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Far entrare l’Ucraina nell’Ue segnerà l’inizio della nostra guerra con la Russia
di Francesco Valendino C’è qualcosa di davvero commovente nell’ottimismo dei nostri eurocrati. Mentre l’economia tedesca affonda, la Francia è politicamente paralizzata e i governi europei cadono come birilli, a Bruxelles hanno trovato la soluzione a tutto: imbarcare l’Ucraina nell’Unione Europea entro il 1° gennaio 2027. Non un giorno di più. La notizia, spifferata dal Financial Times, svela l’ultima genialata partorita sull’asse Kiev-Bruxelles per ingraziarsi il nuovo padrone, Donald Trump. Il piano è semplice e, come tutte le cose semplici pensate dai complessi burocrati europei, demenziale: offriamo a The Donald una via d’uscita. Lui non deve spendere più un dollaro per Zelensky, e in cambio noi ci accolliamo la ricostruzione, i debiti e la difesa di un Paese in guerra, facendolo entrare nell’Ue a tempo di record. Siamo di fronte al capolavoro dell’ipocrisia. Per decenni, la solenne Commissione Europea ci ha fatto una testa così con il “merito”. La Turchia aspetta dal secolo scorso, i Balcani occidentali sono in sala d’attesa da vent’anni, costretti a misurare la curvatura delle banane e a riformare i codici civili fino all’ultima virgola per aprire mezzo capitolo negoziale. Per l’Ucraina, invece, vale il telepass. Dei 36 capitoli negoziali necessari – che richiedono riforme strutturali ciclopiche in un Paese che, prima dell’invasione russa, Transparency International classificava come il più corrotto d’Europa dopo la Russia – Kiev non ne ha chiuso nemmeno uno. Ma che importa? Quando la geopolitica chiama, lo Stato di diritto risponde: “Obbedisco”. La parte più esilarante, però, è il metodo. Per far passare questa follia serve l’unanimità, e c’è quel guastafeste di Viktor Orban che continua a dire niet. E qui i nostri atlantisti “de sinistra”, quelli che dipingono Trump come il nuovo Hitler, a chi si affidano? A Trump stesso. Il piano prevede che sia il tycoon americano a torcere il braccio all’amico Orban per costringerlo a dire sì. Siamo al cortocircuito: l’Europa “dei valori” prega il mostro arancione di usare metodi da gangster per violare le proprie regole interne. Ma c’è un dettaglio che i nostri strateghi da aperitivo fingono di ignorare. L’articolo 42.7 del Trattato dell’Unione Europea. È la clausola di mutua difesa, che è persino più vincolante dell’articolo 5 della Nato: obbliga gli Stati membri a prestare aiuto “con tutti i mezzi in loro potere” a chi viene aggredito. Traduzione per i non addetti ai lavori: se l’Ucraina entra nell’Ue mentre è in guerra o in una tregua armata, e Putin spara un petardo oltre il confine, l’Italia, la Francia e la Germania sono giuridicamente in guerra con la Russia. Ecco il vero “piano di pace”: trasformare un conflitto locale in una guerra continentale automatica. E tutto questo viene venduto come un compromesso. Mosca, ci dicono, dovrebbe accettare di buon grado. Peccato che al Cremlino sappiano leggere i trattati meglio di Von der Leyen. Offrire alla Russia un’Ucraina nell’Ue ma fuori dalla Nato è come offrire a un diabetico una torta alla panna dicendogli che è senza zucchero perché sopra non c’è la ciliegina. La perseveranza è una virtù, ma l’idiozia è un vizio. E a Bruxelles sembrano averne fatto una dottrina politica. IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA” POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ – MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI! L'articolo Far entrare l’Ucraina nell’Ue segnerà l’inizio della nostra guerra con la Russia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per prenderne atto (e da cui ripartire)
Assistiamo a sempre più surreali dibattiti sulla necessità di rilanciare l’Unione Europea rendendola finalmente un protagonista militare all’altezza dei difficili tempi che corrono, ovvero del presunto tradimento statunitense. Tali dibattiti evidenziano una volta di più la pessima qualità del ceto politico e giornalistico italiano, espressione purtroppo veridica di un Paese alla deriva sotto l’egida della pessima Meloni con la sua Armata Brancaleone di incapaci e profittatori, nonché dell’altrettanto pessima finta opposizione piddina che sulle questioni cruciali della pace e della guerra dimostra tutta la sua subalternità alle forze dominanti. Tutti costoro vaneggiano enunciando tesi sconnesse e destituite del benché minimo fondamento, perché si ostinano a negare, come ogni psicopatico che si rispetti, alcune verità del tutto elementari e inconfutabili. Primo. La destabilizzazione tentata undici anni fa in Ucraina dalla Nato contro la Russia e buona parte del popolo ucraino è fallita. Secondo. Tale fallimento rientra nel quadro d’insieme del naufragio storico dell’Occidente coloniale e neocoloniale. E’ definitivamente concluso, per fortuna, il lungo periodo, durato circa 500 anni, dell’egemonia occidentale sul pianeta. Terzo. L’Occidente che sta tramontando definitivamente ha dominato il pianeta in questi cinque secoli avvalendosi di strumenti di morte: guerre di sterminio, genocidi e oppressione di moltitudini in Africa, America Latina, Asia. Non c’è quindi nessun presunto primato in materia di diritti umani e democrazia da rivendicare. La democrazia e lo Stato di diritto vivono attualmente una crisi profonda e tendenzialmente esiziale proprio nel cuore stesso dell’Occidente capitalistico. Quarto. Il genocidio del popolo palestinese, tuttora in atto nonostante la finta tregua di Sharm El Sheik, costituisce un’ulteriore mefitico sussulto del corpaccio agonizzante dell’Occidente. Ne è protagonista lo Stato d’Israele, governato da una compagine di nazisionisti che praticano apartheid, pulizia etnica e massacri in modo non differente da quello che fu all’epoca il Terzo Reich nazista e per tale motivo sono oggi sotto accusa in tutto il mondo, anche in sedi giudiziarie riconosciute come la Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale. Complici del genocidio sono del resto gli Stati occidentali che da