di Francesco Valendino
C’è qualcosa di davvero commovente nell’ottimismo dei nostri eurocrati. Mentre
l’economia tedesca affonda, la Francia è politicamente paralizzata e i governi
europei cadono come birilli, a Bruxelles hanno trovato la soluzione a tutto:
imbarcare l’Ucraina nell’Unione Europea entro il 1° gennaio 2027. Non un giorno
di più.
La notizia, spifferata dal Financial Times, svela l’ultima genialata partorita
sull’asse Kiev-Bruxelles per ingraziarsi il nuovo padrone, Donald Trump. Il
piano è semplice e, come tutte le cose semplici pensate dai complessi burocrati
europei, demenziale: offriamo a The Donald una via d’uscita. Lui non deve
spendere più un dollaro per Zelensky, e in cambio noi ci accolliamo la
ricostruzione, i debiti e la difesa di un Paese in guerra, facendolo entrare
nell’Ue a tempo di record.
Siamo di fronte al capolavoro dell’ipocrisia. Per decenni, la solenne
Commissione Europea ci ha fatto una testa così con il “merito”. La Turchia
aspetta dal secolo scorso, i Balcani occidentali sono in sala d’attesa da
vent’anni, costretti a misurare la curvatura delle banane e a riformare i codici
civili fino all’ultima virgola per aprire mezzo capitolo negoziale. Per
l’Ucraina, invece, vale il telepass. Dei 36 capitoli negoziali necessari – che
richiedono riforme strutturali ciclopiche in un Paese che, prima dell’invasione
russa, Transparency International classificava come il più corrotto d’Europa
dopo la Russia – Kiev non ne ha chiuso nemmeno uno. Ma che importa? Quando la
geopolitica chiama, lo Stato di diritto risponde: “Obbedisco”.
La parte più esilarante, però, è il metodo. Per far passare questa follia serve
l’unanimità, e c’è quel guastafeste di Viktor Orban che continua a dire niet. E
qui i nostri atlantisti “de sinistra”, quelli che dipingono Trump come il nuovo
Hitler, a chi si affidano? A Trump stesso. Il piano prevede che sia il tycoon
americano a torcere il braccio all’amico Orban per costringerlo a dire sì. Siamo
al cortocircuito: l’Europa “dei valori” prega il mostro arancione di usare
metodi da gangster per violare le proprie regole interne.
Ma c’è un dettaglio che i nostri strateghi da aperitivo fingono di ignorare.
L’articolo 42.7 del Trattato dell’Unione Europea. È la clausola di mutua difesa,
che è persino più vincolante dell’articolo 5 della Nato: obbliga gli Stati
membri a prestare aiuto “con tutti i mezzi in loro potere” a chi viene
aggredito. Traduzione per i non addetti ai lavori: se l’Ucraina entra nell’Ue
mentre è in guerra o in una tregua armata, e Putin spara un petardo oltre il
confine, l’Italia, la Francia e la Germania sono giuridicamente in guerra con la
Russia.
Ecco il vero “piano di pace”: trasformare un conflitto locale in una guerra
continentale automatica. E tutto questo viene venduto come un compromesso.
Mosca, ci dicono, dovrebbe accettare di buon grado. Peccato che al Cremlino
sappiano leggere i trattati meglio di Von der Leyen. Offrire alla Russia
un’Ucraina nell’Ue ma fuori dalla Nato è come offrire a un diabetico una torta
alla panna dicendogli che è senza zucchero perché sopra non c’è la ciliegina.
La perseveranza è una virtù, ma l’idiozia è un vizio. E a Bruxelles sembrano
averne fatto una dottrina politica.
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L'articolo Far entrare l’Ucraina nell’Ue segnerà l’inizio della nostra guerra
con la Russia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Zonaeuro
Assistiamo a sempre più surreali dibattiti sulla necessità di rilanciare
l’Unione Europea rendendola finalmente un protagonista militare all’altezza dei
difficili tempi che corrono, ovvero del presunto tradimento statunitense. Tali
dibattiti evidenziano una volta di più la pessima qualità del ceto politico e
giornalistico italiano, espressione purtroppo veridica di un Paese alla deriva
sotto l’egida della pessima Meloni con la sua Armata Brancaleone di incapaci e
profittatori, nonché dell’altrettanto pessima finta opposizione piddina che
sulle questioni cruciali della pace e della guerra dimostra tutta la sua
subalternità alle forze dominanti.
Tutti costoro vaneggiano enunciando tesi sconnesse e destituite del benché
minimo fondamento, perché si ostinano a negare, come ogni psicopatico che si
rispetti, alcune verità del tutto elementari e inconfutabili.
Primo. La destabilizzazione tentata undici anni fa in Ucraina dalla Nato contro
la Russia e buona parte del popolo ucraino è fallita.
Secondo. Tale fallimento rientra nel quadro d’insieme del naufragio storico
dell’Occidente coloniale e neocoloniale. E’ definitivamente concluso, per
fortuna, il lungo periodo, durato circa 500 anni, dell’egemonia occidentale sul
pianeta.
Terzo. L’Occidente che sta tramontando definitivamente ha dominato il pianeta in
questi cinque secoli avvalendosi di strumenti di morte: guerre di sterminio,
genocidi e oppressione di moltitudini in Africa, America Latina, Asia. Non c’è
quindi nessun presunto primato in materia di diritti umani e democrazia da
rivendicare. La democrazia e lo Stato di diritto vivono attualmente una crisi
profonda e tendenzialmente esiziale proprio nel cuore stesso dell’Occidente
capitalistico.
Quarto. Il genocidio del popolo palestinese, tuttora in atto nonostante la finta
tregua di Sharm El Sheik, costituisce un’ulteriore mefitico sussulto del
corpaccio agonizzante dell’Occidente. Ne è protagonista lo Stato d’Israele,
governato da una compagine di nazisionisti che praticano apartheid, pulizia
etnica e massacri in modo non differente da quello che fu all’epoca il Terzo
Reich nazista e per tale motivo sono oggi sotto accusa in tutto il mondo, anche
in sedi giudiziarie riconosciute come la Corte internazionale di giustizia e la
Corte penale internazionale. Complici del genocidio sono del resto gli Stati
occidentali che da sempre finanziano e armano Israele coprendone i crimini, con
in testa Stati Uniti, Germania e Italia.
