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Generali abbandona il progetto di gestione del risparmio insieme ai francesi di Natixis
Come previsto, esce dai radar anche il casus belli che ha portato alla conquista di Mediobanca da parte del Monte dei Paschi di Siena. L’alleanza da 1.900 miliardi di euro fra Generali e Natixis nel risparmio gestito è stata definitivamente archiviata. Il gruppo di Trieste e i francesi di Bpce cui fa capo Natixis, hanno deciso di interrompere le trattative iniziate poco meno di un anno fa che avevano messo in allarme il governo. Dandogli argomenti per spalleggiare la scalata al primo socio del Leone, Mediobanca appunto. Tutto era rimasto bloccato in attesa di capire l’esito dell’offerta che ha poi fatto finire piazzetta Cuccia sotto il controllo di Mps in un’operazione che è tutt’ora al vaglio della Procura di Milano. L’obiettivo nel prendere più tempo, dopo aver eliminato le penali da 50 milioni che pendevano su chi avesse fatto un passo indietro, era di trovare condizioni più digeribili ai soci di riferimento del Leone, Caltagirone e Delfin. Entrambi fin dall’inizio hanno infatti osteggiato l’alleanza, così come hanno fatto diversi esponenti del governo. Evidentemente alla fine non si è trovata la quadra sul progetto che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto far nascere un campione europeo mettendo assieme le rispettive attività nell’asset management. A comunicarlo sono stati i diretti interessati, Generali e Bpce, che in una nota hanno spiegato di aver “condotto approfondite interlocuzioni e le consultazioni previste con gli stakeholder interessati” in linea con quanto prevedono i rispettivi processi e modelli di governance. “Sebbene negli ultimi mesi il lavoro svolto insieme abbia confermato il merito e il valore industriale di una partnership” entrambi “hanno stabilito congiuntamente di interrompere le consultazioni, in linea con i termini comunicati il 15 settembre scorso, concludendo che non sussistono le condizioni per raggiungere un accordo definitivo”. Che il matrimonio nella gestione del risparmio non fosse da fare si era capito da tempo, con la fine del supporto all’alleanza coi francesi da parte Mediobanca non più guidata da Alberto Nagel. Nel comunicato congiunto con il quale hanno ufficializzato il fallimento, Bpce e Generali hanno comunque assicurato di voler mantenere il loro “impegno per lo sviluppo di un’industria finanziaria dinamica, guidata da campioni europei competitivi a livello globale che contribuiscano al successo economico della regione”. Ma la partita più importante per il Leone di Trieste ora è un’altra. L'articolo Generali abbandona il progetto di gestione del risparmio insieme ai francesi di Natixis proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Sull’inchiesta Mps-Mediobanca la maggioranza fa quadrato intorno a Giorgetti. Meloni tace
Nel pieno della tempesta dell’inchiesta della Procura di Milano sulla scalata della banca del Mef, Mps, a Mediobanca, la maggioranza blinda il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Ma Palazzo Chigi tace. Dopo Matteo Salvini, domenica è toccato a Forza Italia e Noi moderati difendere il titolare di via XX Settembre, garantendo sulla sua correttezza. “Io ho la massima fiducia nel ministro Giorgetti che si è sempre comportato correttamente, quindi attaccarlo è fuori luogo. Noi lo difendiamo perché ribadiamo che si è sempre comportato correttamente”, ha detto il vicepremier e leader di Forza Italia, Antonio Tajani. Stessa linea dal leader di Noi moderati, Maurizio Lupi, che ha definito “vergognose strumentalizzazioni” quelle delle opposizioni. “La magistratura faccia quello che deve fare, ma pensare come sempre – ha spiegato Lupi – di utilizzare i giudici per far venire meno oggi uno dei ministri, che più ci sta rappresentando e che più sta facendo esattamente quello che noi moderati vogliamo fare (responsabilità, concretezza, attenzione ai fondi pubblici e al debito pubblico) mi sembra una cosa vergognosa”. L’opposizione di contro attacca e sottolinea l’impatto politico più che giudiziario di un’inchiesta che molti ritengono sia solo all’inizio. I Cinque stelle colpiscono duro spiegando, attraverso