sempre finanziano e armano Israele coprendone i crimini, con in testa Stati Uniti, Germania e Italia. Quinto. Consapevole della decadenza occidentale in atto, il presidente statunitense Donald Trump sta tentando una disperata manovra di contenimento all’insegna del cosiddetto “Make America Great Again”. In tale ambito Trump cerca un accordo con la Russia, nell’illusoria convinzione di dividerla dalla Cina e in quella altrettanto demenziale di resuscitare la dottrina Monroe affermando il proprio predominio in America Latina scatenando guerre d’aggressione contro il Venezuela ma anche contro Colombia, Messico, Brasile, Cuba. Si veda al riguardo il recente documento relativo alla Strategia nazionale degli Stati Uniti. Contemporaneamente Trump sta pricedendo alla fascistizzazione dello Stato all’insegna del razzismo contro i migranti. Sesto. In questo quadro gli Stati Uniti, consapevoli – più e meglio degli ottusi europei – della situazione di crisi terminale dell’Occidente, hanno deciso di abbandonare la nave che sta affondando, lasciando gli europei a pagare il conto della guerra in Ucraina e auspicando in sostanza la fine dell’Unione Europea. Settimo. I dementi e corrotti governanti europei stanno scegliendo la via della guerra contro la Russia, sia perché la potente lobby degli armamenti chiede il riarmo, sia perché la militarizzazione della società sembra loro la risposta più adeguata di fronte alla crisi della democrazia europea. Piuttosto che mollare il potere personaggi come Merz, Macron, Stamer e Meloni sono pronti alla catastrofe bellica. Per questo lanciano in continuazione allarmi infondati sulla presunta aggressività russa, spingono fino all’inverosimile l’acceleratore sul riarmo, impoverendo ulteriormente le loro economie e le loro società, ostacolano irresponsabilmente il raggiungimento di una pace definitiva in Ucraina, alimentando le pulsioni revansciste di Zelensky & C., rendendosi in tal modo colpevoli, come lo fu all’epoca Boris Johnson, quando sabotò poco dopo l’invasione russa il raggiungimento di un accordo di pace a Istanbul, della morte di decine di migliaia di giovani ucraini e russi. Prendere atto dei sette postulati appena enunciati costituisce la necessaria operazione di pulizia preliminare per continuare a parlare di Europa. Ciò comporta evidentemente una vera e propria rivoluzione concettuale e politica che veda la rimozione delle attuali sconfitte, decotte e corrotte classi dominanti europee per aprirsi a una prospettiva di pace e cooperazione nell’ambito di un mondo multipolare, mentre la ruota della storia si rimette in moto, nonostante e contro l’Unione Europea in disfacimento. L'articolo L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per prenderne atto (e da cui ripartire) proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ue allenta i controlli ambientali per le aziende, protesta delle associazioni: “Conflitto d’interessi. Il relatore legato a lobby per le imprese”
L’accordo tra Parlamento e Consiglio Ue sul pacchetto Omnibus I che comprende l’allentamento delle restrizioni per le aziende su due diligence e reportistica ambientale, annunciato non più tardi di una settimana fa dalla presidenza di turno danese, continua a generare dubbi e proteste. Non solo quelle dei partiti più sensibili alle questioni ambientali e dei diritti umani che hanno denunciato quello che è solo l’ultimo colpo assestato al Green Deal, con il Partito Popolare Europeo che per riuscirci ha chiesto il supporto dell’estrema destra, ma anche quelle delle organizzazioni più attente nel monitoraggio di fenomeni di corruzione e conflitto d’interessi. Per questo dieci associazioni hanno scritto al Comitato consultivo sulla condotta dei membri sottolineando il potenziale conflitto d’interesse dell’eurodeputato Jörgen Warborn (Ppe), a capo della relazione ma allo stesso tempo presidente di SME Europe, associazione legata ai Popolari che, si legge sul suo sito, si batte per i diritti delle piccole e medie imprese in diversi settori. Proprio quei soggetti che otterrebbero maggiori benefici dal nuovo accordo raggiunto in Ue. L’incarico di Warborn alla Presidenza di Small and Medium Entrepreneurs of Europe non è un segreto: compare nel board del loro sito ufficiale insieme ad altri europarlamentari ed ex membri, compreso Antonio Tajani, e ha esplicitato il suo incarico anche nella sua dichiarazione di interessi privati. I firmatari della lettera di protesta sottolineano però che, “sebbene sia un’entità giuridica separata e né un partito politico europeo né una fondazione, SME Europe opera di fatto come un’ala di lobbying del Partito Popolare Europeo. Come stabilito nel suo statuto, SME Europe ‘è la rete politica indipendente di organizzazioni politiche cristiano-democratiche e conservatrici e pro-business. Il suo obiettivo principale è contribuire a plasmare la politica dell’Ue in modo più favorevole alle Pmi‘”. Questo, a loro dire, si scontra con il ruolo svolto dall’eurodeputato all’interno della commissione Giuridica del Parlamento Ue, come membro supplente, e soprattutto come “relatore di taluni requisiti in materia di rendicontazione di sostenibilità aziendale e di dovere di diligenza (2025/0045(COD)), una proposta legislativa della Commissione volta, tra le altre cose, a ridurre l’onere di rendicontazione per le imprese più piccole”. Ciò che i firmatari sottolineano è che nella sua dichiarazione di consapevolezza di conflitto d’interesse per l’incarico affidato, Warborn ha pensato che non fosse necessario menzionare il proprio incarico in SME Europe. I firmatari continuano poi ricordando le prese di posizione dell’eurodeputato in occasione delle discussioni sulla proposta: “Nella sua bozza originaria di relazione della commissione egli ha proposto emendamenti che avrebbero ulteriormente ristretto l’ambito delle imprese soggette a determinati obblighi di rendicontazione rispetto alla proposta della Commissione. Durante un dibattito in plenaria su tale fascicolo il 22 ottobre 2025, Warborn ha sollecitato gli eurodeputati a votare a favore del mandato