui in Italia, rischiano già
il divieto di entrare nei Territori per chissà quanti anni. Ruta ci è andata per
la prima volta, Tau ci era già stato ad aprile.
Hanno sporto denuncia alla polizia palestinese e perfino alle autorità
israeliane, che comunque hanno già chiuso il caso. “No evidence”, nessuna prova,
dicono. Dall’ospedale di Gerico i palestinesi li hanno portati a Ramallah, lì
hanno incontrato il console aggiunto Damiano La Verde. “Voleva anche farci
parlare con Tajani, ma non di politica, ci ha detto. Ma allora di cosa dobbiamo
parlare? Abbiamo rifiutato. Il console diceva che eravano in pericolo e si
preoccupava soprattutto di farci ripartire al più presto”, racconta Ruta. È
esattamente la preoccupazione del governo israeliano, che non vuole ficcanaso
stranieri mentre incoraggia la violenta avanzata dei coloni. I tre italiani non
avevano più i loro passaporti, il consolato li ha muniti di un documento
provvisorio per il rimpatrio: “Volevano farlo per cinque giorni, poi sono
arrivati a quindici ma solo perché io dovevo fare dei controlli in ospedale”,
dice Tau. All’aeroporto di Amman sono andati in autobus, nemmeno una macchina
del consolato. Ora preparano denunce anche in Italia: hanno subito reati di
lesioni e rapina all’estero per motivi chiaramente politici. Il portavoce del
ministro Tajani come è suo costume non ci ha risposto.
“Eravamo appena arrivati – racconta Ruta – Già la sera prima avevo avuto il
primo incontro con i coloni. Erano cinque, tre sono entrati in una casa in
costruzione e hanno cominciato a sfondare, gli altri due erano fuori e noi li
riprendevamo con il telefonino. Ci puntavano in faccia torcioni accecanti. Poi
la notte seguente sono venuti da noi”. Dice ancora Tau: “Ci sono stati attacchi
anche al villaggio principale di Ein al-Duyuk, mentre più a nord nel villaggio
di Ras al-Ein al-Auja, nella valle meridionale del Giordano, ci sono sette
attivisti fissi di Ucp, Unarmed Civilian Protection, che fanno presenza solidale
come noi”.
E ancora: “I coloni lavorano in tandem con i militari e la polizia: attaccano il
villaggio e i militari lo circondano con le macchine per evitare la fuga delle
persone. Poi una volta che i coloni hanno fatto le loro barbarie, entrano e
arrestano tutti. L’ho visto ad aprile a Jinba, vicino a Masafer Yatta
(Cisgiordania meridionale, ndr) e a Bardala, nella Jordan Valley, a Nord.
Diversi feriti, serre distrutte, distrutti i tubi della rete idrica. Un tempo
funzionava come deterrente la presenza di persone con passaporti internazionali,
se filmavi i coloni riuscivi a farli allontanare. Da un anno non è più così, i
militari arrestano gli attivisti, li deportano e li bannano da due a dieci anni.
Il nostro – sottolinea Tau – non è stato l’unico attacco, ma spesso avvengono in
Area C e non vengono denunciati perché lì gli attivisti non potrebbero nemmeno
starci”.
La campagna Faz3 – ricorda – “si occupa della raccolta delle olive perché c’è
una legge israeliana per cui la terra se non ci vai per tre anni passa allo
Stato di Israele. Serviva proprio a consentire ai palestinesi di tornare in
quelle terre dove non potevano più entrare per gli attacchi dei coloni. Ma
questo è l’anno in cui ci sono stati più attacchi negli uliveti, più
sradicamenti di alberi, circa 6.200 alberi distrutti tra quelli piantati adesso
e quelli secolari o millenari. Siamo andati anche in posti più pericolosi, ma
sono arrivati sparando granate assordanti e siamo stati costretti ad andare via.
Magari non serve più come deterrente, la nostra presenza. Ma almeno i
palestinesi possono dormire una notte di più se c’è uno di noi a fare la
guardia”.
L'articolo Gli italiani pestati dai coloni israeliani: “Sono tornati, vogliono
tutta la West Bank”. Feriti e case in fiamme proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Israele
Truppe internazionali potrebbero essere schierate nella Striscia di Gaza già dal
mese prossimo. Lo scrive il Times of Israel citando due funzionari Usa in
contatto con l’agenzia di stampa Reuters. Sotto l’egida dell’Onu, i contingenti
militari garantirebbero la stabilizzazione del territorio scoraggiando ulteriori
scontri armati. Tuttavia non è ancora chiaro come verranno disarmati i
guerriglieri palestinesi di Hamas.