il vicepresidente Mario Turco, che quanto sta emergendo “mostra con chiarezza come il governo Meloni-Giorgetti, dopo aver portato il Paese alla crescita zero e a tre anni consecutivi di crollo della produzione industriale, stia facendo precipitare l’Italia in una nuova Bancopoli”. Mentre il Pd chiede al governo di ritirare “immediatamente la norma della riforma del Testo Unico della Finanza che allenta le regole per accertare il concerto tra soci nelle operazioni di mercato”. E tutti in coro tornano a chiedere che Giorgetti riferisca alle Camere. L'articolo Sull’inchiesta Mps-Mediobanca la maggioranza fa quadrato intorno a Giorgetti. Meloni tace proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Tra sms e chiamata alle armi, le dichiarazioni del Mef sulla scalata a Mediobanca smentite dagli stessi scalatori
Benché non ci sia niente di penalmente rilevante, la scalata di Mps a Mediobanca è costellata di passi falsi del ministero dell’Economia. È quanto emerge dall’atto di perquisizione eseguito nei giorni scorsi nell’ambito dell’indagine della procura milanese sulle operazioni che hanno ridisegnato la mappa della finanza italiana e citato dal Corriere della Sera e dalle agenzie di stampa. A partire dalla procedura con la quale il ministero dell’Economia, a novembre del 2024, ha venduto il 15% del Montepaschi a Caltagirone, Delfin, Bpm e Anima con l’intermediazione di Banca Akros (gruppo Bpm). Lo svolgimento del collocamento tramite quello che in gergo viene chiamato Accelerated bookbuilding (Abb) “è stato caratterizzato da diverse e vistose anomalie: il senso complessivo dell’operazione è stato palesemente quello di destinare una parte cospicua di azioni Mps di proprietà del Mef a soggetti predeterminati“, cioè Caltagirone e Delfin, “volendo tuttavia generare all’esterno l’apparenza di una procedura “aperta”, ossia trasparente, competitiva e non discriminatoria”, si legge nel decreto a carico di Francesco Gaetano Caltagirone, del presidente di Luxottica e della controllante lussemburghese Delfin sarl Francesco Milleri e dell’amministratore delegato di Mps, Luigi Lovaglio, per le ipotesi di reato di aggiotaggio e di ostacolo alle autorità di vigilanza per aver, stando agli inquirenti, tenuto nascosto al mercato un accordo sulle operazioni che hanno portato la banca toscana a ottenere il controllo di Mediobanca, a sua volta primo azionista delle Generali. “Non è spiegabile se non nel senso di voler pilotare l’attività di dismissione, l’affidamento della funzione di bookrunner unico a Banca Akros, intermediario con un’unica esperienza di Abb alle spalle, peraltro di entità notevolmente inferiore a quella in esame”, laddove i precedenti collocamenti di quote di Mps in mano al Tesoro erano stati affidati “a un pool di banche internazionali”, si legge nelle carte citate dall’Adnkronos. Il ministero dell’Economia giustifica la scelta con il fatto che Akros aveva offerto uno sconto più interessante degli altri, ma in Procura rilevano come la banca d’affari della Bpm sia semplicemente stata “l’unica a ricevere dal Ministero la richiesta di un rilancio: nella nota del 29 luglio 2025 alla Consob, il Ministero afferma che scelse Akros in virtù dell’offerta migliore, senza però specificare che solo a questa banca venne richiesto il cosiddetto second round, ossia un invito a migliorare l’offerta”. Quella dell’asta per la vendita del 15% di Mps è una fase, “sulla quale l’attenzione si è particolarmente soffermata, in quanto la stessa si sarebbe rivelata con forte evidenza quale operazione preparatoria e cruciale rispetto alla realizzazione del progetto di conquista di Mediobanca”, spiegano ancora gli investigatori. Per i quali, va ricordato, nonostante le molteplici “opacità e anomalie“, nella vendita di Mps non è configurabile il reato di turbativa d’asta, perché la normativa del 2020 su queste operazioni non le qualifica come gare pubbliche. Anche se resta da capire come questo sia compatibile con le prescrizioi comunitarie sulla privatizzazione di Mps. Notevoli, poi, le incongruenze nelle dichiarazioni ufficiali del ministero dell’Economia sull’asta. Il 29 luglio 2025, riferisce il Corriere, il direttore generale del Tesoro, Francesco Soro, ha