per i negoziati interistituzionali al fine di ‘fornire chiarezza alle imprese europee’, concentrandosi, tra l’altro, su ‘piccole imprese, medie imprese’. Nel 2025, sia immediatamente prima sia dopo la sua nomina a relatore, il sig. Warborn ha partecipato a numerosi eventi organizzati da SME Europe. Il 7 febbraio 2025 ha parlato a un evento organizzato da SME Europe al Parlamento europeo, dove ha sottolineato ‘l’urgente necessità di ridurre gli oneri normativi per stimolare la crescita delle imprese in Europa’ e ha ‘evidenziato che [l’ambito del Pacchetto Omnibus] rimane limitato, coprendo solo una frazione dei settori e delle politiche’. Il 29 aprile 2025 ha parlato all’Economic Leadership Forum di SME Europe. L’agenda corrispondente lo indicava sia come Presidente di SME Europe sia come Co-Chair dello SME Circle per un punto dell’ordine del giorno e, tre ore dopo, come relatore per il Primo pacchetto Omnibus di semplificazione per un diverso punto dell’ordine del giorno”. Alla luce di tutto ciò, concludono i firmatari della missiva, “riteniamo che la posizione di Warborn come Presidente di SME Europe, in combinazione con il suo ruolo di relatore per il fascicolo sopra menzionato, possa costituire un possibile conflitto di interessi”. Richiesta appoggiata anche dal Movimento 5 Stelle con una dichiarazione dell’europarlamentare Mario Furore: “Questo caso dimostra ancora una volta che l’Ue è soffocata da vergognosi conflitti di interesse. Non si può servire l’interesse dei cittadini e poi, al contempo, quello delle potenti lobby che li vogliono calpestare. Il regolamento sulla due diligence in voto domani al Parlamento europeo è un regalo alle grandi compagnie che già oggi soffocano le piccole imprese e gli artigiani con una concorrenza impari. Noi voteremo contro, la destra invece, a partire da Fratelli d’Italia e Lega, lo sosterrà dimostrando ancora una volta di essere gli scendiletto di multinazionali e grandi comitati d’affari”. 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Asset russi congelati, per usarli è determinante l’ultimo Consiglio Ue dell’anno. Ma l’Europa si presenta sgretolata
Lo hanno presentato come un Consiglio europeo decisivo per il futuro sostegno dell’Ue all’Ucraina, nel quale si cercherà un’intesa da chiudere prima della pausa natalizia. Ma al vertice tra i 27 capi di Stato e di governo del 15-19 dicembre che porta sul tavolo il delicatissimo tema dell’utilizzo degli asset russi congelati a garanzia del prestito per sostenere Kiev, l’Unione europea arriva di nuovo sgretolata. Da settimane, i vertici di Bruxelles ostentano ottimismo: si lavora senza sosta, dicono, esiste una “larga maggioranza“, aggiungono sostenendo che si percepiscono segnali positivi in vista del summit. Ma tra chi da anni ormai si oppone a un ulteriore inasprimento dei rapporti con la Russia, chi teme di incorrere in richieste di risarcimento plurimiliardarie e chi non può ignorare la posizione contraria degli Stati Uniti, tenere insieme i pezzi della cristalleria Bruxelles richiederà l’ennesimo sforzo diplomatico. “ANDRÀ TUTTO BENE” Fino a oggi, la strategia della Commissione Ue è stata quella dell’ostentare ottimismo. A veicolare questo messaggio ha pensato più volte la portavoce della Commissione, Paula Pinho, che ha spiegato alla stampa come sull’uso degli asset russi immobilizzati per il sostegno all’Ucraina la Commissione Ue con gli Stati membri sta cercando “di fare quanti più progressi possibili sui vari elementi del pacchetto, in modo che una soluzione possa essere trovata al Consiglio europeo”. In quella direzione si sono spesi anche alti esponenti delle istituzioni Ue, come il presidente del Consiglio Antonio Costa: “Credo che siamo molto vicini a trovare una soluzione – ha dichiarato – Per me è certo che il 18 dicembre prenderemo una decisione. Ma, se necessario, continueremo il 19 o il 20 dicembre, fino a raggiungere una conclusione positiva”. Posizione condivisa anche dal commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis, che l’11 dicembre assicurava: “Stiamo lavorando molto da vicino con le autorità belghe per affrontare le preoccupazioni che esse hanno. E, in effetti, direi che abbiamo fatto davvero grandi passi per rispondere”. L’EUROPA SGRETOLATA Tutto bene, quindi? Nemmeno per sogno. Il primo ostacolo sono i soliti due Paesi contrari all’inasprimento di qualsiasi misura sanzionatoria nei confronti della Russia: l’Ungheria e la Slovacchia. Da Bratislava, il premier Robert Fico ha fatto sapere che non sosterrà alcuna soluzione che finanzi le spese militari dell’Ucraina: “La Slovacchia non prenderà parte a piani che non fanno altro che prolungare le sofferenze e le uccisioni“, ha affermato precisando di conseguenza che non sosterrà “alcuna soluzione che comprenda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni”. E l’utilizzo dei beni russi congelati, ha spiegato, “può minacciare direttamente gli sforzi di pace degli Usa che prevedono proprio l’utilizzo di tali risorse per la ricostruzione dell’Ucraina”. Anche il Paese guidato da Viktor Orban si è detto contrario. Budapest ha votato, proprio come la Slovacchia, contro l’eliminazione del rinnovo semestrale degli strumenti sanzionatori nei confronti della Russia, scelta che li ha resi di fatto a tempo indeterminato. Poi, dopo l’approvazione con larga maggioranza, ha commentato la scelta affermando che “oggi a Bruxelles si attraversa il Rubicone. La votazione causerà danni irreparabili all’Unione. Bruxelles abolisce il requisito dell’unanimità con un solo colpo di penna, il che è chiaramente illegale“. Se si trattasse dei ‘soliti noti’ Ungheria e Slovacchia il problema sarebbe aggirabile: se al voto sul prestito di riparazione garantito dagli asset russi si ripresentasse l’opposizione di Budapest e Bratislava, si potrebbe comunque procedere con la maggioranza qualificata che richiede l’ok di almeno 15 Stati membri e del 65% della popolazione totale. I contrari, però, questa volta sono molti di più. In primis va tenuta in considerazione soprattutto la posizione del Belgio che