Il tema sarà sul tavolo della conferenza statunitense con i Paesi partner,
prevista a Doha il 16 dicembre. I delegati di 25 paesi – riferisce Reuters –
discuteranno della pianificazione di una Forza internazionale di stabilizzazione
(Isf) per Gaza. Sono tanti i nodi da sciogliere, ma l’aspetto decisivo riguarda
la struttura di comando. I funzionari Usa – sotto anonimato – sostengono che lo
scopo non sarà combattere Hamas. Poi indicano le altre questioni: le dimensioni,
la composizione, l’alloggio, l’addestramento e le regole di ingaggio delle
truppe.
L'articolo Gaza, l’ipotesi di truppe internazionali nella Striscia da gennaio:
conferenza Usa a Doha il 16 dicembre proviene da Il Fatto Quotidiano.
A poche ore dall’annuncio dell’Islanda di non partecipare al prossimo Eurovision
Song Contest, 2026, che si terrà si terrà a Vienna dal 12 al 16 maggio 2026,
anche il vincitore dell’edizione 2024, Nemo, ha preso una decisione netta contro
la partecipazione di Israele.
L’artista svizzero vincitore dell’edizione 2024 dell’Esc a Malmo, in Svezia, ha
deciso di restituire il trofeo della vittoria alla sede dell’Ebu (European
Broadcasting Union) a Ginevra. “Se i valori che celebriamo sul palco non vengono
vissuti fuori scena, allora anche le canzoni più belle perdono di significato”,
ha dichiarato Nemo sui social. +
E ancora: “Ho vinto l’Eurovision e con esso mi è stato assegnato il trofeo. E
anche se sono immensamente grato alla comunità che ruota attorno a questo
concorso, oggi non sento più che questo trofeo debba stare sul mio scaffale“.
“L’Eurovision afferma di sostenere l’unità, l’inclusione e la dignità per tutti.
– ha continuato – Questi valori hanno reso questo concorso significativo per me.
Ma la continua partecipazione di Israele, durante quello che la Commissione
internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite ha definito un
genocidio, mostra un chiaro conflitto tra questi ideali e le decisioni prese
dall’Ebu”.
Poi l’accusa più grave: “Il concorso è stato ripetutamente utilizzato per
ammorbidire l’immagine di uno Stato accusato di gravi illeciti, mentre l’Ebu
insisteva sul fatto che l’Eurovision è ‘apolitico’. Quando interi Paesi si
ritirano a causa di questa contraddizione, dovrebbe essere chiaro che c’è
qualcosa di profondamente sbagliato. Così ho deciso di restituire il mio trofeo
alla sede dell’Ebu a Ginevra. Con gratitudine e con un messaggio chiaro: vivete
secondo ciò che affermate. Aspetto il momento in cui le parole e le azioni
saranno in linea. Fino ad allora, questo trofeo è vostro”.
Dopo Spagna, Paesi Bassi, Irlanda e Slovenia, anche l’Islanda ha annunciato il
ritiro dal prossimo Eurovision a causa della partecipazione di Israele.
L’emittente nazionale Rùv del Paese nord-europeo ha comunicato la sua decisione
oggi dopo la riunione del relativo consiglio di amministrazione.
L'articolo “Restituisco il trofeo che ho vinto a Eurovision Song Contest 2024”:
il cantante Nemo prende posizione contro la conferma di Israele in gara proviene
da Il Fatto Quotidiano.
“Sì, dopo il 7 ottobre i giovani che obiettano come noi sono aumentati, il
nostro movimento cresce, ma è troppo lento. Non si può aspettare che la società
israeliana cambi per fermare il genocidio e la pulizia etnica: la comunità
internazionale deve agire ora”. Hanno fatto 2.700 chilometri da Tel Aviv per
diffondere questo messaggio, ne faranno altre centinaia in giro per l’Italia per
essere sicuri che venga ascoltato, accompagnati in un tour da Assopace
Palestina. Ido Elam e Ella Keidar Greenberg sono due giovani di 19 anni,
obiettori di coscienza o refusenik, come si dice in Israele. Hanno rifiutato di
prestare servizio nell’esercito quando sono stati chiamati a farlo raggiunta
l’età della leva obbligatoria, come capita a tutti i ragazzi e ragazze
israeliane. “Sono attivista contro l’occupazione nei Territori palestinesi da
quando ho 14 anni, avendo conosciuto l’apartheid in West Bank mi è stato subito
chiaro che non potevo prendere parte alla politica di pulizia etnica messa in
pratica dal nostro governo a Gaza”, spiega al Fatto Ella Greenberg.