dichiarato alla Consob che non c’erano stati contatti con i futuri acquirenti della quota di Mps. “Con riferimento alla richiesta di chiarire se codesto Ministero abbia avuto, prima dell’avvio e del perfezionamento della predetta operazione, interlocuzioni in relazione alla vendita delle azioni Mps con gli azionisti che hanno poi acquisito una partecipazione rilevante in Mps (Delfin, Caltagirone, Anima, Bpm) e/o con altri potenziali investitori e/o con la medesima banca, si precisa che non vi è stata alcuna interlocuzione, contatto o scambio tra i competenti uffici del Mef e gli azionisti che hanno poi acquisito una partecipazione rilevante e/o con altri possibili investitori”, ha scritto Soro alla Commissione. Una dichiarazione contraddetta dallo stesso Caltagirone e da Delfin che alla vigilanza dei mercati finanziari hanno detto il contrario. “Caltagirone ha dichiarato di essere stato interpellato nel mese di ottobre 2024 dal Ministero”, che era “interessato a creare un nucleo di investitori italiani per Mps”, e “di aver rappresentato la propria disponibilità ad investire anche a ragione della buona conoscenza della banca di cui in precedenza era stato azionista rilevante e vicepresidente”, è la sintesi della Procura degli atti acquisiti in Consob citata dal Corsera. Secondo la quale il costruttore-editore romano avrebbe detto anche che “successivamente, dal Ministero gli era stata data sommaria indicazione degli altri soggetti che sarebbero stati invitati alla procedura”. Che erano poi quelli che hanno effettivamente rilevato la quota. Analogamente Romolo Bardin di Delfin ha “confermato i contatti di Milleri con Caltagirone ed altri esponenti istituzionali relativamente alle azioni Mps detenute dal governo”, precisando che “in tali circostanze Milleri aveva raccolto l’interesse del Ministero per la creazione di un nucleo di investitori italiani in Mps”. Una volta entrati in Mps, poi, a fine 2024 gli investitori mettono mano al cda della banca. Questo grazie alle dimissioni di 5 consiglieri indipendenti che erano stati eletti in quota ministero dell’Economia. Soro nella sua relazione a Consob di luglio 2025 si sofferma anche su questo passaggio “attestando di non aver contattato i consiglieri uscenti, e tantomeno di averne sollecitato le dimissioni“. Gli inetressati, però, raccontano un’altra storia. E cioè che “le dimissioni furono richieste o imposte dal Ministero, o in un caso dal deputato della Lega Alberto Bagnai, che aveva detto di esprimersi per conto del Ministero. Poi c’è una nota di aprile 2025 del capo segreteria della vigilanza delle assicurazioni, l’Ivass, che riferisce a Bankitalia in merito a un incontro tra il presidente dell’authority e l’amministratore delegato di Mps. Nella nota, sintetizzano gli investigatori, si riferisce “come l’amministratore delegato di Mps Lovaglio abbia fatto notare che ‘l’intenzione di dare corso all’Offerta su Mediobanca è risalente, e che la presenza di ‘alcuni soci e il supporto governativo‘ hanno avuto in questo momento un ‘ruolo facilitatorio‘”. Del resto sono stati gli stessi Lovaglio e Caltagirone a contare sul supporto del ministro leghista Giancarlo Giorgetti. Se ne parla in una conversazione intercettata dalla Guardia di Finanza all’indomani dell’assemblea di Mps che il 17 aprile ha approvato la ricapitalizzazione della banca funzionale all’offerta su Mediobanca. “Qualcuno ci ha fatto il bidone”, dice il banchiere al suo azionista. E racconta: “Io avrei giurato (di arrivare, ndr) all’83%, poi le spiego perché qualcuno ci ha fatto il bidone, perché Blackrock è un 2% (…) Io ho scritto al Ceo, e so che il ministro ha scritto un sms perché io gli ho detto “Oh, guarda che non ha votato!”, quindi gli ho detto a Sala hanno scritto un sms, nonostante questo…non è andata bene”. Via XX Settembre però non ci sta: “Il Mef ha agito sempre nel rispetto delle regole e della prassi”. Fanno informalmente sapere del dicastero di Giorgetti tramite l’Ansa precisando che dal ministro leghista non c’è stata “nessuna ingerenza né interferenza“. L'articolo Tra sms e chiamata alle armi, le dichiarazioni del Mef sulla scalata a Mediobanca smentite dagli stessi scalatori proviene da Il Fatto Quotidiano.