Quinto. Consapevole della decadenza occidentale in atto, il presidente
statunitense Donald Trump sta tentando una disperata manovra di contenimento
all’insegna del cosiddetto “Make America Great Again”. In tale ambito Trump
cerca un accordo con la Russia, nell’illusoria convinzione di dividerla dalla
Cina e in quella altrettanto demenziale di resuscitare la dottrina Monroe
affermando il proprio predominio in America Latina scatenando guerre
d’aggressione contro il Venezuela ma anche contro Colombia, Messico, Brasile,
Cuba. Si veda al riguardo il recente documento relativo alla Strategia nazionale
degli Stati Uniti. Contemporaneamente Trump sta pricedendo alla fascistizzazione
dello Stato all’insegna del razzismo contro i migranti.
Sesto. In questo quadro gli Stati Uniti, consapevoli – più e meglio degli ottusi
europei – della situazione di crisi terminale dell’Occidente, hanno deciso di
abbandonare la nave che sta affondando, lasciando gli europei a pagare il conto
della guerra in Ucraina e auspicando in sostanza la fine dell’Unione Europea.
Settimo. I dementi e corrotti governanti europei stanno scegliendo la via della
guerra contro la Russia, sia perché la potente lobby degli armamenti chiede il
riarmo, sia perché la militarizzazione della società sembra loro la risposta più
adeguata di fronte alla crisi della democrazia europea. Piuttosto che mollare il
potere personaggi come Merz, Macron, Stamer e Meloni sono pronti alla catastrofe
bellica. Per questo lanciano in continuazione allarmi infondati sulla presunta
aggressività russa, spingono fino all’inverosimile l’acceleratore sul riarmo,
impoverendo ulteriormente le loro economie e le loro società, ostacolano
irresponsabilmente il raggiungimento di una pace definitiva in Ucraina,
alimentando le pulsioni revansciste di Zelensky & C., rendendosi in tal modo
colpevoli, come lo fu all’epoca Boris Johnson, quando sabotò poco dopo
l’invasione russa il raggiungimento di un accordo di pace a Istanbul, della
morte di decine di migliaia di giovani ucraini e russi.
Prendere atto dei sette postulati appena enunciati costituisce la necessaria
operazione di pulizia preliminare per continuare a parlare di Europa. Ciò
comporta evidentemente una vera e propria rivoluzione concettuale e politica che
veda la rimozione delle attuali sconfitte, decotte e corrotte classi dominanti
europee per aprirsi a una prospettiva di pace e cooperazione nell’ambito di un
mondo multipolare, mentre la ruota della storia si rimette in moto, nonostante e
contro l’Unione Europea in disfacimento.
L'articolo L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per
prenderne atto (e da cui ripartire) proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’accordo tra Parlamento e Consiglio Ue sul pacchetto Omnibus I che comprende
l’allentamento delle restrizioni per le aziende su due diligence e reportistica
ambientale, annunciato non più tardi di una settimana fa dalla presidenza di
turno danese, continua a generare dubbi e proteste. Non solo quelle dei partiti
più sensibili alle questioni ambientali e dei diritti umani che hanno denunciato
quello che è solo l’ultimo colpo assestato al Green Deal, con il Partito
Popolare Europeo che per riuscirci ha chiesto il supporto dell’estrema destra,
ma anche quelle delle organizzazioni più attente nel monitoraggio di fenomeni di
corruzione e conflitto d’interessi. Per questo dieci associazioni hanno scritto
al Comitato consultivo sulla condotta dei membri sottolineando il potenziale
conflitto d’interesse dell’eurodeputato Jörgen Warborn (Ppe), a capo della
relazione ma allo stesso tempo presidente di SME Europe, associazione legata ai
Popolari che, si legge sul suo sito, si batte per i diritti delle piccole e
medie imprese in diversi settori. Proprio quei soggetti che otterrebbero
maggiori benefici dal nuovo accordo raggiunto in Ue.
L’incarico di Warborn alla Presidenza di Small and Medium Entrepreneurs of
Europe non è un segreto: compare nel board del loro sito ufficiale insieme ad
altri europarlamentari ed ex membri, compreso Antonio Tajani, e ha esplicitato
il suo incarico anche nella sua dichiarazione di interessi privati. I firmatari
della lettera di protesta sottolineano però che, “sebbene sia un’entità
giuridica separata e né un partito politico europeo né una fondazione, SME
Europe opera di fatto come un’ala di lobbying del Partito Popolare Europeo. Come
stabilito nel suo statuto, SME Europe ‘è la rete politica indipendente di
organizzazioni politiche cristiano-democratiche e conservatrici e pro-business.
Il suo obiettivo principale è contribuire a plasmare la politica dell’Ue in modo
più favorevole alle Pmi‘”.
Questo, a loro dire, si scontra con il ruolo svolto dall’eurodeputato
all’interno della commissione Giuridica del Parlamento Ue, come membro
supplente, e soprattutto come “relatore di taluni requisiti in materia di
rendicontazione di sostenibilità aziendale e di dovere di diligenza
(2025/0045(COD)), una proposta legislativa della Commissione volta, tra le altre
cose, a ridurre l’onere di rendicontazione per le imprese più piccole”. Ciò che
i firmatari sottolineano è che nella sua dichiarazione di consapevolezza di
conflitto d’interesse per l’incarico affidato, Warborn ha pensato che non fosse
necessario menzionare il proprio incarico in SME Europe.