Il 19 marzo 2025, a 18 anni, mentre da quattro era già un’attivista transgender,
si è presentata al centro di reclutamento di Tel Hashomer con in mano la lettera
di chiamata, e ha dichiarato il suo rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza,
l’opposizione all’occupazione e alla guerra in generale. La mossa le è costata
un mese di carcere, da cui è uscita l’11 aprile scorso. Aleggia la minaccia di
ulteriori misure penali, ma in realtà per Ella, come gli altri refusenik, il
trattamento è stato piuttosto lieve, se paragonato a quello riservato ai
cittadini e non di origine palestinese incarcerati nel Paese (quasi la metà in
detenzione amministrativa senza accuse formulate, secondo le ong dei diritti
umani di Israele). “Ora siamo persone libere”, continua Greenberg, “le punizioni
per gli obiettori sono piuttosto lievi perché le autorità ci tengono a evitare
di farci diventare dei martiri agli occhi degli altri israeliani”. Lei e Ido
Elam sono i volti più vista dell’associazione Mesarvot, ossia “noi rifiutiamo”
in ebraico, rete che si concentra sull’opposizione al servizio militare
obbligatorio e all’occupazione dei territori palestinesi.
Piuttosto, come capita a molti attivisti radicali israeliani che definiscono
fuori dai denti le politiche del governo di Gerusalemme come apartheid e pulizia
etnica, gli obiettori sono tacciati di essere dei traditori, in un Paese in cui
l’esercito è un pilastro portante (e visibile) della società, e il servizio
militare associato a un dovere morale. Venerdì i due attivisti di Mesarvot
saranno al circolo Arci Angelo Mai per un’ultima conferenza, accompagnata dalla
proiezione del film Innocence di Guy Davidi (regista noto per il documentario
Five broken cameras): “Non lo abbiamo visto neanche noi, ne parleremo”, spiega
Ido, intervistato a margine di un incontro al Senato della Repubblica a Roma,
ospitato da Alleanza verdi sinistra con, tra gli altri, Nicola Fratoianni e
Luisa Morgantini.
Il film Innocence è stato lanciato alla Mostra di Venezia nel 2022, ma in
Israele praticamente non è stato distribuito. È una critica frontale della
militarizzazione della società israeliana, e solleva il tema dei suicidi tra i
soldati e degli effetti devastanti del disturbo post traumatico da stress, una
sorta di tabù per la politica israeliana, soprattutto per la maggioranza che
sostiene Benjamin Netanyahu. In un contesto in cui il racconto pubblico di
sh’khol (il lutto per i figli caduti) nel dibattito pubblico prende
esclusivamente le forme della commemorazione patriottica dell’eroismo dei
caduti.
Davanti al pubblico internazionale, Ella e Ido non vogliono portare soltanto la
loro testimonianza. Cercano piuttosto di suscitare un ribaltamento di
prospettiva: non limitarsi ad ascoltare quella fetta minoritaria di israeliani
critici con le politiche più violente portate avanti contro i palestinesi, non
aspettare che Mesarvot diventi un’organizzazione di massa prima di agire, ma
piuttosto prendersela con i leader, pretendere la massima pressione sul governo
Netanyahu da parte della comunità internazionale, per il rispetto del diritto
internazionale. “Quello che facciamo non sarà mai sufficiente”, confessa Ella.
“Non illudiamoci che le politiche del governo israeliano cambieranno per via di
un cambio di mentalità degli israeliani. Se tante persone oggi giustificano il
genocidio è perché queste politiche sono reali, se la comunità internazionale si
adoperasse per fermarle, per renderle illegali e impossibili, allora vedrete che
anche la maggioranza silenziosa cambierà idea”.