il 10 dicembre ha minacciato azioni legali nel caso in cui venisse approvato l’uso degli asset russi congelati come garanzia per il prestito all’Ucraina. Il motivo è semplice: nel piccolo Paese europeo sono conservati, attraverso Euroclear, la stragrande maggioranza dei beni in questione, ben 185 miliardi sui 210 totali. Un ricorso legale di chi deteneva gli asset prima delle sanzioni esporrebbe Bruxelles a un maxi-rimborso che, hanno spiegato dall’esecutivo belga, per il Paese significherebbe “la bancarotta“. Una posizione dura espressa non da un Paese ‘ribelle’, ma da uno solitamente allineato alle posizioni della maggioranza degli Stati europei. Tanto che anche il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha dichiarato quanto fosse importante che tutti gli Stati membri condividessero le responsabilità economiche per alleggerire il carico che pesa sulle spalle del Belgio. Negli ultimi giorni, il clima tra il governo di Bruxelles e le istituzioni Ue sembra essere un po’ più disteso, segno che le parti stanno trattando e che un punto d’incontro non è un’utopia. Se si parla di condivisione dei rischi economici, però, ci sono altri Paesi che hanno espresso più di una perplessità. La Francia, che detiene circa 19 miliardi di asset russi congelati, ha chiesto che quelli sul suo territorio venissero esclusi dal conteggio di quelli utilizzabili come garanzia per il prestito di sostegno a Kiev. E a dichiararsi molto dubbiosi sono stati anche Bulgaria, Malta e persino l’Italia. La posizione del governo Meloni è stata chiarita dai due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. “L’Europa prima non c’era, ora mi sembra che stia boicottando il processo di pace, forse perché Macron, Starmer e altri leader sono in difficoltà in casa loro e quindi devono portare all’esterno i problemi francesi e inglesi. Ma noi non siamo in guerra contro la Russia e non voglio che i miei figli entrino in guerra contro la Russia – ha dichiarato il leader leghista – Fa bene il governo italiano a tenere una linea di prudenza“. Tajani ha invece sollevato dubbi di tipo legale: “Noi abbiamo approvato la proposta di congelare gli asset russi. Ma questo non è un passaggio automatico sull’utilizzo di questi asset congelati per finanziare l’Ucraina, noi abbiamo serie perplessità dal punto di vista giuridico. Se fosse evitato qualsiasi dubbio giuridico si potrebbero utilizzare anche i beni congelati”. Anche con il ‘no’ di questi Paesi, la mossa potrebbe essere approvata, dato che a favore resterebbero 21 Paesi e oltre il 79% della popolazione. Lo stesso anche con l’opposizione della Repubblica Ceca che per ultima, con il neoeletto primo ministro Andrej Babis, ha dichiarato che “ogni corona ceca è necessaria per i nostri cittadini, non per altri Stati”, invitando la Commissione a trovare “un altro modo” per finanziare Kiev. DIALOGO O SCONTRO? Alla maggioranza del Consiglio Ue resta quindi da decidere se arrivare a una decisione la più condivisa possibile o a una sua imposizione in nome della rapidità d’azione. Col rischio di frantumare i già precari equilibri interni all’Ue. Lo stesso Dombrovskis sembra non avere le idee chiare a riguardo. Quando gli è stato chiesto se il finanziamento può essere deciso anche senza il via libera del Belgio, ha risposto: “Non entrerei in scenari ipotetici. Stiamo lavorando con gli Stati membri. Stiamo lavorando molto seriamente, come ho detto, per affrontare le preoccupazioni che il Belgio ha, e spero che riusciremo a trovare una via da seguire”. Dietro la riluttanza di alcuni Stati membri, oltre agli interessi particolari, c’è anche la pressione esercitata dagli Stati Uniti che si sono dichiarati fermamente contrari all’utilizzo dei beni russi congelati a garanzia del prestito all’Ucraina, ritenendola una mossa ostile nei confronti di Mosca. E certamente Washington avrà fatto pressione sulle cancellerie amiche, tanto che anche Costa ha criticato apertamente l’azione di Washington: “Non possiamo accettare le interferenze degli Usa, un alleato rispetta la politica interna del partner”. Resta il fatto che l’Europa, ad oggi, appare più frammentata che mai e che prendere una decisione così determinante per il futuro economico dell’Unione e per le sue strategie di supporto all’Ucraina affidandosi solo alla maggioranza qualificata rischia di creare una frattura gigante tra i 27 Stati membri. C’è tempo fino al 20 dicembre per arrivare a una soluzione diplomatica, altrimenti Bruxelles si troverà di nuovo a un bivio: ritardare la decisione e aprire a nuove strategie o forzare la mano e rischiare di spaccare l’Ue in nome del nuovo whetever it takes in salsa ucraina. X: @GianniRosini L'articolo Asset russi congelati, per usarli è determinante l’ultimo Consiglio Ue dell’anno. Ma l’Europa si presenta sgretolata proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Per fortuna c’è ancora il voto all’unanimità in Ue: su questo Meloni e Orban hanno ragione
Personalmente, per quel che vale, sono contro i due tiranni, contro il russo Vladimir Putin e contro l’americano Donald Trump. Però non posso fare a meno di pensare che Putin non potesse restare fermo mentre la Nato – che non è un’organizzazione di beneficenza ma un’organizzazione armata offensiva antirussa che ha già fatto guerre illegali, sanguinose e disastrose in Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria – cercava di mettere le sue basi militari anche in Ucraina, dove la Russia è nata. E non riesco neppure a dare torto a Trump che ha affermato nella recente intervista a Politico che molti leader europei sono stupidi. Ha ragione: è incredibile quanto i Volenterosi europei siano stupidi. Tanto stupidi quanto impotenti e masochisti. Meno male che l’Unione Europea è un condominio di 27 paesi che non riescono a mettersi d’accordo neppure sull’abolizione (indispensabile!) dell’ora solare. Altrimenti la Ue ci trascinerebbe in guerra con Mosca. E meno male che sulle questioni veramente importanti – difesa, sicurezza, guerra e pace, fiscalità, eccetera – nella Ue si decide solo all’unanimità e non a