Politica
Giancarlo Giorgetti
Mediobanca
Monte dei Paschi di Siena
Schlein: “Inchiesta su Mps-Mediobanca conferma ruolo opaco di governo e Mef, Giorgetti in aula”
Il Pd batte un colpo sulle opacità del risiko bancario a trazione governativa. “Il quadro che emerge dall’inchiesta in corso sulla operazione di Mps su Mediobanca conferma le gravi preoccupazioni che abbiamo espresso nei mesi scorsi, in particolare per il ruolo opaco del governo e del Mef – ha scritto in una nota la segretaria del Pd Elly Schlein – . L’unico interventismo in economia lo ha dimostrato favorendo scalate di cordate considerate amiche, anziché far rispettare il corretto funzionamento delle regole di mercato. La magistratura farà il suo lavoro, ma Giorgetti venga subito a riferire in Aula per chiarire al Paese tutti gli aspetti di questa vicenda”. L'articolo Schlein: “Inchiesta su Mps-Mediobanca conferma ruolo opaco di governo e Mef, Giorgetti in aula” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Politica
Elly Schlein
Governo Meloni
Mediobanca
Monte dei Paschi di Siena
L’ad di Mps a Caltagirone su Mediobanca: “Il vero ingegnere è stato lei, io ho eseguito solo l’incarico”
“Il vero ingegnere è stato lei, io ho eseguito solo l’incarico… Comunque godiamoci questa cosa, ha ingegnato una cosa perfetta, quindi complimenti a lei per l’idea“. È il 18 aprile 2025, l’amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena, Luigi Lovaglio, è al telefono con quello che, dopo il ministero dell’Economia, è il suo più importante azionista, Francesco Gaetano Caltagirone. La data è importante, perché siamo all’indomani dell’assemblea del Monte che ha approvato l’aumento di capitale a favore della scalata di Mediobanca. “Perfetto, grazie. È andata come doveva”, replica il costruttore editore romano nella telefonata registrata dagli investigatori del pool milanese contro i reati di finanziari e riportata in esclusiva dal Corriere della Sera in edicola venerdì 28 novembre. “Ci sono anche intercettazioni come queste, oltre alla ricostruzione del ‘costante investimento a scacchiera in Mediobanca e Generali da parte del gruppo Caltagirone e di Delfin’, ad aver spinto la Procura di Milano a indagare il settimo più ricco italiano costruttore-finanziere-editore Caltagirone, il presidente di Luxottica e della controllante lussemburghese Delfin, Francesco Milleri, e il banchiere di Mps Lovaglio per le ipotesi di reato di ‘aggiotaggio‘ e di ‘ostacolo alle Autorità di vigilanza‘”, spiega il quotidiano di Urbano Cairo che per primo, giovedì 27 novembre, ha dato notizia degli avvisi di garanzia e delle perquisizioni a carico degli scalatori dell’anno. La questione non è puramente teorica: in caso di accordo tra più azionisti, al superamento congiunto della soglia del 25% di proprietà di una società quotata, la legge prevede l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto. Che per definizione è in contanti, mentre quella che è stata lanciata su Mediobanca a gennaio di quest’anno era un’offerta di scambio in carta, cioè azioni Mps contro azioni Mediobanca, alle quali si è poi aggiunta una mancia in contanti e che si è conclusa a settembre con la consegna a Siena (quindi a Caltagirone, Delfin, ministero dell’Economia e Bpm) di Mediobanca e della sua più importante partecipazione, il 13% delle Generali, cassaforte d’Italia. Caltagirone e Delfin a novembre del 2024 insieme avevano già più del 25% di Mediobanca, ma non avrebbero potuto lanciare un’Opa sul 100% di Piazzetta Cuccia per questioni regolamentari, essendo soggetti industriali e non finanziari. Fondamentale quindi il veicolo Mps, una banca che era a portata perché il governo ne avrebbe dovuto dismettere una quota importante entro la fine dell’anno, come era noto per via di accordi con l’Europa e come poi accaduto con la procedura di vendita accelerata (accelerated bookbuilding o abb) del 13 novembre 2024 finita nel mirino della procura. “Non è spiegabile, se non nel senso di voler pilotare l’attività di dismissione, l’affidamento, di un anno fa, del ruolo ‘di bookrunner unico a Banca Akros, intermediario con una sola esperienza di Abb alle spalle, peraltro di entità notevolmente inferiore a quella in esame, laddove i precedenti Abb del Mef erano stati affidati a un pool di banche internazionali