L'articolo “Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito
accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il piano di Donald Trump per la Striscia di Gaza sta per essere definito. E
l’Amministrazione statunitense ha invitato l’Italia e la Germania ad aderire al
Consiglio di Pace. La notizia è stata riportata da Axios che cita due fonti a
conoscenza diretta della questione. È inoltre previsto che a guidare il Gaza
Board of Peace sia lo stesso presidente Trump e che i suoi principali
consiglieri diventeranno membri del comitato esecutivo internazionale. Secondo
la stessa testata statunitense, gli alleati sarebbero stati informati anche
sulla Forza internazionale di stabilizzazione (Isf), che dovrebbe essere
composta da rappresentanti di diversi Paesi per il mantenimento della pace sotto
il mandato delle Nazioni Unite. Indonesia, Azerbaigian, Turchia ed Egitto hanno
già detto di voler inviare soldati. Non è ancora chiaro se questi Paesi ne
faranno parte e se qualche Stato occidentale accetterà di inviare truppe. La
seconda fase dell’accordo per Gaza – recentemente approvato dall’Onu – prevede,
infatti, un ulteriore ritiro dei militari israeliani, il dispiegamento delle Isf
a Gaza e l’entrata in vigore di una nuova struttura di governo, che include il
Consiglio di Pace. Come già trapelato nei giorni scorsi, del Board non farà
parte Tony Blair, dopo la ferma opposizione dei Paesi arabi. Rimangono però
ancora dubbi sulle tempistiche sull’inizio della fase due.
UN GENERALE USA A CAPO DELLA FORZA INTERNAZIONALE
Secondo quanto trapela, il tycoon starebbe anche pianificando la nomina di un
generale americano a capo della Forza Internazionale. Una nomina che sarebbe
finalizzata ad accrescere ulteriormente la responsabilità degli Stati Uniti
nella messa in sicurezza e nella ricostruzione della Striscia, mentre a Gaza si
continua ancora a morire anche per le inondazione e il freddo. Gli Stati Uniti
hanno già istituito un quartier generale civile-militare in Israele per
monitorare il complesso cessate il fuoco e coordinare gli aiuti umanitari. Gli
Usa guiderebbero così la forze di sicurezza dell’enclave senza però inviare
truppe americane sul terreno. La notizia sarebbe stata già comunicata
dall’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Mike Waltz al primo ministro
Benjamin Netanyahu e ad altri funzionari. “Waltz ha persino affermato di
conoscere personalmente il generale e ha sottolineato che è una persona molto
seria”, ha detto un funzionario israeliano. Gli Stati Uniti hanno anche proposto
che l’ex inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente Nickolay Mladenov
ricopra il ruolo di rappresentante del Board of Peace sul campo a Gaza,
collaborando con un futuro governo tecnocratico palestinese, secondo fonti
informate.
L'articolo Media: “Gli Usa hanno invitato Italia e Germania ad aderire al
Consiglio di Pace per Gaza” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La Palestina è stata nuovamente e volutamente cancellata dall’attenzione dei
mezzi di comunicazione che sono fortemente controllati da governi e da interessi
economici e finanziari. La mobilitazione mondiale dell’umanità contro il
genocidio, la missione di pace della Global sumud flotilla, le piazze come fiumi
in solidarietà nei confronti del popolo palestinese, avevano messo seriamente in
difficoltà i governi occidentali, sempre più complici, anche sul piano
giuridico, del genocidio messo in atto dal terrorismo di stato israeliano. Hanno
cominciato ad avere tutti timore, da Trump a Meloni per passare alle varie
cancellerie occidentali, che il vento straordinario di umanità e partecipazione
li potesse travolgere.
All’inizio eravamo davvero in pochi a parlare di crimini di guerra e di
genocidio, poi un poco alla volta la verità è stata, come sempre,
rivoluzionaria. Hanno dovuto costruire, con Trump in testa, in fretta e furia
una piattaforma di una pseudo pace imposta dall’alto, quindi ingiusta già solo
per questo, che per ora è poco più di una fragile tregua, mentre Israele
continua ad uccidere, massacrare, occupare, abusare. Un cessate il fuoco imposto
alle parti dalle establishment mondiali per evitare che i popoli potessero
prendere il sopravvento e scrivere la storia.
Pensavano di cancellare definitivamente la Palestina e si sono ritrovati un
mondo sempre più palestinese. Merito soprattutto dell’eroica resistenza
palestinese e del martirio di decine di migliaia di palestinesi.
Ma non vi può essere pace senza giustizia e verità e qui veniamo alle note assai
dolenti perché, con la prevalenza sempre più della legge del più forte e della
umiliazione del diritto internazionale, sarà sempre drammaticamente più
difficile garantire giustizia ad un popolo che ha sofferto nella storia così
tanto. La Palestina sarà ancora di più terra di conquista, non solo del progetto
criminale sionista israeliano, che porta alla sua cancellazione, ma anche delle
altre forze colonialiste che punteranno a lucrare enormi affari sulle macerie
provocate dalle bombe e dai missili dello sterminio di massa.
