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Generali abbandona il progetto di gestione del risparmio insieme ai francesi di Natixis
Come previsto, esce dai radar anche il casus belli che ha portato alla conquista di Mediobanca da parte del Monte dei Paschi di Siena. L’alleanza da 1.900 miliardi di euro fra Generali e Natixis nel risparmio gestito è stata definitivamente archiviata. Il gruppo di Trieste e i francesi di Bpce cui fa capo Natixis, hanno deciso di interrompere le trattative iniziate poco meno di un anno fa che avevano messo in allarme il governo. Dandogli argomenti per spalleggiare la scalata al primo socio del Leone, Mediobanca appunto. Tutto era rimasto bloccato in attesa di capire l’esito dell’offerta che ha poi fatto finire piazzetta Cuccia sotto il controllo di Mps in un’operazione che è tutt’ora al vaglio della Procura di Milano. L’obiettivo nel prendere più tempo, dopo aver eliminato le penali da 50 milioni che pendevano su chi avesse fatto un passo indietro, era di trovare condizioni più digeribili ai soci di riferimento del Leone, Caltagirone e Delfin. Entrambi fin dall’inizio hanno infatti osteggiato l’alleanza, così come hanno fatto diversi esponenti del governo. Evidentemente alla fine non si è trovata la quadra sul progetto che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto far nascere un campione europeo mettendo assieme le rispettive attività nell’asset management. A comunicarlo sono stati i diretti interessati, Generali e Bpce, che in una nota hanno spiegato di aver “condotto approfondite interlocuzioni e le consultazioni previste con gli stakeholder interessati” in linea con quanto prevedono i rispettivi processi e modelli di governance. “Sebbene negli ultimi mesi il lavoro svolto insieme abbia confermato il merito e il valore industriale di una partnership” entrambi “hanno stabilito congiuntamente di interrompere le consultazioni, in linea con i termini comunicati il 15 settembre scorso, concludendo che non sussistono le condizioni per raggiungere un accordo definitivo”. Che il matrimonio nella gestione del risparmio non fosse da fare si era capito da tempo, con la fine del supporto all’alleanza coi francesi da parte Mediobanca non più guidata da Alberto Nagel. Nel comunicato congiunto con il quale hanno ufficializzato il fallimento, Bpce e Generali hanno comunque assicurato di voler mantenere il loro “impegno per lo sviluppo di un’industria finanziaria dinamica, guidata da campioni europei competitivi a livello globale che contribuiscano al successo economico della regione”. Ma la partita più importante per il Leone di Trieste ora è un’altra. L'articolo Generali abbandona il progetto di gestione del risparmio insieme ai francesi di Natixis proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La Ue batte un colpo sul golden power all’italiana. Ma il caso dello Stato banchiere, scalatore di banche e arbitro resta aperto
Alla fine il colpo è arrivato: i nodi del dirigismo di Roma iniziano a venire al pettine, grazie all’apertura della procedura d’infrazione di Bruxelles per il golden power all’italiana. Cioè dell’esercizio dei poteri speciali di veto del governo in caso di passaggio di mano di imprese considerate strategiche. Poteri eccezionali che ne hanno combinate un po’ di tutti i colori negli ultimi anni, fino al clamoroso decreto di Pasqua con cui il governo – pure lui banchiere e, a sua volta, scalatore di banche – ha di fatto sbarrato la strada a una banca italiana sgradita (Unicredit, cioè la seconda istituzione a rilevanza sistemica nazionale subito dietro Intesa Sanpaolo) che avrebbe voluto acquistare un’altra banca italiana (Bpm) molto cara alla Lega. L’esecutivo Meloni aveva già preso dei provvedimenti forti e, va detto, la tendenza globale è questa. Soprattutto in Europa, con campioni che vanno dalla Spagna alla Germania passando per la Francia. Ma quello su Unicredit-Bpm, che pure formalmente non rientra nella contestazione aperta dalla Commissione venerdì 21 novembre, è stato un caso molto particolare. Primo perché ha riguardato due banche italiane in un’Italia in preda a un risiko che ha avuto tra i protagonisti (vincenti) lo stesso governo. Il quale per altro avrebbe preferito vedere Bpm sposa del “suo” Monte dei Paschi di Siena. Secondo, perché le quattro