I firmatari continuano poi ricordando le prese di posizione dell’eurodeputato in
occasione delle discussioni sulla proposta: “Nella sua bozza originaria di
relazione della commissione egli ha proposto emendamenti che avrebbero
ulteriormente ristretto l’ambito delle imprese soggette a determinati obblighi
di rendicontazione rispetto alla proposta della Commissione. Durante un
dibattito in plenaria su tale fascicolo il 22 ottobre 2025, Warborn ha
sollecitato gli eurodeputati a votare a favore del mandato per i negoziati
interistituzionali al fine di ‘fornire chiarezza alle imprese europee’,
concentrandosi, tra l’altro, su ‘piccole imprese, medie imprese’. Nel 2025, sia
immediatamente prima sia dopo la sua nomina a relatore, il sig. Warborn ha
partecipato a numerosi eventi organizzati da SME Europe. Il 7 febbraio 2025 ha
parlato a un evento organizzato da SME Europe al Parlamento europeo, dove ha
sottolineato ‘l’urgente necessità di ridurre gli oneri normativi per stimolare
la crescita delle imprese in Europa’ e ha ‘evidenziato che [l’ambito del
Pacchetto Omnibus] rimane limitato, coprendo solo una frazione dei settori e
delle politiche’. Il 29 aprile 2025 ha parlato all’Economic Leadership Forum di
SME Europe. L’agenda corrispondente lo indicava sia come Presidente di SME
Europe sia come Co-Chair dello SME Circle per un punto dell’ordine del giorno e,
tre ore dopo, come relatore per il Primo pacchetto Omnibus di semplificazione
per un diverso punto dell’ordine del giorno”.
Alla luce di tutto ciò, concludono i firmatari della missiva, “riteniamo che la
posizione di Warborn come Presidente di SME Europe, in combinazione con il suo
ruolo di relatore per il fascicolo sopra menzionato, possa costituire un
possibile conflitto di interessi”. Richiesta appoggiata anche dal Movimento 5
Stelle con una dichiarazione dell’europarlamentare Mario Furore: “Questo caso
dimostra ancora una volta che l’Ue è soffocata da vergognosi conflitti di
interesse. Non si può servire l’interesse dei cittadini e poi, al contempo,
quello delle potenti lobby che li vogliono calpestare. Il regolamento sulla due
diligence in voto domani al Parlamento europeo è un regalo alle grandi compagnie
che già oggi soffocano le piccole imprese e gli artigiani con una concorrenza
impari. Noi voteremo contro, la destra invece, a partire da Fratelli d’Italia e
Lega, lo sosterrà dimostrando ancora una volta di essere gli scendiletto di
multinazionali e grandi comitati d’affari”.
L'articolo Ue allenta i controlli ambientali per le aziende, protesta delle
associazioni: “Conflitto d’interessi. Il relatore legato a lobby per le imprese”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
Lo hanno presentato come un Consiglio europeo decisivo per il futuro sostegno
dell’Ue all’Ucraina, nel quale si cercherà un’intesa da chiudere prima della
pausa natalizia. Ma al vertice tra i 27 capi di Stato e di governo del 15-19
dicembre che porta sul tavolo il delicatissimo tema dell’utilizzo degli asset
russi congelati a garanzia del prestito per sostenere Kiev, l’Unione europea
arriva di nuovo sgretolata. Da settimane, i vertici di Bruxelles ostentano
ottimismo: si lavora senza sosta, dicono, esiste una “larga maggioranza“,
aggiungono sostenendo che si percepiscono segnali positivi in vista del summit.
Ma tra chi da anni ormai si oppone a un ulteriore inasprimento dei rapporti con
la Russia, chi teme di incorrere in richieste di risarcimento plurimiliardarie e
chi non può ignorare la posizione contraria degli Stati Uniti, tenere insieme i
pezzi della cristalleria Bruxelles richiederà l’ennesimo sforzo diplomatico.
“ANDRÀ TUTTO BENE”
Fino a oggi, la strategia della Commissione Ue è stata quella dell’ostentare
ottimismo. A veicolare questo messaggio ha pensato più volte la portavoce della
Commissione, Paula Pinho, che ha spiegato alla stampa come sull’uso degli asset
russi immobilizzati per il sostegno all’Ucraina la Commissione Ue con gli Stati
membri sta cercando “di fare quanti più progressi possibili sui vari elementi
del pacchetto, in modo che una soluzione possa essere trovata al Consiglio
europeo”. In quella direzione si sono spesi anche alti esponenti delle
istituzioni Ue, come il presidente del Consiglio Antonio Costa: “Credo che siamo
molto vicini a trovare una soluzione – ha dichiarato – Per me è certo che il 18
dicembre prenderemo una decisione. Ma, se necessario, continueremo il 19 o il 20
dicembre, fino a raggiungere una conclusione positiva”. Posizione condivisa
anche dal commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis, che l’11
dicembre assicurava: “Stiamo lavorando molto da vicino con le autorità belghe
per affrontare le preoccupazioni che esse hanno. E, in effetti, direi che
abbiamo fatto davvero grandi passi per rispondere”.
L’EUROPA SGRETOLATA
Tutto bene, quindi? Nemmeno per sogno. Il primo ostacolo sono i soliti due Paesi
contrari all’inasprimento di qualsiasi misura sanzionatoria nei confronti della
Russia: l’Ungheria e la Slovacchia. Da Bratislava, il premier Robert Fico ha
fatto sapere che non sosterrà alcuna soluzione che finanzi le spese militari
dell’Ucraina: “La Slovacchia non prenderà parte a piani che non fanno altro che
prolungare le sofferenze e le uccisioni“, ha affermato precisando di conseguenza
che non sosterrà “alcuna soluzione che comprenda la copertura delle spese
militari dell’Ucraina per i prossimi anni”. E l’utilizzo dei beni russi
congelati, ha spiegato, “può minacciare direttamente gli sforzi di pace degli
Usa che prevedono proprio l’utilizzo di tali risorse per la ricostruzione
dell’Ucraina”.
Anche il Paese guidato da Viktor Orban si è detto contrario. Budapest ha votato,
proprio come la Slovacchia, contro l’eliminazione del rinnovo semestrale degli
strumenti sanzionatori nei confronti della Russia, scelta che li ha resi di
fatto a tempo indeterminato. Poi, dopo l’approvazione con larga maggioranza, ha
commentato la scelta affermando che “oggi a Bruxelles si attraversa il Rubicone.
La votazione causerà danni irreparabili all’Unione. Bruxelles abolisce il
requisito dell’unanimità con un solo colpo di penna, il che è chiaramente
illegale“.