Ecco anche come si muove l’economia capitalistica e liberista, soprattutto
quando entra in crisi non congiunturale ma strutturale, con le guerre, il
traffico d’armi, la distruzione, la ricostruzione, i domini, le occupazioni, il
disegno di un nuovo ordine mondiale economico e politico fondato sulla paura e
sulle oligarchie di finte democrazie sempre più solo formali ed apparenti ma che
agiscono al di fuori del diritto internazionale. In Italia, poi, siamo al
continuo tradimento della Costituzione, una sorta di recidiva reiterata con la
garanzia però dell’impunità, dove l’art. 11 in cui la guerra è ripudiata viene
preso a calci istituzionali ormai da anni.
La guerra è il peggiore fatto umano che la storia conosca, non sono mai i popoli
a volerla, la subiscono, ma l’indifferenza ed il silenzio dei popoli può però
diventare humus essenziale per gli interessi egoistici, affaristici, politici e
criminali di governanti senza scrupoli.
Ci vorrebbe una grande mobilitazione contro le guerre, per la pace e la
fratellanza universale, a sostegno dei popoli oppressi. Solo il risveglio delle
coscienze e le mobilitazioni individuali e collettive spaventano il sistema.
Rimuovere gli ostacoli alla pace ed attivare la sovranità popolare non è solo un
diritto e nemmeno un dovere, è di più, è una missione costituzionale.
L'articolo La Palestina già dimenticata? Il silenzio rende i popoli preda di
interessi affaristici proviene da Il Fatto Quotidiano.
La missione delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) ha denunciato che un proprio
convoglio è stato bersaglio di colpi sparati dall’esercito israeliano mentre
pattugliava un’area della Blue Line, in territorio libanese. L’episodio,
avvenuto ieri nei pressi della località di Sarda, è stato reso noto attraverso
un comunicato ufficiale. Nessun peacekeeper è rimasto ferito.
Secondo la ricostruzione dell’Unifil, i militari a bordo dei veicoli della
missione stavano effettuando un pattugliamento regolarmente programmato. In quel
momento, un carro armato Merkava dell’Idf avrebbe aperto il fuoco. “Una raffica
di mitragliatrice da dieci colpi è partita verso il convoglio, mentre altre
quattro raffiche da dieci colpi sono andate nelle vicinanze”, si legge nella
nota.
Unifil afferma di aver immediatamente attivato i canali di collegamento con
l’Idf, chiedendo lo stop ai colpi. La forza Onu sottolinea inoltre che
l’esercito israeliano era stato informato “in anticipo della posizione e
dell’orario del pattugliamento previsto”, in conformità alla prassi abituale.
Nel comunicato la missione definisce l’accaduto “una grave violazione della
risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza” e invita le forze israeliane a
“cessare comportamenti aggressivi e attacchi contro o vicino ai peacekeeper”,
ricordando la delicatezza della situazione lungo il confine.
Fonti informate precisano che i soldati coinvolti nell’episodio appartengono ai
contingenti francese e finlandese del Force Commander Reserve di Unifil. Non
risultano militari italiani tra i peacekeeper coinvolti.
Il 16 novembre scorso un altro episodio. Tel Aviv aveva giustificato i colpi
sostenendo “che fosse stato un incidente causato dal maltempo”. A settembre le
granate israeliane avevano sfiorato i caschi blu innescando anche una serie di
reazioni internazionali. Il 27 ottobre scorso invece era stato lo stato
israeliano ad accusare l’Onu di aver abbattuto un drone.
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L'articolo Unifil denuncia: “Colpi dell’esercito israeliano contro un convoglio
Onu in un’area della Blue Line. Grave violazione” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Un cappio giallo appuntato sulla giacca. Così il ministro israeliano estremista
Itamar Ben Gvir e i parlamentari del suo partito di ultradestra Otzma Yehudit si
sono presentati alla discussione in commissione sul disegno di legge per
introdurre la pena di morte per i terroristi che uccidono cittadini israeliani.
Le spille dorate al petto ricordano i distintivi con nastro giallo indossati per
sensibilizzare l’opinione pubblica sul rapimento degli ostaggi da parte dei
miliziani di Hamas il 7 ottobre 2023. L’ufficio del ministro, riporta il Times
of Israel, ha fatto sapere che rappresentano “l’impegno dei parlamentari a
chiedere la pena di morte per i terroristi” e inviare “un messaggio chiaro che i
terroristi meritano di morire“.