condizioni imposte per dare il via libera alle nozze tra Unicredit e Bpm avrebbero condizionato pesantemente l’andamento degli affari della banca. Tanto che perfino il Tar del Lazio ne ha annullate due, mentre la direzione generale della Concorrenza della Commissione europea le ha contestate tutte e quattro una ad una in una durissima lettera di metà luglio. La principale critica era stata sulle ragioni di pubblica sicurezza sventolate dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a sostegno del provvedimento, che a Bruxelles non sembravano motivate. Poi c’è stata una serie di altolà sulle leggi comunitarie e sui rischi che avrebbe corso Unicredit se avesse dovuto rispettare le prescrizioni: fuga degli investitori, attività d’impresa limitata, rischi per la prudente gestione e la stabilità dell’istituto e via discorrendo. La lista è lunga, tanto che la conclusione della lettera era stata una messa in mora per l’Italia, dando a Roma due settimane per convincere quelli di Bruxelles che si erano sbagliati. Altrimenti? Il decreto golden power su Unicredit-Bpm sarebbe stato fatto revocare e il Paese sarebbe finito sotto procedura d’infrazione delle leggi comunitarie. Roma ha replicato sostanzialmente ripetendo le medesime cose contestate dalla lettera. O, almeno, questo è quanto hanno riferito dalle parti del ministero dell’Economia. Poi è calato il silenzio, forse complice il fatto che, come riferiva Politico due settimane fa, tutto il dossier Italia-golden power era finito nel congelatore per la volontà della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen di non creare tensioni con Giorgia Meloni. Anzi. E il fatto che Unicredit avesse ritirato l’offerta su Bpm ha agevolato le cose. Oggi però veniamo a sapere che il caso alla Concorrenza è ancora aperto: “Stiamo valutando le risposte dell’Italia alle preoccupazioni che abbiamo sollevato questa estate”, ha spiegato la portavoce della Commissione, Arianna Podestà, chiarendo che le procedure a carico dell’Italia sono due, una generale sull’uso dei poteri speciali e uno specifico sul caso Unicredit-Bpm. Quindi, seppure lentamente, le cose fanno il loro corso. Intanto però il tempo passa e le imprese chiedono chiarezza legale. Non c’è solo Unicredit, che pure sul decreto golden power ha appena fatto ricorso al Consiglio di Stato proprio per questo motivo. Le aziende che vorrebbero crescere acquistando asset in Italia tacciono o accondiscendono per non irritare nessuno, ma sono allo stesso tempo frenate e ingolfate dall’aleatorietà dei poteri speciali del governo. Tanto che, notano gli statistici del golden power, nel dubbio vengono fatte notifiche anche quando non servirebbero, con spreco di soldi, tempo ed energia. E la giurisprudenza non le aiuta. Nel senso che se ne lamenta anch’essa nel corso di convegni specializzati. Come quello che ha recentemente organizzato la Fondazione Courmayeur sui Problemi attuali di diritto e procedura civile su Golden Power e Autorità di vigilanza: rapporti tra Stato e mercato. Il problema, rilevavano in estrema sintesi i relatori più critici, è che sotto la bandiera dei poteri speciali lo Stato è arrivato a esercitare una specie di controllo di fatto sulle imprese oggetto dei provvedimenti, pur senza esserne azionista. E non si è limitato a dare degli indirizzi su come gestire l’impresa comprata, ma talvolta ha perfino interferito direttamente sulla scelta di chi avrebbe dovuto gestire l’azienda, cioè sulla composizione dell’organismo di gestione. Cose che il diritto societario non prevede e che mettono in fuga gli investitori interessati a mettere soldi nelle imprese italiane considerate strategiche. Senza dimenticare che l’incertezza del diritto e gli azionisti “speciali” fanno a pugni con la concorrenza, che non è un concetto astratto. Anzi, è talmente concreto che, quando non c’è, il prezzo per i clienti delle imprese è più alto di quanto dovrebbe. Così le aziende e i loro avvocati chiedono almeno che la situazione venga affrontata e normata in modo più organico. E trasparente. In altre parole, parafrasando il messaggio inviato da Giorgia Meloni all’assemblea di Assonime di ottobre, vorrebbero un rapporto più giusto ed equilibrato tra Stato e imprese. Nei fatti, non a parole. 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