Se si trattasse dei ‘soliti noti’ Ungheria e Slovacchia il problema sarebbe
aggirabile: se al voto sul prestito di riparazione garantito dagli asset russi
si ripresentasse l’opposizione di Budapest e Bratislava, si potrebbe comunque
procedere con la maggioranza qualificata che richiede l’ok di almeno 15 Stati
membri e del 65% della popolazione totale. I contrari, però, questa volta sono
molti di più. In primis va tenuta in considerazione soprattutto la posizione del
Belgio che il 10 dicembre ha minacciato azioni legali nel caso in cui venisse
approvato l’uso degli asset russi congelati come garanzia per il prestito
all’Ucraina. Il motivo è semplice: nel piccolo Paese europeo sono conservati,
attraverso Euroclear, la stragrande maggioranza dei beni in questione, ben 185
miliardi sui 210 totali. Un ricorso legale di chi deteneva gli asset prima delle
sanzioni esporrebbe Bruxelles a un maxi-rimborso che, hanno spiegato
dall’esecutivo belga, per il Paese significherebbe “la bancarotta“. Una
posizione dura espressa non da un Paese ‘ribelle’, ma da uno solitamente
allineato alle posizioni della maggioranza degli Stati europei. Tanto che anche
il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha dichiarato quanto fosse importante
che tutti gli Stati membri condividessero le responsabilità economiche per
alleggerire il carico che pesa sulle spalle del Belgio. Negli ultimi giorni, il
clima tra il governo di Bruxelles e le istituzioni Ue sembra essere un po’ più
disteso, segno che le parti stanno trattando e che un punto d’incontro non è
un’utopia.
Se si parla di condivisione dei rischi economici, però, ci sono altri Paesi che
hanno espresso più di una perplessità. La Francia, che detiene circa 19 miliardi
di asset russi congelati, ha chiesto che quelli sul suo territorio venissero
esclusi dal conteggio di quelli utilizzabili come garanzia per il prestito di
sostegno a Kiev. E a dichiararsi molto dubbiosi sono stati anche Bulgaria, Malta
e persino l’Italia. La posizione del governo Meloni è stata chiarita dai due
vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. “L’Europa prima non c’era, ora mi
sembra che stia boicottando il processo di pace, forse perché Macron, Starmer e
altri leader sono in difficoltà in casa loro e quindi devono portare all’esterno
i problemi francesi e inglesi. Ma noi non siamo in guerra contro la Russia e non
voglio che i miei figli entrino in guerra contro la Russia – ha dichiarato il
leader leghista – Fa bene il governo italiano a tenere una linea di prudenza“.
Tajani ha invece sollevato dubbi di tipo legale: “Noi abbiamo approvato la
proposta di congelare gli asset russi. Ma questo non è un passaggio automatico
sull’utilizzo di questi asset congelati per finanziare l’Ucraina, noi abbiamo
serie perplessità dal punto di vista giuridico. Se fosse evitato qualsiasi
dubbio giuridico si potrebbero utilizzare anche i beni congelati”.
Anche con il ‘no’ di questi Paesi, la mossa potrebbe essere approvata, dato che
a favore resterebbero 21 Paesi e oltre il 79% della popolazione. Lo stesso anche
con l’opposizione della Repubblica Ceca che per ultima, con il neoeletto primo
ministro Andrej Babis, ha dichiarato che “ogni corona ceca è necessaria per i
nostri cittadini, non per altri Stati”, invitando la Commissione a trovare “un
altro modo” per finanziare Kiev.
DIALOGO O SCONTRO?
Alla maggioranza del Consiglio Ue resta quindi da decidere se arrivare a una
decisione la più condivisa possibile o a una sua imposizione in nome della
rapidità d’azione. Col rischio di frantumare i già precari equilibri interni
all’Ue. Lo stesso Dombrovskis sembra non avere le idee chiare a riguardo. Quando
gli è stato chiesto se il finanziamento può essere deciso anche senza il via
libera del Belgio, ha risposto: “Non entrerei in scenari ipotetici. Stiamo
lavorando con gli Stati membri. Stiamo lavorando molto seriamente, come ho
detto, per affrontare le preoccupazioni che il Belgio ha, e spero che riusciremo
a trovare una via da seguire”.
Dietro la riluttanza di alcuni Stati membri, oltre agli interessi particolari,
c’è anche la pressione esercitata dagli Stati Uniti che si sono dichiarati
fermamente contrari all’utilizzo dei beni russi congelati a garanzia del
prestito all’Ucraina, ritenendola una mossa ostile nei confronti di Mosca. E
certamente Washington avrà fatto pressione sulle cancellerie amiche, tanto che
anche Costa ha criticato apertamente l’azione di Washington: “Non possiamo
accettare le interferenze degli Usa, un alleato rispetta la politica interna del
partner”.
Resta il fatto che l’Europa, ad oggi, appare più frammentata che mai e che
prendere una decisione così determinante per il futuro economico dell’Unione e
per le sue strategie di supporto all’Ucraina affidandosi solo alla maggioranza
qualificata rischia di creare una frattura gigante tra i 27 Stati membri. C’è
tempo fino al 20 dicembre per arrivare a una soluzione diplomatica, altrimenti
Bruxelles si troverà di nuovo a un bivio: ritardare la decisione e aprire a
nuove strategie o forzare la mano e rischiare di spaccare l’Ue in nome del nuovo
whetever it takes in salsa ucraina.
X: @GianniRosini
L'articolo Asset russi congelati, per usarli è determinante l’ultimo Consiglio
Ue dell’anno. Ma l’Europa si presenta sgretolata proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Personalmente, per quel che vale, sono contro i due tiranni, contro il russo
Vladimir Putin e contro l’americano Donald Trump. Però non posso fare a meno di
pensare che Putin non potesse restare fermo mentre la Nato – che non è
un’organizzazione di beneficenza ma un’organizzazione armata offensiva antirussa
che ha già fatto guerre illegali, sanguinose e disastrose in Serbia,
Afghanistan, Iraq, Libia, Siria – cercava di mettere le sue basi militari anche
in Ucraina, dove la Russia è nata. E non riesco neppure a dare torto a Trump che
ha affermato nella recente intervista a Politico che molti leader europei sono
stupidi. Ha ragione: è incredibile quanto i Volenterosi europei siano stupidi.
Tanto stupidi quanto impotenti e masochisti. Meno male che l’Unione Europea è un
condominio di 27 paesi che non riescono a mettersi d’accordo neppure
sull’abolizione (indispensabile!) dell’ora solare.
Altrimenti la Ue ci trascinerebbe in guerra con Mosca. E meno male che sulle
questioni veramente importanti – difesa, sicurezza, guerra e pace, fiscalità,
eccetera – nella Ue si decide solo all’unanimità e non a maggioranza. Così ogni
democrazia europea può prendere le sue decisioni in autonomia.