maggioranza. Così ogni democrazia europea può prendere le sue decisioni in autonomia. La questione sorprendente – ma soprattutto tragica – è che gli stupidi leader europei vogliono spingere Kiev a continuare una guerra che sta già perdendo, che loro stessi non sono in grado di combattere e nemmeno di finanziare, e che senza l’aiuto americano – che Trump vuole cessare subito – è già completamente persa. E’ un po’ come se io pretendessi che il mio amico, peso piuma, continuasse a finire fino alla morte un combattimento che sta perdendo con Mike Tyson: sarei un perfetto idiota o un cinico profittatore! La politica europea è tragica per gli ucraini che, più combattono questa guerra, più perdono terreno e uomini, ma è disastrosa anche per gli europei. L’astuto Trump, pur essendo a capo di un esercito ultrapotente, ha capito che non conviene continuare a combattere inutilmente con la Russia fino a rischiare una guerra atomica, e corre verso un accordo diretto con Putin, alle spalle degli ucraini e di Volodymyr Zelensky, l’uomo politico che ha distrutto l’Ucraina sfidando i russi pur di aderire a una Nato che comunque non lo ha mai voluto. Trump ha riconosciuto che la Nato di Joe Biden ha provocato la guerra in Ucraina minacciando di mettere le basi militari Nato al confine con la Russia e spingendo l’Ucraina a abbandonare la sua neutralità. Il presidente americano piuttosto che rischiare una guerra atomica preferisce avviare rapporti pacifici con Mosca. Al contrario gli europei, che avrebbero tutto l’interesse a riprendere le forniture russe di gas e di petrolio da Mosca, che non hanno neppure un esercito, e che quindi non possono pretendere nulla, puntano a una guerra perpetua con la Russia e a trasformare l’Ucraina in un “porcospino di acciaio”. Vogliono partecipare alle trattative di pace pur volendo continuare la guerra. Dio prima rende dementi chi vuole poi mandare in rovina. Così l’Europa guidata dall’irresponsabile valchiria in miniatura Ursula von der Leyen si prepara alla guerra con la Russia, prima o seconda potenza atomica mondiale. Sul piano strategico è ormai chiaro che l’Europa è in una situazione di declino quasi irreversibile, che è isolata, impotente e arretrata, e che ha disperato bisogno di amici o almeno di soci: ma gli Usa e la Cina sono troppo potenti per allearsi con l’Europa, saranno sempre avversari strategici. L’unica grande potenza che, ovviamente per convenienza, in prospettiva potrebbe esserci amica, è proprio la Russia, contro cui però gli europei… si stanno armando! Per fortuna che questa Ue richiede ancora il voto all’unanimità e che l’Italia può staccarsi dalla follia bellicista della Ue! Circa l’80% di tutta la legislazione Ue è adottato con voto a maggioranza qualificata. Su questioni di natura politica e di importanza strategica, come la difesa e la guerra, il Consiglio Ue deve però votare all’unanimità. Il voto all’unanimità è oggetto di critica da parte degli europeisti, come il francese Macron, Mario Draghi, Ursula e lo stesso presidente italiano Sergio Mattarella, e in generale da parte delle formazioni europeiste di sinistra e di centrosinistra (come in Italia il Pd). Al contrario i sovranisti, come Giorgia Meloni e Viktor Orban, vogliono mantenere l’unanimità. Questo è uno dei pochi casi in cui i cosiddetti sovranisti hanno completamente ragione. Infatti sulle questioni fondamentali, come la guerra o la pace, ogni popolo deve potere decidere democraticamente grazie alle sue istituzioni rappresentative. Dare tutto il potere a Bruxelles sarebbe terribile e antidemocratico! Perfino la Nato prende le sue decisioni all’unanimità! L'articolo Per fortuna c’è ancora il voto all’unanimità in Ue: su questo Meloni e Orban hanno ragione proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Le agenzie di viaggio Usa sono una minaccia per i parlamentari Ue”: la lettera dell’eurodeputato a Metsola
La distanza tra Europa e Stati Uniti, nell’era di Donald Trump, è sempre più siderale. Al punto che le agenzie di viaggio americane, nel Parlamento Ue, sono percepite come una minaccia. In una lettera alla presidente Roberta Metsola, l’eurodeputato austriaco Helmut Brandstätter chiede di revocare il mandato alla ditta Carlson Wagonlit Travel (CWT), della multinazionale a stelle e strisce American Express. Da quando si è aggiudicata l’appalto, la ditta organizza i viaggi degli ospiti, degli eletti e dello staff del Parlamento europeo. Ma dopo il caso di Francesca Albanese a novembre – denunciato dal M5s e raccontato da ilfattoquotidiano.it – il clima è cambiato attorno all’agenzia. Cosa era accaduto? Pochi giorni prima di un convegno organizzato dall’Aula di Bruxelles, Cwt ha disdetto la prenotazione della relatrice Onu, ospite dell’evento. La motivazione ufficiale non è mai arrivata, ma per gli addetti è chiaro: l’agenzia è tenuta ad applicare le sanzioni Usa contro Albanese, anche in Europa. Il problema fu risolto in fretta: l’esperta di Medio Oriente partecipò alla conferenza grazie al nuovo alloggio prenotato direttamente dagli uffici del Parlamento Ue. Ma un’ombra è rimasta sulla ditta Cwt. Ora per i viaggi delle persone sanzionate dagli Stati Uniti – scrive la testata brussellese Politico – l’Ue intende cambiare agenzia affidandosi a una ditta belga. Ma ad alcuni europarlamentari non basta e invocano la revoca dell’appalto alla società americana. LA LETTERA A METSOLA: “L’AGENZIA AMERICANA UN RISCHIO PER I DEPUTATI” Secondo la lettera firmata da Helmut Brandstätter – iscritto al gruppo centrista di Renew – gli eletti del Vecchio continente sono esposti al “rischio di azioni esecutive arbitrarie ed extraterritoriali da parte delle autorità americane”. Poiché American Express ha sede negli Usa, “CWT – e per estensione, il Parlamento europeo e i suoi deputati – è sottoposta alle leggi statunitensi in materia di sanzioni”, scrive Brandstätter. Dunque continuare ad affidarsi all’agenzia a stelle e strisce, “espone i deputati e il personale del Parlamento al pericolo reale e attuale delle sanzioni statunitensi, che sono già state utilizzate