come Ubs, BofA, Jefferies, oltre che a Mediobanca, spiega la Procura nell’atto di perquisizione eseguito nell’ambito dell’indagine e citato dall’Ansa. Secondo il Corriere, però, “il Mef-Ministero dell’Economia e delle Finanze del governo Meloni, non indagato solo perché la procedura accelerata, con la quale il 13 novembre 2024 il Mef incaricò il piccolo intermediario Banca Akros di vendere il 15% di azioni Mps, non può essere ritenuta ‘gara pubblica‘ sulla scorta del decreto ministeriale 2020 che regolava le dismissioni: altrimenti, osservano gli inquirenti elencando una complessa sfilza di ‘opacità e anomalie’, ci sarebbero stati tutti ‘gli elementi di fraudolenza per integrare il reato di turbativa d’asta‘. Infatti, benché ‘organizzata in modo da apparire come una gara competitiva e trasparente‘, la dismissione di queste quote governative di Mps fu ‘viceversa costruita in modo tale che risultassero acquirenti i soggetti che avevano condiviso e che avrebbero beneficiato del progetto di controllo di Mediobanca‘ benedetto proprio da Palazzo Chigi”. Cioè Caltagirone e Delfin, oggi in testa all’azionariato di Mps e, quindi, di Mediobanca e Generali. Quindi a parte un tema di conflitto d’interessi dell’arbitro, regolatore e giocatore, con relativo danno d’immagine, comunque vada a finire l’inchiesta al momento il Tesoro ne esce senza ripercussioni. A parte il danno collaterale dell’utilizzo del golden power che ha tenuto Unicredit fuori dalla partita, visto che in caso di conquista di Bpm la banca di Andrea Orcel si sarebbe trovata tra i soci rilevanti di Mps. Ora i conti su questo capitolo sono in corso a Bruxelles e al Consiglio di Stato e bisognerà aspettare a lungo per vedere come andrà a finire. Sembra poi destinata a uscire senza ripercussioni rilevanti anche l’operazione Mps-Mediobanca che comunque è già stata conclusa e perfezionata. Ma bisognerà vedere al termine dell’indagine, quando le carte saranno tutte note. E in ogni, il danno d’immagine non è secondario. Soprattutto per Lovaglio, che puntava a un rinnovo del mandato. Ma anche per Milleri che, in quanto numero uno di Essilor – Luxottica, deve rispondere alle regole francesi e alle lagnanze dei suoi litigiosi azionisti-eredi di Leonardo Del Vecchio. Poi, se gli illeciti fossero provati, ci sarebbero delle sanzioni e ci potrebbero essere delle richieste di risarcimento da parte degli azionisti che hanno ricevuto carta invece di moneta sonante, ma anche qui, previa dimostrazione dell’effettivo danno. Oltre che, appunto, dell’abuso che non è nè scontata nè facile da ottenere. L'articolo L’ad di Mps a Caltagirone su Mediobanca: “Il vero ingegnere è stato lei, io ho eseguito solo l’incarico” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La Ue batte un colpo sul golden power all’italiana. Ma il caso dello Stato banchiere, scalatore di banche e arbitro resta aperto
Alla fine il colpo è arrivato: i nodi del dirigismo di Roma iniziano a venire al pettine, grazie all’apertura della procedura d’infrazione di Bruxelles per il golden power all’italiana. Cioè dell’esercizio dei poteri speciali di veto del governo in caso di passaggio di mano di imprese considerate strategiche. Poteri eccezionali che ne hanno combinate un po’ di tutti i colori negli ultimi anni, fino al clamoroso decreto di Pasqua con cui il governo – pure lui banchiere e, a sua volta, scalatore di banche – ha di fatto sbarrato la strada a una banca italiana sgradita (Unicredit, cioè la seconda istituzione a rilevanza sistemica nazionale subito dietro Intesa Sanpaolo) che avrebbe voluto acquistare un’altra banca italiana (Bpm) molto cara alla Lega. L’esecutivo Meloni aveva già preso dei provvedimenti forti e, va detto, la tendenza globale è questa. Soprattutto in Europa, con campioni che vanno dalla Spagna alla Germania passando per la Francia. Ma quello su Unicredit-Bpm, che pure formalmente non rientra nella contestazione aperta dalla Commissione venerdì 21 novembre, è stato un caso molto particolare. Primo perché ha riguardato due banche italiane in un’Italia in preda a un risiko che ha avuto tra i protagonisti (vincenti) lo stesso governo. Il quale per altro avrebbe preferito vedere Bpm sposa del “suo” Monte dei Paschi di Siena. Secondo, perché le quattro condizioni imposte