La questione sorprendente – ma soprattutto tragica – è che gli stupidi leader
europei vogliono spingere Kiev a continuare una guerra che sta già perdendo, che
loro stessi non sono in grado di combattere e nemmeno di finanziare, e che senza
l’aiuto americano – che Trump vuole cessare subito – è già completamente persa.
E’ un po’ come se io pretendessi che il mio amico, peso piuma, continuasse a
finire fino alla morte un combattimento che sta perdendo con Mike Tyson: sarei
un perfetto idiota o un cinico profittatore! La politica europea è tragica per
gli ucraini che, più combattono questa guerra, più perdono terreno e uomini, ma
è disastrosa anche per gli europei.
L’astuto Trump, pur essendo a capo di un esercito ultrapotente, ha capito che
non conviene continuare a combattere inutilmente con la Russia fino a rischiare
una guerra atomica, e corre verso un accordo diretto con Putin, alle spalle
degli ucraini e di Volodymyr Zelensky, l’uomo politico che ha distrutto
l’Ucraina sfidando i russi pur di aderire a una Nato che comunque non lo ha mai
voluto.
Trump ha riconosciuto che la Nato di Joe Biden ha provocato la guerra in Ucraina
minacciando di mettere le basi militari Nato al confine con la Russia e
spingendo l’Ucraina a abbandonare la sua neutralità. Il presidente americano
piuttosto che rischiare una guerra atomica preferisce avviare rapporti pacifici
con Mosca. Al contrario gli europei, che avrebbero tutto l’interesse a
riprendere le forniture russe di gas e di petrolio da Mosca, che non hanno
neppure un esercito, e che quindi non possono pretendere nulla, puntano a una
guerra perpetua con la Russia e a trasformare l’Ucraina in un “porcospino di
acciaio”. Vogliono partecipare alle trattative di pace pur volendo continuare la
guerra. Dio prima rende dementi chi vuole poi mandare in rovina. Così l’Europa
guidata dall’irresponsabile valchiria in miniatura Ursula von der Leyen si
prepara alla guerra con la Russia, prima o seconda potenza atomica mondiale.
Sul piano strategico è ormai chiaro che l’Europa è in una situazione di declino
quasi irreversibile, che è isolata, impotente e arretrata, e che ha disperato
bisogno di amici o almeno di soci: ma gli Usa e la Cina sono troppo potenti per
allearsi con l’Europa, saranno sempre avversari strategici. L’unica grande
potenza che, ovviamente per convenienza, in prospettiva potrebbe esserci amica,
è proprio la Russia, contro cui però gli europei… si stanno armando! Per fortuna
che questa Ue richiede ancora il voto all’unanimità e che l’Italia può staccarsi
dalla follia bellicista della Ue!
Circa l’80% di tutta la legislazione Ue è adottato con voto a maggioranza
qualificata. Su questioni di natura politica e di importanza strategica, come la
difesa e la guerra, il Consiglio Ue deve però votare all’unanimità. Il voto
all’unanimità è oggetto di critica da parte degli europeisti, come il francese
Macron, Mario Draghi, Ursula e lo stesso presidente italiano Sergio Mattarella,
e in generale da parte delle formazioni europeiste di sinistra e di
centrosinistra (come in Italia il Pd). Al contrario i sovranisti, come Giorgia
Meloni e Viktor Orban, vogliono mantenere l’unanimità. Questo è uno dei pochi
casi in cui i cosiddetti sovranisti hanno completamente ragione. Infatti sulle
questioni fondamentali, come la guerra o la pace, ogni popolo deve potere
decidere democraticamente grazie alle sue istituzioni rappresentative.
Dare tutto il potere a Bruxelles sarebbe terribile e antidemocratico! Perfino la
Nato prende le sue decisioni all’unanimità!
L'articolo Per fortuna c’è ancora il voto all’unanimità in Ue: su questo Meloni
e Orban hanno ragione proviene da Il Fatto Quotidiano.
La distanza tra Europa e Stati Uniti, nell’era di Donald Trump, è sempre più
siderale. Al punto che le agenzie di viaggio americane, nel Parlamento Ue, sono
percepite come una minaccia. In una lettera alla presidente Roberta Metsola,
l’eurodeputato austriaco Helmut Brandstätter chiede di revocare il mandato alla
ditta Carlson Wagonlit Travel (CWT), della multinazionale a stelle e strisce
American Express. Da quando si è aggiudicata l’appalto, la ditta organizza i
viaggi degli ospiti, degli eletti e dello staff del Parlamento europeo. Ma dopo
il caso di Francesca Albanese a novembre – denunciato dal M5s e raccontato da
ilfattoquotidiano.it – il clima è cambiato attorno all’agenzia. Cosa era
accaduto? Pochi giorni prima di un convegno organizzato dall’Aula di Bruxelles,
Cwt ha disdetto la prenotazione della relatrice Onu, ospite dell’evento. La
motivazione ufficiale non è mai arrivata, ma per gli addetti è chiaro: l’agenzia
è tenuta ad applicare le sanzioni Usa contro Albanese, anche in Europa. Il
problema fu risolto in fretta: l’esperta di Medio Oriente partecipò alla
conferenza grazie al nuovo alloggio prenotato direttamente dagli uffici del
Parlamento Ue. Ma un’ombra è rimasta sulla ditta Cwt. Ora per i viaggi delle
persone sanzionate dagli Stati Uniti – scrive la testata brussellese Politico –
l’Ue intende cambiare agenzia affidandosi a una ditta belga. Ma ad alcuni
europarlamentari non basta e invocano la revoca dell’appalto alla società
americana.
LA LETTERA A METSOLA: “L’AGENZIA AMERICANA UN RISCHIO PER I DEPUTATI”
Secondo la lettera firmata da Helmut Brandstätter – iscritto al gruppo centrista
di Renew – gli eletti del Vecchio continente sono esposti al “rischio di azioni
esecutive arbitrarie ed extraterritoriali da parte delle autorità americane”.