come arma contro funzionari europei in passato. Basti pensare ai recenti casi in cui individui ed entità europee sono stati minacciati o sanzionati dagli Stati Uniti, con conseguente esclusione dai servizi digitali, dai sistemi finanziari e persino dai viaggi”. Ecco perché “l’Unione Europea non deve permettere che la sua sovranità, né l’indipendenza dei suoi rappresentante, siano compromesse dalla portata giuridica e politica di un paese terzo”. Si parla degli Usa, ma i toni suggeriscono inimicizia come fosse il Cremlino: da alleati a “Paese terzo”. Se il messaggio non fosse chiaro, l’eletto austriaco ribadisce: “Utilizzare un’agenzia di viaggi controllata dagli Stati Uniti mette a rischio ogni deputato europeo e compromette la nostra capacità di adempiere al nostro mandato democratico senza timore di coercizioni esterne”. Insomma, gli Usa come una minaccia per le istituzioni elettive del Vecchio continente. In conclusione, l’austriaco esorta la presidente del Parlamento Ue a “rescindere immediatamente il contratto con Cwt”, “sospendere con effetto immediato qualsiasi utilizzo” della ditta, infine selezionare un’agenzia europea. Le preoccupazioni investono la privacy e i dati sensibili di eletti e funzionari: “Cwt ha accesso alle informazioni più sensibili sui deputati e sul personale parlamentare, inclusi i dati del passaporto, i dati delle carte di credito, le modalità di viaggio e la loro esatta ubicazione in qualsiasi momento”. IL DEPUTATO DI RENEW: “AZIENDE STRANIERE PROFONDAMENTE RADICATE NEL PARLAMENTO UE” L’appello da inviare a Roberta Metsola, firmato Brandstätter, sta circolando tra gli europarlamentari ma è già giunto all’orecchio della multinazionale americana. Che non ha gradito. “Ho ricevuto telefonate infastidite da American Express perché qualcuno ha fatto trapelare la lettera”, ha scritto l’esponente di Renew in una mail – letta dal Fatto – destinata a tutti gli europarlamentari. “Questo dimostra quanto profondamente le aziende straniere siano radicate in quest’Aula. È un motivo in più per lottare per la sovranità del Parlamento”, chiosa Brandstätter. Il M5s ha espresso sostegno a Brandstätter firmando l’appello destinato a Metsola. Tra i motivi, anche “le nuove regole di accesso negli Stati Uniti che prevedono uno screening dei social per rilasciare un visto d’ingresso”, si legge in una nota dell’eurodeputato Danilo Della Valle. “La gestione dei viaggi e degli spostamenti dei parlamentari europei sono dati sensibili che riguardano anche la sicurezza interna e andrebbero affidate a società europee”, conclude l’esponente pentastellato. L'articolo “Le agenzie di viaggio Usa sono una minaccia per i parlamentari Ue”: la lettera dell’eurodeputato a Metsola proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Ho appena ricevuto un messaggio da Mosca”, il fuorionda del presidente serbo che imbarazza von der Leyen – Video
“Ho ricevuto un messaggio da Mosca ora“, “aspettiamo di essere…” lontani dalle telecamere. È lo scambio intercorso tra il presidente serbo Alexander Vucic e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che ieri lo ha accolto al Berlaymont insieme al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa. Nel video, disponibile sui canali della Commissione europea, si vede il presidente serbo riferire del messaggio russo in entrata e la leader dell’esecutivo Ue, in imbarazzo, invitarlo ad aspettare un secondo momento, sottinteso quando saranno lontani dalle telecamere, mentre tutti e tre posano davanti ai flash per le fotografie di rito. “È stato un piacere incontrare Alexander Vucic per fare il punto sui progressi della Serbia nel suo percorso verso l’Ue. Abbiamo discusso dell’importanza di accelerare le riforme, in particolare nei settori dello Stato di diritto e della libertà dei media. Abbiamo sottolineato che l’allargamento è un imperativo geostrategico e la necessità per la Serbia di allinearsi ulteriormente alla politica estera e di sicurezza dell’Ue”, scrive poi la sera sui social. L'articolo “Ho appena ricevuto un messaggio da Mosca”, il fuorionda del presidente serbo che imbarazza von der Leyen – Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Migranti, la Germania pensa di portarli in Uganda e Kurdistan iracheno. Ma anche nella “sicura” Tunisia
Secondo quanto riportato da Bild, il governo tedesco sta prendendo in considerazione la possibilità di trasferire alcuni migranti irregolari in centri di accoglienza e rimpatrio situati fuori dall’Unione europea, dopo che lunedì i ministri dell’Interno dei Paesi membri hanno approvato la posizione del Consiglio Ue per il negoziato col Parlamento sui Paesi sicuri e sul nuovo regolamento rimpatri. L’iter è ancora lungo e parecchi sono i nodi da sciogliere, anche sui cosiddetti “return hub”, centri di transito dove trasferire gli irregolari che non si riescono a rimpatriare nel loro paese d’origine. Ma proprio su questo punto alcuni si portano avanti. Berlino avrebbe già individuato i primi possibili Paesi partner, riferisce il quotidiano: Tunisia e Uganda. Una terza opzione considerata a livello esplorativo sarebbe un centro in Medio Oriente, ma al momento l’attenzione si concentrerebbe sull’Africa. Secondo Bild, la Germania starebbe valutando una collaborazione con l’Olanda nell’ambito del cosiddetto “modello Uganda”, dove Amsterdam pianifica una struttura destinata principalmente ai migranti provenienti dall’Africa subsahariana. Per altre aree del mondo, riporta ancora Bild, il governo tedesco starebbe inoltre valutando ulteriori opzioni insieme ad altri Paesi Ue. Tra le ipotesi citate figurerebbe anche la regione curda nel nord dell’Iraq. Questo perché il Kurdistan iracheno sarebbe ritenuto un’area stabile sul piano politico ed economico e dunque potenziale destinazione per migranti provenienti da Iraq e Afghanistan. Una portavoce del ministero degli Interni tedesco, interpellata il 9 dicembre da LaPresse, ha sottolineato che “durante i colloqui i ministri Ue hanno rilevato un interesse comune nello sviluppo di soluzioni innovative per la cooperazione con Paesi