per dare il via libera alle nozze tra Unicredit e Bpm avrebbero condizionato pesantemente l’andamento degli affari della banca. Tanto che perfino il Tar del Lazio ne ha annullate due, mentre la direzione generale della Concorrenza della Commissione europea le ha contestate tutte e quattro una ad una in una durissima lettera di metà luglio. La principale critica era stata sulle ragioni di pubblica sicurezza sventolate dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a sostegno del provvedimento, che a Bruxelles non sembravano motivate. Poi c’è stata una serie di altolà sulle leggi comunitarie e sui rischi che avrebbe corso Unicredit se avesse dovuto rispettare le prescrizioni: fuga degli investitori, attività d’impresa limitata, rischi per la prudente gestione e la stabilità dell’istituto e via discorrendo. La lista è lunga, tanto che la conclusione della lettera era stata una messa in mora per l’Italia, dando a Roma due settimane per convincere quelli di Bruxelles che si erano sbagliati. Altrimenti? Il decreto golden power su Unicredit-Bpm sarebbe stato fatto revocare e il Paese sarebbe finito sotto procedura d’infrazione delle leggi comunitarie. Roma ha replicato sostanzialmente ripetendo le medesime cose contestate dalla lettera. O, almeno, questo è quanto hanno riferito dalle parti del ministero dell’Economia. Poi è calato il silenzio, forse complice il fatto che, come riferiva Politico due settimane fa, tutto il dossier Italia-golden power era finito nel congelatore per la volontà della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen di non creare tensioni con Giorgia Meloni. Anzi. E il fatto che Unicredit avesse ritirato l’offerta su Bpm ha agevolato le cose. Oggi però veniamo a sapere che il caso alla Concorrenza è ancora aperto: “Stiamo valutando le risposte dell’Italia alle preoccupazioni che abbiamo sollevato questa estate”, ha spiegato la portavoce della Commissione, Arianna Podestà, chiarendo che le procedure a carico dell’Italia sono due, una generale sull’uso dei poteri speciali e uno specifico sul caso Unicredit-Bpm. Quindi, seppure lentamente, le cose fanno il loro corso. Intanto però il tempo passa e le imprese chiedono chiarezza legale. Non c’è solo Unicredit, che pure sul decreto golden power ha appena fatto ricorso al Consiglio di Stato proprio per questo motivo. Le aziende che vorrebbero crescere acquistando asset in Italia tacciono o accondiscendono per non irritare nessuno, ma sono allo stesso tempo frenate e ingolfate dall’aleatorietà dei poteri speciali del governo. Tanto che, notano gli statistici del golden power, nel dubbio vengono fatte notifiche anche quando non servirebbero, con spreco di soldi, tempo ed energia. E la giurisprudenza non le aiuta. Nel senso che se ne lamenta anch’essa nel corso di convegni specializzati. Come quello che ha recentemente organizzato la Fondazione Courmayeur sui Problemi attuali di diritto e procedura civile su Golden Power e Autorità di vigilanza: rapporti tra Stato e mercato. Il problema, rilevavano in estrema sintesi i relatori più critici, è che sotto la bandiera dei poteri speciali lo Stato è arrivato a esercitare una specie di controllo di fatto sulle imprese oggetto dei provvedimenti, pur senza esserne azionista. E non si è limitato a dare degli indirizzi su come gestire l’impresa comprata, ma talvolta ha perfino interferito direttamente sulla scelta di chi avrebbe dovuto gestire l’azienda, cioè sulla composizione dell’organismo di gestione. Cose che il diritto societario non prevede e che mettono in fuga gli investitori interessati a mettere soldi nelle imprese italiane considerate strategiche. Senza dimenticare che l’incertezza del diritto e gli azionisti “speciali” fanno a pugni con la concorrenza, che non è un concetto astratto. Anzi, è talmente concreto che, quando non c’è, il prezzo per i clienti delle imprese è più alto di quanto dovrebbe. Così le aziende e i loro avvocati chiedono almeno che la situazione venga affrontata e normata in modo più organico. E trasparente. In altre parole, parafrasando il messaggio inviato da Giorgia Meloni all’assemblea di Assonime di ottobre, vorrebbero un rapporto più giusto ed equilibrato tra Stato e imprese. Nei fatti, non a parole. 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