Il ministro per la Sicurezza nazionale, figura di punta dell’ultradestra
messianica israeliana, non è nuovo a questo tipo di uscite e provocazioni. Già
dopo l’approvazione in prima lettura del disegno di legge si era presentato alla
Knesset con un vassoio di dolcetti che poi aveva distribuito a tutti per
festeggiare il via libera.
Dopo il via libera del mese scorso il disegno di legge è stato oggetto di
successive modifiche e ora deve deliberare il Comitato per la Sicurezza
Nazionale. Secondo il consulente legale del comitato, però, nella sua forma
attuale pone diverse difficoltà costituzionali.
Contestato da tutti i gruppi israeliani per i diritti umani, il disegno di legge
è una delle bandiere del partito di Ben Gvir. Nel corso dell’udienza di ieri, il
ministro ha affermato che il cappio è solo “una delle opzioni attraverso le
quali applicheremo la pena di morte per i terroristi. Certo – ha aggiunto – c’è
l’opzione della forca, della sedia elettrica e anche l’opzione dell’iniezione
letale”.
Ben Gvir si è poi dichiarato orgoglioso delle condizioni sempre più disastrose
dei prigionieri palestinesi sotto la sua supervisione, alla luce dell’aumento
dei decessi. “Stamattina ho visto che è stato pubblicato che sotto Itamar Ben
Gvir sono morti 110 terroristi. Hanno detto che non si è mai verificato nulla di
simile dalla fondazione dello Stato”, ha affermato, negando che il servizio
carcerario abbia avuto un ruolo nelle morti: “Sono arrivati malati o sono morti
a causa di varie ferite”.
L'articolo Il ministro israeliano Ben Gvir indossa una spilla a forma di cappio
durante la discussione sulla pena di morte proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nella mattina di lunedì 8 dicembre, la polizia israeliana ha fatto irruzione
della polizia israeliana nella sede dell’Unwra a Gerusalemme est. Lo ha
denunciato il direttore dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati
palestinesi Philippe Lazzarini. Sono stati sequestrati computer e altre
componenti It, oltre che mobili e altre attrezzature. Le comunicazioni sono
state tagliate ed è stata ammainata la bandiera, sostituita da quella
israeliana. La polizia era accompagnata da funzionari del comune. Il personale
dell’agenzia era stato costretto a lasciare il sito all’inizio dell’anno. “Ma
qualsiasi passo venga fatto a livello interno, il compund mantiene lo status di
sito Onu, immune da interferenze di qualsiasi tipo”. “Quest’ultima azione
rappresenta un flagrante mancanza di rispetto degli impegni presi da Israele
come Paese membro dell’Onu per proteggere e rispettare l’inviolabilità dei siti
dell’Onu”, ha dichiarato Lazzarini in un post su X. Dura condanna del blitz
anche da parte del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres che lo ha
definito una violazione della Carta delle Nazioni Unite e ha chiesto a Israele
di rispettare gli obblighi che spettano a ogni Stato membro.
L'articolo Blitz della polizia israeliana nella sede dell’Unrwa a Gerusalemme
est: sostituita la bandiera dell’Onu proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sono 67 i giornalisti uccisi nel mondo dal 1 dicembre 2024 al 1 dicembre 2025.
Lo rende noto Reporter senza frontiere (Rsf) nel suo bilancio annuale pubblicato
oggi. Il numero “è tornato a crescere, a causa delle pratiche criminali delle
forze armate regolari e non e della criminalità organizzata“, spiega
l’associazione secondo la quale “i giornalisti non muoiono, vengono uccisi”.
Dei 67 professionisti dei media uccisi nell’ultimo anno, quasi la metà (43%) è
stata uccisa a Gaza dalle forze armate israeliane e il 79% (53) è stato vittima
della guerra o delle organizzazioni criminali. Nel Messico, paese afflitto dai
cartelli della droga, ad esempio, il 2025 è stato l’anno più mortale degli
ultimi tre per i giornalisti. Nel frattempo, 503 giornalisti sono dietro le
sbarre in tutto il mondo. Inoltre, a un anno dalla caduta di Bashar al-Assad,
molti dei giornalisti arrestati o catturati sotto il suo regime rimangono
introvabili, rendendo la Siria il Paese con il più alto numero di professionisti
dei media scomparsi.
L'articolo Reporter senza frontiere: “67 giornalisti uccisi nel 2025, la metà a
Gaza dall’esercito israeliano” proviene da Il Fatto Quotidiano.