terzi, al fine di ridurre la migrazione irregolare”, discutendo anche la possibilità di attuarle “in un gruppo di Stati membri”. Berlino, ha aggiunto, “sta attualmente lavorando insieme a livello europeo sulle basi giuridiche necessarie nell’ambito del nuovo regolamento sui rimpatri”. Basi giuridiche che saranno al centro del dibattito col Parlamento Ue, dove non mancano perplessità anche sul nuovo concetto di Paese terzo sicuro proposto dalla Commissione e accolto dal Consiglio. La novità consentirebbe infatti di dichiarare inammissibili le domande di richiedenti transitati da Paesi terzi designati come sicuri, ma basterebbe anche un accordo tra il Paese e uno Stato membro a far scattare i trasferimenti dei richiedenti e delle loro domande. A quanto risulta al Fatto, ad oggi il governo italiano non starebbe ancora lavorando a opzioni diverse dal progetto in Albania, certo che i regolamenti già approvati col nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, operativo il prossimo giugno, ma anche i dossier sui quali è in corso il negoziato Ue, sbloccheranno il protocollo azzoppato dalla normativa vigente, come sancito dalla Corte di giustizia europea lo scorso agosto nella sentenza che dà ragione ai giudici italiani. Ma non è detto che le iniziative degli altri Paesi Ue non potranno riguardarci in futuro, soprattutto se si parla di Tunisia. Che intanto, spiegano le fonti governative citate da Bild, rivestirebbe un ruolo chiave per Berlino. Il Paese è considerato il partner più affidabile del Maghreb e potrebbe accogliere migranti provenienti da Stati nordafricani come Algeria, Marocco e Tunisia stessa. Un interesse che, dicono le stesse fonti, ha a che fare coi tassi di criminalità. Secondo i dati dell’Ufficio federale di polizia criminale, nel 2024 quasi un terzo dei migranti sospettati di reati provenienti dal Maghreb risulta plurirecidivo, col reato principale rappresentato dai furti. Ma la Tunisia continua a dire di non volersi prestare. A novembre il ministro degli Esteri tunisino Mohamed Ali Nafti ha ribadito che la Tunisia ha “ribadito ai suoi partner europei che non diventerà una zona di transito, di insediamento o di sbarco per migranti”. Il 27 novembre 2025, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione urgente in cui esprime grave preoccupazione per il deterioramento dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali in Tunisia. Sempre a novembre, Amnesty International ha pubblicato un’indagine che rileva come negli ultimi tre anni le politiche migratorie tunisine hanno ignorato sicurezza, dignità e vita dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Tra espulsioni che violano il principio di non respingimento, torture, maltrattamenti e violenze sessuali, dice il rapporto, “la Tunisia non è quindi né un luogo sicuro per lo sbarco né un ‘paese terzo sicuro’ per il trasferimento dei richiedenti asilo”. Intanto però la Commissione di Ursula von der Leyen ha inserito la Tunisia nella proposta della sua lista di Paesi d’origine sicuri per applicare ai tunisini l’esame sommario delle domande d’asilo, le cosiddette procedure accelerate che rendono più facile respingere la richiesta di protezione. L'articolo Migranti, la Germania pensa di portarli in Uganda e Kurdistan iracheno. Ma anche nella “sicura” Tunisia proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Vicini a un accordo in Ue sull’utilizzo degli asset russi congelati”. Gli arbitrati in Europa hanno già toccato i 53 miliardi
L’Unione europea è pronta ad assumersi il rischio dell’utilizzo degli asset russi congelati come garanzie ai prestiti per il futuro sostegno all’Ucraina. Secondo il Financial Times e altre fonti Ue citate da Ansa, esiste una “chiara maggioranza” tra i 27 Stati membri d’accordo sull’utilizzo dei beni di Mosca, nonostante il rischio, in caso di accordo di pace, di dover restituire i 210 miliardi in questione. Sarebbe quindi superata l’opposizione non solo di Paesi come Ungheria e Slovacchia, contrari anche all’imposizione di nuove sanzioni nei confronti della Federazione, ma anche del Belgio che, attraverso Euroclear, detiene 185 miliardi di questi fondi e, in caso di restituzione, rischierebbe, come dichiarato da esponenti del governo di Bruxelles, “la bancarotta”. Decisivo, da quanto si apprende, potrebbe essere già il Consiglio europeo del 18-19 dicembre, quando si arriverà a una scelta politica per stabilire su quale architettura lavorare nelle settimane successive, aprendo la strada a un lungo ciclo di negoziati tecnici: anche in caso di accordo, il nuovo schema non potrà comunque essere operativo dal primo gennaio, da quanto emerge, ma sarà invece necessario tempo, dato che la trasposizione nazionale sarà diversa in ogni Stato membro e in molti casi richiederà interventi legislativi nei Parlamenti nazionali. In caso di intesa, però, il processo assumerebbe un’accelerata decisiva. La fiducia espressa dalle fonti citate è anche legata al fatto che la decisione non richiederebbe una maggioranza assoluta in Consiglio, ma solo quella qualificata. Un obiettivo che, evidentemente, è considerato raggiungibile, dato che in questi giorni i vertici Ue e le principali cancellerie europee, Germania in testa, hanno lavorato per rendere il piano digeribile anche per il Belgio, ipotizzando ad esempio una redistribuzione delle responsabilità tra gli Stati che compongono l’Ue. Il Financial Times sostiene invece che, per aggirare le minacce di veto di Viktor Orban, verrebbe usato l’articolo 122 del Trattato che permette di approvare misure di emergenza economica a maggioranza qualificata, non all’unanimità. Un’idea del rischio che i Paesi europei si assumerebbero in caso di utilizzo degli asset russi congelati per finanziare l’Ucraina lo dà la European Trade Justice Coalition (Etjc), rete europea di ong e gruppi della società civile di monitoraggio sulle politiche commerciali Ue, secondo la quale ci sono già arbitrati per oltre 53 miliardi in Europa di oligarchi o aziende colpite dalle sanzioni alla Russia. Oltre la metà dei 28 ricorsi è stata avviata o