Poiché American Express ha sede negli Usa, “CWT – e per estensione, il
Parlamento europeo e i suoi deputati – è sottoposta alle leggi statunitensi in
materia di sanzioni”, scrive Brandstätter. Dunque continuare ad affidarsi
all’agenzia a stelle e strisce, “espone i deputati e il personale del Parlamento
al pericolo reale e attuale delle sanzioni statunitensi, che sono già state
utilizzate come arma contro funzionari europei in passato. Basti pensare ai
recenti casi in cui individui ed entità europee sono stati minacciati o
sanzionati dagli Stati Uniti, con conseguente esclusione dai servizi digitali,
dai sistemi finanziari e persino dai viaggi”. Ecco perché “l’Unione Europea non
deve permettere che la sua sovranità, né l’indipendenza dei suoi rappresentante,
siano compromesse dalla portata giuridica e politica di un paese terzo”. Si
parla degli Usa, ma i toni suggeriscono inimicizia come fosse il Cremlino: da
alleati a “Paese terzo”. Se il messaggio non fosse chiaro, l’eletto austriaco
ribadisce: “Utilizzare un’agenzia di viaggi controllata dagli Stati Uniti mette
a rischio ogni deputato europeo e compromette la nostra capacità di adempiere al
nostro mandato democratico senza timore di coercizioni esterne”. Insomma, gli
Usa come una minaccia per le istituzioni elettive del Vecchio continente. In
conclusione, l’austriaco esorta la presidente del Parlamento Ue a “rescindere
immediatamente il contratto con Cwt”, “sospendere con effetto immediato
qualsiasi utilizzo” della ditta, infine selezionare un’agenzia europea. Le
preoccupazioni investono la privacy e i dati sensibili di eletti e funzionari:
“Cwt ha accesso alle informazioni più sensibili sui deputati e sul personale
parlamentare, inclusi i dati del passaporto, i dati delle carte di credito, le
modalità di viaggio e la loro esatta ubicazione in qualsiasi momento”.
IL DEPUTATO DI RENEW: “AZIENDE STRANIERE PROFONDAMENTE RADICATE NEL PARLAMENTO
UE”
L’appello da inviare a Roberta Metsola, firmato Brandstätter, sta circolando tra
gli europarlamentari ma è già giunto all’orecchio della multinazionale
americana. Che non ha gradito. “Ho ricevuto telefonate infastidite da American
Express perché qualcuno ha fatto trapelare la lettera”, ha scritto l’esponente
di Renew in una mail – letta dal Fatto – destinata a tutti gli europarlamentari.
“Questo dimostra quanto profondamente le aziende straniere siano radicate in
quest’Aula. È un motivo in più per lottare per la sovranità del Parlamento”,
chiosa Brandstätter.
Il M5s ha espresso sostegno a Brandstätter firmando l’appello destinato a
Metsola. Tra i motivi, anche “le nuove regole di accesso negli Stati Uniti che
prevedono uno screening dei social per rilasciare un visto d’ingresso”, si legge
in una nota dell’eurodeputato Danilo Della Valle. “La gestione dei viaggi e
degli spostamenti dei parlamentari europei sono dati sensibili che riguardano
anche la sicurezza interna e andrebbero affidate a società europee”, conclude
l’esponente pentastellato.
L'articolo “Le agenzie di viaggio Usa sono una minaccia per i parlamentari Ue”:
la lettera dell’eurodeputato a Metsola proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Ho ricevuto un messaggio da Mosca ora“, “aspettiamo di essere…” lontani dalle
telecamere. È lo scambio intercorso tra il presidente serbo Alexander Vucic e la
presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ieri lo ha accolto
al Berlaymont insieme al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa. Nel
video, disponibile sui canali della Commissione europea, si vede il presidente
serbo riferire del messaggio russo in entrata e la leader dell’esecutivo Ue, in
imbarazzo, invitarlo ad aspettare un secondo momento, sottinteso quando saranno
lontani dalle telecamere, mentre tutti e tre posano davanti ai flash per le
fotografie di rito. “È stato un piacere incontrare Alexander Vucic per fare il
punto sui progressi della Serbia nel suo percorso verso l’Ue. Abbiamo discusso
dell’importanza di accelerare le riforme, in particolare nei settori dello Stato
di diritto e della libertà dei media. Abbiamo sottolineato che l’allargamento è
un imperativo geostrategico e la necessità per la Serbia di allinearsi
ulteriormente alla politica estera e di sicurezza dell’Ue”, scrive poi la sera
sui social.
L'articolo “Ho appena ricevuto un messaggio da Mosca”, il fuorionda del
presidente serbo che imbarazza von der Leyen – Video proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Secondo quanto riportato da Bild, il governo tedesco sta prendendo in
considerazione la possibilità di trasferire alcuni migranti irregolari in centri
di accoglienza e rimpatrio situati fuori dall’Unione europea, dopo che lunedì i
ministri dell’Interno dei Paesi membri hanno approvato la posizione del
Consiglio Ue per il negoziato col Parlamento sui Paesi sicuri e sul nuovo
regolamento rimpatri. L’iter è ancora lungo e parecchi sono i nodi da
sciogliere, anche sui cosiddetti “return hub”, centri di transito dove
trasferire gli irregolari che non si riescono a rimpatriare nel loro paese
d’origine. Ma proprio su questo punto alcuni si portano avanti.
Berlino avrebbe già individuato i primi possibili Paesi partner, riferisce il
quotidiano: Tunisia e Uganda. Una terza opzione considerata a livello
esplorativo sarebbe un centro in Medio Oriente, ma al momento l’attenzione si
concentrerebbe sull’Africa. Secondo Bild, la Germania starebbe valutando una
collaborazione con l’Olanda nell’ambito del cosiddetto “modello Uganda”, dove
Amsterdam pianifica una struttura destinata principalmente ai migranti
provenienti dall’Africa subsahariana. Per altre aree del mondo, riporta ancora
Bild, il governo tedesco starebbe inoltre valutando ulteriori opzioni insieme ad
altri Paesi Ue. Tra le ipotesi citate figurerebbe anche la regione curda nel
nord dell’Iraq. Questo perché il Kurdistan iracheno sarebbe ritenuto un’area
stabile sul piano politico ed economico e dunque potenziale destinazione per
migranti provenienti da Iraq e Afghanistan.
