Alla fine il colpo è arrivato: i nodi del dirigismo di Roma iniziano a venire al
pettine, grazie all’apertura della procedura d’infrazione di Bruxelles per il
golden power all’italiana. Cioè dell’esercizio dei poteri speciali di veto del
governo in caso di passaggio di mano di imprese considerate strategiche. Poteri
eccezionali che ne hanno combinate un po’ di tutti i colori negli ultimi anni,
fino al clamoroso decreto di Pasqua con cui il governo – pure lui banchiere e, a
sua volta, scalatore di banche – ha di fatto sbarrato la strada a una banca
italiana sgradita (Unicredit, cioè la seconda istituzione a rilevanza sistemica
nazionale subito dietro Intesa Sanpaolo) che avrebbe voluto acquistare un’altra
banca italiana (Bpm) molto cara alla Lega.
L’esecutivo Meloni aveva già preso dei provvedimenti forti e, va detto, la
tendenza globale è questa. Soprattutto in Europa, con campioni che vanno dalla
Spagna alla Germania passando per la Francia. Ma quello su Unicredit-Bpm, che
pure formalmente non rientra nella contestazione aperta dalla Commissione
venerdì 21 novembre, è stato un caso molto particolare. Primo perché ha
riguardato due banche italiane in un’Italia in preda a un risiko che ha avuto
tra i protagonisti (vincenti) lo stesso governo. Il quale per altro avrebbe
preferito vedere Bpm sposa del “suo” Monte dei Paschi di Siena. Secondo, perché
le quattro condizioni imposte per dare il via libera alle nozze tra Unicredit e
Bpm avrebbero condizionato pesantemente l’andamento degli affari della banca.
Tanto che perfino il Tar del Lazio ne ha annullate due, mentre la direzione
generale della Concorrenza della Commissione europea le ha contestate tutte e
quattro una ad una in una durissima lettera di metà luglio. La principale
critica era stata sulle ragioni di pubblica sicurezza sventolate dal ministro
dell’Economia Giancarlo Giorgetti a sostegno del provvedimento, che a Bruxelles
non sembravano motivate. Poi c’è stata una serie di altolà sulle leggi
comunitarie e sui rischi che avrebbe corso Unicredit se avesse dovuto rispettare
le prescrizioni: fuga degli investitori, attività d’impresa limitata, rischi per
la prudente gestione e la stabilità dell’istituto e via discorrendo. La lista è
lunga, tanto che la conclusione della lettera era stata una messa in mora per
l’Italia, dando a Roma due settimane per convincere quelli di Bruxelles che si
erano sbagliati. Altrimenti? Il decreto golden power su Unicredit-Bpm sarebbe
stato fatto revocare e il Paese sarebbe finito sotto procedura d’infrazione
delle leggi comunitarie.
Roma ha replicato sostanzialmente ripetendo le medesime cose contestate dalla
lettera. O, almeno, questo è quanto hanno riferito dalle parti del ministero
dell’Economia. Poi è calato il silenzio, forse complice il fatto che, come
riferiva Politico due settimane fa, tutto il dossier Italia-golden power era
finito nel congelatore per la volontà della presidente della Commissione Ursula
Von der Leyen di non creare tensioni con Giorgia Meloni. Anzi. E il fatto che
Unicredit avesse ritirato l’offerta su Bpm ha agevolato le cose. Oggi però
veniamo a sapere che il caso alla Concorrenza è ancora aperto: “Stiamo valutando
le risposte dell’Italia alle preoccupazioni che abbiamo sollevato questa
estate”, ha spiegato la portavoce della Commissione, Arianna Podestà, chiarendo
che le procedure a carico dell’Italia sono due, una generale sull’uso dei poteri
speciali e uno specifico sul caso Unicredit-Bpm.
Quindi, seppure lentamente, le cose fanno il loro corso. Intanto però il tempo
passa e le imprese chiedono chiarezza legale. Non c’è solo Unicredit, che pure
sul decreto golden power ha appena fatto ricorso al Consiglio di Stato proprio
per questo motivo. Le aziende che vorrebbero crescere acquistando asset in
Italia tacciono o accondiscendono per non irritare nessuno, ma sono allo stesso
tempo frenate e ingolfate dall’aleatorietà dei poteri speciali del governo.
Tanto che, notano gli statistici del golden power, nel dubbio vengono fatte
notifiche anche quando non servirebbero, con spreco di soldi, tempo ed energia.
E la giurisprudenza non le aiuta. Nel senso che se ne lamenta anch’essa nel
corso di convegni specializzati. Come quello che ha recentemente organizzato la
Fondazione Courmayeur sui Problemi attuali di diritto e procedura civile su
Golden Power e Autorità di vigilanza: rapporti tra Stato e mercato. Il problema,
rilevavano in estrema sintesi i relatori più critici, è che sotto la bandiera
dei poteri speciali lo Stato è arrivato a esercitare una specie di controllo di
fatto sulle imprese oggetto dei provvedimenti, pur senza esserne azionista. E
non si è limitato a dare degli indirizzi su come gestire l’impresa comprata, ma
talvolta ha perfino interferito direttamente sulla scelta di chi avrebbe dovuto
gestire l’azienda, cioè sulla composizione dell’organismo di gestione. Cose che
il diritto societario non prevede e che mettono in fuga gli investitori
interessati a mettere soldi nelle imprese italiane considerate strategiche.
Senza dimenticare che l’incertezza del diritto e gli azionisti “speciali” fanno
a pugni con la concorrenza, che non è un concetto astratto. Anzi, è talmente
concreto che, quando non c’è, il prezzo per i clienti delle imprese è più alto
di quanto dovrebbe. Così le aziende e i loro avvocati chiedono almeno che la
situazione venga affrontata e normata in modo più organico. E trasparente. In
altre parole, parafrasando il messaggio inviato da Giorgia Meloni all’assemblea
di Assonime di ottobre, vorrebbero un rapporto più giusto ed equilibrato tra
Stato e imprese. Nei fatti, non a parole.
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Stato banchiere, scalatore di banche e arbitro resta aperto proviene da Il Fatto
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Tanto tuonò che piovve. Dopo mesi di indiscrezioni e lettere di messa in mora,
la Commissione europea si è risolta ad aprire una procedura d’infrazione a
carico dell’Italia a causa dell’incompatibilità dei “poteri discrezionali nelle
fusioni bancarie con il diritto dell’Unione europea”. Chiaro il riferimento ai
poteri speciali di veto del governo sulle fusioni e acquisizioni di aziende
strategiche ai sensi del golden power e, in particolare, al loro utilizzo nel
caso di operazioni tra banche come il decreto di Pasqua con cui l’esecutivo ha
di fatto bloccato l’acquisizione di Bpm da parte di Unicredit.
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