annunciata formalmente nel 2025, in molti casi tramite società registrate in Paesi Ue come Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria o Regno Unito. Tra i casi più rilevanti citati dall’analisi figurano la richiesta di circa 13,7 miliardi di euro presentata dall’oligarca russo Mikhail Fridman contro il Lussemburgo e la minaccia di causa della compagnia petrolifera russa Rosneft alla Germania per la messa sotto tutela dei suoi asset per quasi 6 miliardi di euro. In Belgio, quattro investitori russi hanno notificato l’intenzione di avviare arbitrati collegati ai loro fondi bloccati presso Euroclear, mentre in Francia risultano due ricorsi da parte di uomini d’affari russi sanzionati. L'articolo “Vicini a un accordo in Ue sull’utilizzo degli asset russi congelati”. Gli arbitrati in Europa hanno già toccato i 53 miliardi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Perché credo che le parole di Trump e Musk sull’abolizione dell’Ue meritino una riflessione
Le recenti dichiarazioni, sull’Unione europea, di Donald Trump e di Elon Musk – con quest’ultimo arrivato a sostenere apertamente che la Ue dovrebbe essere “abolita” – segnano un punto di discontinuità sconvolgente se confrontato con la storia dei tradizionali rapporti tra Stati Uniti ed Europa unita. In particolare, se consideriamo come e quanto gli Usa abbiano non solo ufficialmente e legittimamente “auspicato” e “assecondato” il processo di unificazione europeo, ma quanto lo abbiano deliberatamente, e astutamente, “influenzato” e “manipolato” fin dagli albori. È noto, e ormai ampiamente documentato, che l’Europa occidentale del dopoguerra venne ricostruita dentro un perimetro rigidamente americano: dai fondi del Piano Marshall alla creazione di un mercato perfettamente complementare a quello statunitense fino al vincolo atlantico tramite la Nato, prerequisito obbligatorio per ogni Paese che volesse salire sul treno dell’integrazione. In una intervista del 2015, Morris Mottale, professore di relazioni internazionali, politica comparata e studi strategici presso la facoltà di Scienze Politiche della Franklin University, università americana con sede a Sorengo, vicino a Lugano, ha avallato una tesi ben precisa. E cioè che l’Unione europea – lungi dall’essere un’idea frutto della spontanea aggregazione di un “comune sentire” dei popoli – sia una costruzione in vitro degli americani finalizzata a togliere le briglie alla circolazione dei capitali tra le due sponde dell’atlantico: “Gli Stati Uniti non hanno mai nascosto che la creazione di un’Europa unita e da loro controllata fosse la premessa della propria politica estera. Per costruirla hanno utilizzato e utilizzano la Nato”. E gli Usa non si sono limitati a un lavoro di soft power, per così dire, ma hanno direttamente coinvolto il deep state per incanalare quello che è sempre stato descritto come uno “spontaneo afflato” dei popoli europei verso la “giusta” (cioè voluta dagli americani) direzione. A confermare questo quadro vi sono ricerche d’archivio condotte negli ultimi anni. Nel 2000, venne pubblicato su The Telegraph, dal giornalista Evans Pritchard, il risultato delle indagini svolte da Joshua Paul, studioso della Georgetown University. Lo scoop in questione portò alla luce documenti attestanti il fatto che organismi legati all’intelligence americana, inclusa la Cia, avevano finanziato e sostenuto per anni movimenti, think tank e personalità politiche favorevoli all’unificazione europea, considerando quest’ultima un tassello fondamentale della strategia occidentale nel pieno della Guerra fredda. Secondo Joshua Paul, un memorandum del 1950, sottoscritto dal generale William Donovan, già direttore dell’Oss (antesignano della Cia) durante il secondo conflitto mondiale, indicava nell’American Committee for a United Europe (Acue) il “veicolo” per la realizzazione degli obiettivi statunitensi. Nella direzione dell’Acue troviamo proprio Donovan e alcuni altri ufficiali della Cia. L’Acue finanziò il “Movimento europeo”, l’organizzazione su cui confluirono nel 1948 numerosi movimenti unitari europei (di cui facevano parte Winston Churchill, Konrad Adenauer, Léon Blum e Alcide De Gasperi) che nel 1958 arrivò a incamerare il 53,5% dei propri fondi proprio dagli Usa. In uno di questi memorandum, la sezione “affari europei” del dipartimento di stato Usa “suggeriva” al vicepresidente della Comunità Economica Europea (Cee), Robert Marjolin, di “portare avanti in segreto” i progetti di Unione monetaria finché “l’adozione di tali proposte diventerà virtualmente inevitabile”. Per tutte le suesposte ragioni, le parole di Trump e soprattutto quelle di Musk, appaiono oggi come una sorta di “oggetto verbale non identificato” nella storia delle relazioni transatlantiche, un elemento totalmente alieno rispetto all’approccio di tutte le amministrazioni Usa per quasi un secolo. E meritano una riflessione. Forse, i cittadini europei – prima di cedere al sussulto “patriottico” ed euro-sovranista invocato dagli attuali vertici della Ue – dovrebbero chiedersi: 1) se sia mai esistito un desiderio autenticamente popolare di fusione dal basso delle singole sovranità nazionali del vecchio continente in quella entità cui diamo il nome di Unione; 2) se questa entità – alla luce delle vicende degli ultimi anni, della scarsa legittimazione dei suoi apici e dell’opaca e quasi “illeggibile” modalità di funzionamento della medesima – possa realmente definirsi “democratica; 3) se, e in che misura, lungo questo cammino, i popoli europei siano stati “usati” e manipolati (tramite una ben precisa operazione di intelligence) da certe realtà d’oltreoceano; 4) se quello evocato da Musk – al netto delle considerazioni, dei dubbi, delle riserve che il personaggio in questione solleva a ogni piè sospinto – non sia, dopotutto, uno scenario da prendere in seria considerazione. www.francescocarraro.com L'articolo Perché credo che le parole di Trump e Musk sull’abolizione dell’Ue meritino una riflessione proviene da Il Fatto Quotidiano.
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