Una portavoce del ministero degli Interni tedesco, interpellata il 9 dicembre da
LaPresse, ha sottolineato che “durante i colloqui i ministri Ue hanno rilevato
un interesse comune nello sviluppo di soluzioni innovative per la cooperazione
con Paesi terzi, al fine di ridurre la migrazione irregolare”, discutendo anche
la possibilità di attuarle “in un gruppo di Stati membri”. Berlino, ha aggiunto,
“sta attualmente lavorando insieme a livello europeo sulle basi giuridiche
necessarie nell’ambito del nuovo regolamento sui rimpatri”. Basi giuridiche che
saranno al centro del dibattito col Parlamento Ue, dove non mancano perplessità
anche sul nuovo concetto di Paese terzo sicuro proposto dalla Commissione e
accolto dal Consiglio. La novità consentirebbe infatti di dichiarare
inammissibili le domande di richiedenti transitati da Paesi terzi designati come
sicuri, ma basterebbe anche un accordo tra il Paese e uno Stato membro a far
scattare i trasferimenti dei richiedenti e delle loro domande.
A quanto risulta al Fatto, ad oggi il governo italiano non starebbe ancora
lavorando a opzioni diverse dal progetto in Albania, certo che i regolamenti già
approvati col nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, operativo il prossimo
giugno, ma anche i dossier sui quali è in corso il negoziato Ue, sbloccheranno
il protocollo azzoppato dalla normativa vigente, come sancito dalla Corte di
giustizia europea lo scorso agosto nella sentenza che dà ragione ai giudici
italiani. Ma non è detto che le iniziative degli altri Paesi Ue non potranno
riguardarci in futuro, soprattutto se si parla di Tunisia. Che intanto, spiegano
le fonti governative citate da Bild, rivestirebbe un ruolo chiave per Berlino.
Il Paese è considerato il partner più affidabile del Maghreb e potrebbe
accogliere migranti provenienti da Stati nordafricani come Algeria, Marocco e
Tunisia stessa. Un interesse che, dicono le stesse fonti, ha a che fare coi
tassi di criminalità. Secondo i dati dell’Ufficio federale di polizia criminale,
nel 2024 quasi un terzo dei migranti sospettati di reati provenienti dal Maghreb
risulta plurirecidivo, col reato principale rappresentato dai furti.
Ma la Tunisia continua a dire di non volersi prestare. A novembre il ministro
degli Esteri tunisino Mohamed Ali Nafti ha ribadito che la Tunisia ha “ribadito
ai suoi partner europei che non diventerà una zona di transito, di insediamento
o di sbarco per migranti”. Il 27 novembre 2025, il Parlamento europeo ha
adottato una risoluzione urgente in cui esprime grave preoccupazione per il
deterioramento dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali in Tunisia.
Sempre a novembre, Amnesty International ha pubblicato un’indagine che rileva
come negli ultimi tre anni le politiche migratorie tunisine hanno ignorato
sicurezza, dignità e vita dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Tra espulsioni
che violano il principio di non respingimento, torture, maltrattamenti e
violenze sessuali, dice il rapporto, “la Tunisia non è quindi né un luogo sicuro
per lo sbarco né un ‘paese terzo sicuro’ per il trasferimento dei richiedenti
asilo”. Intanto però la Commissione di Ursula von der Leyen ha inserito la
Tunisia nella proposta della sua lista di Paesi d’origine sicuri per applicare
ai tunisini l’esame sommario delle domande d’asilo, le cosiddette procedure
accelerate che rendono più facile respingere la richiesta di protezione.
L'articolo Migranti, la Germania pensa di portarli in Uganda e Kurdistan
iracheno. Ma anche nella “sicura” Tunisia proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’Unione europea è pronta ad assumersi il rischio dell’utilizzo degli asset
russi congelati come garanzie ai prestiti per il futuro sostegno all’Ucraina.
Secondo il Financial Times e altre fonti Ue citate da Ansa, esiste una “chiara
maggioranza” tra i 27 Stati membri d’accordo sull’utilizzo dei beni di Mosca,
nonostante il rischio, in caso di accordo di pace, di dover restituire i 210
miliardi in questione. Sarebbe quindi superata l’opposizione non solo di Paesi
come Ungheria e Slovacchia, contrari anche all’imposizione di nuove sanzioni nei
confronti della Federazione, ma anche del Belgio che, attraverso Euroclear,
detiene 185 miliardi di questi fondi e, in caso di restituzione, rischierebbe,
come dichiarato da esponenti del governo di Bruxelles, “la bancarotta”.
Decisivo, da quanto si apprende, potrebbe essere già il Consiglio europeo del
18-19 dicembre, quando si arriverà a una scelta politica per stabilire su quale
architettura lavorare nelle settimane successive, aprendo la strada a un lungo
ciclo di negoziati tecnici: anche in caso di accordo, il nuovo schema non potrà
comunque essere operativo dal primo gennaio, da quanto emerge, ma sarà invece
necessario tempo, dato che la trasposizione nazionale sarà diversa in ogni Stato
membro e in molti casi richiederà interventi legislativi nei Parlamenti
nazionali.
In caso di intesa, però, il processo assumerebbe un’accelerata decisiva. La
fiducia espressa dalle fonti citate è anche legata al fatto che la decisione non
richiederebbe una maggioranza assoluta in Consiglio, ma solo quella qualificata.
Un obiettivo che, evidentemente, è considerato raggiungibile, dato che in questi
giorni i vertici Ue e le principali cancellerie europee, Germania in testa,
hanno lavorato per rendere il piano digeribile anche per il Belgio, ipotizzando
ad esempio una redistribuzione delle responsabilità tra gli Stati che compongono
l’Ue. Il Financial Times sostiene invece che, per aggirare le minacce di veto di
Viktor Orban, verrebbe usato l’articolo 122 del Trattato che permette di
approvare misure di emergenza economica a maggioranza qualificata, non
all’unanimità.
Un’idea del rischio che i Paesi europei si assumerebbero in caso di utilizzo
degli asset russi congelati per finanziare l’Ucraina lo dà la European Trade
Justice Coalition (Etjc), rete europea di ong e gruppi della società civile di
monitoraggio sulle politiche commerciali Ue, secondo la quale ci sono già
arbitrati per oltre 53 miliardi in Europa di oligarchi o aziende colpite dalle
sanzioni alla Russia. Oltre la metà dei 28 ricorsi è stata avviata o annunciata
formalmente nel 2025, in molti casi tramite società registrate in Paesi Ue come
Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria o Regno Unito. Tra i casi più
rilevanti citati dall’analisi figurano la richiesta di circa 13,7 miliardi di
euro presentata dall’oligarca russo Mikhail Fridman contro il Lussemburgo e la
minaccia di causa della compagnia petrolifera russa Rosneft alla Germania per la
messa sotto tutela dei suoi asset per quasi 6 miliardi di euro. In Belgio,
quattro investitori russi hanno notificato l’intenzione di avviare arbitrati
collegati ai loro fondi bloccati presso Euroclear, mentre in Francia risultano
due ricorsi da parte di uomini d’affari russi sanzionati.
L'articolo “Vicini a un accordo in Ue sull’utilizzo degli asset russi
congelati”. Gli arbitrati in Europa hanno già toccato i 53 miliardi proviene da
Il Fatto Quotidiano.
Le recenti dichiarazioni, sull’Unione europea, di Donald Trump e di Elon Musk –
con quest’ultimo arrivato a sostenere apertamente che la Ue dovrebbe essere
“abolita” – segnano un punto di discontinuità sconvolgente se confrontato con la
storia dei tradizionali rapporti tra Stati Uniti ed Europa unita. In
particolare, se consideriamo come e quanto gli Usa abbiano non solo
ufficialmente e legittimamente “auspicato” e “assecondato” il processo di
unificazione europeo, ma quanto lo abbiano deliberatamente, e astutamente,
“influenzato” e “manipolato” fin dagli albori.
È noto, e ormai ampiamente documentato, che l’Europa occidentale del dopoguerra
venne ricostruita dentro un perimetro rigidamente americano: dai fondi del Piano
Marshall alla creazione di un mercato perfettamente complementare a quello
statunitense fino al vincolo atlantico tramite la Nato, prerequisito
obbligatorio per ogni Paese che volesse salire sul treno dell’integrazione.
In una intervista del 2015, Morris Mottale, professore di relazioni
internazionali, politica comparata e studi strategici presso la facoltà di
Scienze Politiche della Franklin University, università americana con sede a
Sorengo, vicino a Lugano, ha avallato una tesi ben precisa. E cioè che l’Unione
europea – lungi dall’essere un’idea frutto della spontanea aggregazione di un
“comune sentire” dei popoli – sia una costruzione in vitro degli americani
finalizzata a togliere le briglie alla circolazione dei capitali tra le due
sponde dell’atlantico: “Gli Stati Uniti non hanno mai nascosto che la creazione
di un’Europa unita e da loro controllata fosse la premessa della propria
politica estera. Per costruirla hanno utilizzato e utilizzano la Nato”.
E gli Usa non si sono limitati a un lavoro di soft power, per così dire, ma
hanno direttamente coinvolto il deep state per incanalare quello che è sempre
stato descritto come uno “spontaneo afflato” dei popoli europei verso la
“giusta” (cioè voluta dagli americani) direzione. A confermare questo quadro vi
sono ricerche d’archivio condotte negli ultimi anni. Nel 2000, venne pubblicato
su The Telegraph, dal giornalista Evans Pritchard, il risultato delle indagini
svolte da Joshua Paul, studioso della Georgetown University. Lo scoop in
questione portò alla luce documenti attestanti il fatto che organismi legati
all’intelligence americana, inclusa la Cia, avevano finanziato e sostenuto per
anni movimenti, think tank e personalità politiche favorevoli all’unificazione
europea, considerando quest’ultima un tassello fondamentale della strategia
occidentale nel pieno della Guerra fredda.
Secondo Joshua Paul, un memorandum del 1950, sottoscritto dal generale William
Donovan, già direttore dell’Oss (antesignano della Cia) durante il secondo
conflitto mondiale, indicava nell’American Committee for a United Europe (Acue)
il “veicolo” per la realizzazione degli obiettivi statunitensi. Nella direzione
dell’Acue troviamo proprio Donovan e alcuni altri ufficiali della Cia. L’Acue
finanziò il “Movimento europeo”, l’organizzazione su cui confluirono nel 1948
numerosi movimenti unitari europei (di cui facevano parte Winston Churchill,
Konrad Adenauer, Léon Blum e Alcide De Gasperi) che nel 1958 arrivò a incamerare
il 53,5% dei propri fondi proprio dagli Usa. In uno di questi memorandum, la
sezione “affari europei” del dipartimento di stato Usa “suggeriva” al
vicepresidente della Comunità Economica Europea (Cee), Robert Marjolin, di
“portare avanti in segreto” i progetti di Unione monetaria finché “l’adozione di
tali proposte diventerà virtualmente inevitabile”.
Per tutte le suesposte ragioni, le parole di Trump e soprattutto quelle di Musk,
appaiono oggi come una sorta di “oggetto verbale non identificato” nella storia
delle relazioni transatlantiche, un elemento totalmente alieno rispetto
all’approccio di tutte le amministrazioni Usa per quasi un secolo. E meritano
una riflessione.
Forse, i cittadini europei – prima di cedere al sussulto “patriottico” ed
euro-sovranista invocato dagli attuali vertici della Ue – dovrebbero chiedersi:
1) se sia mai esistito un desiderio autenticamente popolare di fusione dal basso
delle singole sovranità nazionali del vecchio continente in quella entità cui
diamo il nome di Unione; 2) se questa entità – alla luce delle vicende degli
ultimi anni, della scarsa legittimazione dei suoi apici e dell’opaca e quasi
“illeggibile” modalità di funzionamento della medesima – possa realmente
definirsi “democratica; 3) se, e in che misura, lungo questo cammino, i popoli
europei siano stati “usati” e manipolati (tramite una ben precisa operazione di
intelligence) da certe realtà d’oltreoceano; 4) se quello evocato da Musk – al
netto delle considerazioni, dei dubbi, delle riserve che il personaggio in
questione solleva a ogni piè sospinto – non sia, dopotutto, uno scenario da
prendere in seria considerazione.
www.francescocarraro.com
L'articolo Perché credo che le parole di Trump e Musk sull’abolizione dell’Ue
meritino una riflessione proviene da Il Fatto Quotidiano.